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Cap. 4 – La quadreria di palazzo Conti
Nel panorama del collezionismo lucchese la quadreria di Stefano Conti 1 si pone in una posizione di eccellenza per la presenza al suo interno di quadri realizzati da alcuni dei principali pittori bolognesi e veneti attivi tra Sei e Settecento.
Un contributo fondamentale alla conoscenza di questa collezione è da attribuire a Francis Haskell. Nel saggio intitolato Stefano Conti, Patron of Canaletto and
others, pubblicato nel 1956, l’autore concentra la sua attenzione sul ritrovamento
di una copia manoscritta settecentesca conservata presso la Biblioteca Statale di Lucca contenente le registrazioni e i carteggi originali relativi ai quadri della collezione. Attraverso di essa si è reso possibile ricostruire le fasi formative della raccolta, una prima, conclusa in pochi anni all’inizio del Settecento, e una più tarda, di accrescimento, databile alla seconda metà del terzo decennio. Questa seconda fase, a cui Haskell dedica un particolare approfondimento, rappresenta il momento in cui il Conti arricchisce e aggiorna la collezione in senso “moderno” attraverso l’acquisto di quadri realizzati da pittori come Canaletto, Marco Ricci, Rosalba Carriera, Giuseppe Maria Crespi. Nel 1963 lo storico dell’arte inglese ritorna sull’argomento pubblicando il volume Patron and Painters. A study in the
Relations between Italian Art and Society in the Age of the Baroque, edizione
tradotta in italiano con il titolo Mecenati e pittori. Studio sui rapporti tra arte e
società italiana nell’età barocca. Il suo intervento è finalizzato a ricostruire la
storia del gusto e del collezionismo in Italia durante l’epoca barocca. In questa occasione egli inserisce la galleria di Stefano Conti tra gli esempi di mecenatismo che si manifestano in ambito provinciale.
1
Stefano Conti proviene da una famiglia di origine milanese presente a Lucca fin dalla seconda metà del Cinquecento. Suo padre, Giovanni, entrò a far parte della nobiltà lucchese nel 1630, uno dei pochi esempi di nobilitazione in una Repubblica oligarchica nella quale le aggregazioni al patriziato, o per meglio dire alla cittadinanza originaria, sono rarissime, a quanto pare soltanto dodici dal 1628, anno della redazione del Libro d’oro, fino alla metà del Settecento. Stefano, nato nel 1654, fu un abile uomo d’affari raggiungendo un’ottima posizione finanziaria con il commercio della lana e della seta. Si sposò nel 1685 e morì nel 1739 all’età di 85 anni, dopo aver visto morire la moglie e l’unico figlio. Cfr. Haskell 1956, p. 235; Zava Boccazzi 1990, p. 109; Migliorini 2007, p. 259; Betti 2005, p. 113.
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All’incirca un trentennio più tardi, Zava Boccazzi con il saggio I veneti della
Galleria Conti pone al centro dell’attenzione le pitture che componevano la
primitiva fase della galleria, terminata attorno al 1707.
Questa fase era stata discussa già in precedenza da Haskell che nell’occasione si era limitato ad indicare le commissioni dei quadri avvenute tramite l’intermediazione del pittore Alessandro Marchesini con il quale Stefano Conti teneva un’assidua corrispondenza in modo da essere aggiornato sull’attività giornaliera dei pittori incaricati ad eseguire i suoi quadri.
Le opere attribuite ai vari artisti come Marchesini, Lazzarini, Balestra, Fumiani, Bellucci, Angiolo Trevisani, Segala, Dal Sole e Franceschini, secondo il giudizio di Haskell dovevano dare alla galleria “un’aria spiccatamente accademica”. Gli artisti erano difatti “tutti contemporanei, e si conformavano per lo più a un disegno corretto e a un gusto per toni chiari, opponendosi in tal modo ai violenti tenebrosi che tanto successo avevano avuto a Venezia”.2
A differenza del suo predecessore, la studiosa affronta la questione in maniera approfondita analizzando i quadri eseguiti dagli artisti, il loro modo di procedere nello svolgimento dei lavori, i contatti che il committente teneva direttamente con i pittori oppure tramite l’intermediazione del Marchesini. Questi ultimi implicavano il raggiungimento di un accordo sul prezzo d’acquisto, le indicazioni sui tempi di realizzazione, la richiesta di attestati che dovevano essere emessi dagli artisti come certificato di autenticità delle opere. In essi la descrizione puntuale delle tele era accompagnata da altre informazioni relative al formato, alle dimensioni, al numero e alle proporzioni delle figure, nonché ai tempi di esecuzione e di consegna.
La studiosa si avvalse della fonte archivistica più diretta, cioè dei testi manoscritti originali che si conservano presso l’Autografoteca Campori della Biblioteca Estense di Modena.3
2 Haskell 1963, p. 235.
3 Come ricorda Zava Boccazzi pare che il Conti avesse raccolto in un unico volume (o “Libro”)
tutta la corrispondenza e gli attestati sulle opere della propria galleria in previsione di una pubblicazione (mai realizzata) e per questo motivo diede l’incarico di far ricavare la copia settecentesca, attualmente conservata nella Biblioteca Statale di Lucca. Cfr. Zava Boccazzi 1990, pp. 109-110.
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Un diverso approccio, invece, è riscontrabile negli interventi di Paola Betti e successivamente di Giuliana Marcolini. Sul finire del secolo scorso, come vedremo più avanti, entrambe giungono a identificare con argomentazioni dettagliate e persuasive alcune opere appartenute alla collezione Conti che attualmente si conservano all’interno di musei e collezioni private.
Dopo questa breve parentesi introduttiva, prendiamo in considerazione alcuni aspetti riguardanti la formazione della collezione.
Il primo documento a cui Haskell fa esplicito riferimento riguarda il testamento di Stefano Conti, datato 1739, dal quale traspare un’attenzione particolare per la tutela del proprio patrimonio. Un intero paragrafo viene dedicato alla collezione di pitture, molte delle quali sono state dipinte appositamente per lui, “tanto in
Venezia, quanto a Bologna da i Primi Pittori del nostro secolo”. La sua maggiore
preoccupazione è la possibilità che le opere fossero alienate. Per questa ragione richiede agli eredi di non disperdere la collezione dopo la sua morte, mantenendola “in casa per decoro della medesima e per memoria di me”. Ricorda a questo proposito di essersi rifiutato di vendere le opere nonostante le numerose offerte provenienti da acquirenti disposti a pagarle ad un prezzo maggiore rispetto a quello che lui aveva pagato.4
Per quanto riguarda i rapporti con gli artisti, Conti concedeva ad essi una certa libertà nella scelta dei soggetti, pur pretendendo che il quadro fosse dipinto esclusivamente per lui, sulla base di un’invenzione originale. Come si è detto il Conti richiedeva espressamente agli artisti un attestato che certificasse l’autenticità delle opere.
4 ASLu, Archivio Notarile, Ser Marc’Antonio Rinaldi, Testamento segreto di Stefano Conti, 11
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Sulla base di queste considerazioni potrebbe sembrare che il mercante lucchese ordinasse i dipinti pensando ad essi in termini economici, come forma d’investimento. Il Martini, nel brano in cui descrive la quadreria di Stefano Conti, ci conferma la particolare attenzione del committente nei confronti dei dipinti ricordando che questi, “per il timore di essere imbrogliato con i dipinti antichi e
di vedersi propinare copie al posto degli originali, ha raccolto una notevole collezione di maestri moderni, che hanno dovuto attestare di avere eseguito quelle pitture e di aver ricevuto un determinato prezzo”.5 Si tratta dunque di una mossa preventiva onde evitare di ricevere pessime sorprese al momento della compera. La quadreria era stata allestita in una galleria che venne costruita all’interno del Palazzo di famiglia (ora di proprietà Boccella),6 ubicato sulla via Pubblica della Pantera, attuale via Fillungo (fig. 47).7
L’attività collezionistica del Conti ebbe inizio alla fine del 1704 a seguito di un viaggio d’affari che intraprese nelle città di Bologna e Venezia, da dove provengono la maggior parte dei dipinti che compongono la collezione. La scelta è riconducibile al fatto che “la mancanza di artisti di talento nella sua città natale costrinse anche lui a cercarli altrove, limitando però la sua ricerca a Bologna e Venezia, dove si procurò, un po’ per caso e un po’ di proposito, opere di Crespi, di Sebastiano Ricci, di Canaletto e di altri insigni artisti del Settecento”.8
5
Martini (1727-1744) 1969, pp. 133-134. Cfr. Ambrosini 2006, p. 230.
6 Un elenco dei quadri di Palazzo Conti “alla Pantera” è riportato all’interno di un quadernetto
rubricato, datato 1768, conservato nelle carte della famiglia Guinigi (ASLu, Archivio Guinigi, 295,
Nota dei quadri esistenti nelle chiese e nelle case di Lucca, elencate alfabeticamente , 1768 (?), cc.
108-116) dove sono descritte le opere pittoriche più importanti conservate nelle chiese e nelle collezioni private lucchesi. La Nota riguardante i Quadri del Sig[no]re Stefano Conti elenca i nomi degli artisti e le rispettive opere, in alcuni casi, accompagnate dal valore di acquisto. Il documento è riportato per intero al numero 11 dell’Appendice Documentaria.
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In origine il palazzo apparteneva alla famiglia Micheli e rimase di sua proprietà fino al 1662, quando Michele di Girolamo Micheli, per far fronte ai propri debiti, fu costretto a vendere l’immobile a Paolo, Camillo e Benedetto di Stefano Gualanducci. Gli eredi della famiglia Gualanducci mantennero la proprietà sino alla metà del XVIII secolo quando, a seguito del loro fallimento, il palazzo venne acquistato dai Conti che si aggiudicarono l’immobile ad un’asta nel 1753 per la somma di 5.300 scudi. Fallirono dopo poco anche i Conti e la proprietà passò così nel 1798 ai loro discendenti, i marchesi Boccella. Cfr. Mansi 2006, p. 344.
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I primi incarichi furono conferiti direttamente dal Conti durante i suoi soggiorni a Venezia e a Bologna, quando ebbe l’occasione di visitare le botteghe degli artisti più importanti. Successivamente, a seguito dell’incontro con il pittore veronese Alessandro Marchesini che incaricò dell’esecuzione di ben undici quadri e nello stesso tempo nominò suo agente ed intermediario, i contatti con gli artisti avvennero per via indiretta. Il ruolo che il Marchesini assolveva era quello di tenere i rapporti con gli artisti incaricati di eseguire i dipinti, e questo implicava sollecitare i pittori che si attardavano a completare i dipinti, scrivere con regolarità al Conti per tenerlo informato sull’andamento dei lavori, provvedere ai pagamenti per conto del committente, suggerire i nomi di nuovi artisti e persino proporre delle modifiche alle opere di maestri affermati. La scelta del pittore veronese è motivata dal fatto che questi viveva a Venezia ma aveva compiuto la propria formazione artistica a Bologna, alla scuola di Carlo Cignani. Questo gli permetteva di conoscere l’ambiente in cui si trovava a svolgere le sue funzioni.9
Secondo Zava Boccazzi “nel Marchesini […] si stabilisce il vero centro promotore e organizzativo di tutta una rete di interessi e di relazioni”, che conducono ad assicurare al nucleo dei dipinti una fisionomia specifica coerente. È lecito pensare che “egli assolvesse ai suoi compiti non senza proprie, coerenti scelte culturali, rivolte non solo ai pittori veneti di tendenza più bolognesizzante, ma anche ai pittori bolognesi: è infatti con la mediazione, se non con la promozione del Marchesini che viene a operare per il Conti sia il trio veneziano Lazzarini-Bellucci-Balestra, sia il trio bolognese dal Sole-Franceschini-Torelli”.10 La collezione si caratterizza per l’alto numero di opere della scuola veneta, ben 76, di vario soggetto, dalla storia, al paesaggio, alla veduta, al ritratto, fino alle pitture di animali e di battaglie.
9 Haskell 1996, p. 235. Cfr. Zava Boccazzi 1990, p. 110. 10 Zava Boccazzi 1990, p. 111.
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Al maestro veronese Alessandro Marchesini viene riconosciuto il ruolo di protagonista come pittore, visto che domina quantitativamente tra i quadri di storia, dei quali ben 14 sono suoi (11 commissionati dal Conti e tre da questi successivamente acquistati).
L’esecuzione degli undici quadri si protrasse per due anni. I primi due lavori furono terminati nel 1705 mentre entro la fine del 1706 va datata la serie dei
Quattro Elementi e, probabilmente, anche i due pendants, raffiguranti Fetonte che chiede ad Apollo il carro del sole, e di Diana e le sue ninfe. Il pittore si preoccupò
di descrivere i soggetti dei dipinti in due missive inviate al Conti nel 1706. Nell’attestato conclusivo non datato ma, come precisa Zava Boccazzi “dovette essere corrisposto come quelli degli altri pittori entro la primavera del 1707”, è presente la descrizione dei rimanenti cinque dipinti degli undici commissionati: un
Giudizio di Paride in coppia con Atalanta e Ippomene e tre soggetti religiosi, un Transito di San Giuseppe (Vicopelago, Lucca, villa Bernardini) (fig. 48), la Deposizione nel sepolcro, un Noli me tangere. Nel documento non si specificano
le misure dei dipinti e solamente per il pendant di Apollo e di Diana si dichiara espressamente che si tratta di “due quadri grandi Istoriatti”. In esso il Marchesini mette in evidenza alcuni dipinti (I Quattro Elementi, Apollo, e Diana) erano accompagnati da “una mia notacione per delucidare il mio pensiero espresso”. Come indica la studiosa, “tali spiegazioni rispondevano ad una necessità spesso avvertita dal collezionismo del tempo per la più conveniente lettura di allegorie o “historie” intricate, dense di figure e di possibili significazioni”. Allo stato attuale delle ricerche le tele suddette, ad eccezione del Transito di San Giuseppe, risultano perdute oppure non note.11
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Le restanti tre tele furono realizzate nel 1708. In origine esse erano destinate ad un altro committente ma, successivamente, furono acquistate dal Conti. 12 Si tratta di tre invenzioni, oggi le più note del Marchesini, due storie del Nuovo Testamento (Il sogno di San Giuseppe, Noli me tangere), ed una storia di Enea (Enea e
Didone) (figg. 49-51), conservate nella villa Bernardini a Vicopelago.
Al genere dei quadri “Historiati” appartengono le opere eseguite da questi artisti del “trio” veneziano e del “trio” bolognese.
A Gregorio Lazzarini, che secondo il suo biografo Vincenzo Da Canal “non
tendeva alla veneta maniera ma piuttosto alla bolognese come quella che per lo più è finita con esattezza e per lo disegno assai studiosa” appartengono sette quadri dipinti tra il 1705 e il 1706. Puntualmente descritti dal pittore stesso nei suoi attestati raffigurano: Mosè che fa scaturire l’acqua dalla pietra (Lucca, Museo Nazionale di Palazzo Mansi) (fig. 52) il Servo d’Abramo che porge le
gioie a Rebecca con uomini, donne e putti; una Santa Cecilia; il Riposo della S[antissi]ma Vergine che va in Egitto con San Giuseppe e diversi Angeletti
(Potsdam-Sanssouci, Bildergalerie) (fig. 53); un Angelica e Medoro con puttino (Potsdam-Sanssouci, Neues Palais) (fig. 54); una testa della S[antissi]ma Vergine con un libro in mano ed una testa del Signore giovinetto che da la benedizione.13 Antonio Bellucci realizza quattro quadri in tela, consegnati a Stefano Conti nell’aprile del 1706: il Tempo fermato dalla Virtù e il Genio che lo spenna con il Vizio oppresso sotto i piedi (Roma, collezione privata) (fig. 55), Venere con
Vulcano che gli mostra l’arme fabbricate e Amorini, Venere che prega Adone di
non partire con Amorino (Venezia, collezione privata) (fig. 56), Santa Rosalia che guardandosi allo specchio vede Cristo crocifisso.
12 In origine i tre quadri furono commissionati al Marchesini dal fiorentino Federico Antonio
Sardini. Per l’improvvisa morte del committente i dipinti furono acquistati da Stefano Conti, dopo le ripetute insistenze del pittore veronese intenzionato a vendergli direttamente le opere. Il mercante lucchese però concluse la compravendita con la vedova Rosa Sardini attraverso l’intermediazione di Domenico Brugieri che fu incaricato di effettuare il pagamento di 114 scudi. Cfr. Zava Boccazzi 1990, p. 120.
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Per ultimo, Antonio Balestra porta a termine cinque quadri tra il luglio del 1705 e l’agosto del 1706: il Ritrovamento di Mosè bambino nel fiume (già mercato antiquario) (fig. 57), Giacobbe che si pacifica con Laban suo suocero, la Natività
di Nostro Signore con San Giuseppe, pastori e pastorelle (fig. 58)
(Potsdam-Sanssouci, Bildergalerie), Giunone che cava gli occhi ad Argo e li mette alla coda del Pavone (Venezia, collezione privata) (fig. 59), l’Aurora che parte da Tritone con puttini (Venezia, collezione privata) (fig. 60).
Nell’attestato rilasciato al committente il pittore dichiara espressamente che i dipinti sono “di mia invenzione e di mia mano”.14
Se il contributo alla galleria Conti da parte dei figuristi veneziani appare cospicuo, diverso è l’apporto dei pittori bolognesi che si limita ad un quadro per ciascuno ed appare documentato soltanto dalle loro descrizioni.
Il quadro di Marc’Antonio Franceschini è da identificarsi in una “Pastorale” eseguita nel 1706, a Giovan Gioseffo del Sole appartiene lo Svenimento di Giulia terminato nel giugno del 1706, mentre Felice Torelli realizza il dipinto rappresentante il Sacrificio di Polissena iniziato alla fine del 1705.15
Se l’intermediazione del Marchesini è riconosciuta per le opere del “trio” veneziano Lazzarini-Bellucci-Balestra, e dei tre bolognesi sopra menzionati, l’intervento diretto di Stefano Conti riguarda le commissioni affidate agli altri figuristi del gruppo veneziano rappresentato da Trevisani, Segala e Fumiani. Le dichiarazioni del Trevisani e del Segala, rilasciate rispettivamente il 29 giugno e il 9 luglio 1707, ci informano che i due artisti consegnarono personalmente al Conti un quadro ciascuno nel dicembre 1704. Il Trevisani provvide al secondo invio nell’ottobre dell’anno seguente. I due dipinti rappresentano le prime acquisizioni del collezionista toscano.
L’opera di Giovanni Segala raffigurava Sansone e Dalila (Vicopelago, villa Bernardini) (fig. 61), mentre le tele di Angelo Trevisani rappresentavano uno l’Idolatria di Salomone (Bassano del Grappa, collezione privata) (fig. 62) e l’altro un San Sebastiano (Londra, mercato antiquario) (fig. 63).
14 Ibidem, pp. 113-116, 141. 15 Zava Boccazzi 1990, pp. 122-124.
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Il pittore Giovanni Antonio Fumiani “si distingue per una sua particolare direzione classicista”.
Egli realizza quattro quadri in due pendants, datati tra l’autunno del 1705 e la primavera del 1707. Il primo pendant era formato dagli episodi dell’Antico Testamento di Mosè e le figlie di Raguel, e del Sacrificio della figlia di Jefte, quest’ultimo conservato a Ro Ferrarese nella collezione Sgarbi (fig. 64) consegnati rispettivamente nel novembre 1705 e nel febbraio 1706; il secondo pendant comprendeva due scene evangeliche, Presentazione al tempio e Disputa
di Gesù tra i dottori, quest’ultimo si trova a Northampton, nella Northampton Art
Gallery (fig. 65), consegnati nell’agosto 1706 e nell’aprile 1707.16
Dalle informazioni fin qui raccolte risulta evidente come il gruppo dei quadri di figura o “istoriati” occupasse una posizione di spicco nella collezione al termine della sua prima fase di realizzazione.
Per Zava Boccazzi questo aspetto è riconducibile a “quel principio gerarchico dei generi, cui dovette essere sensibile il gusto del collezionista lucchese” interessato anche alle “manifestazioni pittoriche più varie, degli altri generi, a quei tempi considerati minori, ma che avrebbero conferito alla raccolta un carattere di documentazione antologica in senso specialistico della pittura veneziana contemporanea. Il Conti si rivolse quindi a pittori di diverso orientamento, più o meno noti, o meglio la cui notorietà si è più o meno mantenuta fino ai nostri giorni.” 17
Alla pittura di paesaggio appartengono le opere di Lodovico Lamberti. Si tratta di quattro paesaggini in ovale con “rustiche figurine picciole” acquistati dal Conti nel 1705 quando si trovò ad abitare a Venezia, secondo quanto dichiarato nell’attestazione del 25 giugno 1707. 18
Ad esse si aggiungono “tre quadri piccoli
di paesi in tela” del pittore Francesco Bassi detto il Cremonese, consegnati a
Venezia nel 1706.19 16 Ibidem, pp. 117-119. 17 Zava Boccazzi 1990, p. 126. 18 Ibidem, pp. 127, 138. 19 Ibidem, pp. 128, 149.
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Inoltre, ad incrementare la pittura di paesaggio contribuirono le vedute della città di Venezia realizzate dal pennello di Luca Carlevarijs che il mercante lucchese acquistò in occasione delle sue prolungate dimore nella città lagunare durante il 1706.
Le tre prospettive dipinte dal maestro friulano tra l’aprile e l’agosto di quell’anno mostravano la Piazzetta verso la torre dell’orologio vista dal molo, la seconda, la
Veduta della Riva degli Schiavoni a Venezia (Lucca, Museo Nazionale di Palazzo
Mansi) (fig. 66), la terza, suo pendant, la Veduta di San Giorgio Maggiore a
Venezia (collezione privata) (fig. 67).20
Nell’ambito della ritrattistica il Conti si rivolse ad “un professionista di chiara e consolidata fama”, Sebastiano Bombelli, al quale richiese di eseguire il proprio ritratto del committente, quello della moglie e quello del figlio. A questi si aggiunse un volto del Salvatore. Le opere risalgono al gennaio 1706.21
L’attenzione del mercante lucchese si rivolse poi ad un secondo ritrattista, Nicolò Cassana, conosciuto per i suoi “ritratti di genere”, rivolti a gente comune di ignota identità. Per il Conti l’artista dipinse due ritratti femminili di “mezze figure” tra il giugno e l’agosto del 1706, una “mascherina vestita alla forlana” e una “giovane con un faciolo in capo di setta piancha come una volta si praticava”.22
La collezione ospitava anche diversi dipinti che rappresentavano frutti ed animali. Si tratta di opere commissionate al fratello di Nicolò, l’abate Giovanni Agostino Cassana, il quale realizzò sette quadri in tela datati 1706 e descritti in maniera dettagliata negli attestati rilasciati dall’artista.23
20 Ibidem, pp. 128, 143-144. 21 Ibidem, pp. 128, 144. 22 Zava Boccazzi 1990, pp. 129, 143. 23 Ibidem, pp. 129-130, 143-144.
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Tra i nomi degli altri maestri veneziani considerati di livello inferiore ricordiamo: Tommaso Formenti al quale vengono commissionati due “quadretti” raffiguranti le due stagioni, la Primavera e l’Autunno, entrambi datati 1706 24, e Ferdinando Chieni che nel maggio del 1706 consegna al Conti due quadretti di battaglie, un
Diluvio universale e un’Arca di Noè.25
A completare la galleria troviamo le uniche due sculture commissionate all’artista bolognese Giuseppe Mazza, i busti di Diana ed Endimione.26
In meno di tre anni Stefano Conti aveva rimediato un numero cospicuo di dipinti, che offrivano un panorama assai articolato della pittura veneziana del suo tempo. Alcuni acquisti occasionali effettuati dal committente attraverso vari intermediari produssero poi “un’alterazione di quel principio di contemporaneità nelle manifestazioni di pittura collettiva che fino a quel momento aveva caratterizzato la raccolta.”
Nel 1708 egli acquista un Concerto del lucchese Pietro Paolini, che dovette introdurvi “una nota di crudo realismo seicentesco”, e un San Francesco ed un
San Bruno di Luca Cambiaso. Nel settembre 1713 entra a far parte della collezione un grande dipinto, il Riposo nella fuga in Egitto, del Guercino a cui farà seguito l’anno seguente il Cristo nell’orto del Correggio. Nel 1718 fu acquistato un Caino e Abele, con Padre Eterno e angeli (Vicopelago, villa Bernardini) dell’artista locale Domenico Brugieri (vedi fig. 227).
Improvvisamente il Conti cominciò di nuovo a commissionare opere. Le prime commissioni avvennero nel 1725, a distanza di quasi un ventennio dalla prima fase della raccolta. Dopo un lungo intervallo si rivolse nuovamente al suo agente di fiducia Alessandro Marchesini che fu incaricato di procurargli a Venezia due vedute “da accompagnare” quelle del Carlevarijs e un paesaggio “per compagno del Cremonese”.
24 Ibidem, pp. 126, 138. 25 Ibidem, pp. 127, 139. 26 Ibidem, p. 126.
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Nella missiva datata 14 luglio 1725, il Marchesini informa il Conti come a Venezia la situazione fosse mutata: il Carlevarijs ormai era vecchio mentre il Cremonese era divenuto cieco ed al loro posto c’erano il “Sig[no]r[e] Ant[onio]
Canale, che fa in questo paese stordire universalmente ognuno che vede Le sue opere, che consiste sul ordine di Carlevari ma vi si vede Lucer entro il Sole, sicchè questo è mio amico che appoggerò le due opere […]” e “un virtuoss[sissim]o Pittore Paesista, che le sue opere sono in grandiss[i]ma stima qui, e in Londra […] ed è pittore di molto prezzo, ma una maniera assai terminata […] è meraviglioso per far vedute, e bizzarri site di fabbriche al gusto di Puscin con colorito spiritoso, e Lucido, che incanta il primo che divise sopra..” 27
Seguendo le indicazioni del Marchesini, il Conti commissionò i suoi primi due dipinti a Canaletto, rimanendone tanto soddisfatto da chiedergliene altri due, grazie anche all’intervento di suo figlio Giovanni Angelo, allora in visita a Venezia.
Le prime due opere furono iniziate nell’agosto del 1725. Si tratta di Vedute del
Canal Grande in prossimità del ponte di Rialto (figg. 68-69) mentre i due
successivi dipinti, eseguiti nel 1726, rappresentano uno la Veduta dei Santi
Giovanni e Paolo (fig. 70) e l’altro la Veduta della chiesa di Santa Maria della Carità (fig. 71). I quattro dipinti sono attualmente conservati nella Pinacoteca
Giovanni e Marella Agnelli al Lingotto di Torino.
Sempre nell’estate del 1725 Marco Ricci fu incaricato di eseguire cinque piccoli paesaggi con rovine e figure, due dei quali con la partecipazione dello zio Sebastiano che si preoccupò di dipingere le figure. Allo stesso anno appartengono altre opere, quattro tele floreali del pittore Mario dei Fiori, ed un ritratto di sua nuora Emmanuela realizzato dalla ritrattista Rosalba Carriera. Tre anni dopo, nel 1728, il mercante lucchese si rivolse a Giovanni Maria Crespi, “lo Spagnuolo”.
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Il Conti prese direttamente i contatti con il pittore, all’inizio con qualche difficoltà, come sottolinea Haskell, “visto che Crespi precisava con una certa arroganza di aver sempre avuto contratti scritti precisi con Sua Altez[z]a il Gran
Prencipe Ferdinando Defonto, con Sua Santita Defonta, con il principe Eugenio di Savoja mio Prne, di cui sono attual serv[ito]re”.
Una volta che le cose furono sistemate in modo soddisfacente, Crespi scrisse una lunga lettera per descrivere il soggetto prescelto, “Giove bambino consegnato da
Cibele ai Coribanti” accludendo uno schizzo “per un Embrione”. Nell’aprile 1729
il quadro venne spedito e per l’occasione gli fu cambiato il titolo in “Il
ritrovamento di Mosè”. Un cambiamento era motivato dal fatto che “i dipinti sacri
pagavano una tassa doganale più bassa di quelli a soggetto profano.”
Secondo l’opinione di Haskell “il piccolo gruppo di opere di Crespi, di Canaletto, di Marco e Sebastiano Ricci, inconfondibili per il brio nervoso della pennellata e i contrasti drammatici di luce e ombra, doveva apparire stranamente isolato nella collezione di Conti, composta di dipinti per lo più vecchia maniera, ed egli non fece nulla per accrescerne il numero.”
Ricollegandosi a questo aspetto lo studioso aggiunge una critica nei confronti delle scelte di Conti e ribadisce che “i suoi gusti non furono mai molto audaci, e sua maggior cura era, a quel che sembra, riempire la galleria di opere accreditate”.28
Alla morte di Stefano Conti l’intera eredità viene trasmessa in maniera paritaria direttamente ai nipoti Giovan Stefano, Carlo e Giuseppe Maria Conti, essendo premorto il padre Giovanni Angelo. Prima di vestire l’abito della Compagnia di Gesù, Giuseppe Maria Conti rinuncerà alla sua parte in favore del primogenito, sottoponendo tutti i beni ceduti a vincolo di fedecommesso. Il documento che attesta la suddivisione ereditaria è l’inventario redatto da Ser Giovanni Gaetano Ghivizzani il 12 settembre 1750. Paola Betti riconosce che si tratta di un documento importante perché “ci fornisce una serie di preziose notizie riguardo alle integrazioni che Conti dovette apportare alla quadreria dal momento in cui si interrompe la sua corrispondenza, nel 1729, fino all’anno della morte.
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Apprendiamo così che nel quarto decennio del Settecento la galleria viene incrementata mediante l’acquisizione di altre opere, in prevalenza di scuola lucchese, del Paolini, di Ippolito Sani, di Francesco e Simone del Tintore e del fiesolano Giovan Domenico Ferrucci, mentre altre tele menzionate nell’elenco non vengono accompagnate dal nome del relativo autore.” 29
All’inizio degli anni Settanta, i due fratelli si trovarono in una difficile situazione finanziaria a seguito di alcune vicende giudiziarie riguardanti alcune controversie relative ai debiti e fedecommessi. Tra i creditori privilegiati si trova l’Offizio sopra l’Abbondanza a cui i Conti dovevano restituire tremila scudi avuti in prestito. Dopo le sentenze del 19 giugno e del 20 luglio 1773 vengono venduti all’incanto beni e terreni ricevuti in eredità dal nonno Stefano. Il palazzo situato sulla via Pubblica della Pantera (attuale Via Fillungo), luogo di residenza della famiglia in cui era allestita la quadreria, venne venduto all’asta ed acquistato da Giovanni Tommaso Cavalletti per 5999 scudi e un quarto.
Una clausola nel contratto d’acquisto prevedeva che i fratelli Conti potessero conservare l’uso e il godimento della casa almeno per un anno dietro il pagamento di una pigione.
Nel suo contributo Anna Vittoria Migliorini sottolinea il fatto che “si tratta di un concordato fallimentare, che, se pure non coinvolge la totalità del patrimonio Conti, suggerisce, anche per la vendita della dimora nobiliare, un vero e proprio disastro economico.
Il Consiglio Generale dimostrò però un particolare riguardo nei confronti della famiglia, visto che in data 9 giugno 1775, con un provvedimento che richiamava gli statuti della Corte dei Mercanti e precedenti casi analoghi, decideva che i Conti non fossero privati dello status nobiliare.” 30
La discendenza della famiglia Conti terminò con Luisa Isabella, figlia di Giovanni Stefano che nel 1722 si unì in matrimonio con Carlo De Nobili. 31
29 Betti 2005, p. 114. Cfr. ASLu, Archivio Garzoni, 68, fasc. 8, II, Divisione della eredità del nob[ile] Stefano Conti tra Giovanni Stefano, padre Giuseppe Maria e Carlo Giuseppe Innocenzo,
1750, cc. 29-33, 50-52, 69-75. Il documento, in parte citato e trascritto dalla Betti (2003), è riportato per intero al numero 12 dell’Appendice Documentaria.
30 Migliorini 2005, pp. 259-260. 31 Betti 2005, p. 125.
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Ad oggi non ci è stato possibile stabilire con esattezza come sia avvenuta la dispersione della collezione in quanto nessuna informazione è pervenuta dalle ricerche condotte sui testamenti di Giovanni Stefano e Carlo Giuseppe Innocenzo. La possibilità di ricostruire, seppure idealmente, il volto della pregevole quadreria ha spinto Paola Betti a rintracciare e, di conseguenza, ad identificare alcuni quadri che componevano la collezione. Nel suo articolo pubblicato su “Antichità viva” l’attenzione si rivolge ad un nucleo di quadri che definisce “eterogeneo per collocazione cronologica e scuola pittorica” e che ci ricorda di essere “proveniente dalla collezione Massoni, pervenuta al Museo Nazionale di Palazzo Mansi di Lucca nel 1952 a seguito di un lascito testamentario.” Tra queste opere la studiosa ha riconosciuto i due quadri appartenuti alla collezione Conti, la Veduta della
Riva degli Schiavoni a Venezia attribuito a Luca Carlevarijs, e il Mosè che fa scaturire l’acqua dalla roccia ritenuto di scuola veneta seicentesca.
Come indica la studiosa “dall’accostamento di un Lazzarini e di un Carlevarijs, non solo visivo, in quanto esposti in una stessa sala del museo, ma anche per la comune provenienza dalla collezione Massoni di Lucca, non poteva non scaturire un’immediata associazione mentale con la raccolta di Stefano Conti”. 32
Per confermare l’esattezza delle due identificazioni, si può fare affidamento alla corrispondenza intrattenuta da Conti con i pittori incaricati delle commissioni ai quali, come si è detto, veniva richiesto di rilasciare un attestato di autenticità. Nella lettera inviata dal Lazzarini datata 16 luglio 1707, è presente una descrizione di un quadro “di quarte 7 e 9 per traverso con Moisè che fa scaturire l’acqua dalla pietra, con huomini donne e putti di figure di mezo al naturale in circa fornito di Genaro l’anno 1705”. Riguardo al dipinto del Carlevarijs in una missiva inviata al committente il 23 luglio 1707, il pittore dichiarava “di haver fatto al Ill[ustrissi]mo Sig[no]r Stefano Conti, due quadri di quarte 6 in larghezza e 4 in altezza, nell’uno de quali vi è rapresentata la pescaria di Venezia con la fabrica della Ceccha, i granai Publici, con una parte del canal grande oltre il quale si vede la chiesa di S[an]ta Maria della Salute, et la Dogana di Mare, con Barche d’ogni sorte, e quantità di figurine, la maggior parte delle quali saranno pocho meno di onze tre.
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Nell’altro vi è rappresentata la veduta di San Giorgio Maggiore oltre il Canal Grande con navi bastimento Barche piccole e molte figurine come nell’altro, e questi glieli consegnai il mese d’Aprile 1706”.33
La corrispondenza evidente del formato, la descrizione ed i caratteri stilistici hanno portato la Betti ad identificare i dipinti con quelli appartenuti ai Massoni ed ora conservati nel Museo di Palazzo Mansi. Ad essi va aggiunto il suo inedito
pendant con la Veduta di San Giorgio Maggiore descritto puntualmente nella
missiva, e conservato in collezione privata.
In aggiunta agli esemplari citati, la studiosa ha ravvisato una singolare somiglianza sia dal punto di vista tematico che stilistico tra i quattro soprapporta con animali eseguiti dal lucchese Francesco Antonio Cecchi nel salone della Villa Micheli (oggi Vignocchi) a Massa Pisana (figg. 72-75), e le cinque tele commissionate da Conti a Giovanni Agostino Cassana.
Sulla base dell’attestato rilasciato dal pittore nel luglio 1706 sappiamo che questi aveva consegnato due quadri “essendovi in uno una Pecora un montone et un caprone, nell’altro un’Occa un Gallo, conigli, e Galline”; nell’agosto successivo fu la volta di “due altri quadri di 5 e 6 per traverso; in uno anitre nell’acqua, e nell’altro Galline, Conigli e Colombino”; infine, una tela con un “Vittello una Pecora un Montone, e un Caprone”. Considerando la vicinanza tra le descrizioni e i dipinti del Cecchi, la Betti conclude che quest’ultimo doveva avere avuto una “visione diretta delle opere di Agostino conservate nella Galleria Conti”. Per lo stesso motivo i “soprapporta della Villa Micheli” costituirono basilari supporti per l’eventuale identificazione dei dipinti forniti dal veneziano, attualmente irreperibili.” 34
Nello stesso periodo anche Giuliana Marcolini aggiunge un ulteriore tassello alla ricerca dei dipinti appartenuti alla collezioni Conti, identificando il Riposo nella
fuga in Egitto che al momento dell’acquisto del committente lucchese andava
sotto il nome del Guercino, con la tela di Orazio Gentileschi del City Museum and Art Gallery di Birmingham. 35
33 Betti 1997, pp. 38-40. Cfr. Zava Boccazzi 1990, pp. 136-137, 144. 34 Betti 1997, pp. 41-42. Cfr. Zava Boccazzi 1990, p. 443
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In un periodo successivo Paola Betti si preoccupa di identificare alcuni dipinti pervenuti alla nobile famiglia Bernardini attraverso una serie di passaggi ereditari. Tra le opere prese in esame abbiamo il Sansone e Dalila di Giovanni Segala consegnato direttamente dal pittore al Conti a Venezia nel dicembre del 1704. Secondo la studiosa “la corrispondenza rilevabile tra il dipinto e la descrizione fornita dal pittore nell’attestato redatto il 9 luglio del 1707 non lascia dubbi circa la correttezza dell’identificazione”.
Nell’attestato il Segala dichiara di aver “consegnata qui in Venezia una mia pittura in tella di quarte 7 per traverso e quarte 9 per dritto, rappresentante Sansone in seno a Dalila che sedendo sopra un letto ha tagliati li capelli al medesimo, et questo in darno si sforza di sciogliersi dalle funi de filistei che lo legano. Le Figure sono grandi incirca di mezzo naturale al numero di […] tra intiere, et meze”. Le misure indicate dal pittore, che corrispondono a cm 119 x 153, coincidono con le dimensioni della tela lucchese, ampia cm 120 x 160. 36 Nella villa Bernardini di Vicopelago si trova inoltre un piccolo nucleo di tele di Alessandro Marchesini, acquistate dal Conti ma in origine erano stati commissionate dal lucchese Federico Antonio Sardini. Il primo dipinto rappresenta Enea e Didone. Nel documento del 1750 che si riferisce alla suddivisione ereditaria tra i tre nipoti di Conti, si attesta che a Giovanni Stefano era stato assegnato “Uno quadro per ritto di B[racci]a 2 1/4 e B[racci]a 1 2/3
fatto in Venezia Alessandro Marchesini rappresenta Enea stato alla Caccia con molte figure”. Il confronto tra le dimensioni effettive del quadro e quelle indicate
nella voce, e corrispondenti a 113 x 98, permette alla Betti di identificare il quadro con quello di proprietà Bernardini.
Questo stesso documento menziona inoltre due dipinti “per traverso di B[racci]a
2 e B[racci]a 1 e 2/3 fatti il suddetto [Marchesini] rappresentano uno il Signore che si presenta alla Maddalena in abito di Ortolano, e l’altro la SS[antissim]a Vergine e S[an] Giuseppe che si dispongono alla Partenza”.
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La studiosa indica che “le misure, espresse in braccia lucchesi, corrispondono assai convincentemente a quelle del Sogno di San Giuseppe e del Noli me tangere (cm. 93 x 126), di chiara paternità marchesina, conservati in collezione Bernardini”. L’esecuzione delle due tele è riconducibile tra il 1078 e il 1709. Tra i lavori di argomento sacro ricordati dal Marchesini nel suo attestato conclusivo si ricorda un Transito di san Giuseppe, senza l’indicazione delle misure. Nel documento del 1705 tra i dipinti assegnati a Carlo Giuseppe Innocenzo viene menzionato “Uno detto [un capoletto] fatto il suddetto
Marchesini v’è il Transito di S[an] Giuseppe vale la Pittura L[ire] 91.13 e la Cornice intagliata alla Francese L[ire] 25.9”. In questo caso la Betti si focalizza
sulla descrizione della cornice che sembrerebbe corrispondere a quella tuttora in dotazione al Transito di San Giuseppe, riconducibile alla mano del Marchesini e conservato presso la famiglia Bernardini. 37
Una tela commissionata al Brugieri per ordine di Stefano Conti nel 1708 è stata identificata tra le opere della collezione Bernardini. Si tratta di un Caino e Abele che per il soggetto, il formato e le dimensioni sembrerebbe corrispondere al quadro descritto nella ricevuta rilasciata dall’artista il 22 giugno 1718: “un quadro di misura d’altezza di Braccia due e due terzi, e di Larghezza Braccia due rappresentante L’omicidio di Caino con sopra il Padre Eterno in atto di chiamarlo attorniato da angelo”. 38
Dalla nota riassuntiva redatta da Stefano Conti nel suo “Libro” sappiamo che il pittore veneziano Marco Ricci realizzò quattro dipinti, “due quadri piccoli di
fabbriche antiche rovinate, dipinti a tempera dal sud[dett]o Marco Ricci larghi quarte 3, et alti quarte 2, due per traverso di quarte 8.11 dipinti a olio di fabbriche antiche, e rovinate con le figurine di Sebastiano Ricci suo Zio”.39
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Betti 2005, pp. 119-121. Cfr. ASLu, Archivio Garzoni 67, fasc. 8, II, Divisione della eredità del
nob[ile] Stefano Conti tra Giovanni Stefano, padre Giuseppe Maria e Carlo Giuseppe Innocenzo,
1750, cc. 29-33, 50-52, 69-75.
38 Ibidem, p. 122. Cfr. BSLu, Ms 3299, fasc. 14, Descrizione di altri quadri si in tela si in tavola comprati da me Stefano Conti nob[il]e lucchese figlio del q[uondam] Giovanni in tempi diversi, c.
36v.
39 Ibidem, p. 123. Cfr. BSLu, Ms 3299, fasc. 14, Descrizione di altri quadri si in tela si in tavola comprati da me Stefano Conti nob[il]e lucchese figlio del q[uondam] Giovanni in tempi diversi c.
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La studiosa ha individuato una certa corrispondenza tra la descrizione dei quadri con fabbriche antiche, e rovinate con le figurine ed un dipinto attribuito a Marco e Sebastiano Ricci che si trova esposto al J. Paul Getty Museum di Los Angeles (fig. 76).
Le misure della tela che corrispondono a 122 x 160 cm, suggeriscono alla Betti di riconoscere uno dei dipinti forniti a Conti nel giugno del 1726, di quarte 8 x 11, equivalenti, considerando che il braccio lucchese corrisponde a 59 cm, a 118 x 162 cm.
Un altro aspetto che induce la Betti a pensare che il quadro sopra identificato potesse far parte della collezione Conti, è l’affinità iconografica riscontrata con gli affreschi eseguiti dal quadraturista lucchese Bartolomeo De Santi nella sala delle rovine della Villa Santini, oggi Rossi, a Gattaiola (figg. 77-79).
La visione di questi affreschi mostra che il De Santi ha avuto modo di osservare la pittura del Ricci. Lo dimostrano “l’impiego di un analogo repertorio di motivi architettonici” e la “simile scansione delle strutture all’interno di scenografiche impaginazioni spaziali”.
La corrispondenza più marcata si evidenzia tra il riquadro con Rovine classiche
con figure del De Santi e il dipinto dei Ricci conservato al Getty Museum. Altre
analogie si ravvisano in due scomparti collocati nella sala delle Rovine. Il primo, frutto di una collaborazione De Santi-Cecchi, ripropone fedelmente un prototipo di Ricci, ad oggi noto grazie alla copia conservata a Firenze in collezione Rovelli, mentre, il secondo affresco raffigurante Rovine classiche con gruppo equestre potrebbe servire al reperimento di un’altra delle opere fornite al Conti dal Ricci, “potendovisi ravvisare una rielaborazione impaginativa degli elementi repertoriali prediletti dal veneziano, quali appaiono nel Capriccio architettonico con cercatori in una fossa, in collezione privata a Treviso, o nella Veduta di città con chiesa gotica, di cui ignoriamo l’attuale collocazione”.40