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La figura femminile nel teatro di Alvaro: Lunga notte di Medea

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La figura femminile nel teatro di Alvaro: Lunga notte di Medea

1.1 Da il paese e la città alla lunga notte di Medea

La produzione teatrale di Corrado Alvaro parte dal 1923 con il paese e la città, opera teatrale che riprende il tema della dicotomia città-paese. Protagonisti sono due fratelli di origine contadina, mandati dal padre a studiare in città cosicché, una volta finiti gli studi, possano riscattarsi raggiungendo una posizione sociale più elevata. I due fratelli sono in contrasto tra di loro, in quanto c’è in uno l’amore per la città, mentre nell’altro la nostalgia del paese. Quindi sono destinati a scontrarsi violentemente. Alla fine del conflitto avrà la meglio lo spirito paesano. L’opera, nonostante il discreto successo, si presentava troppo schematica e diseguale dal punto di vista tonale, « a volte egli ha fatto dei due fratelli i termini esattamente antagonistici del dissidio nostalgico, a volte li ha piegati nello stesso rimpianto: e questa ambiguità non poteva non sminuire l’efficacia drammatica del conflitto fraterno, dipinto invece nei momenti più felici dell’atto con rapidi tocchi sapienti ».1

Altra opera teatrale alvariana è Belfagor diavolo curioso la cui datazione è incerta. Il Frateili, curatore delle opere alvariane, ha proposto come data il 1935, in base alle indicazioni ricevute dalla moglie di Alvaro, secondo cui l’autore avrebbe lavorato a questa commedia dal 1924 al 1935. Alvaro riprende il tema della novella del Machiavelli, Belfagor arcidiavolo, e vi aggiunge il suo problematico moralismo. Ma per comprendere meglio questa commedia bisogna tenere presente il periodo in cui fu composta, infatti, oltre alla presenza del « realismo magico » di Bontempelli, sono presenti i caratteri di « certo espressionismo teatrale assorbito dalla stesso Alvaro in Germania, direttamente o

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attraverso i canali di una polemica assai viva nel primo dopoguerra, ed anche di un teatro francese tra Giraudoux e Crommelink ».2

Nel 1939 Alvaro pubblica la sua terza opera teatrale, Caffè dei naviganti, molto apprezzata sia dal pubblico che dalla critica. In questo testo teatrale si sente molto la vicinanza con la narrativa alvariana, non solo per quanto riguarda il tema affrontato, il contrasto tra il mondo paesano e il mondo cittadino, ma anche per la struttura infatti l’autore alterna toni lirici a « manifestazioni di moralismo, di autoanalisi, di coscienza della crisi».3

Per questo motivo l’azione è ridotta al minimo. «Viene dato maggiore risalto, come riportato da Balduino nella sua opera su Corrado Alvaro, alle percezioni sensitive, alle indagini intellettualistiche sul mondo interiore e sui rapporti umani, al tentativo continuo di fondere e di capire realtà sociali ed ambientali diverse, all’alternarsi di emozioni istintive e di exploit raziocinanti ».4 I protagonisti di questa commedia sono due, un filosofo di nome Rossom, simbolo del mondo civile, che cerca un posto ameno dove poter riflettere, e Orlando, un pastore, simbolo della natura primitiva. Il luogo dove si svolge la commedia è un paese, Eraclea, abitato da pastori che, come dice Maria Letizia Cassata, « vivono senza ansie, rimpianti o nostalgia, in una condizione che non è propriamente umana, e che rimane indefinita ».5

Rossom arriverà a Eraclea con quattro donne, una delle quali è Karin, simbolo della straniera corruttrice, che instillerà il germe della civiltà in Orlando.

Ultima opera teatrale alvariana è Lunga notte di Medea, rappresentata al Teatro Nuovo di Milano l’11 luglio 1949, con la regia e l’interpretazione di Tatiana Pavlova, per la quale era stata composta, e la scenografia di Giorgio De Chirico. Con questa tragedia Alvaro affronta il tema già trattato in Caffè dei naviganti, ma « Il conflitto di civiltà di stadi diversi qui è funzionale all’azione, perché si traduce nei gesti dei personaggi principali, Medea e

2 F. Virdia, Lettura di una commedia di C. Alvaro. L’arcidiavolo cede alla donna, in « La voce repubblicana », 18 Marzo 1963.

3 A. Balduino, Corrado Alvaro, Milano, Mursia, 1972, p. 88. 4

Ibid.

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Giasone, individui di differenti culture, e, sotto tale profilo emblematici, ma non simboli, bensì creature vive che si scontrano, in modo irriducibile, in nome delle rispettive e irrinunciabili ragioni vitali ».6

1.2 La figura di Medea in Alvaro ed Euripide

La vicenda, a partire dalla tragedia di Euripide, è stata rivisitata più volte e all’interno di contesti culturali diversi: « Si va dal “demone del male” dipinto da Seneca all’amante tradita descritta da Corneille, dall’esule infelice di Franz Grillzaper alla straniera esclusa e perseguitata di Jean Anouilh e Corrado Alvaro. Fino a Pier Paolo Pasolini, che recupera la valenza mitica della vicenda riproponendo, in mutata prospettiva, le ambiguità e le contraddizioni della tragedia di Euripide. O a Christa Wolff che […] opera un intervento decisivo e rovescia i termini della questione presentando una Medea senza colpa, vittima di un ordine sociale in cui prevalgono la brutalità e la ferocia dei maschi ».7

Per comprendere meglio la visione alvariana della Medea e per mettere in luce le differenze con la Medea di Euripide, ho deciso, in questa sede, di metterle a confronto. Nella Medea di Euripide la tragedia ha inizio quando l’evento, che porterà alla vendetta di Medea, è già accaduto. La scena si svolge a Corinto, all’esterno della casa di Medea, di cui si vede la facciata. Il primo personaggio ad entrare in scena è la nutrice che, attraverso un monologo, ci mette a conoscenza dei fatti. Ella ci informa che Medea è dentro casa che si affligge dopo aver saputo della celebrazione del matrimonio tra Giasone e Creusa, figlia di Creonte. il nome di Creusa non viene mai fatto all’interno della tragedia per sottolineare che lei è solo una vittima.

Fin dall’inizio l’intento di Medea appare chiaro:

6 V. Paladino, L’opera di Corrado Alvaro, Firenze, Le Monnier, 1972, pp. 231-232.

7 M. G. Ciani, Medea variazioni sul mito, introduzione, «Tascabili Marsilio», periodico mensile n. 129/1999, p.14.

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MEDEA - E quello è giunto a tal punto di stoltezza che, mentre poteva vanificare i miei propositi, cacciandomi dal paese, mi ha concesso di rimanere ancora questo giorno: in questo giorno io renderò cadaveri tre dei miei nemici, il padre, la figlia e il mio sposo.8

La scena iniziale proposta da Alvaro è molto diversa. La tragedia si svolge sempre a Corinto, ma questa volta ci troviamo all’interno della casa di Medea e Giasone. « Centro affettivo finalmente raggiunto dai due fuggitivi, governato dall’amore, allietato dai figli Menèros e Feres. In casa tutti aspettano il ritorno di Giasone, che si è recato alla reggia di Creonte, e vi si preparano in un’atmosfera festosa che rivela l’amore, la virtù, la fedeltà di Medea ».9

MEDEA – È sempre festa, quando torna in casa Giasone. (Perseide chiude la tenda. Le due ragazze volta a volta sono di qua dalla tenda portando l’uno o l’altro indumento e parlano.)

PERSEIDE – (a M edea) Come se tornasse da un viaggio. Ed è soltanto uscito per la prima volta di sera, dopo un anno.

MEDEA – (da dentro) deve trovare tutto bello e allegro, come se venisse di lontano.10

«Già in apertura dunque la maga è riscattata in donna che ama, e che nell’amore si appaga di una vita umile e modesta, una vita qualunque, ma serena. Alvaro esprime anche in questa tragedia il suo ideale di vita fidato e domestico, e il suo culto della casa che è il luogo naturale di essa ».11

Infatti, di seguito, questo ideale viene esplicitato in un dialogo tra Medea e le sue due ancelle, Perseide e Layalè:

PERSEIDE – Tu diverrai una vera greca, Vasilissa. MEDEA – (da dentro) Come sono le greche?

LAYALÈ – Stanno a casa. Gli uomini vanno dalle loro amanti. La gioia è delle amanti. I guai e i dolori sono delle mogli.

PERSEIDE – Una moglie deve essere una moglie. Deve fare figli. Occuparsi della casa. Essere virtuosa. Medea è moglie e amante.

LAYALÈ – Che ne sai tu? Li hai spiati?

PERSEIDE – Si vede. Si capisce. La maniera per tenere fedele un uomo è di essere moglie. Un uomo avrà sempre il rimorso di offenderla.12

8 Euripide, Medea,, trad. ita. Ester Cerbo, Milano BUR Rizzoli, 2016, p. 139. 9 M. L. Cassata, Corrado Alvaro, Firenze, Le Monnier, 1974, p. 166.

10 C. Alvaro, Lunga notte di Medea, Milano, Bompiani, 1941, p. 12. 11 M. L. Cassata, Corrado Alvaro, Firenze, Le Monnier, 1974, p. 166. 12 C. Alvaro, Lunga notte di Medea, Milano, Bompiani, 1941, pp. 12 – 13.

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La trepidante attesa della moglie che aspetta il ritorno del marito, è destinata a trasformarsi in angoscia. I presagi di questo cambiamento sono visibili già dalla II scena.

La scena si apre con le ancelle che ravvivano il focolare, simbolo della famiglia e della casa. Mentre la nutrice ammonisce i figli di Medea che ancora non dormono. Proprio qui abbiamo il primo presagio funesto:

VOCE DI NOSSIDE – Mermèros, guarda come dorme il tuo fratellino. VOCE DI MERMÈROS – Perché lui ha sonno. Io invece non ho sonno. VOCE DI FERES – Ma io non dormo. Io sto pensando alla leonessa. VOCE DI NOSSIDE – Non ci sono leoni, qui.

VOCE DI FERES – Ce ne sono; ce ne sono. Sei tu che non li vedi, Nutrice.13

La leonessa a cui si riferisce Feres sembrerebbe un richiamo alla Medea di Euripide. Infatti nella parte finale di questa tragedia sarà Giasone che etichetterà così la donna, dopo che ella ha compiuto il gesto estremo, uccidere i loro figli.

GIASONE – […] Non c’è donna greca che avrebbe mai tanto osato, e a preferenze di esse pensai bene di sposare te, connubio per me odioso e funesto, te leonessa non donna, che hai un’indole più selvaggia della tirrenia Scilla.14

L’altro presagio funesto è la luna che con la sua luce inonda la stanza dei figli di Medea.

(Nel quadro della finestra, come librata in cima a un filo, si affaccia la luna piena.)

VOCE DEI RAGAZZI – (dall’interno) Nutrice è spuntata la luna! (Bussano alla porta della loro stanza)

NOSSIDE – (addossata a una parete, sbigottita tra sé) Ma che succede stasera! Che vuole in questa casa la celeste vagabonda!

Nosside rimane sbigottita da questa presenza e cerca di cacciarla via battendo oggetti di bronzo, ma tutto è inutile.

Ormai «Medea e con lei Giasone, i figli, la casa, sono predestinati: il fato incombe. E tuttavia la donna, con intensa umanità, si dibatte per superarlo e vincerlo: la sua accorata

13C. Alvaro, Lunga notte di Medea, Milano, Bompiani, 1941, p. 15. 14 Euripide, Medea, Milano, BUR Rizzoli, 2016, p. 219.

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preghiera propiziatoria alla luna non è il vaneggiare d’una maga, ma lo strazio presago di una creatura umana che vede, nel presentimento, la sua prossima rovina».15

MEDEA – (rapita) Vergine implacabile, che non perdoni a chi ti offende. Che distruggi le messi. Che fai abortire i semi del ventre della terra.

[…]

MEDEA – (implorante) Divina omicida, guarda Giasone coi tuoi occhi di gelo. Agghiaccialo. Che non rida. Che non piaccia.

[…]

MEDEA – (veggente) Ecco il Re dei Re. È ben disposto. Giasone cerca di riuscirgli gradito. Lui sa piacere. Mette a profitto la giovinezza che gli rimane. Ma io so: una ruga gli segna profonda una guancia. E i suoi occhi non sono più quelli di una volta. Sono gli occhi fermi di chi sa. Ma può ancora fingere lo slancio della giovinezza. E in cuor suo aspetta di conoscere da vicino la figlia del Re. Aspetta che ella arrivi. E sempre meglio cerca di riuscire gradito al Re. Re di Corinto! Non lo vedi che Giasone finge! Che sta calcolando tutto. Che conta i minuti. Che il suo orecchio è teso e pronto al più lieve rumore, se oda il passo di tua figlia. Perché non c’è rumore al mondo, che l’uomo avverta meglio del passo di una donna. Eccola. È Creusa!

« L’invocazione è tutta permeata di sentimenti d’amore per Giasone e dal raccapricciante avvertimento che egli sta per innamorarsi di un’altra, nella reggia di Corinto: della figlia del re, Creusa. In questo pensiero Medea coglie il suo dramma umano, il centro della sua sconfitta, nel quale si innesta la sua tragedia di esule ».16

E, poco più avanti, Nosside dice a Medea che avrebbe fatto meglio a partire. La donna risponde così:

MEDEA – […] Si parte finché si spera di fare quell’incontro che deciderà della nostra vita. Anche se tu esci per la strada della tua città, speri di fare quell’incontro. Domani, forse. E poi domani. Finché la tua sorte e ancora sospesa. Ma io, chi debbo più incontrare? La leonessa che aspetta mio figlio? Io lo feci il mio incontro, era lui Giasone. Fu la sua nave Argo. Fragile, sul mare deserto e ancora selvaggio del mio regno. Il canto dell’equipaggio. Apparve come un’isola. Lui scese per primo. E io lo vidi. Lo conobbi. Lui. Era il mio incontro. Ma poi, quando la vita è vissuta si temono gli incontri. Tutte le strade, allora, conducono verso l’ignoto. In fondo a ogni strada è quello che tu conosci. C’è il tuo nemico. Soltanto il tuo nemico ti aspetta. E me, mi aspettano. E non per festeggiare una regina che fugge coi tesori del suo regno. Ma come una donna che si può colpire nei figli, nel marito. La giovinezza indifesa è più forte della maturità esperta di ogni arte. E quando si è tagliata come me la via del ritorno, non si può fidare che sul marito. Non difenderà me? Difenderà i suoi figli. E l’ultima difesa della donna sono le creature che hanno bisogno della sua

15 M. L. Cassata, Corrado Alvaro, Firenze, Le Monnier, 1974, pp. 166 – 167. 16 Ibidem.

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protezione. Ci si rassicura pensando che egli ama i figli, e perciò avrà considerazione di noi. […]17

« La tragedia, tutta femminile, dell’abbandonata s’intreccia a quella dell’esule, che non può tornare alla sua patria e per cui nessuna patria si potrà aprire. […] Con umanissima tensione drammatica, Medea non ha cessato di sperare e, sperando, si aggrappa ai suoi figli, come all’unica ragione di vita. Con loro e per loro si salverà: la speranza è tenace ed è contro ogni evidenza. La potente maga d’una volta, non anela ormai che a trascorrere oscura, con Giasone e coi figli, il resto della sua vita, come una rifugiata. La gloria non gli interessa più: vuole dimenticarla. Unico suo pensiero è la famiglia e l’umile casa. Medea vive qui la parte essenziale del suo processo di umanizzazione, che si compie attraverso il ritorno alle ragioni semplici e univoche della vita che sono tutte simboleggiate dalla casa: sembra di rivedere una casa calabrese, centro della famiglia, da essa consacrata, la casa cara alla nostalgia di Alvaro ».18

Più avanti abbiamo il dialogo tra Medea e Creonte. In questo confronto vengono evocati tutti i delitti di Medea:

CREONTE – Suscitata la guerra civile e la strage del suo esercito.

MEDEA – Per lui perché lo amavo, e amavo in lui un mondo libero dai terrori. CREONTE – Rubato il tesoro dello Stato.

MEDEA – Per lui. Ed egli ha fatto ricca la Grecia. La Grecia degli uomini, e non dei mostri, egli mi diceva.

CREONTE – Hai ucciso tuo fratello.

MEDEA – Per lui. Per salvare lui. Perché mio padre avesse da piangere suo figlio e non ci inseguisse nella nostra fuga.

CREONTE – Hai ucciso con l’inganno lo zio di Giasone, un re.19

« La guerra civile in Colchide, lo scempio dell’esercito, il furto delle ricchezze dello Stato, l’atroce fratricidio, l’uccisione di Pelia »20

non sono sentite da Medea come dei crimini ma

17 C. Alvaro, Lunga notte di Medea, Milano, Bompiani, 1941, p. 26-27 18 M. L. Cassata, Corrado Alvaro, Firenze, Le Monnier, 1974, pp. 167 – 168. 19 C. Alvaro, Lunga notte di Medea, Milano, Bompiani, 1941, p. 52 – 53. 20 M. L. Cassata, Corrado Alvaro, Firenze, Le Monnier, 1974, p. 168.

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come degli atti d’amore. Tutte le sue azioni nefande sono state compiute per amore di Giasone, quindi la donna non si sente in colpa e non ha nessun rimpianto.

In questo scambio di battute con Creonte, Medea arriva al culmine della sua umanità quando parla dei figli. Ed è in questo passo che la donna fa un elogio alla vita familiare e all’amore paterno:

MEDEA – […] Ho due ragazzi. Essi sono nell’età in cui hanno bisogno del padre. Andiamo pure vagabondi. Ma là dove il padre pianta la sua tenda, o costruisce un muro, o si mette alla difesa del suo focolare, la è la sua patria. Là per il figlio tutto diventa grande, bello, venerando, ricco più di ogni splendido palazzo. Là egli non invidierà nulla ai potenti ma sognerà di diventare potente. Povero, quello sarà il mondo della casa paterne. Sembrerà che egli sia in lotta col padre. Si giudicherà più abile, più forte, più audace del padre. Avrà il cuore e le mani di suo padre. E un giorno, udendo la cadenza della sua voce, gli parrà di udire, nel corpo costruito da suo padre, la voce stessa del padre, come un’eco rimasta nel suo petto. Lascia il padre a questi ragazzi. Non sei padre, tu? Non hai avuto un padre, tu?21

« Sembra di sentire una popolana calabrese con le commosse parole della maga Medea. Ormai ella non supplica per sé donna, ma unicamente per sé madre: per i figli, e per loro teme, con umanissimo terrore. »22

.

Dopo la supplica di Medea a Creonte, si arriva al punto centrale della tragedia, che non è l’uccisione dei figli, ma lo spegnimento del focolare. La donna ormai è stata bandita quindi deve lasciare la sua casa. La nutrice sa che presto arriveranno due donne ammantellate a spegnere il focolare domestico, simbolo della casa e dell’intimità familiare (era il punto più intimo della casa in cui la famiglia si ritrovava).

NOSSIDE – (a Layalè) questo è essere vecchi, piccola. Sapere come si svolgerà tutto. Come si deve spegnere il focolare, e come si è banditi.

LAYALÈ – Mi fai paura. Preferisco ignorare finché è possibile. NOSSIDE – Presto lo vedrai.

LAYALÈ – Quando lo vedrò, non mi spaventerà più che immaginarlo e aspettarlo. È brutto?

NOSSIDE – No. È molto semplice. Vai dunque presto. Non perdere tempo.

21 C. Alvaro, Lunga notte di Medea, Milano, Bompiani, 1941, pp. 53 – 54. 22 M. L. Cassata, Corrado Alvaro, Firenze, Le Monnier, 1974, pp. 168 – 169.

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(Layalé si muove per uscire. Ma appena fuori, scorge due donne ammantellate dalla testa ai piedi, quasi due ombre. Layalè si ritira nuovamente in casa sbigottita.)

NOSSIDE – (comprendendo) Sono già arrivate? (Layalè fa un cenno col capo.)

NOSSIDE – (guardando fuori) Si, sono loro. LAYALÈ – E ora, che cosa faranno?

NOSSIDE – (affacciandosi, alle due ombre) È già spento il focolare. Si è spento da sé.23

La scena si conclude con le due donne che danno un calcio alle ceneri del focolare. «Nel mezzo uno scambio di battute in cui le due donne ammantellate danno voce a una crudeltà impersonale e sovrapersonale, che non è però la Necessità Naturale, bensì la legge degli uomini della polis che invocano a propri tutori gli dei e si arrogano di compiere nella norma i decreti del Fato. […] L’atto rituale non segna però la catastrofe né la trasformazione. Il fuoco era già spento. Già sapevamo che Medea era stata cacciata. Il rito, dunque, non irrompe col suo segno diverso, estraniante e irriducibile, risolutore sì ma entro una risoluzione simbolicamente inafferrabile. L’evento sta piuttosto nel fatto che già il fuoco aveva cessato, da sé. Questo è il mistero di Medea, del femminile, o meglio il mistero naturale che sta dietro alla ritualizzazione politica. […] Essa non prevede nulla nel senso meccanicamente oracolare, non è un’operatrice dell’occulto, pre-sente e sa senza sapere, come tutte le donne alvariane. La differenza fra lei e tutte le altre è che essa è custode e consapevole, sacerdotessa e vestale di questa sapienza naturale che è magica per chi ha piegato o pretende di piegare la natura entro la legge che sanziona il potere della e sulla polis. »24

A questo punto, disperata, Medea invoca gli Dei:

MEDEA – (sola verso il cielo stellato) Io ti supplico, fiamma divina, fuoco di Promèteo. Che con il tuo tocco puoi distruggere una città. Asciugare il mare. Tramutare la pietra in pane. Il fango in oro. L’oro in cibo. Fiamma onnipotente, io non ti chiedo più cose tremende. Ti chiedo una patria lontana dagli uomini,

23 C. Alvaro, Lunga notte di Medea, Milano, Bompiani, 1941, pp. 59 – 60.

24 M. I. Tancredi, Madre Medea in Alvaro uomo mediterraneo scrittore europeo, Fondazione Corrado Alvaro, Regione Calabria, Assessorato alla cultura 1997, p. 37.

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dalle contese dei re, dalle gelosie delle città, dall’invidia degli uomini. Una casa in cui io sia padrona di me e dei miei figli, e accanto un fiumicello per confine. Asciuga qualche deserta palude. Crea un angolo di terra per Medea e per i suoi figli. Superba distruttrice, che puoi schiodare dai suoi astri il cielo, questo solo ti chiedo. Fiamma portentosa dammi un focolare. È poco. Non ti ho mai chiesto tanto poco. Non rispondi più a Medea. Non puoi, tu dici. Questo può farlo soltanto l’uomo, tu dici. Gli dei hanno lasciato questo all’uomo. Gli Dei rispettano l’uomo. Sta a lui rispettarsi dello stesso rispetto degli Dei. Tu puoi distruggere. Ma vivere umanamente, può soltanto l’uomo. La festa di questa mattina può essere spazzata via e cancellata dalla terra. Oppure rabbrividire appena del dolore di Medea. Questo è buono. Questo è umano. Questo si chiama lottare […].25

Nonostante la donna sia consapevole che neanche gli Dei possano dare all’uomo ciò che in lui fa parte in modo naturale, come « la patria, la pace, la sicurezza, il focolare domestico ».26

Beni a cui solo l’uomo può dare origine. « In questo sublime momento in cui Medea sembra cogliere l’essenza del segreto della vita e della fiducia in essa, Alvaro celebra l’uomo con una intensità poetica, con un’essenzialità mai toccata con così profonda vibrazione interiore ».27

Dopo l’accorata preghiera agli Dei abbiamo l’incontro di Medea con Egeo, re di Atene. Egli passa da Corinto dopo essere stato dall’oracolo di Febo, a cui aveva chiesto di fargli avere dei figli. Il dialogo inizialmente si concentra su Egeo per poi passare a Medea. La donna, disperata, chiede protezione all’amico. Qui abbiamo un’altra differenza tra Alvaro e Euripide. Infatti nella tragedia greca Egeo promette a Medea di accoglierla ad Atene nel momento in cui lei abbandonerà Corinto:

MEDEA – […] Ma ti prego per questo mento e per le tue ginocchia, ti supplico, abbi pietà, abbi pietà di me sventurata; non permettere che io, da sola, sia cacciata via, ma accoglimi nella tua terra e in casa, presso il tuo focolare. Così per volere degli Dei possa giungere a compimento il tuo desiderio di figli e tu stesso morire felice. Tu non sai quale fortuna hai trovato qui; porrò fine alla tua sterilità e ti farò generare discendenza di figli: tali filtri io conosco.

EGEO – Per molte ragioni, o donna, sono ben disposto a concederti questo favore; dapprima per gli dei, poi per i figli, di cui prometti la nascita: è questo,

25 C. Alvaro, Lunga notte di Medea, Milano, Bompiani, 1941, pp. 64 – 65. 26 M. L. Cassata, Corrado Alvaro, Firenze, Le Monnier, 1974, p. 169. 27 Ibidem.

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infatti, lo scopo a cui rivolgo tutto me stesso. Ma questo è il mio proposito: se verrai nella mia terra, io, giusto qual sono, cercherò di ospitarti.28

L’ospitalità di Egeo, invece, viene negata alla Medea alvariana:

MEDEA – (improvvisamente ai piedi di Egeo) Giacché sei umano, giacché hai un cuore, ecco io ti supplico. Mio marito mi fa oltraggio. Abbandona la casa. Sposa la figlia di Creonte. Io e i miei figli dobbiamo abbandonare Corinto, forse prima che spunti il giorno. Siamo stati messi al bando.

EGEO – Lèvati, Medea. È triste per un uomo vedersi supplicare da una donna cui si chiese inutilmente amore.

MEDEA – (levandosi) Per i tuoi figli che dal tuo ceppo nasceranno, numerosi e sani, Egeo, abbi pietà dei miei figli. Accoglimi ad Atene coi miei due orfani. Guarda come sono disarmata. Considera come sono ridotta. Appena ti vidi il mio cuore trasalì. Capii che esiste una salvezza per i miei figli.

EGEO – (esitando) Se tu ti presenti con i tuoi figli ad Atene, non sarò io a scacciarti.

[…]

MEDEA – il più bel vanto di un regno, era quello di accogliere gli esuli dei regni vicini, invisi al re. Pur rimanendo i re in pace tra loro.

EGEO – (prendendola larga) E sai chi sono i peggiori persecutori degli esuli? Quelli che si fecero un vanto di proteggerli. E sai perché? Perché temono il nuovo occupante. E sai perché…

MEDEA – Egeo, è troppo tardi. Va’, va’ pure. Addio.29

A questo punto Medea realizza di essere rimasta sola, abbandonata non solo dagli Dei ma anche dagli amici. Inoltre i due dialoghi presentano la donna sotto luci diverse. La Medea di Euripide è molto vendicativa ed egoista. Nel suo discorso non fa alcun accenno ai figli, non si preoccupa di loro. Pensa solo a se stessa e a come poter salvare la propria vita dopo aver commesso l’atto nefando. Mentre la Medea alvariana si preoccupa per prima cosa dei propri figli, simbolo dell’amore materno. Si preoccupa di salvare l’unica cosa che le è rimasta dopo che il focolare domestico è andato distrutto.

Dopo l’incontro tra Medea e Egeo, abbiamo il dialogo tra Medea e Giasone. Anche qui l’incontro è molto diverso rispetto a quello Euripideo. In quest’ultimo è Medea che manda a chiamare Giasone. Non abbiamo uno scambio continuo di battute ma un discorso

28 Euripide, Medea, Milano, BUR Rizzoli, 2016, p. 169.

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monologico da parte di Medea. Il monologo di solito era garanzia di sincerità, ma non in questo caso, in cui il rapporto tra la maga e l’eroe è falso. Quindi Medea inganna Giasone:

MEDEA – Giasone, ti prego di essere indulgente verso quanto ho detto prima; si addice che tu subisca i miei malumori, giacché noi ci siamo scambiati molti atti d’amore. Ed io ho riflettuto tra me e me e mi sono rimproverata: «Sciagurata, perché continuo a comportarmi da folle e ad essere ostile a coloro che rettamente decidono? Perché mi sono resa nemica ai sovrani di questa terra e al mio sposo, che fa per me quanto è più vantaggioso, sposando una donna di casa reale e generando fratelli ai figli miei? Non deporrò io la mia ira? Perché mi dolgo, se gli dei dispongono bene le cose? Non ho io figli miei, e non so bene io che noi siamo esuli dalla nostra terra e siamo privi di amici?». Riflettendo su queste cose, mi sono accorta che ero assai sconsiderata e che stoltamente ero adirata. Ora dunque ti approvo e mi sembra che tu sia ben assennato per aver procurato a noi questa parentela; invece stolta sono io, che avrei dovuto prendere parte a questi tuoi intendimenti e favorirne il compimento, e assistere alle nozze e compiacermi nell’aver attenzioni per la tua sposa. Ma noi siamo quel che siamo – non dirò un malanno – siamo donne; era giusto che tu non ti uniformassi alla malvagità, né contrapponessi altre sciocchezze alle mie sciocchezze. Non insisto e riconosco che ragionavo stoltamente allora, ma adesso ho preso decisioni migliori.30

Il monologo di Medea riprende sia i discorsi di Giasone, che si trovano nel secondo episodio, che quelli di Creonte, che troviamo nel primo episodio. In questo modo la donna fa finta di accettare le loro ragioni, così che i due uomini credano nel suo pentimento e le concedano il tempo, da lei richiesto, che le servirà per mettere in atto la sua vendetta. Medea appare come una fredda calcolatrice, spinta solo dal desiderio di vendetta.

In Alvaro l’atteggiamento di Medea cambia radicalmente. Qui Giasone viene mandato dal re a parlare con la moglie. La donna, sentendo il marito che ritorna, si preoccupa del suo aspetto perché “Ogni donna si preoccupa del ricordo che lascia. Un ricordo non spettinato e con il belletto apposto”.31

« Al ritorno di Giasone in casa, prima del definitivo distacco, la tragedia si concentra di nuovo sull’amore di Medea e sul disperato tentativo di attribuire un fascino arcano alle cose domestiche »32

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30 Euripide, Medea, Milano, BUR Rizzoli, 2016, pp. 181 – 182. 31 C. Alvaro, Lunga notte di Medea, Milano, Bompiani, 1941, p. 72. 32 M. L. Cassata, Corrado Alvaro, Firenze, Le Monnier, 1974, p. 169.

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MEDEA – Io cercai di imparare diligente tutto quanto può piacere a un greco. L’amore delle piccole cose delicate e gentili. E la pietà e il sorriso, e il rispetto degli altri. E il culto delle ore, dei giorni, delle feste. Era festa, per me, quando tu tornavi a casa.33

Medea cerca di impietosire Giasone ricorrendo all’amore che ancora prova per lui, ma invano. Giasone, in Alvaro, non è più l’eroe greco che aveva guidato gli argonauti alla conquista del vello d’oro, ma ormai il potere della gloria lo ha posseduto. « È irretito nell’attrattiva della potenza politica, inesorabile, mortale, nella logica propria delle strutture terrene, che lo costringono a rinnegare il suo passato avventuroso di eroe, per scegliere l’immobilità del regno. Al miraggio del regno Giasone cede, vaneggia, delira con furia narcisistica e travolge tutto ciò che gli è stato caro e amato »34

:

GIASONE – Ma regnerò. Sarò potente. Non sarò più il ricordo di un eroe. Ma un re. Non dovrò farmi perdonare la mia presenza. Il mio passato non sarà sospetto. Sarà la gloria mia e del mio regno. Regnare, comandare sugli altri, è una voluttà grande come l’amore. È possedere tutti. Essere nel pensiero di tutti. I bambini che nasceranno dai matrimoni più fedeli, saranno chiamati con il mio nome, Giasone, in ossequio a me. Come se io dormissi in tutti i letti, con il mio popolo. Si leveranno tutti i giorni a me i pensieri di ognuno. Mi invocheranno o mi malediranno, non importa. Ma mi avranno nella mente, sulle labbra, nel cuore, almeno una volta nella loro giornata.35

Vari critici hanno notato in questa figura un certo pirandellismo. Vincenzo Paladino scrive che Giasone è « un personaggio che a prima vista può riuscire odioso, ma che, a guardarlo bene, al punto in cui si trova è prigioniero del suo stesso passato e, pirandellianamente, del ruolo di “eroe” nel quale gli altri lo hanno impagliato. Più della sua stessa ambizione è la situazione (ivi compresa la ragione di Stato) a condizionarlo univocamente e necessariamente nella scelta, anzi a precludergli, al pari di Medea, qualsiasi alternativa ».36 Armando Balduino dice che « Giasone insomma sa solo di non potere e di non voler essere “un grande destino fallito”; niente più (preghiere, minacce, ricordi del tempo felice) varrà a

33 C. Alvaro, Lunga notte di Medea, Milano, Bompiani, 1941, p. 79. 34 M. L. Cassata, Corrado Alvaro, Firenze, Le Monnier, 1974, p. 169. 35 C. Alvaro, Lunga notte di Medea, Milano, Bompiani, 1941, p. 79.

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smuoverlo, né con la “barbara” Medea, si accorgerà che in questo modo sanziona in fondo, la sua decadenza, la sua fine […]. Alla “carriera” tutto andrà sacrificato, perché solo in questo modo ogni sua colpa sarà giustificata […]. La vita dunque appare come un vicolo cieco, in cui ogni passo porta fatalmente alla meta predestinata, mentre la “parte” che l’uomo deve rappresentare non è aperta alla scelta dell’individuo, ma, pirandellianamente, imposta dalla società »37

. Walter Mauro dice che la figura di Giasone in Alvaro «diventa la vittima pirandelliana di una situazione che ne forza il carattere e il comportamento, fino a farlo apparire quello che non è e non vorrebbe essere; il senso di mistificazione si fa totale in lui e lo accompagna fedelmente per tutta l’opera, senza che alcun sobbalzo di coscienza possa determinarne una crisi interiore, vittima com’è della propria insensibilità e della parte volgare ed equivoca di piccolo eroe che si è assunta dalla leggenda »38

.

« Evidentemente Giasone non vuole più lottare, essere un grande personaggio fallito “con un grande destino mancato.” Ha l’impressione ossessiva di essere coinvolto in un’errante ed errata mediocrità. Mentre per Medea la minaccia di quanto sta per crollare sulla sua esistenza, la esorta a convincere il suo sposo alla lotta senza confini »39

:

MEDEA – ti fu rubato, il regno. Avevi cose più importanti da compiere. E chi lotta non può sedersi su un trono. Questo di te fu grande e bello. Di te, questo si ricorderà. Tu ora diventi re. Io di te avevo fatto un eroe.40

« Ma per Giasone la sua esistenza invece avrà un senso solo se sarà re altrimenti pensa di aver sacrificato la propria vita a nessuno! Quindi un’opposta e tumultuante folie de grandeur. La società impone all’individuo gli schemi della propria sopravvivenza »41.

37 A. Balduino, Corrado Alvaro, Milano, U. Mursia & C., 1972, p. 94

38 W. Mauro, Invito alla lettura di Corrado Alvaro, Milano, MURSIA, 1976, p. 142 – 143. 39 D. Cara, Alvaro, Firenze, IL CASTORO, 1968, p. 90.

40 C. Alvaro, Lunga notte di Medea, Milano, Bompiani, 1941, pp. 81 – 82. 41 D. Cara, Alvaro, Firenze, IL CASTORO, 1968, p. 90.

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Ormai per Medea non vi è « altra spinta alla sopravvivenza se non il dolore universale, barbara e infanticida per amore, con tutta la residua e feroce sfiducia nella civiltà corinzia e nel mondo »42

:

MEDEA – Non pagherai nulla. Sta sicuro. Io sì. Mia madre mi educò a guardare senza tremito i nemici sgozzati pel sacrificio. Ed eccomi corrotta con la pietà e l’amore. Il male colpisce più fortemente chi crede nel bene. Non chi è abituato a credere nel bene per comodità43.

« Medea è la vittima tipica del passaggio d’una civiltà quando la società umana, da primitiva e patriarcale ed eroica, diventa società politica retta da concetti politici »44

. Dopo l’incontro con Giasone, la donna manda i figli alla reggia con dei doni, la sua corona e il suo mantello. Tra quest’ultima scena e quella che si svolge al castello vi è un melologo, cioè un monologo nel quale i passaggi che hanno maggiore accento emotivo vengono sottolineati da un accompagnamento musicale. Qui Alvaro, attraverso le parole di Perseide, fa una riflessione sul ruolo della figura femminile nella vita di un uomo:

PERSEIDE – […] Nessuno conosce quanta forza l’uomo deve alla sua donna. S’egli trionfa, è lui. S’egli perde, è colpa della sua donna. S’egli l’abbandona, è di lei disonore e vergogna. Se ella partorisce un maschio, ci si rallegra con lui. Se lui dovesse partorire, il mondo sarebbe spopolato. Se lei dovesse combattere, farebbe meno fatica che a custodire un uomo. E la terra sarebbe tuttavia clemente45.

L’ancella di Medea dice che gli uomini non si rendono conto di quanto devono alle loro donne. Loro si attribuiscono tutti gli avvenimenti positivi dando la colpa alle donne per tutte le cose negative che accadono loro. Attraverso questa battuta, Alvaro vuole scardinare la comune forma mentis secondo la quale causa delle guerre è sempre stata la donna. L’autore « sposta e ribalta questo pensiero storico, stabilendo che le guerre furono

42

Ibidem p. 88 43

C. Alvaro, Lunga notte di Medea, Milano, Bompiani, 1941, pp. 81 – 82

44 C. Alvaro, La Pavlova e Medea in Lunga notte di Medea, Milano, Bompiani, 1941, p. 116. 45 C. Alvaro, Lunga notte di Medea, Milano, Bompiani, 1941, p. 99.

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provocate invece dagli uomini e che le vittime più colpite furono le donne »46

. Infatti Perseide alla fine dice che se la donna dovesse combattere non solo farebbe meno fatica a custodire un uomo, ma la terra sarebbe un posto clemente in quanto le donne non fanno guerre.

La diversità della Medea alvariana si trova soprattutto nel finale. Infatti abbiamo una conclusione molto diversa da quella euripidea. In Euripide la donna invia a Creusa attraverso i suoi figli la sua corona e il suo mantello che aveva precedentemente avvelenati. Quindi nel momento in cui Creusa li indossa muore, e con lei anche Creonte, che vedendo la figlia per terra le va incontro per alzarla da terra e rimane intrappolato nel maleficio. La scena in Alvaro è molto diversa. I doni di Medea non sono avvelenati, ma Creonte non si fida della maga e invita i presenti a non avvicinarsi: « “Non vi avvicinate!”, gridò il Re, “abbiate paura dei doni della fattucchiera! Non vi avvicinate! I doni di Medea sono mortali” ». Dopodiché fa allontanare la nutrice e i bambini. La scena viene raccontata alla donna dalla nutrice. Medea più volte interrompe il racconto di Nosside per sapere qual è stato il comportamento del padre, ma la nutrice non risponde ai suoi interrogativi:

MEDEA – E lui, Giasone? NOSSIDE – […]

MEDEA – E lui, il padre? NOSSIDE – […]

MEDEA – Ma lui, il padre? NOSSIDE – […]

MEDEA – Non guardava neppure i suoi figli? NOSSIDE – […]

MEDEA – E lui, il padre! NOSSIDE – […]

MEDEA – E il padre!47

Medea qui prende coscienza del fatto che Giasone ha abbandonato anche i suoi figli lasciandoli alla mercé del popolo infuriato.

46 P. Michienzi, L’autobiografia e le donne, Catanzaro, la rondine, 2013, p. 64 47 C. Alvaro, Lunga notte di Medea, Milano, Bompiani, 1941, pp. 102 – 103.

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A questo punto la donna capisce che l’unica soluzione sarebbe quella di “farli ringoiare nell’utero materno”48

, ma non potendo farlo li uccide cosicché “essi non hanno più da temere, ormai, né il padre, né la madre, né gli uomini”49

.

Qui sta la grande differenza tra Euripide e Alvaro, infatti la Medea euripidea uccideva i suoi figli per gelosia, non sopportava di essere schernita dai suoi nemici e di vedere l’antico sposo felice. Il tradimento di Giasone la porta a togliergli tutto ciò che è importante per lui. L’interpretazione che Alvaro dà di Medea è molto diversa, ce la fornisce lui stesso nell’articolo “La Pavlova e Medea”, in appendice al testo teatrale: « Medea mi è apparsa un’antenata di tante donne che hanno subito una persecuzione razziale, e di tante che, respinte dalla loro patria, vagano senza passaporto da nazione a nazione, popolano i campi di concentramento e i campi di profughi. Secondo me ella uccide i figli per non esporli alla tragedia del vagabondaggio, della persecuzione, della fame; estingue il seme d’una maledizione sociale e di razza, li uccide in qualche modo per salvarli, in uno slancio di disperato amore materno »50

.

All’uccisione dei figli corrisponderà la morte di Creusa. In Euripide la giovane fanciulla muore, insieme al padre, per mano di Medea. In Alvaro invece Creusa cade dalla torre, da cui stava osservando l’assalto della folla inferocita ai figli di Medea, mentre Creonte rimane vivo.

La giovane fanciulla « ha soltanto la comprensione e la pietà di Medea, poiché come lei viene barbaramente sacrificata da Creonte, suo padre, e disprezzata da Giasone. […] Non si suicida, no, ma la sua morte suggerisce la rinuncia a essere donna, se essere donna vuol dire entrare nel mondo di questi uomini che nei doni recati dai bambini di Medea alla reggia non possono che vedere una fattura, un delitto. Non uccisa da Medea, dunque, come dice il mito, ma da lei sola compresa e compianta. Perché Medea che sa tutto e va in fondo

48 Ibid., p. 104. 49 Ibid., p. 106. 50 Ibid., p. 116.

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al suo destino come nessun’altra donna, partecipa compassionevolmente al non voler vedere, al non voler compiersi, alla smarrimento e trasognamento della fanciulla »51

. « Solo Medea vede con tremenda lucidità il significato di tutto: la vita è pauroso mistero, il male inesorabile destino, ogni volta che gli uomini tradiscono l’amore e gli preferiscono la potenza e la gloria »52

.

1.3 Le Heroides di Ovidio come modello della Lunga notte di Medea

Un altro modello alvariano sono le “Heroides” di Ovidio. Opera epistolare scritta dall’autore latino tra il 25 e il 16 a.C. La raccolta è formata da 21 lettere d’amore o di dolore che Ovidio immagina scritte da eroine ai propri mariti o innamorati. L’opera, in distici elegiaci, si divide in due parti, le epistole da 1 a 15 sono scritte da eroine del mito greco, del mito latino e storiche, quelle dalla 16 alla 21 sono lettere scritte da tre uomini innamorati a cui rispondono le relative donne. Le epistole che presentano delle analogie con il testo alvariano sono due, VI e XII. Il destinatario in entrambe è Giasone, mentre il mittente cambia, nella VI è Ipsipile mentre nella XII è Medea.

Per il confronto tra le “Heroides” e “Lunga notte di Medea” mi sono appoggiata al saggio di Marinella Lizza Venuti, “Ovidio modello di “Lunga notte di Medea” di Corrado Alvaro”.

La Venuti individua “il primo punto di contatto” già a partire dal titolo dell’opera di Alvaro, avanzando la tesi che l’autore possa aver tratto il titolo della tragedia da un verso delle Heroides, XII epistola, in cui Medea dice di aver “trascorso in lacrime la notte, per quanto fu lunga”. « In Ovidio la lunga notte di dolore di Medea è quella che la donna trascorre prima di abbandonare la sua terra e tradire la sua famiglia per seguire Giasone, in

51 M. I. Tancredi, Madre Medea in Alvaro uomo mediterraneo scrittore europeo, Fondazione Corrado Alvaro, Regione Calabria, Assessorato alla cultura 1997, p. 38 – 39.

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Alvaro è quello che Medea vive quando viene abbandonata e tradita da Giasone per la figlia di Creonte »53

.

Un altro punto di contatto è la concezione del personaggio. Sia Alvaro che Ovidio ci presentano una donna innamorata del marito e sofferente perché lui ormai non l’ama più. Scompaiono, quindi, i caratteri tipici di Medea: la maga, la matricida per vendetta, la barbara. « La caratterizzazione del personaggio di Medea è un importante aspetto nel confronto fra Ovidio e Alvaro: Ovidio (Heroides XII) e Alvaro prendono le distanze da Euripide perché, mentre Euripide ai vv. 408 – 409 della sua tragedia accomunava Medea alle donne incapaci di nobili imprese, ma abilissime a escogitare le più grandi malvagità, Ovidio e Alvaro non insistono sulla malvagità della donna e soprattutto non dedicano spazio al progetto di vendetta e all’uccisione dei figli, che era invece centrale nella tragedia di Euripide. Mentre la Medea di Euripide progetta con freddezza la sua vendetta esaminandone a fondo le ragioni, la Medea di Ovidio, come mostra il verso conclusivo della sua lettera a Giasone, ha solo il sentore del proposito che le sta nascendo nell’animo, senza mostrarne la piena consapevolezza »54

Nescio quid certe mens mea maius agit.

Non so cos’altro di grande agita la mia mente (Heroides, v. 212)55

Anche nella Medea alvariana, come abbiamo visto prima, non vi è nulla di premeditato, ma « l’uccisione dei figli appare frutto di uno slancio repentino »56

che ella fa per salvarli dal linciaggio della folla e da una vita di stenti e fatiche, a causa dell’esilio.

Un altro punto di incontro tra le Heroides e Lunga notte di Medea lo troviamo quando, nell’epistola XII, Medea « contrappone al presente di sofferenza il racconto di tutto ciò che

53 M. L. Venuti, Ovidio modello di “Lunga notte di Medea” di Corrado Alvaro”, Carte Italiane 2 (2 – 3), 2007, p. 60.

54 Ibidem p. 61

55 Ovidio, Lettere di Eroine, trad. ita. Gianpiero Rosati , BUR, Milano, 2013, XII, p. 248

56 M. L. Venuti, Ovidio modello di “Lunga notte di Medea” di Corrado Alvaro”, Carte Italiane 2 (2 – 3), 2007, p. 61.

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ha fatto per lo sposo e lo supplica in nome di tutto questo, di aver pietà di lei e dei figli. Lo stesso procedimento è seguito da Alvaro: nelle scene conclusive del primo tempo ricorda le sue imprese; nel corso del secondo tempo Medea supplica Giasone di avere compassione di lei perché è “sola, vagabonda e straniera”. Questo tricolon, con cui Medea presenta in sintesi la sua condizione nel confronto più importante che ha con Giasone in tutto il corso del dramma, richiama il tricolon “exul inops comtempta”, con cui, in Ovidio, si apre la lettera di Medea a Giasone. »57

Interessante tra le due opere è anche come appare Medea ai greci. Nella VI epistola delle Heroides scritta da Ipsipile, « moglie greca che l’eroe ha abbandonato per sposare Medea »58

, a Giasone, « Ipsipile racconta le opere di Medea con terrore e si chiede come faccia Giasone ad avere il coraggio di abbracciarla e di dormirle accanto senza paura; questo tema viene ripreso puntualmente da Alvaro nel dialogo tra Giasone e Medea: Giasone rievoca le imprese compiute dalla maga e afferma: “ho avuto qualche volta paura che tu mi uccidessi nel sonno”. Medea rimane irrevocabilmente legata all’immagine del suo personaggio e secondo Ipsipile rappresenta la crudeltà per antonomasia:

Medeae faciunt ad scelus omne manus

Le mani di Medea sono pronte a ogni delitto (Heroides, VI, v. 128)59

Tanto che per esprimere il suo odio verso la rivale Ipsipile afferma che con Medea sarebbe stata a sua volta una “Medea” »60

:

Medeae Medea forem!

Per Medea sarei stata Medea (Heroides, VI, v. 151)61

57 Ibidem p. 61. 58 Ibidem p. 62.

59 Ovidio, Lettere di Eroine, BUR, Milano, 2013, VI, p. 154.

60 M. L. Venuti, Ovidio modello di “Lunga notte di Medea” di Corrado Alvaro”, Carte Italiane 2 (2 – 3), 2007, p. 62.

(21)

Qualcosa di simile lo troviamo anche in Alvaro quando nella scena VIII la nutrice, Nosside, e una delle ancelle, Layalè, parlando con Medea le dicono:

NOSSIDE – […] Medea non può essere che vendicativa. LAYALÈ – Superba.

NOSSIDE – Pericolosa. LAYALÈ – Prodigiosa.

NOSSIDE – Malvagia e infida.62

E poco più avanti sempre la nutrice aggiunge:

NOSSIDE – […] Tu non puoi essere altro che Medea. La misteriosa straniera.63

Nell’epistola XII è Medea che racconta tutti i suoi gesti nefandi. Ovidio in questo caso « insiste sulla responsabilità di Giasone: Medea non ha compiuto tante imprese per crudeltà, ma perché sedotta dalle parole di Giasone, ed è stata costretta a essere colpevole per il bene dell’uomo che amava. Mentre Ipsipile sfrutta il racconto dei delitti compiuti dalla maga per far si che Giasone, inorridito, la abbandoni, Medea nella sua lettera a Giasone, istituisce una stretta corrispondenza tra la situazione passata di Giasone, supplice in Colchide e la situazione di supplice a Corinto. Alvaro fa propria questa scelta: Medea spera che Giasone, memore di tutto ciò che lei ha fatto per lui, possa mostrare compassione, ma la speranza è delusa. Questo fatto permette di comprendere meglio le caratteristiche del personaggio di Giasone e dei Greci: i Greci non sono più civili dei barbari, ma solo più cinici, calcolatori, e spietati nella lotta per raggiungere i propri scopi. Giasone non ha amato Medea, ma è stato attratto da lei solo perché dominandola avrebbe rappresentato “la ferocia schernita e la barbarie umiliata.” »64

Un altro aspetto che avvicina la tragedia di Alvaro alle due lettere di Ovidio è il tema dei figli. Infatti sia Ipsipile che Medea cercano di impietosire Giasone ricordandogli i figli che

62C. Alvaro, Lunga notte di Medea, Milano, Bompiani, 1941, p. 39 – 40. 63 Ibidem p. 40.

64 M. L. Venuti, Ovidio modello di “Lunga notte di Medea” di Corrado Alvaro”, Carte Italiane 2 (2 – 3), 2007, p. 62 – 63.

(22)

lui ha avuto da loro. Alvaro riprende e sviluppa questa tematica facendone « una prova della crudeltà dei greci verso la barbara »65

:

L'ultima difesa della donna sono le creature che hanno bisogno della loro protezione. Ci si rassicura pensando che egli ama i figli e perciò avrà compassione di noi. Che cos'è questo. Nutrice? È questo essere civili? E allora è meglio il mio paese dove le donne lasciano nelle mani dell'uomo soltanto la cintura, fuggendo sui loro cavalli selvaggi.66

Inoltre Ipsilipe e Medea danno una rappresentazione di Giasone che è molto simile a quella che troviamo in Alvaro. Entrambe le donne nelle lettere lo presentano come un ingannatore. Infatti Ipsile dice, al v. 63, dell’epistola VI:

lacrimis in falsa cadentibus ora

le lacrime scorrevano sul tuo volto menzognero67

mentre Medea, nell’epistola XII, al v. 72, dice:

Orsus es infido sic prior ore loqui

per primo, con la tua bocca bugiarda, cominciasti a parlare così68

Nella Lunga notte di Medea troviamo:

MEDEA – […] in un’impresa sei veramente grande: nell’ingannare una donna!69

Il quadro che viene dato di Giasone è quello di un uomo a cui non interessa nulla della donna che ha al suo fianco, ma l’unica cosa a cui è interessato è la fama e per averla è disposto anche a cambiare moglie. Il cliché utilizzato dall’eroe è sempre lo stesso e si può evincere dal parallelismo che Medea fa, nella XII epistola, tra la sua condizione passata e quella presente della figlia di Creonte. Questa caratteristica di Giasone viene ripresa nella Lunga notte di Medea:

65 Ibidem p. 63.

66 C. Alvaro, Lunga notte di Medea, Milano, Bompiani, 1941, p. 27. 67 Ovidio, Lettere di Eroine, BUR, Milano, 2013, VI, v. 63, p. 148. 68

Ibidem, XII, v. 72, p. 240. 69

(23)

MEDEA – Lui le parla come parlava con me. […] Gli stessi gesti, le stesse parole, gli stessi sguardi di quando lui entrò in casa mia!70

Alvaro « fa di Medea e Giasone due personaggi per cui la fama diventa una condanna: Medea non può non essere vista con sospetto, come una pericolosa fattucchiera; Giasone non può essere un eroe e un re. Per Giasone la prigione della fama significherà l’impossibilità di vivere con Medea nell’anonimato: Giasone si sente “condannato” ad essere re ed eroe »71

. Per questo alla richiesta di Medea di vivere nell’anonimato, lui risponderà:

GIASONE – Vi sono situazioni in cui diventa un'offesa non comandare e non regnare. [...] Non tutti possono passare umili nella vita.

La potenza è come il male. Compiuto il primo atto, altri devono seguire. Ti spingono in alto, per forza.72

Ipsilipe nelle Heroides « afferma che Medea è di ostacolo alla gloria di Giasone […]. Giasone, separandosi da Medea, gioverebbe perciò alla sua gloria. L’affermazione di Ipsipile è ripresa puntualmente da Alvaro, che la fa fare a Medea e per uno scopo ben diverso, cioè per dimostrare che Giasone per giovare alla sua gloria deve restare con lei »73

:

MEDEA – […] Giasone senza Medea non è che la metà di un canto di gloria74

Ma alla fine del dramma Giasone avrà la sua gloria, mentre Medea pagherà le conseguenze di tutto quello che accadrà.

Un altro aspetto importante è che in Ovidio l’amore di Medea per Giasone è legato alla perdita da parte della donna dei poteri magici. Infatti la donna è destinata a perdere i poteri nel momento in cui perde l’eroe. « Questo tema è centrale nell’opera di Alvaro che afferma che “il personaggio di

70 C. Alvaro, Lunga notte di Medea, Milano, Bompiani, 1941, p. 25.

71 M. L. Venuti, Ovidio modello di “Lunga notte di Medea” di Corrado Alvaro”, Carte Italiane 2 (2 – 3), 2007, p. 64.

72 C. Alvaro, Lunga notte di Medea, Milano, Bompiani, 1941, p. 78.

73 M. L. Venuti, Ovidio modello di “Lunga notte di Medea” di Corrado Alvaro”, Carte Italiane 2 (2 – 3), 2007, p. 64.

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Medea usciva dal mio lavoro molto umanizzato. […] Per me la potenza magica di Medea, la sua facoltà di operare portenti era contenuta nell’amore”. A questo proposito nel testo di Alvaro si possono individuare richiami testuali più precisi al testo di Ovidio: in Ovidio, Medea afferma che i suoi rimedi sono più utili a chiunque che a lei; in Alvaro la nutrice dice di Medea »75:

NOSSIDE – Certo, ella può tanto. Ma non per sé.76

Da questo confronto tra il testo alvariano e quello Ovidiano si può desumere che le Heroides hanno influenzato alcune scelte dell’autore. Alvaro umanizza, più di Ovidio, Medea e « questa lettura che Alvaro propone del mito di Medea, unita alla scelta di fare delle antiche figure mitiche dei personaggi profondamente umani appare sicuramente suggestiva, ma solo un confronto attento con i modelli permette di comprendere pienamente come avvengano, in Alvaro, la selezione degli aspetti del mito funzionali al messaggio da trasmettere e la loro attualizzazione »77

. -

75 M. L. Venuti, Ovidio modello di “Lunga notte di Medea” di Corrado Alvaro”, Carte Italiane 2 (2 – 3), 2007, p. 65.

76 C. Alvaro, Lunga notte di Medea, Milano, Bompiani, 1941, p. 47.

77 M. L. Venuti, Ovidio modello di “Lunga notte di Medea” di Corrado Alvaro”, Carte Italiane 2 (2 – 3), 2007, p. 66

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