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CAPITOLO IV

«[..] ha procurato bensì di essere fedelissimo alla trama del romanzo, per quanto lo comportavano le necessità dello schermo: ma per il resto ha lasciato che le cose andassero come potevano. Nel film ritroviamo molti dei fatti del romanzo e quasi tutti i personaggi;

ma salvo brevi luoghi, la realtà poetica che Palazzeschi aveva saputo creare è sfumata» (Moravia sul film Sorelle Materassi di Ferdinando Maria Poggioli)

4.1 Sorelle Materassi e il cinema

È forse lo straordinario successo editoriale e di pubblico ottenuto dall’opera nel ’34 a convincere, quasi una decina di anni dopo, l’allora famoso regista Ferdinando Maria Poggioli, ad accettare la direzione del film tratto dall’ omonimo romanzo di Aldo Palazzeschi che, pur avendo ottenuto il visto della censura nel ‘44, viene ufficialmente distribuito nelle sale cinematografiche di Roma solo nel gennaio 1945.

Abbiamo visto come, secondo il giudizio dell’epoca, il romanzo di Palazzeschi sia stato erroneamente classificato come ennesimo esempio di romanzo di consumo, per quella patina di genuinità popolare e di tradizionalismo borghese che bene si confacevano alle caratteristiche della narrativa corriva, perfettamente inquadrata nel canone letterario fascista. Ed anche la versione cinematografica, sebbene in altro contesto, si mosse verso questa direzione, rappresentando l’ennesimo esempio di film di facile distribuzione in linea con le tendenze cinematografiche imposte all’epoca dal Regime, il quale, soprattutto sulla settima arte, sembrò dettare legge circa i metodi di produzione e l’attribuzione di valore ai prodotti realizzati.

Ma la scelta da parte di Poggioli potrebbe anche non essere stata semplicemente influenzata dal successo di pubblico e di mercato del libro,

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ma forse anche da una particolare predilezione personale verso un determinato genere letterario al quale, con ogni probabilità, Sorelle

Materassi sembrò appartenere. Le scelte del regista, specie quelle

riguardanti l’adattamento per lo schermo di opere letterarie, sembrano prediligere una particolare tipologia di romanzo, in particolare quello a sfondo ottocentesco o incentrato sul motivo melodrammatico, elementi questi altrettanto ascrivibili all’opera palazzeschiana.

Va inoltre specificato che il film del 1945 è solo l’espressione definitiva di un duro e difficile processo di pianificazione cinematografica che, tra alti e bassi, vide tra i suoi protagonisti, oltre al già citato regista, anche la presenza sul set dello stesso Palazzeschi. Purtroppo la collaborazione dell’autore non risultò sufficiente ad assicurare al film una buona riuscita cinematografica, né tanto meno la pellicola fu capace di soddisfare le personali aspettative dello scrittore, non avendo in ultimo adempito, nella sua versione definitiva, alle originarie premesse per le quali egli si era convinto in extremis a partecipare al progetto.

4.1.1 Istituzioni statali e cinematografia nel ventennio fascista (1925-1943)

Per poter motivare debitamente le scelte e i metodi praticati da Poggioli nella realizzazione dell’adattamento del romanzo, dobbiamo necessariamente soffermarci da un lato sul contesto storico-culturale e cinematografico dell’epoca e dall’altro sulla figura stessa di Poggioli e sul suo personale stile di regista. Senza queste coordinate non saremmo altrimenti in grado di comprendere, al momento della valutazione artistica del film, quanto contesto e scelte stilistiche messi insieme abbiano condizionato sia il giudizio di Palazzeschi sia quello della critica corrente. Il film, prodotto dalla CINES e distribuito da ENIC (Ente nazionale industrie cinematografiche), viene per buona parte girato a Cinecittà, il principale complesso di produzione dell’industria cinematografica italiana, uno dei baluardi culturali dell’epoca fascista, ardentemente voluto dal Duce e inaugurato il 28 aprile 1937 dopo la costituzione, nel ’34, della

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Direzione generale della cinematografia, con la quale il Regime sancisce,

insieme ad ulteriori e significativi provvedimenti, l’inizio di una sua attiva e collaborativa partecipazione alla produzione filmografica del Paese, sotto l’attenta supervisione dell’allora direttore Luigi Freddi che, in virtù di questo incarico, viene posto anche alla guida della nuova città del cinema.

La nascita di Cinecittà rappresenta uno dei più significativi risvolti del processo di monopolizzazione dell’industria cinematografica da parte dello Stato. L’obiettivo del Regime, ormai instaurato da più di un decennio, è quello di risollevare le sorti del cinema italiano dopo il breve periodo di gloria a livello mondiale ottenuto ad inizio secolo durante la fase del cinema muto, e ora riversato in una condizione di profondo ritardo tecnologico e produttivo rispetto a più competitivi stati europei, quali la Francia e l’Inghilterra che, a differenza dell’Italia, potendo fare affidamento su mezzi di produzione più adeguati e all’avanguardia, riescono sullo schermo a reggere il confronto con i più ambiziosi prodotti cinematografici provenienti da oltreoceano.

Per raggiungere lo scopo, dunque, lo Stato inizia gradualmente ad interessarsi a quegli aspetti del settore culturale come i mezzi di comunicazione di massa, in particolare la radio e il cinema che, se ben controllati, avrebbero potuto giocare un ruolo determinante sia nella gestione dell’opinione pubblica e del consenso, sia nel rilancio produttivo del Paese all’interno del quadro economico mondiale.

Il culmine del lungo processo di ingerenza dello Stato nell’industria cinematografica è raggiunto nel 1938 con la famosa Legge Alfieri1,

promossa dal nuovo Ministro della Cultura Popolare Dino Alfieri, subentrato al precedente Ministro Galeazzo Ciano. La legge abroga definitivamente la possibilità di portare le industrie cinematografiche

1 Si tratta del R.D.L. 16 giugno 1938, n. 1016 convertito in legge il 18 gennaio 1939, n. 458.

«Coll’intervento dello Stato e la sua graduale azione, essa [la cinematografia italiana] apparve a taluni speculatori come una nuova Alaska sul cui terreno urgeva impiantare il pacchetto monopolistico.», LUIGI FREDDI, Il cinema, Roma, 1949. Le parole di Freddi citate dal suo saggio autobiografico sono riportate da Massimo Mida in MASSIMO MIDA - LORENZO QUAGLIETTI, Dai

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private sotto il diretto controllo economico dello Stato e in cambio istituisce un monte premi statale variabile a seconda degli incassi annuali ottenuti da ciascun film per via concorrenziale. Ciò significa che alla vecchia politica cinematografica perseguita fino a quel momento dalla Direzione nella persona di Luigi Freddi, il quale credeva fermamente che l’evoluzione tecnologica del cinema italiano e il miglioramento della sua qualità di produzione si potessero raggiungere previo totale controllo economico da parte dello Stato, subentra l’idea di un perfezionamento naturale della cinematografia, direttamente proporzionale non più alla qualità, bensì alla quantità dei film prodotti dalle singole industrie private. Ritorna, dunque, a circolare il vecchio concetto di incremento produttivo come nuovo sinonimo di valore e di pregio.

È indubbio che alla base della disposizione legislativa del Ministro Alfieri si rintraccia l’esigenza di incentivare la produzione del Paese anche nel settore culturale e si giustifica così il coinvolgimento esclusivamente economico da parte dello Stato nei confronti della nuova industria cinematografica, nel totale disinteresse verso la qualità e il livello dei prodotti filmici che da lì in poi sarebbero circolati nelle sale cinematografiche italiane.

L’incremento produttivo di tipo economico, ricercato anche nel cinema durante il regime fascista, conferma che il benessere finanziario del Paese viene anteposto al benessere culturale delle masse, mantenute in uno stato di indifesa e docile quiescenza, in modo da scongiurare ogni possibile minaccia per l’ordine e per la sicurezza nazionale2.

Tra l’altro, la convinzione che solo sul piano della produzione si possa competere con l’industria cinematografica di Hollywood e le

2 «L’intervento dello Stato […] Freddi lo voleva per garantire alla produzione uno standard

qualitativo (naturalmente secondo il suo concetto di qualità) tale da portare il cinema nazionale a livello imprenditoriale. […] Questo significa che, lungi dall’essere indifferente, il regime seguiva con sguardo vigile la produzione. E questo significa che se, durante il ventennio, si è avuta quella determinata produzione così poco permeata di fascistico slancio da farla apparire, quasi quarant’anni dopo “evasiva” è stato perché al regime era proprio quella produzione ad andare benissimo», Ivi, pp. 6, 11.

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statistiche, che a pochi anni di distanza dalla mozione della legge confermano l’avvenuta crescita finanziaria del Paese, inducono ancora di più gli addetti ai lavori a riconoscere la validità del recente indirizzo impresso dalla politica al cinema.

Anche la Censura, passata nel frattempo dal ministero dell’Interno al ministero della Cultura Popolare, si muove a favore del nuovo progetto, limitandosi ad eliminare dalla circolazione o a effettuare tagli solo a quei film che risultano, secondo regolamento, «offensivi alla morale del buon costume e della pubblica decenza del privati cittadini; […] contrari alla reputazione, al decoro nazionale, all’ordine pubblico […] [e al] prestigio delle istituzioni e delle autorità pubbliche […]»3 potendo così offuscare

l’immagine del Regime.

Per raggiungere la famosa e ambita «quota cento»4 annuale inizia,

pertanto, dal ’38 in poi una corsa alla produzione cinematografica inarrestabile che già alla fine del ’39 non solo raggiunge, ma addirittura supera il centinaio, avendo nel frattempo lo Stato ottenuto, grazie a un secondo decreto legge5, il totale controllo nell’acquisto di film prodotti

all’estero, in particolar modo francesi e tedeschi, e avendo ridotto strategicamente l’importazione di pellicole americane, nel tentativo di sostituire il prestigio dei kolossal Hollywoodiani con quello più genuino e patriottico di casa nostra.

In questo contesto, quindi, si inserisce perfettamente la promozione e l’incentivazione di un cinema «più che mai evasivo e disimpegnato»6, di puro intrattenimento, e più che mai lontano da

qualsiasi implicazione politica e morale di un certo spessore.

3 GIAMPAOLO BERNAGOZZI, Il cinema del ventennio fascista, in Storia del cinema. Dall’affermazione del sonoro al Neorealismo, a cura di Adelio Ferrero, Marsilio Editori, Venezia, 1978, p. 53. 4 Si fa riferimento alla quota di produzione cinematografica annuale suggerita direttamente da

Mussolini a Luigi Freddi in una missiva del 1937. Testimonianza riportata oralmente da Massimo Mida in M. MIDA – L. QUAGLIETTI, op. cit. 1980, p. 8.

5 Si tratta del R.D.L. del 4 settembre 1938, n. 1389, convertito nella legge del 9 gennaio, 1939, n.

465. Informazione contenuta in M . MIDA – L.QUAGLIETTI, op. cit. 1980, p. 9.

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Ovviamente, anche da parte di sceneggiatori e produttori c’è un personale interesse nel proporre film leggeri e di facile godimento, in maniera da ottenere più agevolmente e senza troppi intoppi il nullaosta sia da parte della Censura sia da parte del Ministero della Cultura Popolare a cui si doveva far riferimento per qualsiasi concessione finanziaria.

Il carattere spassionato e apolitico della maggior parte della produzione cinematografica del Ventennio, la sua «eversività rispetto alla questione fascista»7 è, in quest’ottica, facilmente giustificabile: non

dipende da un totale disinteresse dell’industria cinematografia nei confronti della contemporanea situazione socio-politica del Paese, anzi, al contrario, deriva da un suo totale e paradossale assoggettamento, proprio perché il Regime sa trovare nel cinema il mezzo di comunicazione che, più di tutti, può offrirsi come potente e indiretto strumento di propaganda e di controllo totale delle masse.

Questo tipo di cinema sviluppa in sintesi una lenta e graduale politica di consenso e di completa omogeneizzazione delle classi sociali, diventa lo «spettacolo di tutti», l’«arma più forte» di omologazione del popolo; convogliando nella visione delle pellicole una serie indistinta e diversificata di spettatori, li rende tutti uguali davanti allo schermo, soddisfacendo il comune desiderio di illusione e di fuga dalla realtà, li distrae dallo spettacolo ben più crudele, ad esempio, della Seconda Guerra Mondiale che si svolge negli anni Quaranta all’esterno delle sale cinematografiche.

4.1.2 Tra propaganda e commedia brillante: i cinegiornali, i film d’autore, il genere dei telefoni bianchi e i generi minori

Ovviamente, la promozione di un cinema d’evasione, con le finalità di cui si è detto precedentemente, non impedisce la necessità da parte dello Stato di gestire un altrettanto importante filone cinematografico che abbia, invece, una chiara e dichiarata missione propagandistica con

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l’obiettivo di tenere costantemente informato il popolo sui progressi raggiunti dal Regime in ambito politico, economico, ma soprattutto bellico, a livello europeo e mondiale.

Questo compito è assegnato all’Istituto nazionale Luce, unico organo cinematografico direttamente gestito dallo Stato, con l’obbligo di distribuire settimanalmente nelle sale italiane i famosi cinegiornali, dei cine-documentari finalizzati all’esaltazione del Regime Fascista e del Duce, ricchi di inquadrature dettagliate e scrupolose, particolarmente adatte a far conoscere le iniziative intraprese e promosse dal Capo dello Stato in ambito interno ed internazionale o a celebrare il Paese in concomitanza di importanti successi specie militari.

Ai cinegiornali si affiancano altri due generi cinematografici di un certo spessore, anche se in ambiti diversi: da un lato il cinema d’autore, dall’altro il filone dei telefoni bianchi. Il primo è rappresentato da registi come Roberto Rossellini, Luchino Visconti, Vittorio De Sica e Cesare Zavattini; sebbene alle origini non osteggiato, all’interno della generale produzione cinematografica italiana, il genere segue un po’ un’evoluzione a sé, volgendo lo sguardo ai modelli cinematografici del Naturalismo francese espressi da Renoir, Carné e Jean Vigo, largamente distribuiti in Italia a partire dagli anni Quaranta, oppure ai film d’oltremare di Buster Keaton o Harold Lloyd; il secondo sviluppa, invece, un tipo di cinema più commerciale, di un livello qualitativamente meno elevato rispetto al cinema d’autore, ma economicamente più riuscito. Esso rispecchia perfettamente quel genere di film che il Regime si impegna a promuovere e che è comunemente conosciuto con il nome di cinema dei telefoni

bianchi, per la presenza appunto di telefoni bianchi che completano gli

arredi degli interni di ricche e signorili abitazioni che fanno da scenografia alle riprese.

Questo genere di filmografia, interpreta «il cinema degli eterni sentimenti ipostatizzati al livello degli ideali borghesi»8 e rappresenta,

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pertanto, il «prodotto-tipo del cinema ufficiale»9, dal momento che non

solo coincide con il genere più richiesto dal pubblico, ma che al pubblico è anche «quotidianamente propinato»10, un tipo di filmografia di sicuro

successo, divisa «tra commediole rosa e intrecci romanzeschi»11. Questo

filone cinematografico è carente di un qualsiasi tipo di approfondimento sociale o politico essendo bastevole che all’interno di ciascun intreccio, per lo più amoroso o avventuroso, sia presente almeno un «segno di un’indubbia italianità sia per quanto riguarda i volti, i luoghi e lo spirito della vicenda»12.

Sull’ondata di questa richiesta di italianità, registi e produttori si sentono autorizzati a sperimentare anche la realizzazione di opere grandiose dal taglio celebrativo-encomiastico. Ad esempio, si girano pellicole incentrate sull’esaltazione del periodo fascista e delle sue imprese coloniali o anche si producono film di ambientazione storica, con una certa predilezione per l’antica Roma13. In questa impresa si cimentano

figure come Alessandro Blasetti, Carmine Gallone, Goffredo Alessandrini e Augusto Genina, considerati i registi più significativi del Ventennio fascista per il valore nazionalistico e lo stile monumentale dei loro film e per il contributo che, direttamente o indirettamente, offrono in quel periodo alla retorica e all’ideologia di Regime.

Parallelamente a questa produzione di film magniloquenti ed eroici, intrisi di epicità, si diffonde un diverso filone cinematografico, teso piuttosto alla rappresentazione degli aspetti più verosimili e concreti della realtà, interessato a registrare la vita piccolo-borghese della società italiana, fatta di sentimenti genuini, a volte tragicomici, di gente comune alle prese con i piccoli problemi e gli imprevisti della vita.

9 Ivi, p. 105. 10 Ibidem.

11 GUIDO GEROSA, Da Giarabub a Salò. Il cinema italiano durante la guerra, Edizioni «Cinema

Nuovo», Milano, IV, Maggio, 1963, p. 9.

12 Ibidem.

13 Di Augusto Genina: Lo squadrone bianco (1936), L’assedio dell’Alcazar (1940), Bengasi (1942); di

Goffredo Alessandrini: Luciano Serra pilota (1938), Girabub (1942), Noi vivi (1942), Addio Kira (1942); di Carmine Gallone: Scipione l’Africano (1937).

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Siamo vicini a un neorealismo ante-litteram che, del vero Neorealismo del secondo dopoguerra, non ha ancora sviluppato i toni pungenti e di denuncia, mantenendosi su un piano documentaristico e di formale realismo. In questo genere rientrano principalmente le commedie intimistiche di Mario Camerini, incentrate su un tipo di narrazione leggera e spensierata, ma mai superficiale, di storie di vita semplice e comune14. Il

cinema cameriniano, data la particolare importanza assegnata alle ambientazioni e ai sentimenti, può essere considerato come primo esempio di questa nuova fase di sperimentazione cinematografica italiana. Sul modello del regista romano si sviluppa, infatti, un tipo di cinema popolare che, prendendo spunto dalla realtà sociale, si distingue dal carattere spettacolare della più ordinaria cinematografia di consumo perché arricchito di coloriture umoristico-sentimentali estrapolate anche dal mondo della letteratura, che regalano talvolta al film un’atmosfera surreale e favolistica.

Questo nuovo cinema definibile come romanzesco si basa essenzialmente sulla rappresentazione di un

«microcosmo di situazioni, di personaggi, di ambienti che, sul versante dell’ironia e del sentimento, ben rappresentano l’Italia quotidiana, provinciale, antiretoric a che, da un lato favorì con la sua passività l’avvento e il consolidamento del fascismo, dall’altro vi si oppose rifiutandone la magniloquenza, l’acceso nazionalismo»15.

Per i riferimenti letterari e la raffinatezza della narrazione cinematografica si annoverano in questo genere di produzione Alberto Lattuada, Mario Soldati, Renato Castellani, Luigi Zampa e anche Ferdinando Maria Poggioli, comunemente detti registi calligrafici. Nel fenomeno del cinema romanzesco ricadono, per una breve fase della loro produzione, anche quei registi che nel più immediato dopoguerra, verranno considerati i maestri del Neorealismo italiano, ovvero Rossellini e Visconti. Ma perché la fuga di questi registi nel mondo della letteratura?

14 Rotaie (1929); Gli uomini, che mascalzoni! (1932); Il cappello a tre punte (1934); Grandi magazzini

(1939).

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Le direttive per un cinema che si interessi di più alla realtà quotidiana arrivano, paradossalmente, in quegli anni da Alessandro Pavolini, Ministro della Cultura Popolare dal ’39 al ’43, il quale, per evitare facili fraintendimenti, sta bene attento nello specificare in che grado e in che misura questa operazione debba essere condotta da parte dei registi, affermando che «la vita italiana» deve essere «rispecchiata, sì, anche nel suo male parziale ma soprattutto nel suo bene collettivo e di tanto prevalente»16.

Le parole di Pavolini danno, quindi, la possibilità ai registi di partire da un soggetto reale, ma consigliano, in definitiva, di edulcorarlo, ovvero di renderlo meno grave e sgradevole di quanto sia effettivamente. Ciò significa parlare della realtà senza parlare della realtà, fermarsi alla forma senza minarne i contenuti, preoccuparsi della cornice disinteressandosi del quadro.

Per sottostare a tali disposizioni, i registi devono pertanto scendere per l’ennesima volta a un compromesso; specie chi del fascismo non condivide l’ideologia e lo spirito conduce un’opposizione silenziosa e velata, comprensibile solo a coloro che, tra i critici e gli esperti del mestiere, godono di strumenti adatti a interpretarne il messaggio cifrato.

Da qui la definizione di cinema calligrafico, proprio per quella particolare cura di regia nel confezionamento dell’opera e per la scelta di assegnare ai propri film una velatura marcatamente letteraria:

«Fu un cinema in certo senso di opposizione passiva al regime, che nella ricerca stilistica e nella letterarietà dell’assunto sfuggiva da quell’impegno critico che il momento storico avrebbe richiesto: un cinema raffinato quanto anacronistico, che tuttavia consentì ad alcuni giovani registi […] di apprendere le regole del mestiere ma anche di giungere a risultati formalistici e tecnico-espressivi non disprezzabili»17.

In virtù di questa tendenza estetizzante, è abitudine consueta nella pratica di questi registi prendere spunto dalla più diffusa narrativa di

16 Estratto del rapporto di Alessandro Pavolini per l’anno XIX, esposto a Cinecittà, giugno, 1941,

riportato in «Film», n.23, 7 giugno 1941, cit. in GUIDO GIROSA, op. cit. 1963, p. 18.

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consumo, prediligendo soprattutto i romanzi che in quel periodo risultano essere i più ristampati e conseguentemente i più letti dal pubblico italiano. La selezione procede proprio da quelle opere che tra tutte hanno saputo «incontrarsi meglio» con i gusti dei lettori e che, presentandosi come «collaudati testi popolari»18, possono garantire con maggior sicurezza un

equivalente successo anche tra gli spettatori delle sale cinematografiche.

La scelta, dunque, ricade per la maggior parte su quella che ad oggi è conosciuta come narrativa d’appendice, affermatasi in Francia e in Inghilterra già a partire dal XIX secolo, ma diffusasi largamente in Europa durante i primi decenni del Novecento. Anche in Italia il romanzo d’appendice raggiunge un ricco pubblico di seguaci, conseguendo la massima divulgazione proprio durante il Ventennio fascista, per incontrare poi un graduale decadimento solo nel secondo dopoguerra, quando il genere viene gradatamente sostituito dapprima dalla fumettistica e dal fotoromanzo sui quotidiani e successivamente, con l’avvento della televisione, dal teleromanzo o dalla telenovela.

Il successo dei romanzi d’appendice dipende soprattutto dalla forte presa che questo genere riesce ad avere sul pubblico, riproponendo trame stereotipate e schemi narrativi rassicuranti, storie leggere, avventurose e divertenti in grado di tenere viva l’attenzione, orientare la scelta e omologare il gusto del lettore.

La presenza di «robuste intelaiature, [di] […] personaggi sbalzati a tutto tondo [e] […] [di] efficaci ritmi del racconto»19 porta il cinema

italiano, specie quello dei registi calligrafici, ad attingere da questo genere di narrativa per andare incontro al gusto degli spettatori che, nel contempo, assistono anche a spettacoli teatrali d’intrattenimento, con una peculiare predilezione per l’opera e il melodramma.

18 ORIO CALDIRON, Cinema italiano degli anni quaranta: tra continuità e rottura, Centro

sperimentazione cinematografica, Roma, 1978, p. 41.

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Nella trasposizione filmica di questi romanzi, «alla concretezza dei luoghi reali [i registi] univano una prevalenza di motivi lirici, una suggestione della memoria, l’espressione di un poetico mondo interiore»20. Da qui la scelta di temi e sentimenti umani marcatamente

accentuati e la preferenza di ambientazioni retrò dal gusto saporitamente ottocentesco.

Ma anche tra i registi di questa fase detta di transizione, in virtù della presenza nei film di alcuni aspetti anticipatori della successiva fase neorealistica, esiste una sorta di gerarchia di stile: da un lato si collocano registi come Soldati, Lattuada e Chiarini che, oltre a vantare un genio artistico superiore, si distinguono per la ricercatezza e la raffinatezza dello stile e per la scelta di soggetti impegnati tratti dall’ambito letterario più illustre italiano e straniero; dall’altro lato, invece, troviamo quei registi che, per sopperire alla mancanza di particolari doti artistiche, prediligono nelle proprie opere un’accurata ricerca «di sentimenti, rapporti umani e paesaggi» che offrano un’immagine il più possibile fedele alla società italiana di quegli anni.

Quest’ultimo aspetto risulta essere comune obiettivo anche della letteratura coeva. Non a caso, tra cinematografia e narrativa, si crea in questi anni un connubio strettissimo, sigillato dalla nascita del circolo degli «Artisti Associati», nel quale dieci letterati scelti, da Corrado Alvaro a Leo Longanesi, da Piero Tellini a Cesare Zavattini, si mettono al servizio dell’industria cinematografica nel ruolo di soggettisti e sceneggiatori21.

Sebbene l’idea di una collaborazione tra cinema e letteratura non raggiunga in seguito grandi risultati, resta il segno evidente del tentativo da parte del cinema di nobilitare la propria posizione nell’ambito culturale corrente, di appropriarsi meritatamente anch’esso del titolo di arte, proprio come nel frattempo è avvenuto in Francia, dove il cinema

20 GUIDO GEROSA, op. cit. 1963, p. 18. 21 Cfr. GUIDO GEROSA, op. cit. 1963, pp. 18-19.

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naturalista ha già raggiunto un nobile grado di fusione con la letteratura moderna, dando origine a una filmografia di tutto rispetto.

L’aumento di proiezioni di film francesi sugli schermi italiani e l’alto livello identitario tra arte e nazionalità raggiunto dai prodotti cinematografici d’Oltralpe, crea nelle coscienze dei registi italiani la convinzione e la voglia di migliorarsi, di affinare le proprie competenze tecniche e di innalzare il livello qualitativo delle proprie opere.

Uno dei pionieri di questo momento di svolta del cinema italiano è appunto Ferdinando Maria Poggioli.

4.1.3 Ferdinando Maria Poggioli: tra formalismo e anticipazione Ferdinando Maria Poggioli (Bologna 1897- Roma 1945), tra gli autori calligrafici, viene ricordato per la vena di accentuato crepuscolarismo che aleggia, in maniera cadenzata, in quasi tutti i suoi film perennemente sospesi tra «eloquenza e riserbo»22.

La sua filmografia è abbastanza ricca e diversificata e consta di una trentina di film. I primi, co-prodotti nel ruolo di aiuto alla regia e tecnico di montaggio, vanno da opere documentarie di chiaro stampo realista (Impressioni siciliane, 1931; Paestum, 1932; Presepi, 1932)23 a film

largamente più impegnati (Terra Madre, 1931; La principessa Tarakanova, 1938; Scipione l’Africano, 1937) e offrono a Poggioli l’opportunità di lavorare a fianco di importanti registi dell’epoca quali Alessandro Blasetti, Mario Soldati e Carmine Gallone. Questo intenso periodo di gavetta è fondamentale per la sua formazione tanto cinematografica, quanto umana: lavorare a contatto con diverse tipologie di autori, ciascuno caratterizzato da un proprio stile e da una personale predilezione per soggetti e tematiche, porta il nostro regista a sviluppare un elevato senso

22 ORIO CALDIRON, op. cit. 1978, p. 39.

23 «[…] è proprio sulla scorta di queste prime prove nel campo della regia, che noi possiamo

intravedere quali saranno gli intendimenti, le aspirazioni, le suggestioni che lo guideranno più tardi, […]. In questi documentari […] è possibile scorgere, oltre che una notevole capacità tecnica, il desiderio di ritrarre la realtà al di fuori di ogni schema convenzionale, uscendo dai limiti dell’oleografia e della cartolina illustrata […]», Massimo Scaglione, in «Bianco e Nero», Roma, XII, 3, marzo, 1955, p. 21, Ivi, p. 49.

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di perfezione figurativa e di sensibilità artistica che lo rendono capace di alternare a imprese più ardue film più discreti e leggeri sullo stile di Max Ophuls (La signora di tutti, 1934), di Oreste Biancoli (Stasera alle undici, 1937) e di Corrado d’Errico (Diamanti, 1939).

Inoltre, la sua specializzazione nella tecnica del montaggio, lo rende particolarmente abile nell’argomentazione del discorso narrativo e nella cura minuziosa del dettaglio, dalla scelta dei costumi, alla costruzione della scenografia, alla selezione di colonne sonore evocative e ricercate. Il suo senso estetico e la sua attenzione alla bella forma portano i critici coevi ad inserirlo, per l’accentuazione di questi aspetti in alcune sue opere (Addio, giovinezza!, 1940; Sissignora, 1941; Gelosia, 1942), in quella corrente cinematografica cosiddetta formalistica che ad alcuni sembra essere la progenitrice diretta della futura fase neorealistica. Poggioli, insieme ad altri registi a lui contemporanei, predilige nei suoi film la presenza di un realismo evocativo e letterario ed alterna momenti di dialogo con il Verismo italiano24, con il Crepuscolarismo e con la

letteratura contemporanea di Vittorini e Pavese a cui lo accomunano rispettivamente la tematica esistenzialistica e il realismo fantastico25. Per

la presenza di certe affinità, il realismo ricercato da Poggioli viene scambiato per un invito cifrato al superamento di convenzionali schemi cinematografici del periodo.

In realtà, molti registi, e tra questi anche il Nostro, si fanno portatori inconsapevoli di tali messaggi, anticipando i tempi per pura casualità: in loro il richiamo letterario o l’approfondimento di un determinato aspetto della quotidianità umana, è solo l’espressione di un

24 Dai romanzi di Emilio De Marchi, Il cappello del prete (1888) e dal romanzo di Luigi Capuana Il marchese di Roccaverdina (1900), sono tratti rispettivamente l’omonimo film Il cappello del prete

(1943) e il film Gelosia (1942) «[In] Gelosia […] Egli realizza la sua vocazione di romanticismo naturalista ispirandosi a un romanzo di Capuana […]. In questo film, che ci sembra il suo capolavoro, Poggioli narra il tramonto di un mondo feudale, dalla cupa malinconia», GUIDO GIROSA, op. cit. 1980, p.24.

25 «[…] le Langhe di Pavese, la Sicilia di Vittorini avevano un riferimento mitologico ma

rappresentativo di certi paesi italiani […] alla concretezza dei luoghi reali univano una prevalenza di motivi lirici, una suggestione della memoria, l’espressione di un poetico mondo interiore. Alcuni registi cercarono di elaborare temi tratti dalla vita e dal costume nazionale, inserendo il cinema nel più grande processo storico in corso: erano Poggioli, Palermi, Blasetti, Franciolini.», Ivi, p. 18.

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loro particolare gusto, di una loro personalissima sensibilità cinematografica. Invertendo il punto di vista, possiamo dunque affermare che più che anticipare il Neorealismo, alcuni film sembrano differenziarsi rispetto alla più generalista cinematografia di consumo.

Le caratteristiche principali che, davvero, contraddistinguono la corrente cinematografica formalistica e che generano conseguentemente delle scorrette interpretazioni tra i critici coevi, dipendono dalla presenza nei film di un accentuato livello di umanità e di vicinanza al reale, reso attraverso l’inserimento di personaggi antieroici e anticonvenzionali in cui è accentuato sì l’aspetto emotivo, ma per il resto perfettamente riconducibili alla più viva e genuina realtà quotidiana.

Il ruolo di protagonisti assegnato a «onesti e semplici lavoratori»26,

a sartine, professori, servette, operai, contadini, studenti, la scelta di ambientazioni cittadine o di campagna o «il muoversi […] sul filo di sentimenti e di conflitti né straordinari né eccentrici»27 favoriscono da una

parte una più viva e facile immedesimazione da parte degli spettatori in situazioni esistenziali facilmente riconoscibili e consentono dall’altra a questa cinematografia di interpretare più verosimilmente la fondamentale funzione del cinema come specchio della realtà e della vita.

Anche Poggioli, per alcune peculiarità del suo stile, può essere associato alla filmografia formalistica ma, a distanza di tempo, la lettura in funzione neorealista di determinate caratteristiche presenti nei suoi film porterà a un fraintendimento di giudizio sul suo lavoro e, per tale motivo, convincerà la critica a ricordarlo non per particolari qualità di regista, bensì per la possibile e tendenziosa presenza nei suoi lavori di motivi anticipatori dell’emergente genere neorealista.

In verità, nei suoi film, salvo alcuni squarci di realtà forse più realistici di altri, non viene mai meno il rispetto e la conformità a certi

26 M. MIDA- L.QUAGLIETTI, op. cit. 1980, p. 185. 27 Ivi, p. 187.

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schemi tradizionali richiesti dagli indirizzi ufficiali del suo tempo; Poggioli non fa parte di quel gruppo di giovani ed inquieti registi contro i quali il Regime deve ricorrere a una serie di rapporti e di provvedimenti per tenere a freno la vena rivoluzionaria, né nelle sue creazioni sono ravvisabili toni di denuncia sociale o di indiretta polemica antifascista.

Questa mia valutazione trova fondamento nel parere di Mida che, a proposito dei lavori del regista, parla di certe «ardite sintomatologie neorealistiche […] nelle quali [però] il conflitto sociale era rappresentato in chiave esclusivamente sentimentale e lo studio dei moti dell’animo umano (Gelosia; Il cappello del prete, 1943) era applicato a caratteri anomali, dilaniati da passioni esasperate e incontrollate, privi di qualsiasi qualificazione sociale»28.

Come desunto anche da Orio Caldiron, l’essenza neorealista che a una parte della critica coeva sembrò di ravvisare in alcuni film di Poggioli è conseguenza di una chiara forzatura d’interpretazione poiché, sebbene egli ricorra spesso e volentieri alla ripresa di caratteristici anfratti cittadini o di tipiche ambientazioni di periferia, la finalità della sua azione di regista è totalmente estranea a un obiettivo di denuncia o di approfondimento umano e sociale29.

Nei lunghi passi descrittivi contenuti nei suoi film, manca quell’ «esigenza di sincerità» e quel «guardare alla realtà […] con occhi limpidi»30

che Chiarini ravvisa come qualità necessarie affinché si possa parlare di taglio neorealista di un film.

Il temporeggiare su lunghe inquadrature paesaggistiche dipende da un altro tipo di missione, o meglio di passione, cara a Poggioli: quella di regalare ai propri film un’atmosfera languida e sentimentale, spassionatamente gozzaniana e nostalgica.

28 M. MIDA- L. QUAGLIETTI, op. cit. 1980, p. 189. 29ORIO CALDIRON, op. cit. 1978, p. 20.

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4.1.4 Poggioli e Palazzeschi: transitorie affinità elettive Nonostante l’evidente discrepanza, come si vedrà in seguito, tra adattamento e romanzo, soprattutto in termini di messaggio conclusivo, credo che si possano trovare diversi punti di contatto tra autore e regista.

Poggioli, infatti, condivide con Palazzeschi più di una passione e questa strana sintonia spiega, forse, il perché il regista si sia avvicinato a un romanzo come Sorelle Materassi per estrapolare il soggetto di uno dei suoi film.

In primo luogo, è comune ai due autori la formazione letteraria e la stessa predilezione per un certo tipo di narrativa, specie di gusto ottocentesco, con un certo riguardo per il Naturalismo francese e il Verismo italiano. Nelle opere della maturità palazzeschiana e nella maggior parte dei film di Poggioli, specie quelli d’ambientazione, si ravvisa «quel romanticismo naturalista che metteva in scena personaggi dall’energia superba, fragili figure di donna, […] e ritraeva la piccola borghesia della città e i residui della tetra nobiltà di campagna, introducendo nel racconto toni fantasiosi, ironici, grotteschi, patetici»31.

Le atmosfere idilliache dei grandi paesaggi all’aperto, lo scontro titanico tra volontà e destino, la dialettica insanabile tra antichi valori consolidati e condivisi, i turbamenti e le angosce amorose di eroi ed eroine d’altri tempi, si incontrano e si scontrano con la modernità novecentesca, fatta di gioventù e belle automobili, di lusso e stravaganza che sopraffà un mondo e uno stile di vita ormai destinato al declino, la cui fine non può che lasciare un’ambigua sensazione di malinconia e turbamento.

La rappresentazione del dramma provocato dal passaggio tra Ottocento e Novecento è motivo d’indagine tanto nei film di Poggioli, quanto nei romanzi di Palazzeschi, specie quelli della fase matura e più altamente autobiografica come Stampe dell’800 o Sorelle Materassi.

31 «Più che ai narratori dell’Ottocento, egli mira qui ai crepuscolari e alle “stampe” di Palazzeschi»,

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A sostegno di questo tipo di vicinanza tra autore e regista viene di nuovo il parere del critico Guido Gerosa il quale, parlando a proposito del film Addio, giovinezza! (1940), per la rievocazione di una Torino d’altri tempi e per l’acceso sentimentalismo nostalgico di una gioventù destinata ad abbandonare l’abituale spensieratezza in vista del sopravvento dell’età adulta, giustifica le scelte di Poggioli non tanto come miranti al recupero del generico spirito romantico dei narratori dell’Ottocento, ma analogicamente vicine al bozzettismo crepuscolare delle Stampe palazzeschiane32.

Un altro punto di contatto, a mio pare, tra il regista e lo scrittore è il comune gusto per il teatro. Abbiamo visto come la teatralità e il melodramma siano elementi ricorrenti e continuamente rievocati all’interno di Sorelle Materassi. Ma il teatro e l’opera sono presenza costante anche nella vita di Palazzeschi, così come anche nella vita di Poggioli. Quest’ultimo, come l’autore fiorentino, si nutre di opere liriche, e lo dimostrano la predilezione per certe tematiche di chiara derivazione melodrammatica: il rimorso, il dolore, le sfaccettate sintomatologie amorose, la vendetta, la timidezza, la rassegnazione e la passione travolgente sono tutti motivi cari al genere ed estremamente ricorrenti nei film del regista bolognese33.

«Nel cinema di Poggioli», dice Orio Caldiron, «si avverte il gusto per il teatro, il piacere di muoversi nello spazio circoscritto della campitura scenica […] la scelta precisa di strutture narrative e di tipologie psicologiche […] [l’inserimento] di monologhi deliranti che strappano l’applauso a scena aperta»34, e non si può diversamente dire di

Palazzeschi, anche se l’ambito è quello letterario, per quanto riguarda lo stile della narrazione, fatto di continui rimandi al mondo del teatro e della

32 Ivi, p. 21.

33 Sono numerosi, infatti, i film di Poggioli liberamente tratti da commedie o da opere liriche: Arma bianca (1936) dalla commedia Casanova a Parma (1930) di Alessandro di Stefani; Addio, giovinezza!

dalla commedia omonima (1911) di Sandro Camasio e Nino Oxilia; La bisbetica domata (1942), dall’omonima commedia (1493) di William Shakespeare; La morte civile (1942) dall’omonimo dramma di Paolo Giacometti (1861).

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messinscena: basti ricordare in Sorelle Materassi il paragone fatto tra la stanza da lavoro delle due sorelle e il palcoscenico di un teatro o i vaneggiamenti di Teresa e Carolina dopo essere state chiuse nel sottoscala da Remo nella famosa scena della cambiale35.

La spettacolarizzazione in Poggioli non è, però, solo degli ambienti e dei luoghi, ma anche dei sentimenti e dei personaggi. Ogni singolo protagonista dei suoi film, dalla sartina Dorina di Addio, giovinezza!, in preda al dolore per una delusione d’amore, alla servetta di Sissignora, obbligata a lasciare la casa delle padrone accusata ingiustamente di aver sedotto il loro nipote, alla figura di Rosalia in La morte civile (1942), una moglie che soffre in silenzio per la morte del marito rimasto coinvolto in un delitto: sono tutte figure di donna che evocano il prototipo dell’ eroina da romanzo ottocentesco, immagini femminili di accentuato lirismo che regalano ai film di cui sono protagoniste un alto grado di poeticità.

Tuttavia, molto spesso, queste figure melodrammatiche così eccessivamente cariche di patetismo e di sentimentalismo, anziché provocare trasporto nello spettatore, degenerano in una sensazione opposta, in un senso di artificiosità irreale che più volte rischia di compromettere l’intero quadro della storia. In molte situazioni, infatti, l’eccesso finisce con lo scadere nel difetto e più volte Poggioli incorre in questo errore, come avverrà anche in Sorelle Materassi.

La ricerca di un alto livello espressivo finisce con lo snaturare e svuotare di veridicità personaggi e scenari che, pur rimanendo in questo modo fedelissimi alla pagina letteraria, non riescono a realizzare quel contatto con la realtà che invece si richiede alla rappresentazione cinematografica.

35 «È necessario che noi osserviamo bene questa stanza che è, si può dire, la scena fondamentale,

la base della nostra modestissima azione»; «Venivano imprigionate [Teresa e Carolina] e fatte morire, forse, come le eroine delle canzoni, delle storie, dei melodrammi, delle tragedie», Sorelle

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Questi, in sintesi, i pareri contrastanti di alcuni specialisti del settore contemporanei al regista che, sebbene in certi casi carenti di adeguate esemplificazioni, riguardo alla produzione cinematografica di Poggioli, convergono tutti nell’elogiare o nel condannare costantemente e simultaneamente il regista per lo stesso pregio/difetto, ovvero per quello stile eccessivamente manieristico e pittoresco che, se da un lato gli fa onore per l’alto grado di fedeltà e di perfezione figurativa rispetto ai modelli di riferimento, dall’altro gli impedisce di regalare una giusta profondità ai caratteri che descrive sulla scena e di rendere veramente, con fare neorealistico, i moti psicologici che li animano. Poggioli sa offrire nei suoi film suggestioni e atmosfere, sa ricreare magistralmente lo spirito di un’ epoca, attraverso la «scelta di bellissimi esterni» (Anonimo [Gianni Puccini] su La morte civile, in «Cinema», Roma, n. 154, 25 novembre, 1942), attraverso «il suo amore gozzaniano per le mode smesse, per i piccoli mondi chiusi […] [di] una piccola borghesia macerata dal sentimentalismo» (Umberto Barbaro su Sissignora!, in «Si Gira», Roma, III, 1 febbraio 1942), per «l’esposizione […] diligente» e ordinata del racconto (Giulio Cesare Castello su Sorelle Materassi, in «Cinema», prima serie - Milano, n. 39, 30 maggio, 1950), per la «perfezione dei costumi, dei tipi, perfino del linguaggio usato» (Giuseppe Isani su Addio, giovinezza!, in «Cinema», prima serie - Roma, n. 142, 25 gennaio, 1941), ma in questa sua tendenza stilisticamente letteraria finisce, tante volte, col prendere eccessive distanze dalla realtà, come conclude Fabrizio Sarazani («Il Tempo – Roma, 24 dicembre, 1944») a proposito de Il cappello del Prete (1943) 36:

«L’atmosfera ottocentesca meridionale è riuscitissima con una cura da collezionista. Ma non basta. L’intreccio s’avvolge stretto e freddo, attorno a una personalità del barone gaudente, […] senza […] mai una apparenza o una giustificazione di umana follia […]. Film, quindi, mediocre».

36 Rassegna cinematografica su Poggioli contenuta in ORIO CALDIRON, op. cit. 1978, pp. 57, 54, 62,

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Da queste considerazioni la definizione di autore calligrafico e crepuscolare, ma a mio parere è proprio in virtù di questo crepuscolarismo che si può trovare una vicinanza con Aldo Palazzeschi e, dunque, con

Sorelle Materassi.

La scelta di girare un film su Sorelle Materassi viene offerta a Poggioli subito dopo l’esperienza di Sissignora! (1941), tratto anch’esso da un omonimo romanzo di Flavia Steno del 1940, in cui si ritrova una certa somiglianza di trama con l’opera palazzeschiana, soprattutto per quanto riguarda la presenza anche lì di due anziane signore (le sorelle Robbiani) alle prese con il ritorno di un giovane nipote, interpretate anche in quel caso dalle sorelle Gramatica.

Come vedremo più avanti, le Sorelle Materassi di Poggioli non piacquero per nulla a Palazzeschi, un po’ per l’atteggiamento di comune riluttanza dei letterati dell’epoca nei confronti di quella settima arte che stava lentamente scalzando la centralità che fino a quel momento era stata della letteratura, un po’ perché nel film di Poggioli, del vero spirito del romanzo, non resta praticamente quasi nulla, essendo tra l’altro un’opera cinematografica mediocre da tutti i punti di vista, tranne per quella «parte esteriormente umana dell’avventura raccontata con persuasiva chiarezza»37.

Sorelle Materassi rientra, infatti, in quella schiera di film di Poggioli,

insieme a La bisbetica domata (1942) o L’amico delle donne (1943) che vengono ricordati come poco riusciti, per non aver saputo inquadrare, al di là dell’inevitabile e personale reinterpretazione del regista, l’essenza più profonda e originale delle corrispondenti opere letterarie.

Facendo bagaglio dei pareri della critica, della conoscenza del contesto storico e dello stile di Poggioli, siamo adesso in grado di verificare, in riferimento alla trasposizione di Sorelle Materassi, come tutti questi fattori abbiano influenzato direttamente o indirettamente la

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realizzazione del film e, dunque, di valutare consapevolmente, in virtù di un confronto col testo di riferimento, la qualità artistica dell’adattamento.

4.2 Una cornice senza soggetto: la proposta

cinematografica di F.M. Poggioli

La prima e non accessoria mancanza di Poggioli nei confronti del libro si ravvisa già ad inizio di pellicola, in una contestualizzazione della vicenda fugace e sbrigativa.

Le quaranta pagine iniziali del romanzo, nelle quali l’autore si dilunga piacevolmente nella descrizione fiabesca del paesaggio fiorentino, sono completamente avulse dal film, o meglio restano, come dice Sarzani, «dietro le quinte». Il paesaggio «non si vede o si vede appena. E il paesaggio fiorentino, così come lo descrive Palazzeschi, fino dalla prima pagina, illumina e avvolge, in maniera prepotentissima, il colore della favola»38. Sebbene Poggioli recuperi a una così importante distrazione con

la cura minuziosa di altre scene, ad esempio, con la magistrale attenzione nel ricreare l’ambiente di lavoro delle Materassi in cui, come sulla pagina, ritroviamo sia la presenza del grande tavolo centrale e dell’enorme armadio alla parete, sia quella confusione di sete, tessuti, nastri e tele poggiati qua e là che inquadrano subito l’identità della stanza, eliminare completamente il paesaggio fiorentino dalle riprese significa evirare il romanzo di quell’esclusivo colore di toscanità che è uno dei tratti principali della forza comunicativa dell’opera39.

In alternativa, il regista concede allo spettatore solo una rapida sequenza su un’anonima strada di periferia in forte pendenza (volendo, forse, alludere alle famose coste fiorentine?), lungo la quale si intravede

38 Ibidem.

39 Dice Roland Barthes a proposito della funzione del prologo cinematografico: «È chiaramente

l’inizio del film a possedere la maggiore densità di significati, non solo perché, […] i momenti iniziali sono sempre, da un punto di vista estetico, più importanti degli altri, ma anche perché l’inizio del film svolge un’intensa funzione esplicativa. Si tratta […] di significare lo statuto antecedente dei personaggi e dei loro rapporti», e continua sulla funzione dell’epilogo «Le immagini finali possono anch’esse presentare una sorta di recrudescenza di segni […] l’ultima immagine, in particolare, può avere autentico valore di conoscenza e premonizione», ROLAND BARTHES, Sul cinema, Vallecchi, Firenze, 1995, pp. 21-3.

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la corsa di un’automobile che, dopo un bel tratto, si accosta a un pastore sul ciglio della strada per chiedere dell’abitazione delle sorelle Materassi

(Fig. IV.1), indicazione che culmina in un fermo immagine sulla targa apposta vicino al cancello d’entrata della famosa dimora (Fig. IV.2), forse eco di quello stacco tipografico che nel romanzo riporta il marchio di fabbrica delle due ricamatrici.

La suspense che Palazzeschi crea intorno alle figure delle due protagoniste, con quella serie di supposizioni sulla loro professione e sulla loro selezionatissima clientela, si riduce invece nel film all’entrata in scena di un prete che, colto nell’atto di scendere proprio da quell’automobile precedentemente vista sullo sfondo, fa il suo ingresso attraverso la grande porta finestra nella famosa casa, mentre da una delle stanze giunge alle sue orecchie il rumore cadenzato di una macchina da cucire (Fig. IV.3 e IV.4).

Varcata la porta della stanza “Laboratorio”, ecco allora comparire le due Materassi (Irma ed Emma Gramatica) nell’atto di sistemare la sottoveste ad un’esigente cliente dall’accento straniero che, per il riferimento alla famosa composizione giglio, è subito identificata con il personaggio della contessa russa (Fig. IV.5). Sullo sfondo, alle prese con la macchina da cucire, si intravede anche la figura di Laurina (Fig. IV.6), la ragazza che, dopo essere stata sedotta da Remo, rimarrà incinta e costringerà Niobe ad andare a “vendemmiare”.

Mentre Carolina si affretta a rivestire la contessa (e qui viene fuori la pudicizia, l’unico elemento che nel film la contraddistingue dall’altra sorella), Teresa si appresta ad accogliere l’ecclesiastico che, con tono sommesso, confessa di essersi recato là per la fama della loro maestria nell’arte del ricamo religioso: ecco allora l’esposizione dello splendido ricamo di S. Francesco fatto da Carolina e l’invito in Vaticano da parte del prete. Con un rapido cambio di scena, preannunciato da una sontuosa inquadratura su Piazza S. Pietro, vediamo le sorelle a Roma, rigorosamente vestite di nero, mentre attendono l’arrivo del Papa nella grande sala delle

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Benedizioni (Fig. IV.7). D’improvviso, un fischio e il sopraggiungere di un treno in corsa annunciano l’arrivo imminente di un altro importante personaggio: Remo (Fig. IV.8 e IV.9).

Come si può notare, con un evidente tradimento della trama del romanzo, è il ragazzo che si reca spontaneamente dalle zie, scappato dalle grinfie di uno zio che lo picchia e lo vuole far lavorare come meccanico in un’officina, ma soprattutto il personaggio compare sulla scena già adulto. Per quanto nei dialoghi successivi con le zie alcuni aspetti del Remo-bambino vengano mantenuti come, ad esempio, la costante esigenza di acqua, la fame incontenibile e la maniacale cura del corpo, la figura di Remo adulto, interpretata da un’affascinante Massimo Serato40, è ridotta

a un «manichino»41 e perde quella complessità e quell’ ambiguità di

sentimento che ha così tanto contraddistinto e reso memorabile il personaggio palazzeschiano. Primi piani veloci su scambi di sguardi fugaci tra il personaggio e le donne con le quali viene ad interagire, dalla vicina di carrozza sul treno (è lei ad offrirgli del cibo al posto delle zie) (Fig. IV.10 e IV.11), a una non più giovane scultrice incontrata per caso in un’osteria che si offre di fargli un ritratto (chiara allusione al paragone che, all’interno del romanzo, vuole Remo uguale al David di Michelangelo), alla stessa Laurina nel laboratorio delle Materassi (Fig. IV.12 e IV.13), sino agli incontri

40 La scelta del personaggio maschile è stata una delle difficoltà principali del film e dello stesso

Palazzeschi che in una lettera inviata a E. Vallecchi dell’11 settembre, 1942 scrive: «È quasi impossibile trovare il ragazzo quale dovrebbe essere, oggi un giovane bello e forte dai 20 ai 25 anni, bisogna andarlo a cercare solo in una caserma, e non si può toglierlo dal servizio militare per fare un film. Bisognerà contentarsi di qualcosa di mediocre che è qui sulla piazza.» e in un’altra missiva sempre a Vallecchi del 17 novembre dello stesso anno continua: «il guaio non superato, insuperabile, è che manca ancora il ragazzo, manca al completo. […] Il ragazzo, nel film, è ancora più importante del libro». In una lettera del 27 novembre, 1942, Palazzeschi final mente conclude: «[…] Può darsi che la provvidenza abbia provveduto all’ultimo momento, se non c’è Massimo Serato che è disponibile, e che farebbe molto volentieri quella parte. Il fisico non è proprio quello, però ha i numeri per quella parte, ed è già attore esperto». Tutti gli estratti dalla lettere di Aldo Palzzeschi a Enrico Vallecchi inserite in questo capitolo fanno parte dall’Epistolario «PALAZZESCHI–VALLECCHI» appartenenti all’Archivio Contemporaneo Alessandro Bonsanti, citateoin nota nell’Introduzione apposta al saggio omonimo di CARLA MARIA PAPINI, Aldo Palazzeschi. CINEMA, Edizioni di Storia e Letteratura Università degli Studi di Firenze, Roma, 2001, p. XIII.

41 «[Nell’esposizione di Poggioli rimane] […] assente gran parte della più inconsueta e s timolante

sostanza umana, risultando mancato il complesso personaggio del rovinoso nipote Remo (Massimo Serato: un manichino), […]», GIULIO CESARE CASTELLO, in «Cinema», nuova – serie – Milano, n. 39, 30 maggio 1950, p. 315, in Rassegna cinematografica contenuta in ORIO CALDIRON, op. cit. 1978, p. 62.

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maliziosi con la contessa russa, non riescono a restituire visivamente il potere ammaliante e ipnotico dello sguardo del ragazzo, sguardo che nel romanzo, anche se fermo sulla pagina, è così minuziosamente e vivamente reso dall’autore da riuscire ad emozionare più dell’immagine sullo schermo:

«[…] Remo […] le guardava con due occhi neri e grandi, di un ovale soffuso di luce senza aggressivo ardore, lenti nel movimento, e che indugiavano sull’oggetto né curiosi né attoniti, in atto di attesa, di sospensione, con una limpidezza e serenità perturbatrice che non avrebbe avuto uno sguardo mobile e ardente. Pareva […] sentisse prematuramente quale influenza esercitano gli occhi sulle persone […]»42.

Il Remo di Poggioli ha, soprattutto, più i tratti del bravo ragazzo caduto vittima delle facili seduzioni del mondo esterno, che i caratteri del mascalzone arrivista, insolente e imperturbabile che, consapevole del suo fascino, fa in modo di ottenere ciò che vuole senza il minimo sforzo. L’assuefazione alla vita mondana e al benessere borghese è resa visivamente attraverso un cambiamento di stile e di abitudini del ragazzo che abbandona l’aspetto trasandato e povero della sua prima apparizione sulla scena per indossare abiti eleganti (Fig. IV.14), fumare sigarette, frequentare prostitute (Fig. IV.15), chiedere denaro e indebitarsi.

Anche il declino economico delle Materassi verrà reso in seguito mediante la stessa tecnica. Alla fine del film, la stessa stanza da lavoro iniziale compare vuota e scialba, privata dell’abbondanza di stoffe e passamanerie prima distribuite ovunque sull’intera mobilia: solo le due sorelle fanno da arredamento, visibilmente provate sul volto e nell’aspetto, mentre si consolano e si riscaldano davanti a un camino arrangiato alla meno peggio (Fig. IV.19 e IV.23).

Nel tratteggiare il personaggio di Remo, Poggioli non dimentica di inserire nel racconto la passione per le moto e per le automobili, ma il personaggio con il quale il giovane ama condividerle, ovvero il fidato e ben tratteggiato Palle, è sostituito da un più anonimo amico di nome Otello. A questo personaggio, come a quello di Niobe, Poggioli non rende giusto

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merito, sembra disinteressarsi completamente di quella schiera di personaggi che, frettolosamente giudicati come minori, sono invece le figure che regalano maggiore vitalità al romanzo43. Sebbene, infatti, il

regista ricrei con garbo il chiacchiericcio della folla, le malelingue del vicinato, l’atmosfera di pettegolezzo intorno alle Materassi e il relativo disprezzo di queste nei confronti del contado, manca totalmente quel carattere popolaresco, sguaiato e colorito che è proprio del vociare della folla. Anche i momenti più vivaci restano in un ordine di compostezza e di equilibrio e si affidano esclusivamente al linguaggio mimetico del corpo.

Sulla scia dell’interesse per i motori, per sopperire alle spese familiari, Remo trova impiego in una concessionaria d’automobili (impensabile passaggio all’interno del romanzo, dato il totale disinteresse del giovane uomo verso il mondo del lavoro) ed è proprio in quest’ambiente che conosce, in veste di acquirente, la ricca ragazza americana che lo condurrà al matrimonio, Peggy (Fig. 17). Qui Poggioli, ricreando una situazione d’incontro verosimile, giustifica l’ingresso in scena del nuovo personaggio femminile, al contrario di Palazzeschi che nel suo romanzo lascia nel vago le circostanze dell’incontro tra Remo e Peggy che interpreta l’importante funzione di snodo narrativo.

Inoltre, la Peggy raffigurata da Poggioli non ha nulla nell’aspetto che evochi alla mente l’immagine favolosa di Greta Garbo, così come succede nel romanzo ai vicini di casa Materassi44; nell’intreccio del film,

pur acquistando maggior rilievo come personaggio, perde completamente l’aspetto esteriore di donna maliarda ed elegante. Di nazionalità argentina, la Peggy di Poggioli non è per niente sciocca e frivola come la Peggy di

43 Ad essere sacrificato non è solo il personaggio di Palle a cui, tra l’altro, Palazzeschi dedica

addirittura un interno capitolo (Palle!), ma anche quello del fattore Fellino che alla fine del romanzo si impossesserà di tutti i beni delle Materassi. Poco approfondita è anche la figura della serva Niobe. La domestica nella vicenda rappresenta la forza vitale, popolare e genuina e occupa un importante ruolo di mediatrice tra le due sorelle e il nipote Remo.

44 «”È Greta Garbo! È Greta Garbo!” esclamarono soffocatamente vedendo balzare dall’automobile

una donna giovanissima, alta, snella, con un vestitino nero di lana, succinto, che rivelava l’agilità di un corpo esercitato alla danza, […]; e un cocuzzetto di feltro rosso vivo che metteva in rilievo la magnificenza di una chioma d’oro ben ondulata inanellata e accuratissima », Sorelle Materassi, p. 246.

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Palazzeschi, ma è intrigante, furba e alla mano: è lei a sedurre Remo e non viceversa e, per quanto tra i due amanti il tema del denaro e dell’interesse sembri fare da collante, la storia d’amore che li unisce si mostra in apparenza basata su veri sentimenti. A concorrere alla rivalutazione della centralità di questa figura femminile e alla scelta di allungare l’intreccio della vicenda amorosa dei due giovani, interviene forse la selezione di Clara Calamai per l’interpretazione del ruolo di Peggy. La Calamai è una delle attrici cinematografiche più famose e richieste durante tutti gli anni Quaranta e fa parte, insieme alle stesse sorelle Gramatica, di quella fedelissima compagnia di interpreti con i quali Poggioli ama lavorare. Sembra quasi, infatti, che l’intera storia si svolga in attesa della comparsa di questo personaggio, celebrato e osannato, questo sì come nel romanzo, durante la sfarzosa scena del matrimonio (Fig. 18):

«Peggy, scendendo dall’automobile, gettò la sigaretta appena accesa, […]. Il gesto fece serpeggiare un brivido tra la folla, che vedeva per la prima volta una sposina avvolta da veli candidi e di candidi fiori, gettar via la sigaretta avvicinandosi all’altare»45.

Un altro personaggio mancato è Giselda, di cui Poggioli mantiene l’indole rancorosa, ma a cui fa perdere completamente la fermezza. Ella è la sorella esclusa (Fig. IV.8) 46, ma a questa estromissione la Giselda del

romanzo reagisce con carattere e con ostinazione, con sarcasmo e cattiveria, con una visuale amara ma concreta e fredda della realtà della sua famiglia. È essenzialmente una ribelle che si rifiuta di piegarsi alla volontà altrui e, in particolar modo, a quella di genere maschile sintetizzata in Remo. Nel romanzo Giselda sbuffa, si dimena, insulta, s’infuria, risultando nei suoi eccessi di rabbia quasi buffa e goffa nel prendersi gioco delle sorelle con fare sprezzante e talvolta malefico; diventa nel film

45 Ivi, p. 259.

46 Per sottolineare i sentimenti di gelosia, di invidia e di sospetto che caratterizzano il personaggio

di Giselda, Poggioli ricorre a un tipo di soluzione visiva a carattere iterativo, cioè riprende la stessa scena di Giselda che spia dalla finestra (Fig. IV.8) e la inserisce in momenti significativi della storia. L’immagine compare, infatti, una prima volta al momento dell’arrivo del prete a casa Materassi con la finalità, forse, di inquadrare subito la tipologia del personaggio, una seconda volta al ritorno di Teresa e Carolina da Roma per sottolineare la gelosia della donna verso le due sorelle e un’ultima volta quando scorge Peggy nel giardino insieme a Remo, dove lo sguardo della donna comunica subito allo spettatore la sua posizione di rivalità e di sospetto nei confronti dei due giovani.

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tutt’altro personaggio rispetto alla figura tratteggiata da Palazzeschi: è una sorella che piange e si dispera per la sua esclusione, fa i capricci e soffre di gelosia nei confronti di Teresa e Carolina, rimpiange il marito e si affligge per l’abbandono.

E se qualche volta sembra avvicinarsi al personaggio del romanzo per quell’atteggiamento falso e artificioso che tanto infastidisce le due ricamatrici, per le risate insolenti che fanno da controcanto alle loro debolezze, alla fine, anziché andarsene sbattendo la porta per i troppi soprusi sofferti, nel film finisce con il riconciliarsi con le sorelle e, indirettamente anche con Remo, per il medesimo sentimento di disprezzo che le tre donne condividono nei confronti della nuova fidanzata americana.

Per quanto riguarda l’impostazione narrativa, salvo qualche piccola licenza, essa è per la maggior parte attentamente rispettata dal regista. Lo schema della vicenda resta conforme a quello comunemente adottato dal resto della cinematografia coeva fondato su tre momenti: ordine, disordine, ordine. Il momento della trasgressione in Sorelle Materassi è rappresentato, se vogliamo, dalla vita eccessivamente mondana di Remo e dall’amore senile delle due zie verso il loro nipote; Il disordine alla fine viene esorcizzato e fatto rientrare nel giusto ordine delle cose mediante il matrimonio tra Remo e Peggy, entrambi giovani ed entrambi appartenenti allo stesso rango sociale.

Per tali ragioni, il messaggio finale del film resta esclusivamente tradizionalista e conservatore, per nulla venendo meno a quella regola impartita dal Regime di rispetto e osservanza dei fondamentali valori legati alla pubblica decenza, al decoro e al prestigio dello Stato. I giovani con i giovani ed i vecchi con i vecchi, come si conviene al buon costume: passato e futuro non si devono confondere e, non per nulla, la partenza di Remo viene vissuta dalle due zie come severa punizione per il loro eccesso di affetto:

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- È la nostra punizione. Avremmo dovuto lasciargli sposare la Laurina.

- È vero.

D’altro canto, è proprio per l’esigenza di rispetto di questi meccanismi che il vero sapore e il profondo spirito dell’opera letteraria va malauguratamente perso. Poggioli non ha visto o non ha voluto vedere l’innovativo carattere del romanzo, che sotto quella patina di fittizio tradizionalismo, nasconde un’anima provocatoria e irriverente, fatta di doppi sensi, soffuso erotismo e sottili allusioni. Si deduce che paradossalmente il testo di Palazzeschi si dimostra più evoluto rispetto alla pellicola, nonostante l’apparente modernità rappresentata dal mezzo cinematografico.

Per quanto riguarda, invece, il registro narrativo adottato dal regista mi sento di convenire con quanto messo in evidenza dalla critica cinematografica rispetto al calligrafismo e al formalismo di cui ho parlato precedentemente.

Pertanto, salvo «un’esposizione non più che diligente dei fatti», nelle Sorelle Materassi di Poggioli resta «assente il timbro caratteristico di Palazzeschi, […] fatto di esuberanza farsesca e di segreta amarezza; […] assente l’atmosfera di quella Toscana campagnola e pettegola […] assente gran parte della più inconsueta e stimolante sostanza umana, […] assenti le figure del succosissimo contorno, non rifinite in sede di scenario le psicologie così sottilmente contrastanti delle due protagoniste»47.

La presenza di Irma ed Emma Gramatica nel ruolo delle due ricamatrici, per quanto «magnifiche commedianti», non basta a dare forza espressiva ai più contrastanti, reconditi, turbati e torbidi moti dell’animo delle due protagoniste palazzeschiane. Quest’ultime sono sì «due povere donne con una loro vita sentimentale»48, come scrive Luigi Russo, ma sono

47 Giulio Cesare Castello, in «Cinema», nuova serie – Milano, n. 39, 30 maggio 1950, p. 315, in ORIO

CALDIRON, op. cit. 1978, p. 62.

48 «Sono caricature quelle due sorelle? A una prima lettura ti potrà parere, ma sarà un’impressione.

Il riso dello scrittore è anche pietà, umana pietà: e quelle due figure tutte fronzoli, solennemente composte alla finestra, non sono maschere, ma povere donne, anch’esse con una loro vita

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anche, per quanto il critico non accetti questo aspetto e lo smentisca, due caricature, due personaggi buffi e amorevolmente simpatici che, alla fine del romanzo, sorridono della loro condizione di vecchie zitelle sedotte e abbandonate.

In sostanza, in Poggioli, l’ironia e, soprattutto, l’autoironia delle due protagoniste viene meno, persa dietro slanci di eccessiva compassione e finto patetismo, confluita in un sentimentalismo drammatico portato al paradosso nella straziante scena finale del saluto tra Remo e le due zie e tra Remo e la domestica Niobe (Fig. IV.20 e IV.22). I pianti isterici delle tre donne si intensificano e cancellano sul finale la memorabile scena palazzeschiana delle ricamatrici e della serva davanti alla gigantografia della foto di Remo appesa nel grande stanzone da lavoro. Anche se tra le lacrime e i lunghi addii, il regista trattiene le due sorelle sulla scena, vestite da spose (Fig. IV.21), nella volontà di sottolineare icasticamente la loro condizione di vergini abbandonate; anche in un momento così drammatico, le due sorelle appaiono come figure troppo rigide e prive di un profondo e intimo trasporto sentimentale.

Alla proposta cinematografica di Poggioli si possono, pertanto, soltanto riconoscere, da buon regista calligrafico, l’eleganza della forma, la cura delle ambientazioni e l’accentuazione, secondo il gusto romantico del suo stile, dello scontro tra le «energie maschili e le fragili ritrosie femminili»49, ma il tutto resta giocato su un piano prevalentemente

estetico e superficiale, esule dalla più lontana pretesa, neanche velatamente tendenziosa, di varcare i limiti della più poetica fedeltà letteraria.

4.2.1 Una collaborazione mancata: la genesi di Sorelle Materassi e la partecipazione di Palazzeschi alle fasi di progettazione del film

sentimentale, e tu non le dimentichi più», giudizio critico di Luigi Russo cit. in GUIDO GIROSA, op. cit. 1963, p. 30.

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