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Capitolo VI

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Academic year: 2021

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Firenze

Per quel che concerne la seconda parte della tesi è d’obbligo una premessa incentrata principalmente sugli eventi storici più rilevanti del periodo preso in esame, affinché venga agevolata la comprensione dei fenomeni artistici.

A questo proposito, quindi, si pone in evidenza come la fortuna politica dei Medici percorse una via parallela a quella decorativa delle grottesche.

Mentre a Roma veniva scoperta la Domus Aurea, all’incirca tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 del XV secolo, a Firenze si respirava aria di rinnovamento culturale sotto la guida di Lorenzo il Magnifico il quale, dopo la morte del padre, Piero de’ Medici detto il Gottoso, aveva iniziato una sorta di diarchia condivisa con il fratello Giuliano che terminò improvvisamente con l’assassinio di questi il 26 aprile del 1478 durante la celebrazione di una messa a Santa Maria del Fiore. La congiura dei Pazzi, come farà notare Machiavelli anni dopo1, aveva ottenuto l’effetto contrario rispetto a quello che i suoi organizzatori avevano sperato: non solo non erano riusciti a porre fine al governo mediceo, bensì avevano contribuito a fortificare il potere del sopravvissuto Lorenzo de’ Medici. I primi contatti tra la cultura artistica fiorentina e le antiche pitture romane della domus neroniana avvennero grazie a Domenico Ghirlandaio e Filippino Lippi, i quali andarono a Roma ed al loro ritorno immisero le “nuove” decorazioni studiate nella Città Eterna nelle loro opere; più precisamente, sono documentati due viaggi nella città del Papa da parte di Domenico Ghirlandaio, il primo nel 1475 ed il secondo nel 1481-’82.

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Tradizionalmente, la prima opera decorata con grottesche che apparve a Firenze viene identificata con quella realizzata attorno agli anni ’90 del XV secolo nella chiesa di San Giovanni Evangelista, officiata dai domenicani di Santa Maria Novella: si tratta di una pala d’altare su tavola dipinta da Domenico Ghirlandaio che sfoggiava una cornice che riprendeva i motivi della Domus Aurea (fig.1). Come è noto, il pittore fiorentino già aveva affrescato con le Storie della Vergine e di S. Giovanni

Battista la cappella maggiore di Santa Maria Novella (1485-1490), vale a dire uno

dei lavori più importanti e impegnativi dell’artista e della sua bottega, sempre commisionategli dallo stesso Giovanni Tornabuoni che richiese anche la pala d’altare, oggi purtroppo dispersa in vari musei, che recava delle decorazioni a grottesca molto vicine a quelle disegnate nel Codex Excurialensis; fatto, questo, che induce molti studiosi ad attribuire a Domenico del Ghirlandaio la paternità dell’intero codice.

Quasi contemporanei ai viaggi a Roma del Ghirlandaio sono quelli di Filippino Lippi che nel 1481 seguì il Botticelli per affrescare la Cappella Sistina e, successivamente, tra il 1488-’93, per eseguire la Cappella Carafa di cui si è già precedentemente accennato. È però importante notare come il periodo in cui si realizzarono le prime opere arricchite con grottesche a Firenze concise con un lasso temporale molto difficile e ricco di mutamenti improvvisi per la città fiorentina; nel 1492, infatti, era morto Lorenzo il Magnifico e gli era succeduto il figlio Piero il quale, in seguito alla decisione presa nel 1494 di cedere Pisa, Pietrasanta e Sarzana al re di Francia Carlo VIII affinché questi risparmiasse Firenze dall’assedio, si guadagnò il soprannome di “Vile” e venne cacciato dai suoi concittadini sdegnati. I Medici poterono rientrare in città e riconquistare il loro potere solo nel 1512, grazie all’alleanza instaurata dai fratelli di Lorenzo il Magnifico, il cardinal Giovanni e Giuliano duca di Nemour, con il papa Giulio II Della Rovere e la Lega Santa per scacciare i francesi2. Ovviamente, la decorazione a grottesche non per questi mutamenti politici arrestò la sua ascesa;

2 La Lega Santa era formata da Spagna, Inghilterra, Stato Pontificio, Venezia, Ferrara e i Medici che,

sebbene da sempre nemici di Giulio II Della Rovere, si allearono proprio con l’obiettivo di riprendersi Firenze.

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infatti, spesso i pittori che eseguirono le grottesche negli anni della Repubblica fiorentina furono gli stessi che le dipinsero anche dopo il rientro dei Medici. Il Gonfaloniere a vita, Piero Soderini, durante la Repubblica poteva già vantare un ufficio nel Palazzo della Signoria dipinto a grottesche da Morto da Feltre3. Eppure, questa famiglia legò in maniera determinante il suo nome all’uso di quest’ornamento. Vedremo, anche grazie all’ausilio degli studi di Robin O’Brian, che da quando i due Medici, il cardinal Giovanni e poi suo cugino Giulio, vennero eletti Papa nel XVI secolo contribuirono notevolmente con la loro influenza nel determinare il successo della decorazione a grottesche. Quando, infatti, il cardinal Giovanni de’Medici lasciò la guida di Firenze al fratello Giuliano duca di Nemour per salire al soglio pontificio nel 1513 col nome di Leone X, ne seguì subito la nomina a cardinale del cugino Giulio (figlio del celebre Giuliano de’Medici assassinato nella congiura dei Pazzi). Questa collaborazione familiare favorì anche l’elezione delle grottesche ad ornamento privilegiato sotto i loro rispettivi pontificati (Giulio de’Medici divenne papa Clemente VII dal 1523 al 1534). Sebbene infatti la decorazione a grottesche fosse già molto in voga, Leone X, sempre sostenuto dai preziosi consigli del cugino, legò in modo decisivo questo ornamento alle commissioni, alla raffinatezza e alle imprese dei Medici. Successivamente, Clemente VII continuò l’uso propagandistico delle grottesche sebbene con variazioni più colte e sofisticate secondo il suo gusto. Sembra facile obiettare che le grottesche fossero già molto in voga prima che Leone X salisse al soglio pontificio: basti pensare il ruolo di promotore di questa decorazione che ebbe precedentemente il papa Giulio II Della Rovere, ma i pontefici medicei decisero di sfruttare al meglio il ruolo propagandistico che la decorazione a grottesche poteva assumere. Grazie alla sua struttura, come abbiamo già sottolineato nei paragrafi 3.2 e 3.3, questo ornamento si prestava ad inglobare simboli di diversa origine, inoltre, le grottesche godevano di alta considerazione conferitagli dal fatto d’essere una pittura appartenente alla prestigiosa “Roma imperiale”: prediligendo questa decorazione papa Leone X e, successivamente, papa Clemente VII,

3 Tali pitture vennero distrutte per adattare il palazzo alla nuova corte di Cosimo I, vedi Vasari 1963,

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stabilivano un confronto tra la potenza dell’Impero Romano e quella del loro pontificato.

L’uso delle grottesche contraddistinse Leone X fin dal momento della sua ascesa politica nel 1513; queste, infatti, apparvero persino nella realizzazione dell’apparato effimero del suo corteo trionfale dove, arricchite dalle insigne papali, adornavano il baldacchino che incorniciava pomposamente il papa durante la parata4.

Tra la nutrita schiera di pittori di grottesche Andrea di Cosimo Feltrini merita attenzione particolare: allievo di Cosimo Rossellini e Morto da Feltre, realizzò molte opere degne di nota utilizzando in maniera preponderante la decorazione a grottesche che elesse persino come decoro per abbellire le facciate di insigni palazzi fiorentini creando la cosiddetta tecnica del graffito o “sgraffito” secondo il termine vasariano di cui si sono conservati esempi superbi come quello di Palazzo Lanfredini (figg. 2-3), realizzato attorno al 1515, di Palazzo Sertini (fig. 4), della fine del XV secolo, e del cortile di Palazzo Bertolini-Salimbeni, eseguito in collaborazione con Baccio d’Agnolo nel 1520.La tecnica del graffito è descritta dal Vasari nelle Vite5 come una tecnica simile all’affresco, dal quale però si differenzia per l’utilizzo di un ferro con il quale si scalfiva l’intonaco composto da calcina scura mescolata con ̔carbon pesto’6 vale a dire paglia bruciata sopra la quale era dato dell’intonaco bianco; il nome “graffito” o “sgraffito” derivava dall’azione di “grattare via” lo strato superficiale dell’intonaco.

Andrea di Cosimo Feltrini aveva già avuto una commissione importante tra il 1510 e il 1511 secondo Thiem; aveva infatti decorato a grottesche e con la raffigurazione della Vergine e San Filippo Benizzi il portico della SS. Annunziata (fig. 5). Purtroppo, però, non c’è più traccia di quest’opera in quanto venne distrutta per costruire agli inizi del XVII secolo il nuovo ingresso alla chiesa7. Tre anni dopo, nel

4 Il baldacchino era opera di Andrea di Cosimo Feltrini.

5 Vasari, in Vita del Morto da Feltro pittore e di Andrea di Cosimo Feltrini, vol. IV, pp. 486-487. 6

Ibidem.

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1513, decorò sullo stesso portico l’insegna di papa Leone X e, accanto a questo furono eseguite le prime pitture fiorentine del Pontormo: le allegorie di Fede e Carità e due putti8(fig. 6).

Il convento di San Salvi situato fuori le mura di Firenze, con l’annessa chiesa di San Michele, apparteneva alla locale congregazione dei vallombrosani9, i quali erano monaci benedettini che divergevano dalla Regola di San Benedetto principalmente per quel che concerne la prescrizione del lavoro manuale (che non riconoscevano). I monaci chiesero ad Andrea del Sarto e alla sua bottega di dipingere il refettorio nel 1512; grazie a questa iniziativa abbiamo oggi il bell’affresco che ha dato il nome al Museo del Cenacolo di Andrea del Sarto, il quale occupa all’incirca quasi tutta l’area che originariamente era quella del convento di San Salvi. Per ciò che riguarda, invece, le grottesche dipinte nella stessa stanza, Thiem ipotizza un eventuale compartecipazione di Andrea di Cosimo Feltrini ai lavori di Andrea del Sarto: secondo lo studioso, infatti, Feltrini collaborò con il più anziano pittore a partire dal 1506. In particolare, la congettura di Thiem si riferisce alla pittura di circa due metri sull’arco trasverso delle volte della parete frontale del refettorio di San Salvi dove è stata riconosciuta la mano del Franciabigio accanto a quella di Andrea del Sarto nei cinque tondi con la raffigurazione dei vescovi e della Trinità, mentre rimaneva non identificata la paternità delle grottesche in grisaille su fondo arancio che riempiono gli otto pennacchi (fig. 7). Thiem sostiene la sua tesi evidenziando le similitudini tra i vari elementi che compaiono in questo affresco con quelli di altre sue opere documentate: ad esempio il motivo del cavalluccio sia in una delle vele della volta del refettorio, sia sulla facciata di Palazzo Sertini.

Secondo l’opinione di O’Brian, il primo uso della decorazione a grottesche a scopi propagandistici da parte dei Medici è quello delle pitture della Cappella dei Papi

8 Il Pontormo realizzò gli affreschi seguendo un disegno preparatorio del Feltrini oggi conservato al

Louvre.

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nella Chiesa di Santa Maria Novella a Firenze10 (fig. 8). Questa cappella era stata dipinta proprio in occasione dell’entrata trionfale di Leone X nella sua città natale e segnava il punto d’arrivo della parata, al termine della quale il pontefice poteva entrare nei suoi appartamenti provvisori, costituiti dalle stanze adiacenti alla chiesa domenicana che già venivano usate per ospitare visitatori illustri fin dal XV secolo, e dove poteva pregare nella nuova cappella dipinta in suo onore.

La Cappella dei Papi, oggi facente parte del complesso adibito a Scuola Sottufficiali dei Carabinieri, venne decorata da Ridolfo Ghirlandaio, figlio del sopraccitato Domenico, da Jacopo Pontormo e Andrea di Cosimo Feltrini. I numerosi riferimenti alle insegne papali e alle imprese personali di Leone X si alternano ai temi della Passione suggerendo una sorta di parallelo tra il Papa e Cristo. Già la Dacos, aveva evidenziato come i motivi dipinti in questa cappella ricordino quelli di Filippino Lippi, sempre in Santa Maria Novella: sia per la gamma cromatica che per le sfingi dal collo esageratamente lungo11. La ripartizione della volta, invece, ricorda ancora i compartimenti presenti nella Domus Aurea. La parte centrale del soffitto è decorato con le imprese di Leone X entro un tondo sorretto da una coppia di putti (fig. 9): più precisamente, compare sia il motto “SUAVE” che, citando il Vangelo di Matteo12, si riferisce all’esilio a cui sono stati costretti i Medici, sia le imprese di Lorenzo il Magnifico, vale a dire il padre di Leone X, che consta di un anello adamantino in tre campi cromatici (bianco, verde e rosso in riferimento alle virtù di Fede, Speranza e Carità). Il riferimento al padre, tramite le sue insegne legate a quelle del figlio tramite un giogo, vuole chiaramente essere una sorta di legittimazione del potere che, al contempo, ricorda il periodo aureo di Firenze sotto il governo illuminato del Medici. Notiamo però che appare anche l’impresa di Giuliano de’Medici, fratello del Papa, costituito dal motto GLOVIS entro una targhetta, ma questa identificazione è molto dibattuta13. Secondo Thiem14 potrebbe essere un riferimento a Giuliano oppure una semplice citazione delle antiche pitture romane e, a questo proposito, lo studioso

10 O’Brian 2000, p. 56-59. 11

Dacos 1969, p. 67.

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tedesco porta l’esempio della Cappella Strozzi a Santa Maria Novella dove, pure, appare questo motto ma, dato il periodo di realizzazione della decorazione della cappella sembra improbabile un riferimento alla famiglia Medici. Mentre la O’Bryan sostiene che questa scritta sia la dimostrazione di una compartecipazione del fratello di Leone X nella commissione degli affreschi di questa cappella ed evidenzia la presenza del motto ripetuto ben otto volte, forse assumendo un significato numerologico particolare ma non ancora chiarito15.

La cromia delle grottesche che impreziosiscono gli affreschi della Cappella dei Papi può apparire insolita ad un occhio inesperto, in quanto si presentano blu e rosse su fondo nero. In realtà, come dimostrato da due fogli appartenenti al Codex

Excurialensis, è un ennesimo richiamo alle decorazioni antiche16. La stessa cromia è

usata anche nelle grottesche della cappella di Villa Agostini e sul soffitto di Palazzo Pandolfini a Siena17.

Quasi contemporanea alla Cappella dei Papi è quella dei Priori in Palazzo Vecchio (fig. 10); questa, infatti, venne dipinta tra il 1511 e il 1514 circa su commissione di Lorenzo de’ Medici, il figlio di Pietro il Vile. Tale cappella, dedicata a San Bernardo, risale in realtà all’entrata dei Priori nel palazzo, ma il futuro Duca d’Urbino richiese a Ridolfo Ghirlandaio di affrescarla. In questo caso, però, anziché parlare di “grottesche” sarebbe più opportuno definire i dipinti parietali come “decorazioni a candelabra” ancora più in sintonia con gli schemi quattrocenteschi rispetto alle innovative grottesche.

Leone X commissionò a Raffaello dei cartoni preparatori per una serie di preziosi arazzi da porre nella Cappella Sistina con le Storie di San Pietro e San Paolo. Questa

13 Paolo Giovio (1479-1516) leggeva il motto come “G” per Gloria, “L” per Lode, “O” per Onore,

“V” per Virtù, “I” per Giustizia e “S” per Salvezza.

14 Thiem 1961, p. 27. 15 O’Bryan 2000, p. 128. 16

Trattasi del verso del foglio 14 e del recto del foglio 15 del Codex Excurialensis.

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opera celebre, realizzata nella bottega del fiammingo Pieter van Aelst a Bruxelles, è ricca di riferimenti al potere e alle virtù del Papa mediceo. Nello zoccolo sono presenti finti rilievi bronzei che narrano alcuni degli episodi salienti della vita di Leone X. I bordi laterali, invece, sono ornati da grottesche disegnate da Giovanni da Udine e da Giovan Francesco Penni; questo decoro è ancora legato alla struttura “a candelabre” del XV secolo, ma presenta interessanti aspetti innovativi come, ad esempio, l’affermazione di un gusto che caratterizza questo ornamento durante il pontificato di Leone X. Il Papa fu talmente soddisfatto del risultato ottenuto che commissionò altre serie di arazzi: i Giochi dei putti e le Grottesche di Leone X.

I disegni preparatori di questa serie servirono come prototipi per le decorazioni a grottesche che affrescarono, un anno dopo, gli stessi pittori sui pilastri delle Logge vaticane. Gli arazzi erano molto più costosi rispetto agli affreschi, vi era quindi la volontà da parte del Papa Medici di esibire la sua grande ricchezza; inoltre, alcuni elementi presenti nei bordi ornati con grottesche fanno pensare ad un esplicito rimando ai nudi dipinti sulla volta da Michelangelo, quasi a voler sfidare nelle creazioni più ardite e lussuose il precedente Papa Della Rovere. Risulta piuttosto interessante osservare il caso dei nudi presenti nel bordo mobile e rappresentanti il Fregio delle Ore: le personificazioni del Sole e della Luna sono rappresentate sedute l’una di spalle all’altra, mentre ai loro piedi c’è un serpente che si morde la coda come simbolo dell’eternità. Sotto a questa raffigurazione ci sono un uomo, il Giorno, e una donna di colore con un pipistrello, la Notte, seduti su un orologio con le braccia legate fra loro. Questa particolare iconografia caratterizzata da figure nude, spesso di un uomo e una donna, contrapposti e legati, ha goduto di grande fortuna nell’arte rinascimentale: sia per quel che concerne il suo utilizzo all’interno delle grottesche, sia in altri settori artistici. L’esempio più illustre di derivazione da questo modello è senz’altro quello michelangiolesco delle statue che adornano la Sacrestia Nuova di San Lorenzo a Firenze. Per quanto riguarda, invece, un precedente che potrebbe esser servito da prototipo per le bordure degli arazzi, la O’Bryan suggerisce di porre attenzione agli affreschi del Pintoricchio negli appartamenti di papa

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Alessandro VI: nella strombatura di una finestra, infatti, è dipinta una variante di questo modello18. Di certo, però, la fonte primaria d’ispirazione per Giovanni da Udine e Giovan Francesco Penni sarà stata la stessa a cui attinse anche Pinturicchio, vale a dire la Domus Aurea. Nella Volta gialla, infatti, compaiono due satiri incatenati che si danno le spalle e sono stati persino riprodotti in un disegno appartenente al Codex Excurialensis; quasi certamente è questa antica immagine dipinta sulle pareti della domus che ha dato inizio al proliferare di tale iconografia nell’arte rinascimentale.

È doveroso sottolineare l’importante collaborazione e il reciproco sostegno che fin dall’inizio caratterizzò il rapporto tra il papa Leone X e il cugino divenuto cardinale; un tipo di collaborazione che in realtà aveva contraddistinto la famiglia Medici da parecchie generazioni precedenti, a partire dal pater patriae Cosimo il Vecchio con suo fratello Lorenzo19. Di conseguenza, talvolta risulta difficile distinguere il mandante di una commissione artistica, poiché è noto che i due cugini si consultavano costantemente e il cardinal Giulio era a tutti gli effetti il braccio destro del Papa. Nonostante questa complicazione, gli studiosi hanno cercato di individuare le differenze che contraddistinguono le grottesche del periodo leonino rispetto a quelle del pontificato clementino, appoggiandosi sulle peculiarità che distinguevano il loro carattere. Mentre Leone X era più permissivo, amante dell’ostentazione del lusso e diede spazio maggiore a quell’aspetto ludico delle grottesche che era in perfetta armonia con il suo senso umoristico, Clemente VII era più sofisticato, intellettuale e le grottesche si arricchirono di citazioni colte. Un esempio calzante per spiegare meglio il tipo di humour, un po’ rude, che contraddistingue le grottesche leonine rispetto a quelle clementine è rappresentato dalle decorazioni eseguite da Giovanni da Udine per la Loggia di Psiche nella Farnesina; ovviamente, non possiamo propriamente parlare di grottesche, sono piuttosto dei festoni ricchi di frutta e verdure di tutti i tipi, ma gli elementi che andranno a caratterizzare il nostro

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O’Bryan 2000, p. 132-133.

19 In questo caso ci si riferisce a Lorenzo de’Medici detto il Popolano che dette origine al ramo

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ornato sono già presenti. Sebbene gli affreschi siano stati realizzati per volere di Agostino Chigi, il banchiere pontificio, il senso umoristico è lo stesso che pervade l’arte di tutto il periodo del papato di Leone X. Notiamo che in alto sopra la figura di Mercurio c’è uno scherzo indicato dal dio stesso: una zucca a forma fallica è stata dipinta appositamente per alludere agli organi genitali maschili, con accanto un paio di petronciani ad imitazione dei testicoli e, se ciò non bastasse, un fico maturo che si apre sopra la zucca, completa l’esplicita allusione al coito (fig. 11). Questo lazzo è narrato anche dal Vasari, il quale esprime persino la sua ammirazione per aver rappresentato il ̔capriccio ’ con così ̔ tanta grazia, che più non si può alcuno imaginare’20. A questo proposito la Dacos sottolinea il ruolo di anticipatore svolto da Giovanni da Udine, che sembra preludere già mezzo secolo prima alle composizioni giocose dell’Arcimboldo21.

Attorno al 1516 la bottega di Raffaello dipinse quella che oggi segna la svolta della decorazione a grottesche: la Stufetta di Bernardo Dovizi cardinale di Bibbiena (figg. 12-13). Come si è precedentemente accennato, Vasari narra che Giovanni da Udine abbia fatto calare Raffaello tra le rovine della Domus Aurea per mostrargli le decorazioni antiche; ovviamente, non sapremo mai come sono andate precisamente le cose ma, di fatto, mentre il pittore friulano rimase profondamente influenzato da tali pitture, l’urbinate relegò sempre l’esecuzione di quest’ornamento ad altri componenti della sua bottega. La Dacos sostiene che le uniche grottesche certamente attribuibili a Raffaello sono quelle che ornano le predelle dell’Incoronazione della

Vergine (1502-’03) e della Deposizione (1507), ma queste non si discostano troppo

dalla decorazione di fine XV secolo. Quindi, sotto la supervisione e i progetti curati dal Maestro, Giovanni da Udine ed altri pittori dipinsero la celebre Stufetta. Il nome “stufetta” potrebbe trarre in inganno e lasciar immaginare che si trattasse di una sorta di sala da bagno compresa di vasca in cui immergersi; in realtà, agli occhi del visitatore moderno, ricorda di più una sauna, perché di fatto la vasca non c’è e il

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Vasari, in Vita di Giovanni da Udine pittore, vol. VI, p. 404.

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cardinale, entrando nella stanzetta, poteva invece beneficiare dell’aria calda che saliva dall’intercapedine dei muri22. Sappiamo grazie agli interscambi epistolari tra Pietro Bembo e il cardinale che fu il Bibbiena stesso ad indicare a Raffaello il programma iconografico da seguire nella Stufetta.

In questo caso sembra improprio parlare di “affreschi”, poiché nei restauri condotti nel XX secolo è stata documentata una sostanza estranea ai soliti pigmenti usati nell’affresco, si presume possa trattarsi di cera con la quale la bottega di Raffaello probabilmente ha sperimentato una tecnica nuova che potesse competere con la brillantezza dell’encausto antico23. Se così fosse, la celebre Stufetta non solo sarebbe uno dei più innovativi esempi rinascimentali volti a far rivivere una decorazione dell’antichità, ma persino uno dei primi tentativi di imitarne le tecniche pittoriche. Non mi soffermerò in una descrizione dettagliata di questo ambiente, poiché l’opera è molto famosa e condurrebbe il discorso fuori tema; mi limiterò a dire che nella stanzetta, sulle pareti rosse24, si distacca un registro centrale con le storie di Venere e sopra queste, all’interno di pinakes dei putti conducono carri trainati dagli animali più improbabili, stagliandosi sul fondo nero del quadretto. Solo una piccola parte dell’intera decorazione riporta elementi tipici delle grottesche, come maschere, delfini, ghirigori e questi servono da cornici alle storie di Venere: tali componenti sono gli unici che sembrano essere realmente tratti da modelli antichi, nel caso dell’iconografia delle storie narrate sembra che le fonti fossero più letterarie che archeologiche. Secondo l’ipotesi avanzata dalla Dacos, Raffaello si limitò a proporre degli schizzi a penna che vennero rielaborati e definiti più nel dettaglio da Giulio Romano; infine, il friulano Giovanni da Udine li dipinse sulle pareti della Stufetta.

22 Dacos, Furlan 1987, pp. 35-42. 23

Dacos, Furlan 1987, p. 51.

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È una sorta di “rosso pompeiano”, dato che Pompei venne scoperta nel 1748, è presumibile che nel Rinascimento fosse nota qualche pittura antica in cui era stata usata questa cromia. Sfortunatamente, di un’opera simile non è rimasto nulla ai nostri giorni, neppure una casuale menzione di questa in un documento.

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Giovanni da Udine si distinse soprattutto per la riproduzione accurata di animali, frutta, verdura e oggetti di vario genere: è per questo che Raffaello, compresa l’abilità del suo allievo e collaboratore, gli fece dipingere gli strumenti musicali nel dipinto di Santa Cecilia (1514) della Pinacoteca Nazionale di Bologna e, per la stessa ragione, lo indirizzò nella realizzazione di festoni e grottesche in numerose e celebri opere.

Sebbene la studiosa belga individui nel pittore friulano l’artefice principale delle pitture della Stufetta, è evidente che Giovanni da Udine non realizzò tutto da solo; sono riconoscibili diverse mani, tra cui quella di Pellegrino da Modena in Venere e Adone, oppure quella di Pedro Machuca nel putto sulla biga trainata da mostri marini, ecc25. E’ interessante notare come lo stesso Pedro Machuca, collaboratore di Giovanni da Udine, fu successivamente l’artefice della Stufa di Carlo V nell’Alhambra a Granada (fig. 14) ed uno principali artefici della diffusione della decorazione a grottesche in Spagna.

Subito dopo la Stufetta, o quasi contemporaneamente, venne affrescata anche l’adiacente Loggetta sempre facente parte degli appartamenti del cardinal Bibbiena (fig. 15). A quanto pare, per la decorazione di questo ambiente, Raffaello ha lasciato che il suo collaboratore Giovanni da Udine se ne occupasse completamente. Il modello antico a cui il friulano ha attinto è facilmente riconoscibile nel criptoportico della Domus Aurea (fig. 16). Il pergolato dipinto sulla volta è però arricchito di dettagli naturalistici che lo differenziano sostanzialmente dal prototipo (figg.17-18). In questo ambiente, ancor più che nella Stufetta, intervenirono vari artisti: la decorazione a grottesche era probabilmente considerata meno impegnativa e non necessitava di disegni preparatori forniti dal Maestro urbinate o da Giulio Romano. Durante i restauri del XX secolo, si scoprì con stupore che nella Loggetta non erano stati utilizzati nemmeno gli spolveri; quindi si suppone che i pittori abbiano dipinto quasi in totale libertà le grottesche. Se così fosse, la Loggetta sarebbe per noi oggi un documento fondamentale per lo studio degli artisti appartenenti alla bottega di

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Raffaello. Tra i vari nomi che sono stati proposti per l’esecuzione di questi affreschi spicca quello di un giovanissimo Perino del Vaga, allora sedicenne, ai suoi esordi con l’ornamento che contribuirà a rendere celebre26. In particolare la mano di Perino del Vaga è stata riconosciuta nelle figure femminili che cardano la lana (le Parche probabilmente) e in quelle degli anziani barbuti che sfidano la gravità in equilibrio su corde sospese nel vuoto, mentre le statuette fittizie che adornano le nicchie illusionistiche sono attribuibili a Giovanni Francesco Penni.

Successivamente, vennero dipinte le Logge Vaticane (ca. 1516 -’19) e qui, davvero, si assiste all’evoluzione della decorazione a grottesche che d’ora in poi, è il caso di dirlo, non sarà più la stessa. Questi affreschi divennero un modello imitatissimo per tutto il XVI secolo e anche oltre. Con il termine plurale di “Logge” solitamente si indicano i tre corridoi sovrapposti che ebbero origine da un progetto del Bramante che avrebbe cambiato per sempre la fisionomia della facciata del palazzo di Niccolò V. Tale proposito venne portato a termine da Raffaello dopo la morte del Bramante (1514), il quale però non si attese totalmente al progetto originario. La Loggia che divenne un modello da imitare è quella del secondo piano (fig.19), ad un’estremità del corridoio sono situate le Stanze dipinte da Raffaello e dalla sua bottega. Questo ambiente permette, infatti, l’accesso alla Sala di Costantino e all’adiacente Sala dei Chiaroscuri, tramite la quale si può giungere alla Cappella Niccolina del Beato Angelico. Quindi da un lato le Logge sono chiuse dalla parete che le divide da altre stanze, mentre dall’altra regala una bella veduta sul Cortile di San Damaso.

La loggia già rivestiva un ruolo importante nell’arte fiorentina e caratterizzava i ricchi palazzi di quella città. Leone X, che crebbe in quell’ambiente culturale, volle che Raffaello ed i suoi collaboratori gli dipingessero la più splendida delle logge, ad imitazione di quella che già avevano realizzato per il cardinal Bibbiena.

Principalmente, la Loggia doveva essere un luogo di svago per il Papa; posizionato accanto ai suoi appartamenti, infatti, solo pochi avevano il privilegio di accedervi.

26 Il primo studioso ad avanzare questa ipotesi è stato Redig de Campos, Raffaello nelle Stanze,

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Raffaello si ispirò all’antica Roma unendovi però un omaggio al gusto tipicamente mediceo per l’architettura; la galleria è formata da tredici archi e sembra possibile che si tratti di una citazione del Tabularium del Campidoglio, entrando nella Loggia si ha l’impressione di vedere una serie di archi trionfali posti in successione, le colonne però sono un chiaro rimando alla cultura d’origine del Papa, sono infatti d’ordine etrusco27.

Per quel che concerne la pittura, Raffaello e la sua bottega creano un sistema ingegnoso e complesso dove si amalgamano scene bibliche, illusionismo e trompe

l’oeil, grottesche, rilievi in stucco, statue entro nicchie e un pavimento maiolicato

realizzato nella bottega di Luca Della Robbia il Giovane. Forse anche grazie alla guida del colto Egidio da Viterbo, l’antico e il moderno convivono armoniosamente in questo ambiente che sfida le bellezze della Roma imperiale senza rinunciare alle innovazioni più ardite.

Secondo la Davidson nelle Logge si esprime la “storia della salvazione”28 a cui contribuiscono tutte le tradizioni filosofiche e politiche note a quel tempo; pertanto i rimandi tra personaggi del Vecchio Testamento e quelli del Nuovo sono “commentati” dalle grottesche con le quali intessono uno stretto rapporto.

La decorazione a grottesche, in particolare, orna i pilastri, intramezzata da medaglioni in stucco: non si estende liberamente sulla parete come accade nella Loggetta del Bibbiena. Sulle volte, sopra le storie sacre, sono dipinte colonne che sembrano stagliarsi contro il cielo, mentre alcune grottesche sembrano infiltrarsi nelle scene del Vecchio Testamento. Sembrerebbe che l’attenzione di Raffaello fosse volta soprattutto a questa parte della Loggia, sono infatti conservati lo schizzo a penna per Davide e Golia e il disegno definitivo di Mosè che riceve le tavole della

Legge.

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O’Bryan 2000, pp. 67-69.

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Le attribuzioni di disegni, bozze e affreschi delle varie lunette sono molto dibattuti dagli storici dell’arte. Quasi tutti concordano nel riconoscere la mano di Perino del Vaga nella decima, nell’undicesima e nella tredicesima volta, affrescata rispettivamente con le Storie di Giosué, le Storie di David e le Storie di Cristo29. Ma

per quanto riguarda i disegni preparatori i pareri sono discordanti. Oberhuber30,inizialmente, attribuì l’intero progetto e tutta la pianificazione a Raffaello e, proponendo il Penni come possibile autore di tutti i disegni preparatori definitivi, relegava gli altri artisti della bottega ad un ruolo di secondo piano. Ma lo stesso studioso nel 197231, tornò sui suoi passi riconoscendo a Perino del Vaga la paternità del disegno del Trionfo di David. Questi temi sacri venivano ripresi, in

grisaille, nello zoccolo inferiore delle pareti; purtroppo però furono presto perduti e

oggi sono noti solo grazie alle incisioni di Pietro Santi Bartoli della seconda metà del XVII secolo32. Secondo la biografia vasariana il quarto, il sesto, il settimo e il nono affresco del basamento vennero realizzati da Perino del Vaga33.

A dare una nota ancor più personale, legata alla figura del committente, intervengono i motivi etruschi che si confondono tra le grottesche. L’uso delle imprese e degli stemmi anche in questo caso è molto presente: su dodici volte, appare il diamante e le piume medicee, mentre nella campata centrale è dipinto lo stemma familiare con i bisanti, la tiara papale e le chiavi di San Pietro.

La decorazione a grottesche, in questo ambiente, si allontana completamente dalla riproduzione quasi “archeologica” tipica dell’arte quattrocentesca: ora è un libera interpretazione, dove il modello antico gioca il ruolo di citazione colta a cui, però, non ci si sente troppo vincolati. A rimanere costanti sono gli elementi che compongono la decorazione, la continuità che caratterizza questo ornamento e

29 Parma Armani 1986, pp. 18-19. 30 Oberhuber 1966, p. 32.

31 Oberhuber 1972, pp. 34-36.

32

Parma Armani 1986, op. cit., p. 21.

33

(16)

l’attenta osservazione delle regole della simmetria rispetto ad un asse centrale. L’innovazione consiste principalmente nel conferire maggior volume ai singoli componenti, i quali sono inoltre descritti con maggior verosimiglianza e dovizia di dettagli. Gli artisti che dipinsero la loggia sono, principalmente, Giulio Romano e Gianfrancesco Penni che furono impegnati soprattutto nel ciclo di storie sacre; Pellegrino da Modena e l’emiliano Tommaso Vincidor che prestarono aiuto nelle prime campate; Pedro Machuca, Alonso Berreguete e Polidoro da Caravaggio i quali si unirono ai lavori solo successivamente. Eppure sembra che l’artefice principale della decorazione a grottesche sia Giovanni da Udine, il quale viene menzionato a questo proposito anche dal Vasari nella Vita a lui dedicata34.

Il pittore e teorico aretino racconta sia delle splendide grottesche che dipinse, sia dei suoi molteplici tentativi di ottenere un impasto che gli permettesse di imitare in modo soddisfacente gli stucchi antichi. Il pittore e teorico aretino, infatti, narra che inizialmente il friulano aveva provato ad amalgamare calcina e pozzolana ottenuta dai cantieri della Basilica di San Pietro, poi vi aveva aggiunto scaglie di travertino, fino a giungere alla corretta “ricetta” composta da marmo bianco finissimo e calcina di travertino bianco35. Il risultato ottenuto da Giovanni da Udine piacque anche a Raffaello che gli fece eseguire le decorazioni a stucco presenti nelle Logge Vaticane. In effetti, secondo l’opinione della Dacos, buona parte delle grottesche e degli stucchi delle Logge, quelli più corsivi, sono attribuibili a Giovanni da Udine, mentre quelli più minuti sono di Perino del Vaga36che, secondo la biografia vasariana, è qui che inizia la sua attività artistica37.

La O’Bryan sostiene che nello schema decorativo delle Logge Vaticane si riscontra una sorta di ̔continuità dinastica verso l’amore per lo splendore’: sembra perpetuare la passione di Cosimo il Vecchio per le pietre dure, quella di Piero il Gottoso per

34 Vasari 1963, op. cit., vol. VI, p. 399. 35 Ibidem, p. 400.

36

Dacos 1969, p. 124.

37

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l’ostentazione e i colori brillanti e quella di Lorenzo il Magnifico verso i manufatti antichi d’arte applicata38.

La loggia del primo piano (fig.20), venne affrescata solo successivamente dalla bottega di Raffaello e, forse, venne un po’ trascurata dal maestro che era già molto impegnato con altre commissioni. Sfortunatamente, gli affreschi giunsero particolarmente deteriorati al XIX secolo e si decise di riaffrescare la loggia: perciò oggi è impossibile documentare come furono le grottesche di questo ambiente. La loggia del piano nobile confina con la Sala dei Pontefici (fig.21) che, originariamente, era parte degli appartamenti di papa Borgia, ma che Leone X fece riaffrescare con grottesche a compartimenti da Perin del Vaga e Giovanni da Udine. Durante il pontificato di Alessandro VI si era verificato il crollo del soffitto e vennero persi per sempre gli originali affreschi di Giotto il quale, secondo il Vasari, vi aveva dipinto una serie di ritratti dei pontefici che aveva dato nome alla sala. Grazie ad una lettera scritta da Sebastiano del Piombo ed indirizzata a Michelangelo sappiamo che nel settembre del 1520 ancora non era stato stabilito chi dovesse riaffrescare la sala e come questo prestigioso incarico fosse molto ambito da tanti artisti. Eppure già nel dicembre del 1521 la volta era quasi totalmente dipinta, sebbene gli ultimi ritocchi siano stati effettuati durante il pontificato di Clemente VII e subirono quindi l’inevitabile interruzione dei lavori sotto Adriano VI (1522-1523). La volta della sala venne affrescata con la configurazione dei pianeti secondo l’oroscopo natale di Leone X: infatti sono presenti i dodici segni dello zodiaco e le costellazioni. Il programma astrologico del soffitto, forse suggerito dall’astrologo Francesco di Bernardino Priuli39, doveva influenzare gli eventi seguendo la volontà del Papa grazie ad una sorta di collegamento tra i corpi celesti e la terra. Il programma iconografico della volta era pensato per esser letto assieme alle scene inerenti episodi di Papi precedenti dipinti nella parte inferiore delle pareti e con i

38 O’Bryan 2000, p. 147. 39

Francesco Priuli, appartenente ad una nobile famiglia veneziana, era un celebre astrologo della corte di Leone X, tra i preferiti del Papa.

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ritratti dei dieci pontefici preferiti da Leone X. Gli elementi che decorano la stanza conducono all’identificazione del Papa con il sole e il dio Apollo, divinità solare: troviamo infatti teste di leone che indicano il nome del Papa ma anche il suo segno zodiacale, le Vittorie alate riprese dalla Loggia del secondo piano e la tiara papale con le chiavi. Al centro della volta c’è il Sole e il Leone, mentre nei quattro angoli della volta dei pannelli in stucco dorato formano grottesche a candelabre che suggeriscono altri riferimenti al Papa Medici. Le grottesche sono libere rielaborazioni di quelle della Domus Aurea. I simboli astrologici si riferiscono alle virtù del Papa secondo un complesso sistema iconografico volto ad encomiare il pontefice ed a porre in soggezione gli eventuali ospiti che avevano accesso a questa sala. La O’Bryan evidenzia la presenza dello stemma mediceo sotto al quale si trova una targa retta da due leoni con il nome del Papa e a sostenere l’intero assemblaggio c’è un Minerva: secondo la studiosa questo alluderebbe al ruolo che si è prefissato Leone X come pacificatore e saggio governatore di Firenze e Roma. Questa idea doveva avere un’ulteriore conferma dall’astrologia rinascimentale che prevedeva che il segno del leone avrebbe dominato la Città Eterna40. Ciò che potrebbe sembrare insolito è la presenza di quattro costellazioni extra zodiacali come Orsa, Argo, Cigno e Corvo, ma probabilmente sono state scelte per indicare i quattro punti cardinali. Secondo la Parma Armani i segni dello zodiaco, dato l’alto numero di dettagli naturalistici riscontrabili, furono dipinti da Giovanni da Udine; mentre è verosimile che per quel che concerne i carri dei pianeti l’autore sia Perino del Vaga come indicava anche il Vasari41.

Lo stesso Perino del Vaga, successivamente, dipinse una loggetta con grottesche per il protonotario apostolico e vescovo di Nicosia Livio Podocatari42. A quanto pare,

40

O’Bryan 2000, p. 150.

41 Parma Armani 1986, p. 28.

42 Il Palazzo Podocatari oggi è noto col nome di Corsetti e la loggetta in questione mostra affreschi in

(19)

secondo la biografia vasariana, quella loggetta ottenne un successo tale da essere presto copiata dai ricchi banchieri Fugger che ne vollero una simile43.

Mentre Leone X è Papa, Firenze viene inizialmente governata da Giuliano duca di Nemour e, successivamente, da Lorenzo (Duca di Urbino dal 1516). Quest’ultimo era mal sopportato dai fiorentini e la situazione divenne ancor più difficile quando videro i loro soldi servire da sovvenzione per la costruzione di Villa Madama a Roma.

Attorno al 1517 Andrea di Cosimo Feltrini e Ridolfo del Ghirlandaio collaborarono nella decorazione della cappella di Villa Salviati, posta sulla strada tra Firenze e Fiesole, in un paesino chiamato San Domenico. Mentre il Ghirlandaio realizzava le pitture per il soffitto cassettonato, il Feltrini adornò di grottesche le pareti della cappella44. La struttura del soffitto richiama quella realizzata da Giuliano da Sangallo e dal Cronaca nella Loggia della Villa medicea di Poggio a Caiano ed anche a quella dell’ingresso della sagrestia di Santo Spirito. Nel 1517 Giovanni de’Medici detto delle Bande Nere sposò Maria Salviati, quindi Thiem mette in relazione questa cappella al loro matrimonio data la presenza degli stemmi e delle imprese relativi ad entrambe le illustri famiglie45. Sebbene infatti già Iacopo Salviati aveva contratto matrimonio con Lucrezia, figlia di Lorenzo il Magnifico, ciò non spiegherebbe la presenza del serpente simbolo degli Sforza; mentre risulterebbe ovvio se si pensa all’unione di loro figlia, Maria, con Giovanni Medici, poiché la madre di quest’ultimo era la celebre Caterina Sforza.

Dopo la morte di Leone X nel 1521, si assistette ad una congiura antimedicea. Il cardinal Giulio tentò, senza successo, di appianare la situazione ponendo alla guida di Firenze il cardinal Passerini affiancato da Ippolito, figlio di Giuliano di Nemour, e da Alessandro de’Medici. Questa situazione instabile si protrasse fino al 1527

43

Sfortunatamente, la residenza dei Fugger è stata distrutta, perciò non ci sono studi inerenti le grottesche che ne impreziosivano la loggia.

44

Thiem 1961, pp. 20-26.

45

(20)

quando, con il Sacco di Roma, vennero nuovamente cacciati i Medici da Firenze. La nuova Repubblica fiorentina ebbe vita molto breve; nel 1530, infatti, Alessandro de’ Medici divenne capo di tale Repubblica come frutto dell’accordo pattuito tra l’imperatore Carlo V e il papa Clemente VII. Ovviamente, l’intenzione dell’imperatore era di mantenere un forte controllo sul territorio fiorentino, ponendo alla guida della città una sorta di “fantoccio” che eseguisse le sue volontà. Ma sebbene si tentasse di far credere nella volontà, da parte dei Medici, di continuare un regime repubblicano, già dal 1532 Alessandro de’ Medici, senza autorizzazione imperiale, venne nominato “duca”. Da quella data in poi il titolo nobiliare divenne ereditario.

Mentre a Firenze si stabiliva il potere nelle mani della famiglia medicea, a Città di Castello la decorazione a grottesche veniva utilizzata per sancire visivamente l’alleanza tra Medici e Vitelli46. Niccolò Vitelli era riuscito a riconquistare il suo dominio sulla città umbra grazie all’appoggio della casata fiorentina ed il figlio, Alessandro, che successivamente divenne il capo della guardia personale del cardinal Giulio de’ Medici, fece costruire il suo palazzo tra il 1521 e il 153247, adornandone le pareti esterne con grottesche a graffito arricchite con gli stemmi medicei e vitelliani ad un tempo48 (fig. 22). Il palazzo è costituito da due piani, ma la facciata è suddivisa dalla decorazione a grottesche in cinque registri orizzontali sovrapposti, nei quali compaiono varie volte il simbolo del vitello come riferimento al committente ma, cosa più sorprendente, appare anche in bella vista il motto mediceo “semper”. Questo ornato risulta conforme agli esempi di graffito presenti nei palazzi fiorentini decorati secondo la “moda” lanciata da Andrea di Cosimo Feltrini; infatti, vediamo della grottesche in grisaille su fondo scuro. Gli autori di questo ornato sono artisti della cerchia vasariana, tra cui Cristofano Gherardi detto il Doceno, il quale incontreremo

46 Un’ analisi più dettagliata dei graffiti esterni del palazzo e degli affreschi delle sale attribuite al

Doceno vedi Mancini 1987.

47 La residenza vitelliana venne fatta erigere in occasione delle nozze di Alessandro con Angela Rossi

di San Secondo parmense.

48

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nuovamente come pittore della corte medicea. Sempre il Gherardi è stato proposto come autore delle grottesche affrescate in alcune stanze interne come, ad esempio, la Sala Pompeiana che pare ispirarsi al Corridoio Pompeiano di Castel Sant’Angelo a Roma49 ed anche per le decorazioni che impreziosiscono la Camera degli Dei di Palazzo Bufalini a San Giustino, sempre in Umbria, dove appaiono lazzi bizzarri come putti pisciatori ed un magro vegliardo con ali di pipistrello50. L’alleanza tra i Vitelli e la casata medicea, però, terminò prima della conclusione dei lavori: infatti, si interruppe bruscamente con la fine del governo del primo Duca fiorentino e dal 1538 la famiglia umbra si alleò con il papa Paolo III Farnese51.

Nel 1537 Alessandro de’ Medici fu assassinato e venne scelto come “sostituto” Cosimo che discendeva dal ramo popolano da parte paterna e da quello cadetto da parte materna. Il giovane Cosimino, data l’età e la sua presunta inesperienza, appariva una scelta conveniente all’imperatore che desiderava qualcuno che si lasciasse guidare da lui nelle decisioni politiche. Eppure Cosimo de’ Medici si rivelò presto un duca abile e astuto che, fin dal primo momento in cui ottenne il potere, tentò di allontanare le truppe spagnole che Carlo V aveva lasciato a presidiare nella Fortezza da Basso e in quella di Livorno affinché Juan De Luna gli riferisse tutti i suoi movimenti e fossero pronti ad intervenire per riprendersi la città in caso di rivolta52.

Cosimo I si pose presto il problema di una residenza degna del suo nuovo status, poiché di certo non era idoneo per lui rimanere a lungo nel Palazzo di via Larga pagando l’affitto alla vedova di Alessandro de’ Medici; inoltre, necessitava al più presto di una consorte che gli garantisse una posizione politica più stabile e sicura. A questo proposito, si sposò nel 1539 con Eleonora Da Toledo la secondogenita del

49 Per quel che concerne la datazione degli affreschi interni sono stati realizzati dal 1530 al 1547. 50 Morel 1997, p. 135.

51

Clemente VII era morto nel 1534 ed era salito al soglio pontificio Paolo III Farnese che governò Roma fino al 1549.

52 Nonostante le difficoltà che “creava” il Duca di Firenze era comunque negli interessi

dell’imperatore Carlo V tener da conto l’alleanza di Cosimo I poiché i fiorentini, assieme ai genovesi, erano i suoi principali finanzieri.

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viceré di Napoli; allo stesso tempo, avviò i lavori a Palazzo Vecchio, sotto la direzione di Battista di Marco del Tasso, affinché diventasse una residenza principesca. Il palazzo era una costruzione medievale53, costituita per lo più da uffici: era perciò necessario riorganizzare gli spazi interni tenendo conto dell’etichetta di corte che era una novità assoluta a Firenze; come modelli da seguire si attinse alla disposizione degli appartamenti papali a Roma e da quelli reali di Francia e Inghilterra.

Il percorso stabilito per accedere alla presenza del Duca era all’incirca costituito da una prima scrematura che avveniva attraverso i due cortili a pianterreno, successivamente, si veniva ammessi al primo piano, dove c’erano gli appartamenti di Cosimo I, attraverso lo scalone di rappresentanza54. Prima di accedere alla Sala delle Udienze era necessario attraversare numerose anticamere che dovevano mostrare l’importanza e il prestigio del padrone di casa. Infine, solo pochissimi eletti erano ammessi alla camera da letto del Duca e potevano avere il privilegio di stare da soli con lui55.

In generale, potremmo descrivere Palazzo Vecchio come suddiviso in più livelli: il pianterreno costituito principalmente da due cortili e l’armeria, il primo piano con gli appartamenti di Cosimo I, il mezzanino adibito a stanze per accogliere le damigelle e la madre del Duca, Maria Salviati, il secondo piano con gli appartamenti di Eleonora da Toledo e, infine, il terzo piano con le camere dei figli56.

53 Palazzo Vecchio risale alla fine del XIII e all’inizio del XIV secolo.

54 Il raccordo tra i piani di Palazzo Vecchio è verticale ed avveniva tramite una scala elicoidale

riservata all’uso quotidiano della famiglia, ed uno scalone di rappresentanza che, inizialmente, era quello costruito attorno al 1549 sotto la direzione del Tasso ma che venne demolito nel 1561 per realizzare la celebre “scala piana grande” secondo il progetto di Vasari. Vedi Allegri, Cecchi 1980.

55

Di fatto, il rituale di corte seguito a Palazzo Vecchio nel XVI secolo era un’anticipazione di quello ancor più sofisticato e complesso che si sarebbe svolto in Francia nel secolo successivo con il Re Sole.

56 Una distribuzione degli spazi simile a quella di Palazzo Vecchio è riscontrabile anche nel Palazzo

del Louvre a Parigi, dove il primo piano era destinato all’appartamento del re, il secondo per quello della regina ed il terzo per i figli.

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Nel XIV e nel XV secolo i Priori dormivano nel secondo piano del palazzo, dapprima tutti insieme e, successivamente, entro cellette progettate da Michelozzo che creò per loro spazi non troppo dissimili da quelli del Convento di San Marco, mentre il Gonfaloniere era l’unico che aveva una stanza più grande tutta per sé57. Le prime stanze ad essere affrescate in epoca medicea furono quelle degli appartamenti della Duchessa, vale a dire quei luoghi che prima appartenevano ai Priori: la precedenza l’ebbe la realizzazione di una cappella privata, forse come riconoscimento alla fede di Eleonora da Toledo che era una cattolica fervente, poi fu la volta della Camera Verde e dello Scrittoio.

La cappella privata sancisce il sodalizio tra Eleonora da Toledo e il Bronzino (fig.23); il pittore impiegò cinque anni per affrescare quest’ambiente con scene devozionali di grande formato. Sulla volta sono raffigurati quattro santi: San Michele

Arcangelo che vince Satana, San Francesco, San Gerolamo con il leone e San

Giovanni Evangelista con l’aquila. Questa cappella, che sembra ispirata alla

Cappella Sistina di Michelangelo, è completata da tre tavole: la Deposizione sulla parete dell’altare, l’Angelo Annunciante e la Vergine Annunciata, ma non lascia posto alla decorazione a grottesche che è del tutto assente nella cappella. Persino nelle spartizioni del soffitto, zona nella quale vedremo spesso utilizzato questo ornato in altri ambienti dello stesso palazzo, il pittore privilegia immaginarie colonne di frutta che sembrano degli adattamenti dei festoni dipinti da Giovanni da Udine nelle Logge Vaticane e nella Farnesina.

Contemporaneamente, il Bachiacca, soprannome di Francesco d’Ubertino Verdi58, decorava con pittura a olio lo scrittoio di Cosimo I (fig.24), adornandolo con paesaggi che dimostrano lo studio delle pitture olandesi (fig. 25) e piante ed animali

57 Muccini 1997, p. 128.

58 Francesco Bachiacca nacque nel 1494, era perciò coetaneo del Pontormo e di Rosso Fiorentino, si

formò inizialmente nella bottega fiorentina del Perugino, finché nel 1515 si unì al circolo di Andrea del Sarto. Dal 1529 risultava iscritto all’Arte dei Medici e degli Speziali. Ebbe un ruolo rilevante come pittore di corte e dipinse pregevoli dipinti; purtroppo per ragioni logistiche nella presente tesi saranno analizzate solo quelle opere che vedono l’uso del decoro a grottesche.

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riprodotti con splendido realismo. La tecnica adottata per decorare questa stanza permise di avere colori particolarmente brillanti e di rendere i dettagli con accuratezza, ma non ha garantito una buona duratura nel tempo. Ovviamente, nel caso dello Scrittoio ducale, sarebbe improprio parlare di “grottesche” in quanto, come precedentemente citato, una delle peculiarità imprescindibili per definire questo tipo di decoro è la continuità di tale ornamento che lega gli elementi più disparati tra loro tramite volute, racemi vegetali; ciò nonostante mi sembra opportuno farvi riferimento in quanto opera di un artista di grottesche che, successivamente, riutilizzerà questo repertorio scientifico di piante ed animali per inserirlo nell’ornamento che è tema centrale di questa tesi. Lo Scrittoio ducale è una piccola stanza che fa parte del mezzanino: al suo interno ha un’alcova anch’essa decorata, compresa di finestra che dà su Piazza della Signoria59. Secondo gli studi di Vossilla60 e Signorini61, questa insolita decorazione testimonia l’interesse di Cosimo I verso la botanica e le scienze naturali in genere (fig.26); in particolare, sono stati evidenziati i contatti tra il Duca e Luca Ghini che fu il fondatore del primo giardino botanico di Pisa, quello del 1543-’44 situato vicino al Monastero di San Vito 62. La Signorini ha persino azzardato che le piante ritratte sulle pareti dello scrittoio abbiano un ipotetico modello comune nell’erbario perduto di Luca Ghini che sarebbe stato utilizzato dal Bachiacca come fonte iconografica.

In realtà, è doveroso precisare che alla corte medicea di Cosimo I lavoravano due Bachiacca, Francesco e Antonio, probabilmente il primo aiutò il secondo, che era suo fratello minore, ad entrare nel circolo delle importanti commissioni ducali. Francesco Bachiacca, probabilmente, era riuscito a farsi notare per le sue capacità collaborando con altri importanti artisti alla preparazione degli appartati delle nozze del Duca con la Duchessa nel 1539; da quel momento, il nostro pittore risulta come artista di corte

59 Allegri, Cecchi 1980, p. 24. 60 Vossilla 1993, pp. 381-395. 61 Signorini 1993, pp. 396-407.

62 Successivamente il giardino botanico venne spostato vicino al Convento di Santa Marta affinché si

potesse ampliare l’arsenale pisano; l’Orto Botanico troverà la sua collocazione definitiva solo nel 1591 dietro all’odierno Palazzo Boileau sede della facoltà di Lingue, dove si trova ancora oggi.

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regolarmente salariato. Dal 1540, come precedentemente accennato, anche Antonio divenne membro degli artisti di corte, ma come “ricamatore”. Mentre, infatti, Francesco dipingeva lo scrittoio di Cosimo I, Antonio impreziosiva le vesti della Duchessa63.

La Camera Verde (fig. 27) venne affrescata attorno al 1540-’42 da Ridolfo del Ghirlandaio, lo stesso che abbiamo già visto come autore della Cappella dei Priori nello stesso edificio e la Cappella del Papa a Santa Maria Novella64. Per quel che concerne il tema principale della presente tesi, è interessante notare che sulla volta appaiono dei rimandi alle decorazioni della Domus Aurea, specialmente a quelle del criptoportico da cui sembrano attinti i grifi ritratti di profilo e i cavalli alati in bilico su corolle. Le grottesche presenti sono tutte legate al tema dello sposalizio e culminano al centro della volta con lo stemma composto dall’assembramento di quello mediceo e quello di Toledo. Gli elementi derivanti dall’antica residenza neroniana sono gli stessi che Domenico Ghirlandaio, il padre del pittore, aveva utilizzato nella Pala Tornabuoni: perciò, presumibilmente, fu lui l’intermediario tramite il quale Ridolfo conobbe le decorazioni parietali romane. Inoltre, delle decorazioni “a candelabre”, ancora legate allo stampo quattrocentesco, ripartiscono il soffitto.

Il duca Cosimo I, grande ammiratore dell’arte olandese e fiamminga, dopo un primo periodo in cui si limitò a cercare di ottenere dipinti, stampe ed arazzi dal nord Europa tramite i suoi ambasciatori fiorentini65, decise di fondare un’arazzeria a Firenze con a capo Jan Rost e Nicholas Karcher che avevano il compito d’insegnare il mestiere ai fiorentini. Fin dall’inizio, quando l’arazzeria ducale venne fondata nel 1545, Francesco Bachiacca vi svolse un ruolo importante come disegnatore di cartoni

63

Nei documenti la prima commissione a nome di Antonio Bachiacca fu quella di adornare con ricami un vestito di Eleonora da Toledo.

64 Allegri, Cecchi 1980, p. 26.

65 Agnolo Niccolini e Giovanni Bandini erano i due ambasciatori fiorentini spesso in missione alla

corte dell’imperatore Carlo V: non solo per scopi politici, ma anche come intermediari per le commissioni artistiche richieste dal Duca di Firenze.

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preparatori per gli arazzi: la prima commissione degna di nota fu la realizzazione delle Spalliere a grottesche. Ovviamente, oltre al Bachiacca anche il Bronzino disegnò, nello stesso periodo, celebri cartoni per l’arazzeria di Cosimo I, ma dato l’argomento della nostra tesi mi soffermerò solo sui lavori attinenti alla decorazione a grottesche.

Le Spalliere a grottesche erano, di fatto, grandi arazzi pensati per esser disposti lungo la parte inferiore delle pareti della Sala dell’Udienza in Palazzo Vecchio, proprio sotto gli affreschi di Francesco Salviati che illustravano le Storie di Furio

Camillo. Credo sia importante fare un brevissima parentesi a proposito degli

interventi voluti dal Duca in questa stanza; tale ambiente, infatti, aveva un significato politico particolare agli occhi del popolo fiorentino, poiché era il luogo dove veniva amministrata la giustizia ai tempi della Repubblica. Cosimo I si servì in questo caso dell’arte come abile mossa politica per ingraziarsi il popolo: non distrusse la Sala dell’Udienza, perché egli si proponeva come continuatore della Repubblica Fiorentina e dei suoi ideali di giustizia, ma la rinnovò. Così come creò una struttura governativa mista, con componenti repubblicane e principesche, allo stesso modo, con l’aiuto di Salviati e Bachiacca trasformò la Sala dell’Udienza66.

In soli quattro anni questa serie di dieci arazzi venne portata a compimento; probabilmente non doveva rimanere esposta tutto l’anno, ma veniva esibita solo in occasioni speciali per dar sfoggio della ricchezza della famiglia Medici. Oggi le

Spalliere a grottesche sono divise tra Italia e Inghilterra: quattro si trovano depositate

nel magazzino di Palazzo Davanzati sotto la tutela della Soprintendenza di Firenze, mentre le altre sei sono appese nella sala da pranzo dell’Ambasciata Italiana a Londra67. Uno studio accurato di questa serie di arazzi è iniziato proprio nel 1980 in occasione di un mostra a Palazzo Vecchio che ha permesso di vedere le Spalliere a

66 Adelson 1980, p. 149.

67 Gli arazzi che si trovano a Londra sono in miglior stato conservativo rispetto a quelli di Firenze che

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grottesche ritornare al completo ad adornare la stanza per cui erano state pensate

originariamente68.

Questa serie di arazzi è di dimensioni notevoli, basti pensare che la cosiddetta Carità misura all’incirca due metri e trenta di altezza e più di sette metri di lunghezza: il lavoro di Bachiacca dev’essere quindi consistito nel realizzare cartoni preparatori enormi. Come suggerisce il nome, queste “spalliere” sono decorate per lo più da grottesche, hanno una struttura compositiva che le accomuna, ma ogni elemento differisce dagli altri (fig. 28). Al centro di ogni arazzo, all’interno di uno scudo, c’è un’immagine relativa ad una delle virtù del Duca o della Duchessa. Attorno all’allegoria della virtù, a riempire la sezione centrale della spalliera, ci sono grottesche filiformi dalla struttura rada. Il bordo inferiore è sempre costituito da una sequenza di pesci di varie specie, inquadrati singolarmente, che impediscono la fluidità e la continuità tipica della decorazione a grottesche, ma l’avvicina ancor più ad illustrazioni scientifiche di ittiologia. Nella parte alta, invece, gli arazzi presentano una sorta di doppia bordatura: sopra compare un fregio nel quale le grottesche si infittiscono e si alternano a riquadri contenenti paesaggi, mentre sotto c’è una sequenza di bucrani, festoni, maschere e trofei. In particolare è interessante notare come, ad esempio, nella parte centrale della Spalliera a grottesche con la figura

della Carità (fig. 29) entro i pinakes sono rappresentati volatili e pesci in modo

naturalistico anziché, com’era tradizione, con scene mitologiche. Di fatto, è stato appurato che le figure di animali presenti negli arazzi sono gli stessi che appaiono sulle pareti dello scrittoio ducale. A questo proposito, si evidenzia una curiosità: nella Spalliera a grottesche con due putti sotto un baldacchino è rappresentato anche un tacchino del Nuovo Mondo che, invece, non era stato precedentemente rappresentato nello scrittoio. Le fonti iconografiche utilizzate per questi arazzi sono

68 La mostra del 1980 ha dato origine allo studio più importante sulle Spalliere a grottesche: quello di

Candace Adelson (vedi Adelson 1980, Adelson 1990). Successivamente, Meoni, Campbell e La France hanno contribuito ad approfondirne la ricerca.

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varie, ma le stampe di grottesche di Nicoletto da Modena e Giovan Antonio da Brescia giocano un ruolo preponderante69.

Adelson 70per prima evidenziò l’importanza di un precedente storico che presenta molte similitudini con la combinazione di affreschi e arazzi nella Sala dell’Udienza a Firenze: la Sala di Costantino in Vaticano. La Stanza affrescata dalla bottega di Raffaello, la quarta in ordine temporale, dipinta dopo la morte del Maestro, situata al secondo piano sopra gli appartamenti di papa Alessandro VI e, più precisamente, in corrispondenza della Sala dei Pontefici, presentava una serie di arazzi appesi nella parte inferiore delle pareti. La Sala di Costantino, infatti, originariamente era arricchita da una serie di venti pezzi, oggi purtroppo perduta, nota col nome di I

giochi dei putti che venne eseguita nella lontana Antwerp su progetto di Giovanni da

Udine e Tommaso Vincitor. Non ci sono documenti che possano attestare in modo inequivocabile la conoscenza da parte del Bachiacca di questa precedente serie di arazzi; di certo, però, dei putti che giocano sono presenti anche nelle Spalliere a

grottesche, sebbene in numero notevolmente limitato rispetto a quello degli arazzi

vaticani71. Un’altra possibile fonte d’ispirazione è stata indicata dalla Campbell negli arazzi chiamati Grottesche di Leone X; questa serie, come nel caso dei Giochi dei

putti, era stata commissionata dal papa Medici e questo rende più probabile un

richiamo non casuale da parte di Cosimo I al suo illustre parente. Anche in questo caso, però, siamo nel terreno delle ipotesi in quanto nulla è stato fin ora accertato con documenti e le grottesche delle Spalliere e quelle degli arazzi di Leone X non sono identiche; mentre quelle vaticane sono più archeologicamente corrette e i richiami alle pitture della Domus Aurea sono facilmente riconoscibili, quelle fiorentine sono più libere e interpretative.

69

Anche le stampe del Leviores sono state riutilizzate come modelli per le Spalliere a grottesche.

70 Adelson 1980, pp. 143- 146.

71 Mentre nei Giochi dei putti apparivano all’incirca una decina di angioletti per ogni arazzo, nelle

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La France, rispetto agli altri studiosi, sostiene che le Spalliere non rappresentino solo le virtù del Duca di Firenze, ma anche quelle della Duchessa. Lo studioso americano, partendo dagli studi recenti sull’importante ruolo svolto da Eleonora da Toledo a corte, evidenzia il possibile doppio riferimento della Carità sia del Duca che della Duchessa72.

Dopo il 1545 venne affrescato lo scrittoio della Duchessa da Francesco Salviati. Le grottesche dipinte sul soffitto sono usate come ornamento riempitivo all’interno della fascia che cinge l’ellisse centrale della volta; in particolare, occupano gli spazi che intercorrono tra una scenetta mitologica e l’altra. Sebbene quindi in questa stanza l’uso della decorazione a grottesche sia limitato, queste appaiono, rispetto a quelle dipinte da Ridolfo del Ghirlandaio, consapevoli delle ultime evoluzioni che questo ornamento aveva subito grazie all’intervento della bottega di Raffaello nelle Logge Vaticane; inoltre, anche i ventagli che inquadrano l’ellissi sono tipicamente di derivazione romana.

Dopo esser stato impiegato come “costumista”per la mascherata di Carnevale del 1546 assieme al fratello Antonio, Francesco Bachiacca venne incaricato di eseguire nuovi cartoni per un’altra importante serie di arazzi, forse la più costosa e lussuosa che fu mai realizzata dall’arazzeria fiorentina: i Mesi. Questa serie è oggi conservata nel deposito di Palazzo Pitti e il suo non ottimo stato di conservazione è dovuto, oltre al materiale deperibile di cui è costituita, anche all’esposizione alla luce di cui ha sofferto dal secondo dopo guerra al 1988, poiché durante quel periodo gli arazzi erano appesi nel corridoio degli Uffizi.

In questo caso, le grottesche hanno un ruolo marginale ed appaiono solo come cornici laterali, mentre la sezione centrale degli arazzi è occupata dalla raffigurazione dei mestieri caratteristici del mese rappresentato. In particolare, è possibile notare come nel bordo inferiore si alternino festoni sopra i quali poggiano, o svolazzano, diversi tipi di uccellini, alternandosi a riquadri rappresentanti il segno zodiacale del

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mese raffigurato nella zona centrale dell’arazzo. Nei bordi laterali, invece, attorno ad un esile bastone si abbarbicano campanule selvatiche e pergole con grappoli d’uva, arricchiti da maschere e visi paffuti di putti; nella parte intermedia di questi fregi laterali appaiono nicchie con figure in posa classica come fossero statue antiche. È sorprendente la ricchezza di dettagli naturalistici riportati con estrema attenzione in questa bordatura: a mio parere, anche per un occhio inesperto di botanica, è facile riconoscervi melograni, ciliegie, pere, bacche di mirto, gelsomini, garofani, tra le numerose varietà di frutti e fiori rappresentati. Indubbiamente, però, ciò che c’è di più bello e piacevole sono gli infiniti particolari che l’impreziosiscono: l’uccellino che becca la frutta, la rappresentazione dei melograni nei diversi stadi di maturazione, da pomo acerbo di piccole dimensioni fino al frutto totalmente compiuto e aperto che mostra i grani al suo interno, e via dicendo.

I Mesi si leggono da destra verso sinistra, partendo da marzo, secondo il calendario fiorentino. La rappresentazione dei mesi in senso antiorario era perfettamente conforme all’uso rinascimentale, basti ricordare famosi esempi come quello di Palazzo Schifanoia a Ferrara o a quello degli arazzi Trivulzio esposti nel Castello Sforzesco a Milano73.

Anche nel caso dei Mesi è stata sfruttata la conoscenza della pittura fiamminga e olandese del Bachiacca; i paesaggi sullo sfondo sono ripresi dalle stampe di Lucas van Leyden e vari spunti sono tratti dalle incisioni di Sebald Beham. La France ha proposto d’interpretare il Raccoglitore di grano (fig. 30) come un riferimento alle mansioni politiche della Duchessa, la quale amministrava l’esportazione del grano. Di fatto, ancora oggi non è stato accertato quale fosse il luogo di destinazione di questa serie di arazzi: secondo lo studioso americano dati gli elementi che inducono a pensare ad un riferimento ai beni amministrati dalla Duchessa è probabile che

73 Ovviamente, il riferimento è al ciclo dei mesi ferrarese commissionato da Borso d’Este e dipinto da

vari artisti dell’ “Officina ferrarese” tra cui Cosmé Tura, Ercole de’Roberti e Francesco del Cossa attorno al 1470; mentre la serie di arazzi milanesi voluti dal governatore della città, Gian Giacomo Trivulzio, venne eseguita sui cartoni del Bramantino dalla neo nata manifattura di Vigevano tra il 1503 e il 1508.

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