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Vita operaia

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Academic year: 2021

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Vita operaia

Per documentare la vita degli operai della Crastan ci siamo affidati alle testimonianze di coloro che vi hanno lavorato quasi una vita, e perciò hanno vissuto i cambiamenti che ci sono stati nell’arco di quasi cinquanta anni. I loro ricordi hanno fornito notizie molto significative, e di grande utilità per ricostruire questo aspetto dell’azienda.

La maggior parte di loro, soprattutto i più anziani, è entrata a lavorare nello stabilimento molto giovane, e il rapporto che si è creato con l’azienda è un’amicizia che dura tuttora che la pensione li ha allontanati.

Il legame che c’è tra azienda, proprietari, operai e impiegati è sempre stato improntato a rapporti diretti, schietti, finalizzati alla buona riuscita del lavoro.

I primi ricordi risalgono al periodo in cui l’azienda era guidata dai tre figli di Luzio Crastan.

Gianfranco Crastan, attuale Presidente del consiglio di amministrazione, ricorda che suo nonno, Niccolo, aveva istituito per gli operai una mutua, cosa assolutamente rara per il tempo, soprattutto se si pensa che era stata proposta direttamente dal proprietario, e non da un’associazione operaia. Questo significa che gli operai disponevano di assistenza in caso di malattia e di una pensione, una volta raggiunta la maturità lavorativa. Per chi non poteva permettersi una degna sepoltura l’azienda si offriva di pagare tutte le spese. Qualche operaio veniva anche aiutato economicamente, magari per far continuare gli studi ai figli, cosa eccezionale in una famiglia di operai,

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in cambio di qualche mansione straordinaria, per esempio di giardinaggio o falegnameria, nello stabilimento o a casa Crastan.

Non si può certo affermare che lavorare alla Crastan fosse un cattivo lavoro, sebbene alcune mansioni fossero molto faticose, anche perché alla fine del mese era possibile portare a casa un gruzzolo superiore anche del 50% rispetto a quello degli altri colleghi operai pontederesi. La ex-operaia Maria Marrucci, generalmente occupata nel confezionamento dei prodotti, racconta, con un pizzico di soddisfazione, che il suo stipendio era superiore a quello del fratello, operaio alla Piaggio.

La Crastan poteva permetterselo, soprattutto in quei periodi in cui gli affari andavano a gonfie vele, poiché i guadagni erano elevati, e il numero degli operai relativamente basso.

La conduzione, fino alla seconda guerra mondiale, è stata di tipo paternalistico, come era frequente all’epoca, e particolarmente nella patria d’origine della famiglia. Non si può però dire che il taglio con il passato paternalistico sia stato netto, poiché se ne trovano tracce fino agli inizi degli anni novanta del ‘900, quando la ditta, passata all’ultimo discendente dei Crastan, si è rinnovata e avvicinata a un modello più moderno di gestione.

Questo tipo di conduzione determinava una serie di abitudini particolari, che, in molti casi, avvicinavano il padrone, come era chiamato allora il proprietario della fabbrica, e i suoi dipendenti.

Qualcuno ancora si ricorda che ogni giorno, sia all’ora di entrata che di uscita, Crastan, o, raramente, qualcuno che lo sostituisse, si presentava al cancello per salutare personalmente gli operai che

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passavano. Il gesto non era soltanto una forma di controllo, ma anche di cortesia1.

Da parte dei Crastan non c’è mai stata ostentazione: era proibito andare a lavoro in auto, quando queste erano poche e gli operai arrivano in bicicletta o a piedi, con gli zoccoli, e la puntualità era molto importante, anche se eri il figlio del padrone.

I dipendenti che abitavano in zone più lontane raggiungevano lo stabilimento con le biciclette, che venivano parcheggiate, come alcuni si ricordano, in una stanza, dove c’erano anche dei ganci appositi alle pareti.

C’era anche chi arrivava con il barroccio, magari mandato dagli stessi Crastan a prendere chi, per vecchiaia o per malessere, non poteva raggiungere da solo Pontedera. Questo accadeva, per esempio, per due fratelli di Bientina, che nonostante l’età avanzata, continuavano a lavorare al reparto di torrefazione, la loro esperienza e capacità erano un contributo molto importante per la buona riuscita della produzione.

Forse l’unico che ha peccato di eccessiva esibizione è stato proprio Luzio Crastan, il fondatore. Una volta che suo padre, un uomo forte e determinato, sindaco del piccolo paese dell’Engadina, sbarcò a Livorno per raggiungere il figlio a Pontedera, trovò ad attenderlo una carrozza sfarzosa, con cavalli scalpitanti guidati da un cocchiere in livrea. Forse Luzio, come tutti i nuovi ricchi, ostentava un po’ troppo questa sua fortuna, e magari credeva di far piacere al padre riservandogli una accoglienza particolare, pur non potendo andarlo a prendere personalmente. Il vecchio montanaro non apprezzò molto il

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gesto, considerandolo eccessivo e di cattivo gusto, e rivolgendosi al cocchiere chiese: ”Quanti chilometri ci sono per arrivare a Pontedera?” - “Trentacinque.” - “Beh, io vengo a piedi”2.

Evidentemente questo episodio è servito da lezione.

Fig. 72- La carrozza della famiglia Crastan, 1906.

Gli operai e gli impiegati ricordano che se c’era un problema erano i proprietari stessi che insistevano per saperlo subito, senza timori: l’operaio si rivolgeva direttamente al principale, e quest’ultimo, se voleva parlare con un dipendente, non lo faceva chiamare, ma lo andava a trovare personalmente.

Forse è anche per questo che nessuno degli intervistati è riuscito a ricordare episodi clamorosi, legati ai periodi di maggiore agitazione sindacale. Di scioperi interni ce ne sono stati pochi, generalmente gli operai più politicamente inquadrati partecipavano a quelli esterni, ma la cosa poteva creare più un fastidio personale al principale che una

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vera e propria battaglia sindacale. Questo accadeva perché la maggior parte dei dipendenti della Crastan erano donne, più facili da dissuadere da uno sciopero, e perché l’azienda rinnovava contratti e accettava le nuove proposte seguendo ciò che accadeva nella generalità delle aziende, ma soprattutto per il fatto che si era creata una sorta di calotta protettiva, dove i problemi venivano risolti volta per volta e autonomamente, seguendo le proposte della commissione interna, e la politica influiva solo fino a un certo punto.

Per i Crastan la cosa importante era che l’azienda funzionasse e producesse al meglio delle sue possibilità, non c’è mai stato uno spiccato interesse per la politica. La perfetta puntualità nei pagamenti degli stipendi e il rispetto delle leggi hanno sempre creato un clima povero di tensioni e scontri.

Non ci sono racconti concitati neppure quando, con la

meccanizzazione sempre più dilagante, vennero licenziati molti operai. I licenziamenti furono tanti, ma non tanti quanti potrebbero sembrare a prima vista. Ci fu un calo del personale, ma questo fu dato dal fatto che coloro che andavano in pensione non venivano sostituiti da operai giovani. Calarono precipitosamente le nuove assunzioni. Alcuni operai vennero licenziati e poi nuovamente assunti.

Le agitazioni e i tentativi per salvaguardare i posti di lavoro non mancarono neppure negli anni ’80 del XX sec., quando un periodo di forte crisi costrinse a fare dei tagli al personale, ma alla fine anche i dipendenti si arresero alla necessità dei licenziamenti per la sopravvivenza dello stabilimento. L’accordo fu trovato sfruttando la cassa integrazione3.

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Negli ultimi anni, tutta la gestione dell’azienda è cambiata, sono cambiate anche le vecchie usanze, ricordo del sistema paternalistico, ed è cambiato il modo di confronto tra dipendenti e principali, ma, sebbene i Crastan abbiano sempre fatto il loro interesse e quello della società, non è mai mancato il rispetto e la chiarezza verso coloro che hanno un ruolo non indifferente per la vita dello stabilimento.

Nel sentire le interviste, la Crastan compare come una sorta di grande famiglia, in cui i dipendenti hanno trovato una armonia, che loro stessi definiscono rara. Questo sentimento si percepisce più forte se si parla con i dipendenti più anziani.

Fig. 73- Operai di fronte a un magazzino della fabbrica. (Anni ’60 ca.)

I compiti degli operai, ma anche degli impiegati, erano svariati: come in una conduzione familiare tutti dovevano saper fare tutto e accettare mansioni diverse da quella che svolgevano di solito.

Se ci sono episodi di uomini che abbandonavano per un giorno il duro lavoro della torrefazione per sistemare e dipingere gli infissi, ci sono anche donne che venivano sollevate dall’impacchettamento per prestare servizio alla casa del padrone, magari con un piccolo incentivo economico.

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Anche all’interno del vero e proprio lavoro di produzione, ai dipendenti potevano essere affidate mansioni diverse dal loro solito, a seconda delle necessità. La mattina il portiere assegnava, ad ogni operaio che gli passava davanti, il ruolo a cui era stato destinato per la giornata4.

Ancora oggi un operaio, sebbene sia incaricato ad una mansione specifica, deve saper lavorare anche alle altre macchine presenti nello stabilimento, non solo a Pontedera, ma anche a Fornacette o a Gello, perché può capitare che ci sia bisogno di una sostituzione dell’ultimo momento. Le più difficili da seguire sono quelle più vecchie, che hanno un grado di meccanizzazione inferiore e richiedono un intervento dell’addetto più continuo e attento5.

I ruoli, segnalati su di una tabella, vengono attribuiti dal capo operaio una volta alla settimana, in modo che ogni coppia di operai abbia un carico di lavoro pari alle altre. Fino agli anni novanta del ‘900, invece, le varie mansioni erano segnate su di un foglio appeso nella sala macchine, dove era riportato anche il numero degli addetti per ogni apparecchio. Gli operai, ma in particolare le donne, da cui abbiamo conosciuto il sistema di suddivisione del lavoro, sceglievano personalmente il lavoro da svolgere. In ogni coppia la decisione veniva, generalmente, presa dalla operai più anziana.

Lo stabilimento non aveva solo il reparto di cottura e quello di impacchettamento dei prodotti destinati alla vendita: per mantenere una certa autosufficienza da aziende esterne, la Crastan disponeva di una officina per la riparazione delle macchine, una falegnameria, per la costruzione degli imballaggi e per i lavori di manutenzione dello

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Intervista a Catullo Belli, 5 ottobre 2004. 5

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stabile, e, infine, di una tipografia, dove si stampavano, fustellavano6 e tagliavano le confezioni di carta e cartone. Oltre a queste lavorazioni ve ne erano altre, saltuarie, necessarie per la produzione degli omaggi regalati con le confezioni di surrogati, e per tutte quelle produzioni temporanee che non sempre hanno avuto fortuna e seguito. Oggi queste officine accessorie non esistono più, anche se è in programma la realizzazione di una linea per la costruzione dei barattoli in latta, nello stabilimento di Gello, naturalmente.

Se non c’era grande distinzione tra ruoli, sicuramente ce n’era tra uomini e donne, che è rimasta immutata fino ad oggi, alle soglie del XXI sec.

Le donne erano impiegate in tutta la fase di confezionamento, compresi lo stampaggio e la preparazione delle confezioni di carta e di cartone.

Al primo piano, dove si svolgevano le ultime fasi della lavorazione, numerose donne, in alcuni periodi quasi cento, erano suddivise in squadre. Ogni squadra, composta da dieci persone, occupava un tavolo.

Le operaie lavoravano a coppie: una preparava il pacchetto, l’altra lo riempiva con un misurino da 60 gr. e l’aiuto di forme in legno costruite appositamente, in cui c’erano alloggiamenti per venti scatoline. Appena completato il riempimento delle confezioni l’intera forma veniva battuta sul tavolo per regolare il livello della polvere di surrogato. Se il risultato era soddisfacente si chiudevano gli involucri. Il lavoro passava poi alla coppia successiva che applicava l’etichetta e la fascetta dei monopoli di stato.

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Taglio e sagomatura del cartone per mezzo di un utensile in acciaio, che ne permette la facile piegatura per la costruzione delle confezioni.

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Il più laborioso da confezionare era il Moretto, sebbene fosse contenuto semplicemente in un foglietto di carta stagnola e carta impermeabile: il melasso di cui era composto, appiccicoso, era difficile da lavorare, soprattutto dei periodi di bella stagione, e faceva diventare le mani completamente gialle.

Un operaio si ricorda che alla fine della giornata, quando tutti lasciavano il lavoro per andare a lavarsi e cambiarsi prima di uscire, molte donne avevano il viso tutto giallo, perché si erano toccate con le mani sporche, ed impiegavano un po’ di tempo per pulirsi bene7. Il rito della doccia dopo il lavoro non è scomparso neppure oggi, che le macchine hanno sostituito le mani degli operai. Il lavoro alla Crastan non è un lavoro pulito, ed è per questo che l’azienda ha riservato per i suoi dipendenti dei locali adibiti a spogliatoi e docce, divisi tra uomini e donne.

Le operazioni di confezionamento richiedevano una certa capacità manuale, per questo le ragazze entravano a lavorare molto giovani, verso i tredici anni. C’era comunque una donna più esperta, chiamata “Maestra”, che supervisionava tutte le operazioni, insegnava alle nuove ragazze e aiutava le meno capaci.

Non c’era rivalità o distinzione di classi di ruolo: le donne erano vestite tutte uguali, con un grembiule e un fazzoletto annodato in testa, come oggi che portano una vestaglia fornita dall’azienda, e il lavoro dell’una era fatto volentieri dall’altra, se ce n’era bisogno. C’era un clima di grande collaborazione.

L’importante era che, alla chiamata “Donne, al peso!”, la finanza non trovasse errori nella confezione dei pacchettini. Alcune ammettono

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che c’era chi si teneva da parte le quindici confezioni già pesate e approvate, per portarle alla pesata successiva, per evitare di fare errori. La finanza, infatti, controllava diligentemente, e bastava poco perché la pesatura fosse considerata errata, il che determinava una multa per l’operaia.

Una volta arrivate le macchine, che sostituivano molte donne nelle fasi di confezione, era data grande considerazione alle macchiniste, che sapevano utilizzare i nuovi marchingegni. Le prime, e più numerose, macchine introdotte nella catena della produzione, erano le confezionatrici. Chi vi ha lavorato ricorda che erano molto grandi e molto rumorose, tanto che era necessario indossare delle cuffie, e ad ogni colpo che si sentiva corrispondeva una confezione di surrogato. Tanti colpi, tante scatoline.

Le operaie hanno sempre saputo gestire con capacità di organizzazione e serietà il loro lavoro, tanto che si può dire che il reparto di confezionamento fosse affidato alla loro direzione. Le operaie più giovani si ricordano delle anziane come maestre dai molti insegnamenti, spesso anche severe, ma che sapevano fare il loro lavoro con precisione e velocità.

Agli uomini erano destinati i lavori più duri e faticosi. Erano loro che, al piano terra si occupavano della cottura dei surrogati, e della preparazione del melasso. Quest’ultimo lavoro, oltre ad essere faticoso, lasciava un segno giallastro, quasi indelebile, sugli operai, come sulle donne che impacchettavano.

I lavori degli operai richiedevano un notevole sforzo fisico, soprattutto quando non c’erano ancora le macchine che svolgevano la maggior parte dei lavori.

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Prima la cicoria veniva tostata grazie al calore sprigionato da forni alimentati a legna, mentre oggi viene sfruttato il metano. Per mantenere il fuoco acceso e la temperatura ad un livello ottimale per la lavorazione usavano ceppi di cerro. Non era affatto semplice, serviva molta pratica e conoscenza delle operazioni8.

Alla Crastan non c’era l’usanza di assumere due o più membri della stessa famiglia, ma per molte mansioni era facile che fossero assunti figli o parenti degli operai che già vi lavoravano, questo perché, per determinate operazioni, come quella della tostatura, serviva una abilità particolare, che un padre poteva tramandare meglio a un figlio che a un estraneo: era come un mestiere, che si imparava già da piccoli, ascoltando i racconti e la spiegazioni dei grandi.

Le diverse occupazioni non determinavano una grande differenza di salario, anche perché, come si è visto, erano variabili. Lo stipendio che percepivano uomini e donne era quasi uguale, anche se leggermente inferiore per le donne.

La retribuzione era suddivisa, invece, in fasce di età: dai 14 ai 16, dai 16 ai 18 e dai 18 ai 20 anni. La divisione era determinata dal fatto che i compiti erano differenti e cambiavano con l’età, l’esperienza e le capacità maturate lavorando. Dai venti anni in poi era uguale per tutti, perché ormai la formazione era completata.

Prima che si realizzasse una massiccia meccanizzazione, cosa che è avvenuta negli ultimi anni, non esistevano turni di lavoro. La sirena suonava per tutti alle otto di mattina, poi di nuovo a mezzogiorno. Alle due del pomeriggio chiamava nuovamente gli operai a lavoro, per salutarli alla fine della giornata, alle sei. Si lavorava otto ore al

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giorno, e la sirena scandiva le giornate dei lavoratori. A quel tempo Pontedera: tutti gli stabilimenti avevano sirene che facevano suonare ad ogni turno, sia di giorno che di primo mattino, tanto che per chi vi abitava il riposo notturno era cosa rara. Il sabato era giorno lavorativo, e spesso la produzione continuava la domenica mattina.

Benché ci fosse una pausa di due ore tra la mattina e il pomeriggio, non esisteva una mensa aziendale. La maggior parte degli operai e impiegati, che abitavano nelle vicinanze, tornavano a casa, gli altri si portavano il pranzo preparato la mattina e spesso mangiavano nel cortile dello stabilimento, che, a differenza di ora, aveva più l’aspetto di un giardino.

Fig. 74- Operaie nel cortile della fabbrica, abbellito da siepi e piante. (Anni ‘50 ca.)

Anche recentemente, non essendo per legge necessaria una mensa per le aziende con pochi dipendenti, ognuno si preoccupa di portarsi il pranzo da casa, e l’azienda mette disposizione una stanza attrezzata con un tavolo e qualche sedia, uno scaldavivande e un armadietto come dispensa.

Con le macchine sono stati introdotti i turni, che sono cambiati nel corso degli anni. I primi ad essere introdotti regolavano le entrate e le

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uscite degli operai in una giornata lavorativa che andava dalle sette della mattina alle sette di sera. Il primo turno entrava alle sette, aveva un ora di pausa a mezzogiorno e poi riprendeva a lavorare fino alle sei. Il secondo turno entrava alle otto, per uscire alle sette, posticipando all’una la pausa pranzo, cosicché le macchine non rimanessero mai senza sorveglianza.

Dalla fine degli anni novanta è stata introdotto un nuovo avvicendamento dei turni lavorativi9: chi entra alle sei di mattina esce alle due, e viene sostituito dal secondo turno, che cessa di lavorare alle dieci di sera, anche se spesso l’orario è variabile, soprattutto se il lavoro è tanto e il tempo di consegna poco. Questi turni di otto ore non prevedono una pausa pranzo, ma è possibile fare piccole pause, perché non c’è un controllo severo dei lavoratori: l’importante è che la produzione vada avanti senza difficoltà o

rallentamenti.

In passato, soprattutto, i problemi più grossi si presentavano a quelle donne che

avevano bambini da allattare o

semplicemente da accudire.

Durante la gravidanza le operaie lavoravano fino al sesto mese, e riprendevano le loro mansioni in fabbrica dopo due mesi dal parto.

Con i soldi guadagnati lavorando, pur essendo un buon stipendio, non era possibile pagare qualcuno che si occupasse del bambino per l’intera giornata, e neppure negli orari in cui gli asili erano chiusi. Non

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Intervista a Pietrina Candela, 3 dicembre 2004.

Fig. 75- Una operaia con la figlia di una collega.

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c’era un asilo dedicato ai figli dei dipendenti, e quelli comunali, aperti dalle nove di mattina alle quattro del pomeriggio, non sollevavano le madri dalla preoccupazione di dove lasciare i figli.

Le intervistate hanno sempre fatto riferimento alle suocere o alle madri, che molto spesso accompagnavano i neonati alla fabbrica, per permettere alla mamma di allattarli10. Chi non aveva questa possibilità si faceva aiutare da qualche parente o amico. Nell’azienda c’era comunque una stanza disponibile per le madri che dovevano allattare i figli, ma non era molto frequentata.

C’era anche chi, approfittando della vicinanza della casa, si assentava qualche minuto da lavoro per dar da mangiare al bambino e tornare subito dopo.

Il villaggio comunale, poco distante, accoglieva un gran numero di abitanti, molti dei quali lavoravano alla Crastan.

Non esisteva un villaggio operaio costruito da Crastan per i suoi dipendenti, anche se, dopo la seconda guerra mondiale, quando la città, bombardata, aveva pochi tetti da offrire ai suoi cittadini, la società si preoccupò di comprare due edifici, adiacenti allo stabilimento, per ospitare gli impiegati con le loro famiglie.

Dai due palazzi, uno dei quali era stato un albergo molto frequentato per la sua vicinanza con la stazione, furono ricavati in buon numero di appartamenti piuttosto spaziosi.

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Fig 76- I due palazzi che ospitavano gli appartamenti degli impiegati. Si notano sullo sfondo la fabbrica e la ciminiera.

Per qualcuno fu comunque un trauma andare ad abitare in queste nuove case: le finestre che davano sul cortile dello stabilimento erano piombate e non c’erano persiane da poter aprire o chiudere a piacimento.

Un impiegato si ricorda che sua madre fece molta fatica ad abituarsi alla situazione, anche perché il suo appartamento si affacciava proprio sopra alla “chiesa”, il capannone in cui veniva cotto il melasso. Il fumo insistente colorava di giallo i vestiti stesi al sole, tanto che ogni giorno gli operai, finita la cottura dello zucchero le urlavano dal cortile: “Renata, Renata, pole stende’ i panni che s’è finito la cotta!”.11 La situazione si risolse soltanto dopo che la finanza lasciò lo stabilimento e le reti furono allontanate dalle finestre.

A questi alloggi va aggiunto quello destinato al guardiano, costruito all’interno della fabbrica, lungo il muro di cinta che costeggia Via I Maggio, cosicché ci fosse un’entrata indipendente sulla strada.

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Fig. 77- La casa del custode.

Oggi gli appartamenti degli impiegati non sono più di proprietà della Crastan, che li ha venduti a privati, alcuni dei quali ex operai, e l’alloggio del custode è utilizzato dalla ditta, che ne sfrutta i locali in vari modi.

Nelle belle domeniche primaverili o nei giorni di festa erano frequenti le gite, fuori porta o nelle città vicine, organizzate dagli operai per tutte le famiglie.

Figg. 78, 79- Operai in gita a Firenze e al mare. (Anni ’60 ca.)

La ditta non programmava il tempo libero dei suoi dipendenti, ma vedeva di buon occhio queste iniziative, e spesso vi partecipava, per esempio, con piccoli contributi, come un dolce in occasione della festa

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della donna o qualche buona pietanza per il pranzo organizzato dai dipendenti dopo le grandi pulizie precedenti le vacanze estive.

Ogni anno la Crastan, nonostante i proprietari non fossero cattolici, distribuiva regali per Natale e premiava i dipendenti più meritevoli. A Pasqua, il primo piano, dove solitamente le donne confezionavano i vari surrogati, diventava luogo di aggregazione e preghiera, per la messa pasquale.

Fig 80- Messa Pasquale in fabbrica. ( Anni ’50-’60 ca.)

Queste usanze, ereditate dalla conduzione paternalistica, facevano comunque sentire ancora di più gli operai della Crastan come un gruppo unito da un legame che non era soltanto lavorativo.

Ancora oggi c’è amicizia tra gli operai, ma soprattutto, tra i dipendenti e i Crastan, cui non mancano di far visita ogni tanto.

Naturalmente oggi la Crastan ha mutato alcune delle sue caratteristiche descritte fino ad ora, perché con l’ampliamento del giro d’affari, con il passaggio di testimone alla conduzione dell’azienda, la continua modernizzazione degli impianti e di tutto l’ambiente che la

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circonda, era inevitabile un cambiamento. Si è persa quell’aria familiare che si respirava fino a una decina di anni fa, ricordo della vecchia conduzione paternalistica, ma questo non significa che il rapporto tra proprietari e dipendenti sia radicalmente mutato o peggiorato, è soltanto diventato più moderno, meno complice, più rivolto alla buona riuscita della produzione, ma non si è assolutamente perso il rispetto reciproco, che ha sempre caratterizzato la Crastan e che spesso è difficile da trovare nelle aziende.

Figura

Fig. 72- La carrozza della famiglia Crastan, 1906.
Fig. 73- Operai di fronte a un magazzino della fabbrica. (Anni ’60 ca.)
Fig. 74- Operaie nel cortile della fabbrica, abbellito da siepi e piante. (Anni ‘50 ca.)
Fig 76- I due palazzi che ospitavano gli appartamenti degli impiegati. Si notano sullo sfondo la fabbrica e la ciminiera.
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Riferimenti

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