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CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA INTERFACOLTA’ IN

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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI PISA

CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA INTERFACOLTA’ IN

“SCIENZE PER LA PACE: COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO, MEDIAZIONE E TRASFORMAZIONE DEI CONFLITTI”

COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO: MIGRANTI E COSVILUPPO, DINAMICHE ORIGINALI E SCENARI INNOVATIVI. E’ IL MOMENTO DI OFFRIRE NUOVE PROFESSIONALITA’

PER COOPERARE MEGLIO?

RELATORE

Prof. GABRIELE TOMEI

CANDIDATO

CATERINA BECORPI

Anno Accademico 2006-2007

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“Osservare e ascoltare sono una grande arte. Dall’osservazione e dall’ascolto impariamo infinitamente di più che non dai libri. I libri sono necessari, ma l’osservazione e l’ascolto ti

affinano i sensi.” (Krishnamurti)

(3)

Ai viaggiatori e ai veri amici…

(4)

Grazie …

Il primo ringraziamento va, senza ombra di dubbio, a Joe e Patrick, senza i quali non sarei probabilmente giunta fino a questo punto; l’entusiasmante esperienza vissuta durante i nostri incontri mi ha dato l’energia necessaria per proseguire, nonché lo stimolo per continuare a credere nel percorso scelto.

Ringrazio anche tutti i miei compagni, con cui abbiamo condiviso frustrazioni, sfoghi e risate, sdrammatizzando i periodi di avvilimento per spronarci a proseguire e tentando anche, a volte, di migliorare qualcosa.

Un grazie particolare, poi, lo dedico a chi ha saputo comprendere i miei momenti di debolezza, dimostrandomi fiducia ed aspettando con pazienza il cambiamento, sostenendomi in silenzio o scegliendo le parole giuste al momento opportuno; grazie a chi è sempre stato presente, discretamente ma puntualmente, dal punto di vista tecnico, burocratico e morale.

Ed infine un ringraziamento anche a chi, più o meno consapevolmente, mi ha messo in difficoltà,

provocandomi quello stress e quella sofferenza che se in un primo momento mi hanno distolto

dall’obiettivo, alla fine mi hanno resa più determinata e perseverante, più forte (forse…). Più

grande.

(5)

INDICE

INTRODUZIONE Pg. 7

CAP. 1 CHE COSA E’ LA COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO Pg. 10

ƒ Par. 1. 1. DALL’AIUTO ALLA COOPERAZIONE Pg. 10

ƒ Par. 1. 2. LO SVILUPPO UMANO ED IL COSVILUPPO Pg. 16

ƒ Par. 1. 3. IL COSVILUPPO E LA COOPERAZIONE DECENTRATA Pg. 23

CAP. 2 UN RUOLO SPECIFICO: I MIGRANTI Pg. 31

ƒ Par. 2. 1. IL CAMBIAMENTO DELLE MIGRAZIONI CON IL PASSARE DEL TEMPO

Pg. 32

o

Par. 2.1.1. DEFINIRE MIGRANTI E MIGRAZIONI

Pg. 34 o

Par. 2.1.2. MIGRAZIONI: EVOLUZIONE STORICA

Pg. 37

o

Par. 2.1.3. PERCHE’ SI MIGRA?

Pg. 41

o

Par. 2.1.4. POLITICHE MIGRATORIE E TRANSNAZIONALISMO

Pg. 47

ƒ Par. 2. 2. SVILUPPO, COOPERAZIONE E MIGRAZIONE: QUALE NESSO?

Pg. 49

ƒ Par. 2. 3. I MIGRANTI E LO SVILUPPO: PRINCIPALI

PROBLEMATICHE DA AFFRONTARE

Pg. 54

o

Par. 2.3.1. LA COERENZA POLITICA

Pg. 64

o

Par. 2.3.2. LE RIMESSE ED IL RUOLO DELLE DIASPORE

Pg. 69 o

Par. 2.3.3. LAVORO TEMPORANEO, BRAIN DRAIN E MIGRAZIONE

CIRCOLARE

Pg. 86

o

Par. 2.3.4. I RITORNI

Pg. 99

o

Par. 2.3.5. I TEMI TRASVERSALI

Pg. 104

CAP. 3 COME CAMBIANO LE PROFESSIONALITA’ DI CHI LAVORA NELLA COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO

Pg. 110

ƒ Par. 3. 1. LE COMPETENZE PER LO SVILUPPO LOCALE Pg. 117

ƒ Par. 3. 2. COSTRUIRE UN PARTENARIATO: SFIDE ED

IMPLICAZIONI

Pg. 122

ƒ Par. 3. 3. SU QUALE FORMAZIONE INVESTIRE ? Pg. 129

(6)

CAP. 4 UN CASO DI STUDIO: IL “FONS CATALA’ DE COOPERACIO’ AL DESENVOLUPAMENT”

Pg. 138

ƒ Par. 4. 1. “FONS CATALA’”: QUALE ORGANIZZAZIONE STIAMO ANALIZZANDO?

Pg. 138

ƒ Par. 4. 2. “FONS CATALA’”: AMBITI PRIORITARI DI INTERVENTO Pg. 145

ƒ Par. 4. 3. I PROGETTI DEL FONS CATALA’ DE COOPERACIO’ AL DESENVOLUPAMENT

Pg. 154

CONCLUSIONI Pg. 162

ALLEGATO A STATUTO DEL “FONS CATALA’ DE COOPERACIO’ AL DESENVOLUPAMENT

Pg. 182

ALLEGATO B FORMULARIO PER LA PRESENTAZIONE DI PROGETTI DI COOPERAZIONE AL FONS CATALA’

Pg. 182

ALLEGATO C FORMULARIO PER IL MONITORAGGIO E LE VALUTAZIONI DEI PROGETTI FINANZIATI DAL FONS CATALA’

Pg. 182

ALLEGATO D LEGGE CATALANA SULLA COOPERAZIONE ALLO

SVILUPPO

Pg. 182

ALLEGATO E TABELLA SULL’ANDAMENTO DELLE RIMESSE DEI

MIGRANTI

Pg. 183

BIBLIOGRAFIA Pg. 184

(7)

INTRODUZIONE

L’interesse per gli argomenti trattati in questa tesi nasce dalla volontà di capire meglio e di approfondire le possibilità di impiegare coerentemente le conoscenze acquisite durante gli anni di studi; dal desiderio di riuscire ad individuare delle opzioni professionali che permettessero di mettere d’accordo la testa con il cuore, pur sapendo che il mondo reale esige compromessi per poter andare avanti e per poter concretamente raggiungere dei risultati. A ciò si aggiunge la fortunata esperienza personale di rapporti con migranti, con persone intense, orgogliose ed appassionate che ogni giorno si impegnano con estrema dignità per migliorarsi e per aiutare non solo i propri cari rimasti a casa, ma anche i propri popoli, i propri paesi; ecco allora che una parola sentita a lezione ha innescato l’energia che progressivamente ha portato alla compilazione del presente elaborato, il quale non ha in alcun modo la pretesa di essere esaustivo, ma si propone solamente di fornire spunti per una riflessione critica sui temi affrontati.

Partendo quindi da una riflessione generale sulla tematica della cooperazione allo sviluppo, ed in particolare su quale sia il concetto di sviluppo a cui fare riferimento, il lavoro prende corpo nel primo capitolo intorno alla dimensione del cosviluppo ed al rapporto che intercorre tra questo e la cooperazione decentrata.

Nel secondo capitolo si affronta la tematica più corposa ed articolata della tesi ovvero i migranti e le loro relazioni con le dinamiche dello sviluppo, tanto nei paesi di arrivo quanto in quelli di origine;

dopo una prima parte dedicata all’evoluzione storica e concettuale dei fenomeni migratori l’analisi si sofferma sul nesso tra migrazioni e sviluppo, prendendo spunto dal cambiamento di tendenza che ha visto abbandonare l’approccio del “more development, less migration” per adottare quello del

“more migration for a better development” ovvero quell’approccio che intende la migrazione come

strumento di sviluppo. L’intento dei vari paragrafi, però, non è tanto quello di dimostrare se le

migrazioni contribuiscono allo sviluppo quanto piuttosto quello di comprendere le differenze tra i

contesti in cui questa condizione si realizza con successo e le realtà dove invece i flussi migratori

divengono ostacoli allo sviluppo; il presupposto iniziale, infatti, è che non sia sempre così semplice

stabilire l’esatta natura del nesso tra migrazioni e sviluppo, poiché le informazioni sono complesse,

la tipologia di rapporti differenziata e le relazioni causa-effetto cambiano nel tempo, a seconda del

luogo, di chi guarda e di cosa si guarda. Non c’è, di fatto, uno strumento di analisi che sia

veramente omnicomprensivo, ma un insieme di elementi che possono interagire e concorrere ad una

comprensione e ad un’azione appropriate, prendendo le distanze da considerazioni strumentali sui

migranti e sul loro effetto sui processi di sviluppo; interfacciarsi con i migranti, pertanto, significa

prestare particolare attenzione al problema della gestione del loro tempo (si pensi alle innumerevoli

lungaggini burocratiche che di solito essi devono affrontare), nonché ai loro diritti – non solo

(8)

lavorativi, ma anche sociali e culturali – ed allo stesso tempo, però, essere consapevoli anche delle difficoltà inerenti i personalismi e le vicende familiari che costellano l’esistenza proprio dei migranti e che variano a seconda dei casi e delle appartenenze etniche. L’idea di fondo che anima il capitolo numero due, comunque, è quella che concepisce le migrazioni come una leva per il cosviluppo e che implica tutta una serie di politiche innovative ed originali finalizzate ad integrare l’immigrazione con la cooperazione, l’internazionalizzazione economica e l’innovazione, attraverso, ad esempio, iniziative imprenditoriali significative ed inedite fondate sul valore aggiunto dei migranti; valore aggiunto che vedremo manifestarsi in vari modi, ma che trova le sue radici nella valorizzazione dei capitali dei migranti stessi, in particolar modo di quello sociale. Nello specifico, tra l’altro, si vedrà la fattispecie degli schemi di lavoro temporaneo e come questi, ove gestiti attentamente, possano diventare potenziali strategie di sviluppo, nonché ridurre i costi umani, sociali e finanziari delle migrazioni, mirando al raggiungimento di un equilibrio tra maggior apertura dei paesi di destinazione – specialmente verso persone scarsamente qualificate – ed un maggior impegno dei paesi di origine nello sviluppare capacità per garantire migrazioni legali e regolari. Sopra questi ragionamenti, tuttavia, aleggia una domanda implicita, la cui risposta si percepisce soltanto: quale è il peso, in tutto ciò, di una opinione pubblica indifferente?

Nel terzo capitolo l’intento è quello di individuare delle direzioni da seguire per reinterpretare e ridisegnare il ruolo degli esperti della cooperazione allo sviluppo – in particolare delle organizzazioni non governative e dei loro addetti – alla luce, appunto, dei temi dello sviluppo umano e del cosviluppo e quindi di intercettarne il conseguente cambiamento di professionalità, per scoprire una dimensione più duttile, di basso profilo e glocale, pervasa dall’idea di processo (concretizzata, ad esempio, nella figura del mediatore di rete), dal dialogo e dalle tecniche di mediazione dei conflitti; nuove professioni, dunque, declinate negli ambiti del partenariato, dei programmi quadro di sviluppo umano e del coinvolgimento personale ma critico. In questo senso appare estremamente calzante l’affermazione di Luciano Carrino, che esprime con forza la convinzione che sottende alla redazione dell’intero capitolo: “Nessun reale rinnovamento della cooperazione potrà verificarsi senza un profondo cambiamento dei saperi, della formazione e della cultura dei suoi attori”.

Nel quarto ed ultimo capitolo si analizza, infine, il caso del Fons Català de Cooperaciò al

Desenvolupament ovvero di una organizzazione catalana che costituisce un esempio attivo di messa

in pratica del paradigma del cosviluppo e della sua concreta applicazione nei rapporti con i

migranti; il Fons Català, infatti, adotta, come si vedrà, un approccio progressista ed integrato, che si

concentra sul locale ma non perde mai di vista un contesto più ampio – globale – e pone particolare

attenzione alla mesodimensione europea, collegandosi costantemente ad essa ed intrattenendovi

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proficue relazioni. L’associazione catalana, inoltre, raccoglie in pieno la sfida delle nuove professionalità derivanti dall’attuazione di una cooperazione di processi.

L’ampia parte conclusiva del lavoro, infine, mira a puntualizzare alcuni elementi ritenuti rilevanti, non rinunciando però ad un ampliamento prospettico legato alla realizzazione pratica degli impianti teorici e concettuali. Si è scelto poi di tralasciare l’analisi dettagliata dei contesti istituzionali europei e delle Nazioni Unite

1

, accennando solo in parte al ruolo da essi ricoperti e rimandando ad altra sede gli approfondimenti del caso.

1 La documentazione di riferimento è quella che si dipana dalla risoluzione dell’Assemblea Generale A/RES/61/208 e dagli atti dello United Nations High-Level Dialogue on International Migration and Development, tenutosi per la prima volta a NY il 14 ed il 15 settembre 2006 (www.un.org).

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CAPITOLO 1 – CHE COSA E’ LA COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO

Il tema della cooperazione allo sviluppo è ormai ampiamente diffuso nell’immaginario collettivo, non è più appannaggio esclusivo degli “addetti ai lavori” ed ha guadagnato sempre più importanza sia dal punto di vista politico sia da quello economico, generando una sorta di effetto spill over che ha incentivato gli investimenti nei vari settori di indotto, non ultimo quello della formazione e della creazione di professionalità apposite; tuttavia si tratta di un fenomeno molto variegato ed in continua evoluzione, che implica un dinamismo di approcci attenti a cogliere le diverse sfaccettature che lo caratterizzano e questo, in termini concreti, significa un continuo aggiornamento delle premesse teoriche, nonché delle applicazioni pratiche per interfacciarsi nella maniera più corretta con una realtà estremamente fluida e complessa. Innanzi tutto, però, la cooperazione è un processo e come tale nasce e si evolve in un contesto multidimensionale, che prevede fattori esogeni e fattori endogeni, attori istituzionali ed attori non istituzionali, nonché interazioni molteplici tra orientamenti diversi, che spaziano dal capitalismo al potere militare, dall’industrialismo alla pace ed alla sicurezza – in tutte le sue possibili accezioni – e che sono tipici dell’epoca cosiddetta della modernità e della globalizzazione; fare cooperazione allo sviluppo, quindi, diviene sempre più spesso una scelta politica, assumendo un ruolo potenzialmente molto importante in relazione perfino al rafforzamento dei diritti dell’uomo a livello internazionale, ma allo stesso tempo si espone a distorsioni e strumentalizzazioni connesse alle strategie di politica estera degli stati. Ma il concetto di cooperazione allo sviluppo non è naturalmente sempre stato quello che appare oggi davanti a chi decide di occuparsene e sarà quindi compito del prossimo paragrafo tracciare un sintetico excursus sull’evoluzione che esso ha conosciuto nel tempo, in un percorso in cui gli elementi tecnici e strutturali sono andati sempre più compenetrandosi con quelli sociali e culturali – oltre che politici -, ponendo al centro delle riflessioni l’individuo in quanto tale e le sue relazioni (si veda oltre la rilevanza del capitale sociale) per arrivare alle ormai note nozioni di sviluppo umano sostenibile e – forse ancora un po’ meno note – di cosviluppo; si tratta, cioè, di un cammino che partendo dal diritto di assistenza per lo sviluppo giunge fino al diritto di accesso allo sviluppo, attraversando molteplici sfumature, da quelle di tipo sociale a quelle più squisitamente giuridiche.

1.1. DALL’AIUTO ALLA COOPERAZIONE

Le parole cooperazione e sviluppo hanno assunto significati diversi a seconda delle epoche di

riferimento e fino a tutti gli anni ’50 del secolo scorso la cooperazione veniva identificata, in realtà,

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esclusivamente con l’aiuto ovvero con un rapporto in cui un donatore elargiva per benevolenza e a tempo determinato un qualche tipo di supporto ad un beneficiario relegato in posizione passiva e di inferiorità, piuttosto che con una relazione paritaria, in cui anche chi riceve è attivo e tutti i soggetti coinvolti instaurano una collaborazione reciproca e meno asimmetrica caratterizzata dal mettere in comune delle risorse, umane e materiali, per raggiungere un obiettivo anch’esso comune in uno o più settori specifici; allo stesso modo fino a quasi trent’anni fa non c’era un’identificazione precisa di cosa si intendesse per crescita e sviluppo ed i due termini sono stati spesso utilizzati indistintamente e collegati prevalentemente alla sfera economica e di mercato, anziché con riferimenti integrati alla dimensione sociale e del miglioramento delle condizioni di vita in generale.

Ma proprio l’evoluzione del concetto di sviluppo ha prodotto negli anni cambiamenti significativi nelle modalità di cooperazione, a seconda di quali fossero, di volta in volta, le finalità prefissatesi.

Il primo esempio di cooperazione internazionale – tra stati – allo sviluppo viene solitamente fatto risalire all’attuazione del “Piano Marshall” all’indomani della fine del secondo conflitto mondiale e le evoluzioni del fenomeno cooperativo sono scandite dai vari decenni che si sono susseguiti da dopo la nascita delle Nazioni Unite, che hanno un ruolo fondamentale nell’influenzare e modellare le varie tendenze del settore, ed arrivano fino ai giorni nostri; gli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, infatti, sono segnati dall’influenza del pensiero keynesiano e le problematiche del sottosviluppo sono ascritte alla scarsa accumulazione di capitale e all’impiego inefficiente delle risorse produttive, in pieno stile capitalista

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. Partendo da tali presupposti, quindi, gli interventi privilegiati in questo periodo riguardano l’assistenza tecnica ed i trasferimenti finanziari ovvero l’aumento dall’esterno degli stocks di capitale per rompere il circolo vizioso che lega la mancata crescita economica alla bassa capacità di risparmio; finalizzati a ciò sono anche gli scambi commerciali, simbolo di una cooperazione economica che sempre più si lega causalmente all’instaurarsi di una pace durevole in conseguenza del diffondersi delle strategie roosveltiane, ma che verrà ben presto criticata dall’emergere della teoria della dipendenza, la quale radica il problema dello sviluppo a realtà ben precise, concependolo come processo in sé squilibrato e gettando le basi per l’affermarsi di una nuova fase, quella degli anni settanta. Prima di passare all’analisi di quest’ultima, però, è opportuno ricordare che il primo ventennio del secondo dopoguerra si è caratterizzato anche per l’azione dell’ONU e per il contributo da essa fornito proprio in materia di sviluppo, in qualità di forum in cui i vari paesi hanno potuto esprimere le proprie rivendicazioni ed affermare principi come quelli dell’autodeterminazione - economica, ma

2 L’impianto concettuale di riferimento per questo tipo do orientamenti è la teoria della modernizzazione di Rostow, integrata poi dagli studi sui modelli dualistici (settori moderni e settori arretrati dei vari paesi) e alla quale si contrappone invece la teoria della dipendenza, originata dall’esperienza dell’America Latina e che ha tra i suoi esponenti Gunder Frank e Prebish. In merito si veda anche S. Amin, Lo sviluppo diseguale, Torino 1977 e E. A.

Cardoso – E. Faletto, Dipendenza e sviluppo in America Latina, Milano 1971.

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anche politica – della sovranità permanente sulle risorse naturali, del “trade not aid” e così via;

inizia, così, una più organica elaborazione di un approccio globale alle tematiche appena citate, basato su iniziative concertate ancorché alquanto vaghe.

Negli anni settanta, però, il fermento suscitato dalle teorie dipendentiste sostenute dai paesi in via di sviluppo apre le porte all’epoca del Nuovo Ordine Economico Internazionale (NOEI - 1974), nella quale si rifiuta il sottosviluppo come tappa intermedia necessaria per la crescita di un paese e se ne individuano le cause nella struttura economica internazionale stessa, nella fattispecie nell’evoluzione del capitalismo e dei rapporti diseguali – centro/periferia - da esso creati e costantemente riprodotti attraverso le logiche dello “sviluppo mancato” o del “ritardo nello sviluppo”; i sostenitori del NOEI, quindi, si fanno portatori di una nuova consapevolezza del sottosviluppo, qualificandolo come condizione sistemica e propugnando di conseguenza strategie alternative per eliminarlo che sovvertono l’ordine di priorità fino a quel momento adottato, mettendo al primo posto i bisogni di base ovvero il raggiungimento di livelli di vita minimi ed accettabili per le parti più povere della popolazione e spostando l’attenzione dall’accumulazione di capitali alla redistribuzione di risorse. L’impulso alla diffusione di queste convinzioni, inoltre, deriva anche dai sostanziali fallimenti conosciuti dalla cooperazione allo sviluppo fino a questo momento e caratterizzati dal mancato mantenimento degli impegni presi dai paesi più ricchi, da una gestione inefficiente in seno alle Nazioni Unite, nonché da una più generale crisi dell’ordinamento economico internazionale; è a fronte di ciò, pertanto, che si articola in questi anni la nozione di un diritto internazionale allo sviluppo ossia di un insieme di norme, principi e procedure estremamente dinamico che cerca di regolare situazioni eterogenee ed in costante divenire e che tenta di disciplinare i rapporti tra paesi con diversi gradi di sviluppo all’insegna di concetti quali equità, solidarietà, uguaglianza ed anche sovranità

3

.

L’omogeneità economica relativa dei paesi in via di sviluppo, la creazione di sottogruppi con interessi diversi e la prassi dei paesi più industrializzati di cooperare al vertice e a livello intergovernativo esautorando le stesse Nazioni Unite, tuttavia, indeboliscono progressivamente le rivendicazioni del NOEI, facendole poi naufragare di fronte alle tendenze del fondamentalismo di mercato e del neoliberismo radicale tipiche degli anni ottanta del novecento; in questo periodo, infatti, si instaura una nuova ortodossia che origina dalle critiche alle idee ed alle scelte dei decenni precedenti (dalle politiche di sostituzione delle importazioni all’intervento dello Stato in ambito economico, considerato eccessivo, e all’assistenzialismo e alle distorsioni provocate dagli aiuti erroneamente impiegati) e si fonda su una serie di dogmi ultraliberisti che vanno sotto il nome di

3 Per una trattazione esaustiva dell’argomento si veda E. Spatafora, R. Cadin, C. Carletti, Sviluppo e diritti umani nella cooperazione internazionale. Lezioni sulla cooperazione internazionale per lo sviluppo umano, Giappichelli Editore, Torino 2003.

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Washington Consensus. Sono gli anni del “reganismo” e delle strategie della Scuola di Chicago, improntate al controllo dei prezzi e dei salari, alla diminuzione della spesa pubblica ed al rigore delle bilance dei pagamenti; al contenimento dell’indebitamento e allo Stato modesto come reazione alla supremazia del mercato ed al rifiuto acritico di qualsiasi deroga ad una sua liberalizzazione; ed ancora ad una concezione di cooperazione allo sviluppo “individualista” (bilaterale), atta a diminuire gli aiuti generatori di assistenzialismo e le politiche non direttamente produttive attraverso iniziative specifiche per ogni paese, ancorché standardizzate secondo le regole neoliberiste. A livello internazionale l’applicazione concreta di questi principi si esplicita nei programmi di aggiustamento strutturale imposti dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale come condizionalità all’erogazione di prestiti ossia in scelte altamente intrusive nelle politiche nazionali dei vari stati al fine di agire nel cuore del “sistema paese” per migliorarne l’impiego delle risorse rifondandolo secondo criteri neoliberisti; scelte i cui risultati appaiono al giorno d’oggi almeno discutibili e controversi (la stessa Banca Mondiale ha recentemente riconosciuto l’inefficacia, se non l’erroneità, delle politiche di aggiustamento strutturale). Così, nonostante la tenue apertura ad altre dimensioni conosciuta dalle teorie della cooperazione allo sviluppo nel decennio precedente, negli anni ottanta esse si ripiegano su una visione esclusivamente economicistica della vita sociale ed umana e non ammettono altro tipo di considerazioni nel processo di valutazione delle azioni da intraprendere.

Ciò che accomuna, comunque, le varie azioni di cooperazione condotte negli anni tra la fine della seconda guerra mondiale e la caduta del muro di Berlino è il fatto che esse siano state in ogni occasione condizionate dalla contrapposizione di due modelli di sviluppo, fatti propri e strumentalizzati dai due blocchi attivi in regime di Guerra Fredda, al fine di espandere le rispettive aree di influenza; questa opposizione ideologica tra matrice capitalista e matrice comunista non ha permesso l’approfondimento dei problemi dello sviluppo, limitando le discussioni ad un livello superficiale caratterizzato da atteggiamenti arroganti e paternalisti ed impedendo una reale ricerca di soluzioni efficaci, condannando anche il settore della cooperazione ad una sostanziale situazione di stallo. Un altro fattore comune delle iniziative cooperative di questi anni, inoltre, è il profondo squilibrio di potere tra donatori e beneficiari, che relega questi ultimi in posizione di netta inferiorità e li costringe a subire le imposizioni dei primi in un contesto privo di qualsivoglia dialettica negoziale e dal quale non scaturiscono che interventi di minimo valore e di impatto pressoché insignificante.

La svolta inizia agli albori degli anni novanta, con l’avvio di un percorso che porterà all’affermarsi

del concetto di sviluppo umano – e sue integrazioni – di cui si parlerà più approfonditamente nel

paragrafo seguente; l’idea che prende campo in questa fase è quella dell’interdipendenza

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(Wallerstein 1978) ovvero degli effetti reciproci che caratterizzano le relazioni internazionali anche a prescindere dalla volontà dei singoli stati e che costituiscono una sorta di giustificazione economica alla sregolatezza del processo di globalizzazione. In questo quadro la cooperazione internazionale tende sempre più a promuovere uno sviluppo che sia prima di tutto razionale e di responsabilità principalmente dei singoli paesi, i quali sono chiamati ad attuare politiche idonee ad una integrazione in condizioni di uguaglianza nel mercato globale; solo progressivamente la prospettiva si amplia affrontando questioni sociali ed ambientali reinterpretate in termini di sostenibilità. I cambiamenti che sono intervenuti nel sistema mondiale rendendolo multipolare, quindi, hanno inizialmente (ma non solo) messo in crisi i meccanismi di cooperazione internazionale per lo sviluppo - pensati originariamente per funzionare in uno schema bipolare -, i quali hanno dovuto reagire impegnandosi non per concedere agevolazioni commerciali o promettere l’aumento del volume degli aiuti ufficiali, bensì per promuovere una partecipazione effettiva e vantaggiosa di tutti i paesi più poveri alle opportunità di sviluppo; si tratta di un mutamento di direzione valido anche nel momento attuale, ma che deve fare i conti con fenomeni trasversali di altrettanta attualità che rendono difficoltosa l’elaborazione di politiche mirate alle esigenze dei vari attori coinvolti, come ad esempio la crisi della globalizzazione stessa e la mancanza di una governance adeguata ed efficiente, la sfiducia diffusa nei confronti degli aiuti allo sviluppo che trasforma quelli ufficiali in una misura complementare rispetto agli interventi realizzati dal settore privato

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o a vario titolo da altri tipi di organizzazioni, nonché il riaffacciarsi di atteggiamenti arroganti e di impostazione neo – coloniale da parte di alcuni soggetti che vivono la cooperazione come elemento prettamente discrezionale. Il riflesso normativo di queste istanze controverse è la formulazione di un diritto di accesso allo sviluppo “frutto dell’interconnessione tra […] solidarietà, uguaglianza e libertà […]” (Cadin 2003), che condiziona la crescita economica al rispetto delle libertà e dei diritti fondamentali delle persone, nonché alla tutela dell’ambiente in un’ottica intergenerazionale; come vedremo tra breve, il riferimento è al concetto di sviluppo umano nelle sue varie accezioni ed in particolare al fatto che nel corso degli anni novanta l’individuo, in quanto tale, assume sempre più una posizione di centralità nelle riflessioni riguardanti lo sviluppo e di conseguenza la cooperazione ad esso.

L’ultimo decennio del ventesimo secolo, però, è anche quello dei grandi vertici mondiali, promossi per la maggior parte dalle Nazioni Unite, nei quali gli stati tentano di razionalizzare gli orientamenti

4 L’ammontare crescente di capitali privati verso i paesi in via di sviluppo si caratterizza per una concentrazione degli investimenti che da un lato incrementa i flussi finanziari e speculativi a scapito di quelli reali e dall’altro esaspera le disuguaglianze, acuisce la marginalizzazione e rende ulteriormente squilibrata la partecipazione dei PVS agli scambi ed al mercato internazionale; per un riflessione più accurata, anche sul rapporto tra cooperazione e mercato si veda A.

Raimondi e G. Antonelli, Manuale di cooperazione allo sviluppo. Linee evolutive, spunti problematici, prospettive, SEI Editrice, Torino 2001.

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riassunti nelle righe precedenti elaborando una piattaforma globale di sviluppo che funga da punto di riferimento tanto ideologico quanto politico; un obiettivo sicuramente ambizioso, fondato sul rilancio del multilateralismo e su una visione innovativa della responsabilità dei singoli attori governativi e dell’impegno da mettere in atto, con lo scopo di sradicare le radici dell’esclusione economica, sociale, politica e culturale delle popolazioni dei paesi in via di sviluppo, nonché di concentrarsi maggiormente sulla dimensione qualitativa dello sviluppo stesso (momento chiave di questo percorso evolutivo è rappresentato dal vertice di Copenaghen sullo sviluppo sociale – 1995).

Ciò che però emerge dalle considerazioni sin qui presentate è che la cooperazione internazionale allo sviluppo non possa essere ridotta a mero strumento tecnico di risoluzione di singoli problemi o di specifiche emergenze, ancorché adatta al perseguimento di finalità precise, bensì debba assurgere al ruolo di politica sostenibile e di ampio respiro, con tutte le conseguenze che ciò implica in termini di organicità, importanza e risorse; questa aspirazione tuttavia deve confrontarsi in maniera consapevole e realistica con la crisi che ancora oggi investe il mondo della cooperazione allo sviluppo, originatasi nella sfera politica a causa del recupero, da parte di alcuni governi forti, di posizioni aggressive, nonché della crescente frustrazione e dell’aumento delle proteste in seno ai paesi più svantaggiati. Ovunque, poi, è possibile osservare una recrudescenza dei conflitti di potere, anche interni alle élites al comando, dovuti all’enormità degli interessi in gioco ed al riemergere di una concezione bilaterale delle relazioni internazionali legata alla rivendicazione di supremazia e validità assoluta del modello occidentale, che colora anche la cooperazione allo sviluppo di tinte assai ciniche ed ambigue; in questo clima il limite tra legalità ed illegalità diviene sempre meno definito, la guerra torna ad essere un metodo diffuso per risolvere le controversie, la paura e la diffidenza della gente comune aumentano e lo sviluppo viene nuovamente interpretato in termini di competizione radicale, violenta ed escludente. Se è vero, però, che non c’è sviluppo che non si realizzi tramite tensioni e contrasti è pur vero che tali energie competitive possono essere incanalate in azioni costruttive e collaborative ed è quindi compito della cooperazione trovare una strategia idonea che le permetta di essere coerente con i propri scopi ed il proprio mandato senza negare l’aspetto conflittuale insito nei processi di sviluppo

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; l’esperienza dimostra che la cooperazione allo sviluppo non è mai stata – né forse mai lo sarà – neutrale e che solitamente si è modellata sulle varie fasi politiche e sulle scelte di penetrazione economica, ideologica, commerciale, politica e culturale dei soggetti donatori, caratterizzandosi per molto tempo per interventi a pioggia, scarso coordinamento e spreco di risorse. Attualmente il panorama internazionale presenta, tuttavia, nuovi fermenti, da cui possono scaturire approcci innovativi finalizzati a creare occasioni concrete di

5 Per un riferimento più puntuale alla connessione tra sviluppo, conflitti e cooperazione si rimanda a L. Carrino, Perle e pirati. Critica alla cooperazione allo sviluppo e nuovo multilateralismo, Edizioni Erickson, Trento, 2005.

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collaborazione sul campo, orientate dall’attenzione alla qualità dello sviluppo e rispondenti alla realtà dinamica ed in continuo movimento della cooperazione stessa.

1.2. LO SVILUPPO UMANO ED IL COSVILUPPO

Lo sviluppo umano (sostenibile) è un concetto integrato che riassume in sé le interazioni sistemiche che sono andate progressivamente delineandosi tra processi di crescita economica, tutela dei diritti umani e dell’ambiente

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e processi di democratizzazione e di pace, costituendo una evoluzione della teoria dei bisogni fondamentali che focalizza l’attenzione sull’ampliamento delle capacità di scelta dell’individuo; come è noto, l’autore a cui si fa principalmente riferimento quando ci si confronta con questo nuovo paradigma è A. Sen

7

e la sua definizione di sviluppo – e conseguentemente di sottosviluppo – che pone al centro del ragionamento la persona ed il suo ambiente. A tal proposito si parla anche di teoria dei funzionamenti, poiché l’analisi si concentra sulla possibilità dei singoli di realizzare le funzioni fondamentali della vita umana (nutrirsi, ripararsi, istruirsi, lavorare e così via) e l’indice di sviluppo umano (ISU

8

) elaborato in sede internazionale (UNDP) assume come parametri base non solo il prodotto interno lordo di un dato paese, ma anche l’aspettativa di vita ed il grado di alfabetizzazione della popolazione; questa impostazione ha naturalmente avuto ripercussioni significative sulle politiche di sviluppo, riportando in primo piano il fenomeno dell’esclusione sociale e la necessità di tornare ad occuparsi dei fattori sociali di produzione del reddito. L’approccio innovativo insito nel ragionamento di Sen consiste nel fatto che gli standards da raggiungere non sono più beni o servizi materiali, bensì le opportunità di cui le persone devono poter disporre e la finalità cui tendere, quindi, è quella di far sviluppare agli individui le capacità necessarie al raggiungimento degli obiettivi e dei parametri che essi stessi si sono posti; si tratta quindi di elaborare politiche con gli attori sociali e non solo per essi, introducendo nuovi temi e nuovi strumenti nella cooperazione, che porteranno al potenziamento delle scelte di sviluppo integrato e di comunità fino all’adozione dei programmi quadro (v. oltre), nell’ottica di una maggiore interconnessione tra politiche nazionali ed internazionali che valorizzi l’elemento

6 L’ambiente è probabilmente il primo settore in cui le nuove tendenze relative allo sviluppo vengono recepite ed è proprio a proposito dell’ambiente che per la prima volta si parla di sviluppo sostenibile (Rapporto Brundtland del 1987, Conferenza di Rio delle Nazioni Unite nel 1992 e successive integrazioni); l’equità intergenerazionale e le responsabilità differenziate, infatti, sono principi che influenzeranno il dibattito sullo sviluppo ben al di là del solo fattore ambientale, aprendo la porta a quella integrazione di elementi molteplici e diversi che rende il diritto stesso allo sviluppo non assoluto, ma limitato dal rispetto di altri diritti e doveri. In merito allo sviluppo umano di vedano i vari rapporti UNDP.

7 Tra le varie opere dell’attore si veda, ad esempio, A. Sen, Lo sviluppo è libertà, Mondadori, Milano 2000.

8 Lo sviluppo umano, infatti, è allo stesso tempo una categoria concettuale, un obiettivo politico, ma anche una grandezza misurabile tramite indicatori specifici in grado di cogliere le differenze tra lo sviluppo in campo economico e quello delle società; nel tempo lo strumento dell’ISU è stato arricchito da altri indici che rappresentassero le peculiarità inerenti il sesso, la partecipazione femminile, il grado di industrializzazione e la povertà umana.

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partecipativo, la responsabilizzazione dei soggetti coinvolti, nonché l’attivazione di soggettività diverse per la creazione di veri e propri sistemi. Sostenere la possibilità dei singoli di definire il proprio benessere individuale, però, implica anche un legame essenziale con la garanzia delle libertà fondamentali ad essi afferenti ed il modo di rendere effettiva tale garanzia; la libertà individuale, infatti, non è solo un valore, ma anche un prodotto sociale e come tale ha bisogno di decisioni politiche e di un assetto istituzionale idonei a promuoverla e tutelarla, poiché “[…] una società libera è una società che offre chance(s) ma non impone i modi di usarle […]” (Raimondi, Antonelli 2001), che investe per migliorare le capacità umane (sviluppo delle persone), stimola una distribuzione equa dei benefici (sviluppo per le persone) e fornisce ad ogni membro l’opportunità di partecipare allo sviluppo (sviluppo dalle persone). Da questo punto di vista, pertanto, la relazione tra sviluppo umano e crescita economica risulta essere biunivoca, in quanto il primo favorisce e sostiene la seconda, mentre quest’ultima è una pre – condizione, uno dei mezzi per il raggiungimento del primo (il riferimento alla crescita economica implica anche un accenno al legame tra sviluppo umano e lotta alla povertà e a come il primo possa testimoniare la natura articolata e non univoca della seconda in contrapposizione a quella “strategia bicefala” – Vitale 2004 – imposta dall’adozione dei programmi di aggiustamento strutturale, la cui logica si basa sulla gestione separata del settore produttivo – all’insegna della competitività – e di quello sociale – all’insegna della coesione -)

Ma per comprendere meglio cosa significhi veramente la nozione di sviluppo umano occorre innanzitutto fare qualche considerazione in merito al concetto di sviluppo in sé: che cosa si intende per sviluppo? Partendo dal presupposto che forse non è realistico pensare ad una definizione univoca e valida universalmente, data la complessità intrinseca del concetto stesso, si assume come punto di partenza il significato che allo sviluppo danno le Nazioni Unite, facendo riferimento ad un processo attraverso il quale le società umane soddisfano i bisogni dei propri componenti; esso quindi, in sé, non è né buono né cattivo, ma è la dimensione dei bisogni ad essere ambigua ed a prestarsi a strumentalizzazioni di vario genere, in particolar modo nell’ambito della cooperazione.

Cosa si intende infatti per bisogno e come si stabilisce se si tratta di una necessità reale o fittizia?

Prendendo come riferimento quanto sostenuto da L. Carrino nei suoi testi, di fatto i bisogni possono

essere identificati come stimoli mentali che innescano un processo di ricerca di una loro

soddisfazione, la quale però può assumere innumerevoli forme a seconda di ciò che la realtà sociale

e concreta offre; secondo questa prospettiva, pertanto, non esistono falsi bisogni (benché molti degli

attuali modelli di sviluppo considerino marginalmente le esigenze manifestate da gran parte delle

popolazioni del mondo e nonostante ci siano i mezzi economici e tecnici per soddisfarle in maniera

equa e diffusa) e le problematiche delle dinamiche di sviluppo risiedono fondamentalmente nella

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qualità delle risposte che vengono date. Questa constatazione porta a sottolineare il fatto che lo sviluppo, in sostanza, è un prodotto umano, proveniente da realtà sociali e culturali ben precise, le quali si qualificano anche per una serie di miti, ideologie e religioni che influenzano profondamente lo sviluppo stesso, legandolo fortemente ai sistemi di gestione di potere e relegando gli aspetti scientifici ad una funzione strumentale; rispondere ai bisogni umani significa offrire delle opzioni che nascano dall’azione combinata degli attori sociali pertinenti, cercando di trovare un equilibrio tra stimoli e soddisfazioni, tenendo sempre ben presente che alla base di tutti questi processi ci sono le scelte degli esseri umani ed essendo consapevoli che lo sviluppo riguarda allo stesso tempo tanto la dimensione sociale quanto quella individuale degli esseri umani, tramite l’identificazione proprio delle società umane come sue protagoniste (nelle loro forme organizzative, nelle relazioni che esse rendono possibili con l’ambiente circostante e negli spazi per l’espressione delle potenzialità personali e collettive di ognuno).

Il fatto di ricercare la soddisfazione dei bisogni, quindi, non da garanzia né di qualità né di quantità

di sviluppo ed è di conseguenza opportuno interfacciarsi con quest’ultimo utilizzando gli aggettivi

necessari per evitare interpretazioni fuorvianti e facili malintesi, poiché ogni realtà sociale vi

fornisce un senso proprio in accordo con le risposte che intende offrire ai membri che la

compongono; in tal senso si orienta lo sviluppo umano, verso cioè risposte peculiari, in quantità

sufficiente, relativamente sicure e qualitativamente buone dal punto di vista di coloro a cui sono

destinate. Come si può desumere da quanto detto fino a questo momento, poi, gli aspetti di quantità

e qualità devono compenetrarsi e procedere di pari passo, dato che i primi, da soli, non bastano a

rispondere in maniera appropriata ai bisogni umani e ad avversare l’esclusione delle persone dal

raggiungimento delle proprie soddisfazioni; prendendo spunto dal fatto che la quantità di sviluppo

dipende dal numero di possibilità che esso offre di soddisfare attivamente le necessità degli

individui, lo scopo di quello umano è di fornire un modo partecipato e diffuso per creare tali

possibilità (ricchezza in senso lato) e distribuirle equamente, evitando danni e frustrazioni causati

dall’aumento dei bisogni insoddisfatti. La ricerca esasperata della quantità – adottata dai modelli

escludenti -, infatti, ha solitamente conseguenze negative, in quanto genera esigenze prima

inesistenti senza poi farvi fronte e diffonde scontento tra le persone, abbandonando il percorso verso

l’equilibrio qualitativo e quantitativo tra bisogni e soddisfazioni cui si è fatto riferimento in

precedenza piuttosto che tendere all’instaurazione di una società che crei ricchezza in grado di

offrire a tutti, idealmente, l’opportunità di rispondere positivamente alle proprie necessità; come

abbiamo visto la realizzazione di tutto questo può essere valutata, seppure con ineliminabili margini

di discrezionalità, attraverso la qualità della combinazione tra reddito, salute ed educazione e in ciò

devono convogliarsi le iniziative della cooperazione allo sviluppo.

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Tentando a questo punto di collegare le premesse concettuali sopra esposte con alcuni fenomeni concreti caratterizzanti il contesto attuale è utile notare come la letteratura esistente ponga l’accento sulla nuova consapevolezza che la nozione di sviluppo umano suscita in merito alle interazioni internazionali, nella fattispecie in merito alla dinamicità del rapporto tra processi di pace e democratizzazione da una parte e sedimentazione di uno Stato di diritto fondato sul rispetto delle libertà fondamentali; i principi che sottendono a tale legame, infatti, corrispondono agli elementi costitutivi dello sviluppo umano e riguardano l’interdipendenza e l’indivisibilità dei diritti dell’uomo, nonché l’approccio multidimensionale allo sviluppo ovvero il fatto che quest’ultimo comprenda allo stesso tempo cinque dimensioni: la pace, l’economia, l’ambiente, la giustizia e la democrazia

9

. Solamente integrando tali fattori e declinandoli nel rapporto con le varie dinamiche sociali dei processi di sviluppo – quali ad esempio la povertà, la disoccupazione e l’esclusione sociale -, infatti, è possibile comprendere le cause croniche e strutturali del sottosviluppo, nonché le loro conseguenze, ed affrontarle per superare, riducendole, l’incertezza e l’insicurezza nella vita delle popolazioni più svantaggiate (agendo sui meccanismi di giustizia sociale come sui parametri per un lavoro decente, sui programmi di follow up come sulle libertà sindacali, etc.); ancora una volta, quindi, emerge quell’accezione di sviluppo umano inizialmente elaborata dall’UNDP che lo identifica con un processo di ampliamento delle possibilità di scelta degli esseri umani, al fine di costruire un ambiente che consenta di condurre una vita lunga, creativa ed in salute. E’ la libertà della persona umana ad essere posta al centro del paradigma, l’opportunità di esercitare liberamente le proprie scelte e di partecipare ai processi decisionali che la riguardano, assumendo come condizione necessaria - anche se non sufficiente – la tutela dei diritti fondamentali; lo stesso UNDP, in uno dei suoi Rapporti, afferma che “la partecipazione democratica è un fine critico dello sviluppo umano […]”, sottolineando anche il nesso di quest’ultima con i meccanismi di crescita economica coerenti con gli obiettivi dello sviluppo umano, benché non si possano stabilire correlazioni univoche nel rapporto tra ordinamenti politici ed orientamento delle scelte economiche e di sviluppo. In quest’ottica, pertanto, si individua una corresponsabilità di Stato ed individui nel contribuire al raggiungimento di un determinato grado di sviluppo umano che incida sulla qualità della vita delle persone e che, come dimostrano le tematiche dibattute nei fora internazionali, si presenta come intimamente connesso alla sfera dei diritti umani, fino ad arrivare al riconoscimento del diritto allo sviluppo come un diritto umano fondamentale (Spatafora 2003); anche le Nazioni Unite, tramite apposite Commissioni, Rapporti del Segretario Generale e Dichiarazioni dell’Assemblea Generale, hanno, dalla fine degli anni settanta del secolo scorso ad oggi, annoverato il diritto allo sviluppo nel catalogo dei diritti umani, stabilendo doveri per gli stati e principi di

9 In proposito si veda il Rapporto sull’Agenda per lo sviluppo del Segretario Generale delle Nazioni Unite Boutros- Ghali (1994).

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riferimento mirati ad evidenziare l’interdipendenza di questi ultimi ed il ruolo degli esseri umani come soggetti attivi e non come oggetti dei processi di sviluppo

10

. Nonostante questi intenti, però, dal punto di vista strettamente giuridico è quantomeno difficile ravvisare l’esistenza di un vero e proprio diritto umano allo sviluppo, poiché nel tempo non si è formata una norma consuetudinaria in merito (la carenza degli interventi statali nel settore ne è una dimostrazione lampante) né è stata sancita una norma primaria e generale che permetta agli individui di esercitare un diritto allo sviluppo davanti ad organi giurisdizionali nazionali o internazionali; questo tipo di diritto, cioè, non è giustiziabile, almeno a livello individuale, ma attualmente si stanno aprendo degli spazi di intervento proprio in ambito internazionale, sia dal punto di vista di disposizioni pattizie che possono costituire una fonte normativa riconosciuta del diritto umano allo sviluppo, sia dal punto di vista di una potenziale connessione tra il diritto all’autodeterminazione dei popoli e quello allo sviluppo, inteso qui in una accezione collettiva che vede le popolazioni titolari della capacità di partecipare e contribuire allo sviluppo e gli stati dell’obbligo di assicurare e garantire questa possibilità (esprimendo in tal modo un diritto umano c.d. di “terza generazione”, la cui concretizzazione è resa necessaria da un regime di responsabilità interdipendente di tutti gli stati).

Comunque la realtà che ci circonda dimostra che la comunità internazionale incontra non poche difficoltà nella realizzazione dello sviluppo umano nei vari contesti ed ai vari livelli, evidenziando d’altra parte l’importanza dell’intervento di attori differenziati e molteplici per l’attuazione di programmi di sviluppo, in particolar modo della società civile, la cui complementarietà viene valorizzata a pieno dai meccanismi della sussidiarietà e della cooperazione decentrata; naturalmente si tratta di strumenti che per essere efficienti necessitano di coniugarsi con considerazioni di più ampio respiro relative agli ambiti della democratizzazione e della good governance, ma rimandando ad altra sede tale tipo di approfondimento, ci limitiamo adesso a richiamare l’enfasi posta dai documenti dell’ONU sulle potenzialità del diritto allo sviluppo di fungere da strumento che rafforzi alla base la cooperazione internazionale per uno sviluppo umano.

Il cosviluppo

Quali sono allora i rapporti esistenti tra sviluppo umano e cosviluppo e che cosa si intende quando si fa riferimento a quest’ultimo? Considerando quanto analizzato nella sezione appena conclusasi

10 In merito un riferimento deve essere fatto anche ai vari Rapporti degli esperti indipendenti, che nel 2000-2001 hanno elaborato il modello del “patto per lo sviluppo”, suggerendo di investire principalmente nelle dimensioni nazionali pur restando inseriti in una cornice internazionale; il modello presentato, inoltre, individua come fondamentale la partecipazione della società civile nella realizzazione del diritto allo sviluppo ed il suo coinvolgimento nell’elaborazione di politiche adeguate che tengano conto non solo degli indicatori di offerta di beni e servizi, ma anche di quelli di accesso.

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potremmo dire che il cosviluppo costituisce una delle possibili evoluzioni del concetto di sviluppo umano, in quanto da esso assorbe l’impronta multidimensionale, ma compie un passaggio ulteriore inserendola in una visione che considera contemporaneamente le condizioni tanto dei paesi donatori quanto di quelli beneficiari (anche se in realtà, come si osserverà in seguito, queste posizioni non sono così nettamente definite ed anzi si avvicinano in un ottica paritaria di partenariato); in altre parole il cosviluppo mira al raggiungimento congiunto di un benessere maggiore per entrambi attraverso azioni comuni, nella fattispecie tramite il coinvolgimento delle comunità migranti e del ruolo di ponte e mediazione che queste possono assumere. Ecco quindi che i parametri dello sviluppo umano vengono declinati alla luce dell’aumento della mobilità globale, delle maggiori opportunità di migrare e di farlo in maniera reversibile e soprattutto della possibilità dei migranti di gestire direttamente e nei propri paesi di origine il surplus da loro prodotto, facendo investimenti, orientando strategicamente le proprie rimesse e sfruttando tutte le potenzialità della catena migratoria, delle reti migranti.

Nell’epoca della globalizzazione il mondo subisce simultaneamente spinte all’integrazione ed alla

frammentazione, le quali producono contesti asimmetrici e di rottura che testimoniano una

sostanziale perdita di credibilità nei confronti dei meccanismi democratici ovvero una significativa

distanza tra cittadini ed istituzioni ed il conseguente articolarsi di nuove forme di partecipazione; a

ciò corrisponde un impulso a riformare il sistema delle relazioni recependo la sempre maggiore

interazione delle varie culture ed il processo di creazione di valori potenzialmente condivisibili a

livello universale poiché scaturiti da un clima di cosmopolitismo che si fa sempre più locale,

compenetrando le dimensioni di particolare e generale, di universalità ed alterità all’interno di uno

schema di apprendimento reciproco. Tali tendenze, sul piano pratico, si traducono in un

decentramento dei percorsi decisionali ed in un ripensamento della dimensione locale come centro

transnazionale che valorizzi le differenze e la pluralità mantenendo una cornice di universalismo e

di conseguenza in un riorientamento profondo anche della cooperazione allo sviluppo; oggi i

contesti specifici di intervento, infatti, richiedono frequentemente flessibilità e poliedricità,

rendendo sempre più labili i confini tra politiche di cooperazione allo sviluppo e scelte in campo

ambientale, di internazionalizzazione economica, migratorio e di sicurezza, nonché moltiplicando e

diversificando gli attori in gioco. Questa pluralità crescente di soggetti coinvolti, inoltre, esige una

trasformazione nelle modalità organizzative della cooperazione stessa, ma anche negli approcci e

nelle strategie adottate, nonché nelle metodologie di intervento e nei processi decisionali, per cui le

risposte più adeguate, come vedremo, appaiono essere quelle fornite dai paradigmi della

cooperazione decentrata e del cosviluppo; in entrambi i casi, di fatto, trovano la giusta collocazione

principi quali la partecipazione, l’ownership e la partnership, nell’ambito di rapporti multiattoriali

(22)

che consentono una compenetrazione di interessi più o meno complementari afferenti a territori diversi, ma che condividono una stessa visione dello sviluppo e problematiche similari.

Ridefinire quindi il concetto di sviluppo in quello di cosviluppo significa stimolare la creazione di uno spazio relazionale multidimensionale e multidirezionale (Ianni 2004) che permetta l’analisi dei rapporti tra i diversi modelli di sviluppo, integrando le riflessioni sul decentramento politico – amministrativo e sui meccanismi di partecipazione democratica con la logica sottesa ad un pluralismo di attori ed il ruolo attivo delle comunità locali; la sfida da raccogliere è quella di mantenere una precisa identità degli intenti, una operatività efficiente ed una coerenza di azione che allontanino il rischio di manipolazioni e strumentalizzazioni. Emerge fin da subito, pertanto, l’intreccio tra cooperazione decentrata e cosviluppo (v. paragrafo successivo), il quale da una parte lascia intravedere il valore aggiunto e peculiare dato dal coinvolgimento di soggetti - istituzionali e non – locali in una cooperazione che diviene appunto translocale, mentre dall’altra evidenzia l’esistenza di perplessità circa l’effettiva efficacia di un approccio innovativo ancora in evoluzione;

un approccio che intende superare la visione assistenzialista e verticistica della cooperazione

tradizionale, ridisegnando il rapporto tra attori del Nord e attori del Sud attraverso la trasformazione

del vettore che dai donatori arriva ai beneficiari in una relazione di reciprocità, di interdipendenza e

di corresponsabilità. Il cosviluppo, cioè, è un concetto olistico, che integra in una prospettiva

comune lo sviluppo dei diversi territori, fondandosi sui legami che tra essi intercorrono e

promovendo un approccio strutturale che travalica la distinzione tra politica interna e politica estera,

relativizzando la nozione di confine per spostarsi dall’idea di sviluppo locale a quello translocale,

glocale e cosmopolita (in questo senso sono da intendersi le tendenze emergenti che valorizzano le

figure dei migranti e la loro mobilità circolare che li rende i nuovi cittadini de villaggio globale); ma

allo stesso tempo il cosviluppo è un concetto che ha bisogno di essere articolato in maniera più

soddisfacente, per affrontare quei conflitti e quelle contraddizioni che scaturiscono dagli apparati

politici ed istituzionali ancorati alla dimensione nazionale, dai rapporti difficili tra autoctoni e

migranti, nonché dalla polarizzazione delle strutture economiche. Ciò che si percepisce analizzando

la letteratura in merito è l’esigenza di una più puntuale definizione della coerenza tra le diverse

sfere di intervento di questo paradigma, di una maggiore chiarezza riguardo la reale distribuzione

dei costi e dei benefici ed in relazione al complesso confronto con il persistere di situazioni

emergenziali che limitano di fatto le possibilità di investire per trovare soluzioni comuni; il

cosviluppo, quindi, necessita di approfondire le riflessioni sul come interfacciarsi con i classici

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problemi dello sviluppo contemporaneo ovvero la povertà, la sostenibilità, la regolamentazione internazionale, i diritti umani e politici e le relative istituzioni, nonché il debito estero

11

.

1.3. IL COSVILUPPO E LA COOPERAZIONE DECENTRATA

Non essendo questa la sede per una disamina completa ed approfondita degli strumenti e delle modalità di cooperazione allo sviluppo, ci si limiterà a riflettere su alcuni degli aspetti più pertinenti all’interesse del presente elaborato, nella fattispecie le dinamiche che animano le connessioni tra la cooperazione decentrata, il cosviluppo e di conseguenza i migranti. Quale relazione intercorre perciò tra la dimensione del cosviluppo e quella della cooperazione decentrata? Sono la stessa cosa?

Sono l’uno funzionale all’altra o corrono su due binari paralleli? Per rispondere a queste domande occorre ampliare la riflessione per comprendere cosa sia la cooperazione decentrata

12

, o meglio quale sia la logica che la orienta, e quali conseguenze essa abbia nell’ambito della cooperazione allo sviluppo.

Come abbiamo avuto modo di notare in precedenza, il mondo che ci circonda è in continuo fermento e dal punto di vista della cooperazione questo si traduce nella scoperta di nuove forme d’azione dal basso, nonché dalla ricerca dall’alto di strategie di intervento innovative e quadri di riferimento originali per recepire i cambiamenti in atto ed è nello spazio in cui si incontrano questi due fenomeni che nasce la cooperazione decentrata; essa, infatti, fa propria la logica pluriattoriale ed i principi di base che caratterizzano la visone dello sviluppo umano, quali la partecipazione, l’ownership, il partenariato e l’empowerment, fondandosi sulla valorizzazione delle diversità dei molteplici soggetti che porta ad interagire ed estendendo così lo spazio del dialogo e le possibili sinergie tra gli attori dello sviluppo, pubblici e privati, sociali, economici ed istituzionali. La

11 La povertà, ad esempio, intesa non solo come scarsità di reddito, ma anche come emarginazione ed esclusione dovute alla mancanza di capacità, mezzi ed incentivi costituisce un limite alla crescita e non è compatibile con l’impianto pluridimensionale dello sviluppo umano; il debito estero è poi uno dei principali ostacoli allo sviluppo, determinando il peggioramento delle condizioni di vita delle popolazioni e ancora oggi non sono stati formulati interventi in grado di affrontare le cause strutturali dell’insolvenza. Sul cosviluppo, inoltre, fanno sentire la loro influenza tutte le problematiche relative all’institution building e le posizioni controverse in merito al ruolo dello “Stato efficiente”, nonché le dinamiche in materia di regolamentazione internazionale riguardo la riforma delle politiche e del funzionamento delle organizzazioni internazionali; riforma atta a cambiare le regole del gioco globalizzazione in modo da permettere anche ai paesi in via di sviluppo di trarne vantaggio. Per una trattazione esaustiva dell’argomento di rimanda a F. Volpi, “I grandi temi dello sviluppo all’inizio del XXI secolo” in V. Ianni, a cura di, Verso una nuova visione dell’aiuto. Le Autonomie locali nella cooperazione internazionale allo sviluppo, Edizioni Solaria, Roma 2004.

12 Il presupposto da cui si parte è che ancora oggi non c’è una definizione universalmente accettata di cooperazione decentrata; per il contesto italiano una sua definizione è disponibile nelle Linee di indirizzo e modalità attuative della Cooperazione decentrata redatte dalla Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri (DGCS/MAE 2000), mentre in ambito internazionale il primo riferimento al concetto in analisi risale alla IV Convenzione di Lomé (ACP-UE) del 1989 ed il prodotto di una ridefinizione critica ed alternativa dei tradizionali schemi di aiuto allo sviluppo. Per una presentazione dettagliata delle varie concezioni di cooperazione decentrata (UE, MAE, UN) si veda di M. Carella, F. Piperno, A. Stocchiero, “La cooperazione decentrata e partecipativa: migranti agenti di sviluppo” in Rimesse e Cooperazione allo Sviluppo, F. Angeli Editore, Milano 2004.

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cooperazione decentrata, quindi, si articola in processi multidirezionali che identificano tuttavia nel territorio l’elemento essenziale per suggerire nuove forme di relazione tra Nord e Sud, ispirate ad un rapporto paritario, orizzontale, bidirezionale e circolare all’interno del quale ogni attore partecipa ad un progetto di sviluppo comune coerentemente con le proprie specificità; una partecipazione, però, che travalichi la dimensione della retorica e si concretizzi in pratiche esecutive specifiche, sfruttando il progredire dei processi di decentramento dello Stato, il rafforzamento della società civile e la ridefinizione delle forme di democrazia e cittadinanza

13

. Da questa prospettiva emerge che la cooperazione decentrata identifica lo sviluppo con un processo partecipativo e di apprendimento che procede lentamente e per tentativi, superando le asimmetrie del rapporto donatore/beneficiario grazie al riconoscimento del valore aggiunto insito nelle diversità e nell’interazione in sé e facendo della processualità e dell’iteratività due elementi costitutivi del proprio impianto concettuale ed operativo; un obiettivo sicuramente ambizioso ma altrettanto necessario per mettere da parte quegli interventi cooperativi che si prefiggono di dare risposte ai problemi in maniera contingente e senza affrontarne la cause profonde e cavalcare l’onda della pluralizzazione degli attori dello sviluppo per trasformarne le relazioni all’insegna di un loro allargamento verso il concetto di “territori” nella sua accezione più ampia. Affinché questo avvenga, però, è stato osservato (Ianni 2004) che la cooperazione decentrata ha bisogno di essere istituzionalizzata come modalità di intervento non marginale, in modo da poter implementare la sua capacità di rispondere ai problemi che intende affrontare chiarificandone i principi, le metodologie ed i meccanismi di coordinamento e dando garanzia di operatività; come si sarà ormai percepito e come si avrà modo di approfondire in seguito (par. 3.2), lo strumento principe attraverso cui realizzare le suddette finalità è il partenariato, inteso come processo flessibile destinato ad evolversi nel tempo, a modificare i rapporti di forza esistenti e basato su accordi ben precisi che operazionalizzino quell’idea di sviluppo centrata sulla pluralità degli attori e sul cambiamento come superamento della mancanza di libertà. Naturalmente il cammino per perfezionare tali spazi di incontro e collegamento è ancora lungo e le debolezze da superare sono diverse: dalla carenza di indicatori che colgano aspetti relazionali e non tangibili per rafforzare i momenti di valutazione alla confusione dei ruoli tra i vari attori e alla scarsa distinzione tra competenze politico – amministrative e tecnico – gestionali; dalla definizione poco puntuale delle agende di lavoro all’incapacità di interfacciarsi con le differenze; lo scopo cui tendere è l’adozione, e successivamente la sedimentazione, di un approccio – processo (v.oltre) che risponda all’attuale crisi della cooperazione allo sviluppo ponendosi criticamente nei confronti di questioni quali la pertinenza delle strategie di sviluppo e la loro efficacia, la coerenza ed il coordinamento, la

13 Per un esempio interessante si veda AA. VV. Strategie di sviluppo e aiuto internazionale. Le proposte africane. B.

Mondatori Editore, Milano 2006.

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compatibilità con altri fenomeni come la paradiplomazia e l’internazionalizzazione economica, nonché l’operatività ed il mainstreaming. Una sfida da cui scaturiscono stimoli molto interessanti per riflettere sulla formazione di nuove professionalità nel settore dello sviluppo (si veda più avanti il capitolo 3).

Nel tentativo, a questo punto, di riassumere le caratteristiche fondamentali della cooperazione decentrata possiamo affermare che quest’ultima – ed i suoi strumenti - sia improntata alla pluralità (attori eterogenei che si compongono in geometrie variabili), alla multidimensionalità ed alla processualità ( circoli virtuosi di capacitazione degli individui che ne ridefiniscono la partecipazione ampliandola, trasformando il volto delle istituzioni e promovendo forme di cittadinanza attiva e diretta e responsabile); questo tipo di cooperazione, pertanto, si impegna per dar vita a nuove relazioni tra la gente comune ed i soggetti istituzionali, intercettando la dimensione positiva e di crescita dei conflitti presenti nelle società, evidenziando gli elementi di diversità intrinseca delle varie realtà ed approfondendo strategicamente il rapporto pubblico – privato, senza cristallizzare le proprie aree di intervento e problematizzando il locale. Di conseguenza i confini dell’ambito di interesse della cooperazione decentrata sono mobili e variabili, si intersecano con il contesto statale e con quello internazionale creando percorsi decisionali innovativi e modalità inclusive di progettazione che hanno la possibilità di materializzare piani d’azione argomentati, pratici e coordinati; il minimo comun denominatore di questo impianto cooperativo è l’agire delle Autonomie locali, un agire proattivo che intende rapportare in modo virtuoso il mondo politico, quello economico, quello sociale e quello culturale focalizzandosi sugli attori e sulla loro partecipazione all’espressione di una nuova concezione dello sviluppo. In altre parole di tratta di mettere in pratica un cosiddetto “approccio per processo”, su cui ci soffermeremo tra breve, che sostenga lo svolgimento appunto di processi di empowerment, di decentramento e di sviluppo locale attraverso l’ascolto, il dialogo ed il confronto continui, nonché attraverso una prospettiva almeno di medio periodo che si articoli in maniera flessibile seguendo i ritmi dei soggetti coinvolti; cruciale poi per l’attuazione di tali interventi risulta essere la dimensione politica e nella fattispecie l’implementazione di spazi istituzionali in cui sia possibile sperimentare una condivisione di punti di vista, di funzioni, di strumenti e di scopi e lo stanziamento di adeguate quantità di risorse

14

.

14 Recentemente la cooperazione decentrata ha assunto una visibilità politica sempre maggiore e questo ha favorito un aumento delle risorse a sua disposizione (ad esempio per supportare movimenti indigeni – politici e culturali -, popoli e paesi nell’azione di rivendicazione dei propri diritti e delle proprie visioni alternative di sviluppo), ma esse risultano ancora insufficienti; inoltre la cooperazione decentrata deve ancora affrontare il nodo del coordinamento ovvero dell’elaborazione di una vera e propria strategia che trascenda dalla personalizzazione del ruolo derivante da un leader politico carismatico e superi la debolezza della società civile organizzata dovuta alla frammentarietà di quest’ultima. Si tratta cioè di promuovere una posizione comune che permetta ai vari attori di coalizzarsi ed affrontare un confronto con l’apparato amministrativo ed istituzionale in qualità di interlocutori politici e non di meri esecutori funzionali; il ruolo dell’amministratore competente, infatti, è estremamente importante per equilibrare la valorizzazione delle energie del territorio con l’esigenza di convogliare le risorse su interventi significativi, ma è altrettanto fondamentale che egli sia

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Tornando quindi al rapporto tra cosviluppo e cooperazione decentrata, da quanto fin qui analizzato possiamo dire che quest’ultima è allo stesso tempo un mezzo, un modo per operazionalizzare il primo ed una cornice entro cui esso si realizza; il cosviluppo insomma è un principio base, una visione fondamentale a cui la cooperazione decentrata si ispira e si richiama al fine di rendere compatibili gli interessi di tutte le parti di un rapporto paritario e circolare orientato al cambiamento sociale ed al riconoscimento della pluralità dei modelli di sviluppo. Cosviluppo e cooperazione decentrata, pertanto, non sono esattamente la stessa cosa, ma sono funzionali l’uno all’altra e, benché afferenti a dimensioni diverse, sono interconnessi nelle loro molteplici sfaccettature, le quali spaziano dalla capacità di gestione dei conflitti e delle differenze all’apprendimento progressivo ed in costante perfezionamento; dall’utilizzo continuativo della concertazione per promuovere una reale integrazione socio – economica ed una crescita democratica alla sperimentazione incessante del dialogo, del confronto e della tolleranza per garantire trasparenza e responsabilità a livello istituzionale, nonché coesione sociale. In un contesto del genere è evidente come alla volontà di interfacciarsi con le differenze molteplici di identità, logiche di comportamento, risorse, punti di vista e finalità di cui sono portatori i vari attori della cooperazione sottenda la consapevolezza della necessità di raggiungere prima di tutto una visione condivisa delle problematiche che si vogliono affrontare, affinché la cooperazione produca risultati effettivi (non basta voler cooperare per farlo);

inoltre, con riferimento ad un ambito più specificatamente giuridico, l’osservazione empirica segnala che la cooperazione decentrata ha bisogno di una migliore applicazione del principio di sussidiarietà, in modo da poter contare su una regolamentazione efficace che definisca con precisione, ma in maniera differenziata, ruoli e responsabilità, procedure e meccanismi di controllo dell’affidabilità al fine di diminuire la vulnerabilità del modello legata alle fluttuazioni del panorama politico e rafforzare la dimensione della governance locale. Come sostiene Vanna Ianni, infatti, la cooperazione decentrata si dimostra capace di poter affrontare tanto gli aspetti settoriali quanto quelli strutturali dello sviluppo, compenetrando come complementari elementi inerenti il decentramento politico – amministrativo, lo sviluppo economico diffuso, la sostenibilità e le capacità di impatto, la prospettiva di genere, la valorizzazione culturale, i processi di partecipazione democratica ed il ruolo attivo delle comunità locali; si tratta in sintesi di un rafforzamento delle dinamiche partecipative rispondenti alla richiesta, avanzata sia nei contesti locali sia in quelli nazionali ed internazionali, di relazioni più inclusive e responsabili tra i soggetti coinvolti, nonché meno delegate e meno circoscritte nel tempo, all’insegna di una concezione consapevole dello

consapevole della necessità di realizzare un impegno sistematico, trasversale e strutturale finalizzato anche ad influenzare le scelte di organismi pubblici sovraordinati e ad approfittare delle possibilità di partecipazione da esse offerte. Per un approfondimento sulla questione del coordinamento, particolarmente in ambito italiano, si veda A.

Stocchiero “I nodi dell’evoluzione della cooperazione decentrata italiana”, WP 37/2007, CeSPI, Giugno 2007.

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