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CAPITOLO 3 – “LA NORMATIVA ITALIANA: GESTIONE IDRAULICA E FORESTALE”

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Academic year: 2021

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CAPITOLO 3 – “LA NORMATIVA ITALIANA: GESTIONE

IDRAULICA E FORESTALE”

In una nazione come l’Italia, ricchissima di acque e di terreni fertili, adatta allo sviluppo umano, il problema della convivenza fra l’uomo e l’acqua ha preso origine in un tempo molto lontano. In questo argomento assai vasto e complesso si sono succeduti, nella gestione delle rive fluviali, tanti enti e molte normative ma, anche con i numerosi passi avanti fatti, è ancora lunga la strada per realizzare un’equa convivenza, considerando che né lo sviluppo e né l’acqua si possono fermare. Storicamente la difesa del suolo, con particolare riferimento alle opere di difesa idraulica, vede una competenza ripartita tra gli organi centrali dello Stato, attraverso le loro strutture periferiche e gli Enti a carattere localistico. Sin dagli inizi del ventesimo secolo, la competenza in materia di opere idrauliche di maggiore importanza era attribuita al Ministero dei Lavori Pubblici il quale la esercitava attraverso la Direzione Generale delle Acque e degli Impianti Elettrici ed il Genio Civile, organo ministeriale periferico capillarmente distribuito su tutto il territorio nazionale. Con il crescere dell’attività sorse la necessità di creare delle regole che garantissero la convivenza dell’uomo con le esigenze dell’acqua in natura, non già “governata” per usi antropici: oggi queste regole sono individuate nelle funzioni della “Polizia Idraulica”. Questo termine è previsto dal tuttora vigente Regio Decreto 25 luglio 1904 n° 523, che disciplina la tutela delle acque pubbliche e delle opere alle stesse connesse. Le problematiche legate alla stabilità arginale e alla tutela delle opere idrauliche erano già note in tempi remoti, mentre gli interventi ed i servizi di tutela, pur già esistenti, vennero sistematizzati su tutta l’asta dei fiumi, praticamente dall’unità d’Italia. Tale sistematizzazione è avvenuta con l’istituzione degli uffici provinciali del Genio Civile, e successivamente all’emanazione del R.D. 25 luglio 1904 n° 523: “Testo Unico delle disposizioni di legge intorno alle opere idrauliche delle diverse categorie”, e del R.D. 9 dicembre 1937 n° 2669: “Regolamento sulla tutela delle opere idrauliche di prima e seconda categoria e delle opere di bonifica”. Tali disposizioni di legge, tuttora vigenti, se pure con qualche integrazione e modifica, hanno regolato e regolano l’attività di Polizia Idraulica ed il Servizio di Piena. Il Regio Decreto 25 luglio 1904 n° 523

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“Approvazione del Testo Unico delle disposizioni di legge intorno alle opere idrauliche delle diverse categorie”, è tuttora in gran parte vigente. Si tratta di una delle più solide e ponderose leggi in materia di difesa del suolo mai uscite in Italia. Una solidità dimostrata da questi primi cento anni, in cui è diventata la base per tutta la successiva normativa sulle acque. L’obiettivo del R.D., che seguiva la normativa del 1865 sulle opere pubbliche, era di fare ordine sulle opere idrauliche attraverso un Testo Unico, classificandole in diverse categorie, determinandone le modalità di realizzazione e di gestione per ognuna di esse. Il R.D. introdusse, infatti, una classificazione delle opere idrauliche nelle acque pubbliche, in categorie dalla prima alla quinta. Le categorie servivano per definire le competenze ed erano determinate in ordine d’importanza decrescente, dalla dimensione del corso d’acqua. Oggi questa classificazione non è più utilizzata, poiché la competenza è suddivisa per corso d’acqua e per bacino idrografico. Il R.D., inoltre, definiva una serie articolata di norme sulla “navigazione” sui “trasporti dei legnami a galla” e sulle “acque pubbliche”. Erano vietate esplicitamente:

“ - le piantagioni che si inoltrino dentro gli alvei dei fiumi, dei torrenti, rivi e canali, a costringere la sezione normale e necessaria al libero deflusso delle acque;

- lo sradicamento o l’abbruciamento dei ceppi degli alberi che sostengono la ripa dei fiumi e dei torrenti per una distanza orizzontale non minore dei nove metri dalla linea a cui arrivano le acque ordinarie. Per i rivi, canali e scolatori pubblici la stessa proibizione è limitata ai piantamenti aderenti alle sponde;

- la piantagione sulle alluvioni delle sponde dei fiumi e torrenti e loro isole a distanza dalla opposta sponda minore di quella nelle rispettive località, stabilita o determinata dal prefetto, sentite le amministrazioni dei comuni interessati e l’ufficio del Genio Civile;

- le piantagioni di qualunque sorta di alberi ed arbusti sul piano e sulle scarpe degli argini, loro banche e sotto banche lungo i fiumi, torrenti e canali navigabili; - le piantagioni di alberi e siepi, le gli scavi e il movimento del terreno a distanza dal piede degli argini e loro accessori come sopra, minore di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località, ed in mancanza di tali discipline a distanza

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minore di metri quattro per le piantagioni e movimento del terreno e di metri dieci per gli scavi.”

Alcune di queste affermazioni sono in evidente contrasto con quella che ora è la maggior politica di gestione delle rive: l’ingegneria naturalistica. Le normative e gli indirizzi legislativi attuali fanno di quest’ultima una delle tecniche base per la consolidazione delle sponde e delle scarpate, in sostituzione di interventi più pesanti fatti di soli materiali inerti (massicciate, muri in cemento, ecc.). L’ingegneria naturalistica è stata introdotta in varie normative, diverse Regioni hanno prodotto “Quaderni delle opere tipo per l’ingegneria naturalistica” e le Autorità di bacino l’hanno inserita nei propri Piani di Assetto Idrogeologico. L’esigenza di “ordine” che ha portato come risultato al R.D. 25 luglio 1904, era dettata in primis dalle necessità di sviluppo dell’Italia di allora, che aveva bisogno di regolare le acque per meglio utilizzarle in agricoltura, per contenere i rischi e consentire l’espansione dei centri urbani. Ovviamente l’ambiente non costituiva ancora un problema od una esigenza. Necessario è precisare che il R.D. si occupa della disciplina delle “acque pubbliche” senza però dare una definizione di questo termine. Quindi è importante ricordare che con il termine “acque pubbliche” erano, sino al 1994, da intendersi le acque scorrenti nel Demanio Pubblico, cioè su quelle superfici, attribuite alla proprietà dello Stato, che potevano essere definite come: “lido del mare, spiaggia, porti, laghi, fiumi e torrenti ” (art. 882 Codice Civile). I R.D. 11 dicembre 1933 n° 1775 specificò il concetto di acque pubbliche: “… le acque sorgenti, fluenti o lacuali, anche se estratte dal sottosuolo…[che]… per la loro portata o per l’ampiezza del rispettivo bacino imbrifero … abbiano o acquistino attitudine ad usi di pubblico interesse”. Tutte queste Acque Pubbliche vennero scritte in appositi elenchi. (Questi elenchi sono tuttora utilizzati per individuare i territori soggetti al vincolo paesaggistico, introdotto dalla Legge 431/1985 cosidetta Legge Galasso – ora Decreto Legislativo 29 ottobre 1999 n° 490). Per differenza tutte le acque non comprese in questi elenchi restavano regolate dai diritti acquisiti mentre i terreni dalle stesse bagnati seguivano la normativa ordinaria. Con la Legge 36/94 (art. 1), tutta l’acqua è diventata pubblica, cioè appartenente allo Stato. La pubblicità delle acque tutte non porta però alla automatica pubblicità delle aree che queste ricoprono; il Demanio Idrico cioè resta

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ancorato agli elenchi delle Acque Pubbliche, che individuano i corsi d’acqua pubblici. Nonostante questa definizione e la pubblicazione degli elenchi, resta da definire quale sia il limite del Demanio Idrico, perché la superficie risulta definita dalla linea dell’acqua, che non è mai fissa. In particolare per i fiumi, il limite bagnato è estremamente variabile. Il fiume Po è l’esempio più chiaro: tra l’argine maestro e l’acqua a volte possono intercorrere chilometri di territorio; qual è il limite del Demanio Idrico? Risolve questo problema la giurisprudenza, ormai assolutamente univoca e consolidata: la demanialità della superficie bagnata dalle acque pubbliche è quella che si presenta inferiore all’altezza di piena ordinaria, che è rappresentata dalla quota media annua raggiunta, in quel punto, dalle acque del corpo dell’acqua considerato, statisticamente uguagliata o superata nel 75% dei casi osservati (questa definizione, universalmente accolta in ogni sede, risale alla terminologia assunta dal Servizio Idrografico Nazionale, presentata al “XV Congresso Internazionale di Navigazione”, tenutosi a Venezia nel 1971). Ora il riferimento è completo. Gli effetti di tale definizione sono importanti ma spesso ignorati: poiché il regime dei corsi d’acqua naturali è statisticamente variabile (non solo per il mutare delle condizioni meteo-climatiche ma anche a causa di opere dell’uomo) altrettanto variabile è il valore dell’altezza di piena ordinaria. Di conseguenza anche l’estensione del Demanio attorno ai corpi idrici pubblici varia nel tempo, sempre a scapito delle confinate proprietà, a prescindere che esse siano, a loro volta, pubbliche oppure private. Dal 1994, con la Legge 37 (cosiddetta legge “Cutrera”) lo spostamento del limite di piena ordinaria produce l’automatico accorpamento delle aree di nuova sommersione al Demanio Pubblico, senza compenso, ma l’abbandono della piena ordinaria di aree prima in esse ricomprese non consente la sdemanializzazione (cosa invece quasi automatica fino a quell’anno). Sulle aree così individuate si applica la “Polizia Idraulica”, il cui scopo è impedire che si realizzino opere o attività che compromettano il naturale scorrere delle acque. I dettagli si trovano all’art. 93 e seguenti del R.D. 523/1904. La Polizia Idraulica fu attivata al Regio Genio Civile, poi diventato statale ed ora ufficio della Regione. Il Regio Decreto 9 dicembre 1907 n° 2669 introdusse anche la “Vigilanza e guardia dei corsi d’acqua” che consiste nelle attività connesse all’eventi di piena. Interessante è notare che questa legge, in particolare all’art. 42

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e seguenti, preveda poteri eccezionali ai funzionari del Genio Civile in caso di rottura degli argini e di piena disastrosa. Ad essi è data la facoltà di immediata precettazione di uomini e mezzi per provvedere a quanto necessario “… tutti sono tenuti ad obbedire agli ordinari del funzionario del Genio Civile …”. Nascono così nuove figure delle quali si trova traccia ancora oggi: il Magazzino Idraulico, l’Ufficiale Idraulico, il Guardiano Idraulico, il Servizio Idrometrico e di Piena. L’attività di polizia idraulica è stata recentemente affidata alle Regioni (D.P.R. 112/99). Storicamente la difesa del suolo e le opere di difesa idraulica, come precedentemente affermato, sono di competenza degli organi centrali dello Stato e degli Enti a carattere localistico: in particolare per i bacini nord orientali esisteva, fin dall’inizio del secolo, il Magistrato delle Acque di Venezia. Quest’ultimo, erede di uno storico ufficio del governo della Serenissima, era un istituto periferico del Ministero dei Lavori Pubblici istituito nel 1907, che si occupava della gestione, della sicurezza e della tutela idraulica nel triveneto. L’istituzione del Magistrato alle Acque con Legge istituzionale del 5.5.1907, ebbe lo scopo di concentrare nel nuovo Istituto tutti i poteri e tutte le funzioni comunque attinenti al buon regime delle acque, e risultò essere il primo coraggioso esperimento di decentramento amministrativo nel campo delle opere pubbliche. Tale ente esercitava le sue competenze nell’ambito dell’esecuzione di opere idrauliche all’interno dei bacini di interesse nazionale e anche nelle regioni a statuto speciale. Le competenze territoriali subirono parecchie variazioni come l’annessione del Trentino, dell’Alto Adige, della Venezia Giulia e l’indipendenza del bacino del Po con l’istituzione del Magistrato del Po a Parma nel 1956. La Legge 12 luglio 1956 n° 735, a seguito della disastrosa piena del Po del 1951, sancisce la nascita del Magistrato per il Po, dipendente dal Ministero dei Lavori Pubblici. Esso assorbe funzioni e personale dagli uffici periferici dello stesso Ministero e del Genio Civile e di fatto sostituisce questo ultimo sul fiume Po e sui suoi affluenti. Successivamente è stata varata la Legge 18/5/1989, n° 183 “Norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo”, che avrebbe dovuto dare avvio ad una nuova politica territoriale basata sul concetto di bacino idrografico, sull’adozione dei piani di bacino e sull’istituzione delle Autorità di bacino. Esso ha ruolo di supervisione nell’ambito della valle padana, dipende direttamente dal Governo e il suo compito è quello di

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produrre piani per garantire l’equilibrio idrogeologico. Importante, per concludere, è precisare che fino al 1956, sui corsi d’acqua maggiori la costruzione di opere idrauliche era realizzata dal Genio Civile, mentre sui corsi d’acqua minori le opere erano realizzate da consorzi. Gli Enti che si occupano della gestione della risorsa acqua, potrebbero far parte di un elenco lunghissimo ed incompleto, in particolare sono qui oggetto di studio, quelli il cui campo d’azione dovrebbe prevedere lo studio delle interazioni tra la vegetazione ripariale e il regime variabile dei fiumi. Tali interazioni possono essere limitate e mitigate tramite interventi di manutenzione ordinaria. La manutenzione di un corso d’acqua, come è noto, ha le seguenti principali finalità:

- prevenire i rischi;

- tutelare la funzionalità dell’ecosistema fluviale;

- garantire la possibilità di deflusso delle acque nella sezione idraulica; - garantire la capacità d’espansione nelle zone golenali;

- preservare l’integrità fisica del territorio;

- salvaguardare l’ambiente naturale e le caratteristiche naturali degli alvei;

- assicurare la continuità ecologica lungo il corso d’acqua (Autorità di Bacino del fiume Po, 1998 – programma di manutenzione).

La gestione del territorio, infatti, oltre alla corretta pianificazione, è senza dubbio la garanzia più importante per l’incolumità pubblica e per il mantenimento di un ambiente vivo e vissuto. La manutenzione è un’esigenza ampiamente condivisa da ormai tutte le forze sociali, ma è comunque utile sottolineare la distinzione tra la manutenzione delle opere e la manutenzione (gestione) del territorio. Tale differenza si può tradurre anche in gestione più prettamente idraulica e gestione forestale del territorio. La gestione idraulica attualmente prevale in quanto è legata ad ormai sperimentate tipologie d’azione e quindi di facile definizione (i programmi di manutenzione sono spesso elenchi d’interventi per ripulire, rimettere in efficienza, rinforzare opere esistenti, ecc.). Si tratta di azioni consolidate sia da un punto di vista tecnico procedurale – amministrativo. Il Ministero Lavori Pubblici, coordinato con il Magistrato per il Po e con i servizi dei lavori pubblici regionali, promuove questo tipo di gestione, facendo riferimento a competenze di ingegneria idraulica (qualche volta di geologia ed eccezionalmente a competenze di altro

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tipo). La manutenzione del territorio, ed in particolare la gestione forestale, dovrebbe prevenire i rischi e soprattutto tutelare la funzionalità dell’ecosistema. Questo obiettivo è raggiungibile tramite azioni diffuse di rinaturalizzazione (recupero aree di esondazione, ripristino zone umide, …), di riqualificazione ambientale (rimboschimento…), di minimizzazione dell’impatto (es. consolidamento con tecniche di ingegneria naturalistica) e di gestione naturalistica (controllo e governo dei boschi, reintroduzione di specie particolari, gestione delle specie invasive, miglioramenti ambientali del territorio…). Questo tipo di attività è essenzialmente svolta e promossa dagli Enti gestori delle aree protette in genere, quasi esclusivamente individuate negli ambiti dei corsi d’acqua. Tale approccio si rifà prevalentemente a competenze naturalistiche, forestali, agronomiche e (più recentemente) di ingegneria ambientale. A livello amministrativo tali attività fanno capo al Ministero dell’Ambiente, agli assessorati, ai servizi regionali di tutela della natura e parchi, e alle aziende regionali forestali. Vi è quindi ancora una enorme discrepanza e spesso competizione tra le due componenti. Ciò si traduce, ad esempio, nel non coinvolgimento degli enti parco nell’individuazione delle situazioni di rischio e dei conseguenti interventi di difesa del suolo nelle aree di loro competenza. Con l’entrata in vigore della Legge n° 183/89 si completa il quadro degli Enti aventi competenza in materia di difesa del suolo ed in particolare di opere idrauliche. La Legge 183/89 istituisce le Autorità di bacino per i bacini idrografici di rilievi nazionale. Si tratta di un organo che programma e pianifica le opere, attraverso Piani di bacino, Piani stralcio e schemi previsionali programmatici (SSPPPP), ma non ha alcun potere di controllo diretto riguardo le attività da esso definite. La finalità generale dell’Autorità è la tutela ambientale dell’intero bacino idrografico, secondo i seguenti obiettivi:

- difesa idrogeologica e della rete idrografica; - tutela della qualità dei corpi idrici;

- razionalizzazione dell’uso delle risorse idriche; - regolamentazione dell’uso del territorio.

Gli ambiti entro i quali l’Autorità svolge le proprie attività di pianificazione, programmazione e attuazione sono:

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- difesa, sistemazione e regolazione dei corsi d’acqua; - moderazione delle piene;

- disciplina delle attività estrattive;

- difesa e consolidamento dei versanti e delle zone instabili; - svolgimento funzionale dei servizi di polizia idraulica;

- manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere e degli impianti;

- regolamentazione dei territori per la salvaguardia e la conservazione delle aree demaniali e la costituzione di parchi fluviali e aree protette;

- riordino del vincolo idrogeologico.

Il principale strumento di pianificazione e programmazione dell’Autorità è costituito dal Piano di bacino idrografico: piano territoriale di settore e strumento conoscitivo, normativo e tecnico – operativo mediante il quale vengono pianificate e programmate le attività e le norme d’uso. Le disposizioni del Piano, una volta approvato, hanno carattere immediatamente vincolante per le amministrazioni e gli enti pubblici, nonché per i soggetti privati. In attesa dell’approvazione del Piano di Bacino, l’Autorità opera avvalendosi di altri strumenti quali: gli schemi previsionali e programmatici, i piani stralcio e le misure di salvaguardia. Lo Schema previsionale e programmatico costituisce lo strumento per l’individuazione, il coordinamento e la programmazione delle attività nel settore dell’assetto del territorio con riferimento alla difesa del suolo in attesa dell’adozione del piano di bacino. Tra i diversi piani stralcio è stato realizzato il “Piano per le Fasce Fluviali” che dovrebbe regolamentare le attività lungo i fiumi “con l’obiettivo di assicurare un livello di sicurezza adeguato rispetto ai fenomeni alluvionali, in ripristino, la riqualificazione e la tutela delle caratteristiche del territorio e della risorsa idrica, la programmazione degli usi del suolo ai fini della difesa, della stabilizzazione e del consolidamento dei terreni”. Entrambi questi strumenti essenziali fanno riferimento alla Legge 183/89 che afferma:

“le attività di programmazione, di pianificazione e di attuazione degli interventi destinati a realizzare le finalità indicate all’art. 1 curano in particolare:

- la sistemazione, la conservazione ed il recupero del suolo nei bacini idrografici, con interventi idrogeologici, idraulici, idraulico-forestali, idraulico-agrari,

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silvo-pastorali, di forestazione e di bonifica, anche attraverso processi di recupero naturalistico, botanico e faunistico;

- la difesa, la sistemazione e la regolazione dei corsi d’acqua, dei rami terminali dei fiumi e delle loro foci nel mare, nonché nelle zone umide;

- la moderazione delle piene, anche mediante serbatoi d’invaso, vasche di laminazione, casse d’espansione, scaricatori, scolmatori, diversivi o altro, per la difesa dalle inondazione e dagli allagamenti;

- la disciplina delle attività estrattive, al fine di prevenire il dissesto del territorio inclusi erosione ed abbassamento degli alvei e delle coste;

- la difesa ed il consolidamento dei versanti e delle aree instabili, nonché, la difesa degli abitati e delle infrastrutture contro i movimenti franosi, le valanghe ed altri fenomeni di dissesto;

- lo svolgimento funzionale dei servizi di polizia idraulica, di navigazione interna, di piena e di pronto intervento idraulico, nonché, della gestione degli impianti;

- la manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere e degli impianti nel settore e la conservazione dei beni;

- la regolamentazione dei territori interessati dagli interventi di cui alle lettere precedenti ai fini della loro tutela ambientale, anche mediante la determinazione di criteri per la salvaguardia e la conservazione delle aree demaniali e la costituzione di parchi fluviali e lacuali di aree protette;

- la gestione integrata in ambienti ottimali dei servizi pubblici nel settore, sulla base di criteri di economicità e di efficienza delle prestazioni;

- il riordino del vincolo idrogeologico;

- l’attività di prevenzione e di allerta svolta dagli enti periferici operanti sul territorio.

Attraverso i vari strumenti (Piani Previsionali Programmatici, Direttive, …) l’Autorità di Bacino può individuare e ripensare vincoli sul territorio, pur tuttavia non può emettere alcuna autorizzazione o operare alcun controllo diretto sugli stessi provvedimenti. Queste limitazioni hanno già prodotto incongruenze quali:

- l’impossibilità da parte dell’Autorità di Bacino di controllo della corretta realizzazione degli interventi;

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- la difficoltà dell’Autorità di Bacino, anche una volta messa al corrente, di agire per bloccare o modificare gli interventi che non seguono i “criteri guida”;

- l’impossibilità dell’Autorità di Bacino di favorire esperienze pilota laddove gli stessi comuni colpiti dall’alluvione lo richiedevano.

A ciò si aggiunge il fatto che esiste il rischio di snaturare la valenza dei Piani di bacino, che dovrebbero essere strumenti di “sovrapianificazione”, per favorire l’interazione tra i vari aspetti di gestione territoriale, mentre il procedere per Piani stralcio può determinare la perdita di quella visione pianificatoria globale necessaria per ottimizzare la pianificazione e la gestione territoriale.

3.1

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Gestione dell’ostruzione dei ponti

Le catastrofiche alluvioni che si sono verificate in Italia dal 1950 al 1970 (circa) e, successivamente, dal 1985 al 2000, hanno fatto ben capire che nella nostra nazione era necessario intervenire in maniera concreta ed organizzata sulla difesa del suolo. Nel corso di tali eventi le opere in alveo hanno costituito un elemento di elevata criticità. Molti viadotti sono stati completamente distrutti sia a causa delle sollecitazioni dirette delle acque di piena, e quindi, sia delle sollecitazioni dirette del materiale galleggiante ostacolato, sia per il crollo delle pile in alveo scalzate a seguito dei fenomeni erosivi. In numerosi casi i rilevati di accesso ai ponti sono stati asportati in misura a volte totale, a volte parziale. Ciò ha comportato oltre al danno economico diretto per la perdita dell’opera l’interruzione di viabilità in alcuni casi fondamentali anche per l’espletamento dei compiti di protezione civile e assistenza alle popolazioni colpite dagli eventi alluvionali. L’insufficiente dimensionamento delle opere di attraversamento delle aree di deflusso e di esondazione delle piene e la carenza della manutenzione ordinaria degli alvei in corrispondenza delle stesse opere ha in molti casi indotto situazioni di elevata pericolosità nelle aree adiacenti spesso urbanizzate. Non va infine dimenticato che la perdita di numerose vite umane è avvenuta proprio in corrispondenza dei ponti sui corsi d’acqua. A valle di tale eventi il primo passo fu effettuato con il D.M. 4 maggio 1990, coordinato dalla Legge 2 febbraio 1974 n° 64 e Legge 5 novembre 1971 n° 1986, e dalla successiva Circolare del Ministero dei Lavori Pubblici 25 febbraio 1991 n° 34233, dove apporta, nella parte finale, disposizioni concernenti

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la manutenzione e l’ispezione dei ponti. Quest’ultima al paragrafo 2.4 Problemi idraulici descrive dettagliatamente gli aspetti delle opere di attraversamento e dell’alveo che devono essere esaminati per progettare nuovi ponti; in particolare“… - esame delle conseguenze della presenza di natanti, corpi flottanti e trasportati dalle acque, ove ricorra detta possibilità, e studio della difesa dagli urti e dalle abrasioni, nonché delle conseguenze di possibili ostruzioni delle luci (specie se queste possono creare invasi anche temporanei a monte), sia in fase costruttiva sia durante l’esercizio delle opere…”. Al punto 9.4.1 Manutenzione ordinaria dichiara per i ponti già esistenti“… - pulizia delle varie parti dell’opera compresi gli appoggi, anche con mezzi meccanici, al fine di asportare tutti i materiali estranei”. Da premettere che secondo quanto indicato dalla normativa CNR – UNI 10007, si definisce come “ponte un manufatto di attraversamento con luce netta complessiva superiore a 6 metri”. A seguito del verificarsi di ulteriori eventi calamitosi fu approvato il PSFF (Piano Stralcio delle Fasce Fluviali) con D.P.C.M. 24 luglio 1998 e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 9 novembre 1998 n° 262, in cui si definisce un assetto fisico ed ambientale della regione fluviale funzionale a garantire un maggior grado di sicurezza dagli eventi di piena; tale obiettivo viene raggiunto attraverso un sistema di interventi strutturali e non strutturali finalizzati al ripristino delle condizioni naturali di evoluzione del sistema fluviale, ove ciò sia consentito dalle condizioni d’uso del suolo e dalla distribuzione degli insediamenti antropici e alla definizione di opere di difesa ove necessarie ed indispensabili. All’art. 15 delle Norme di attuazione del PSFF è menzionata quella che diventerà la Direttiva approvata con deliberazione del Comitato Istituzionale n. 2 dell’ 11 maggio 1999. La presente direttiva fornisce i criteri, le prescrizioni e gli indirizzi di natura tecnica sulla base dei quali redigere lo studio idraulico, che deve corredare i progetti delle opere, necessario a valutare la compatibilità delle stesse con le prescrizioni del Piano stralcio. Al paragrafo 1.2 Criteri di valutazione della compatibilità sono prescritti gli interventi “non modifichino i fenomeni idraulici naturali e le caratteristiche di particolare rilevanza naturale dell’ecosistema fluviale che possono aver luogo nelle fasce, che non costituiscano significativo ostacolo al deflusso e non limitino in modo significativo la capacità di invaso, e che non concorrano ad incrementare il carico insediativo”. Tale indicazione rappresenta

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l’elemento principale per la valutazione di compatibilità, nell’ambito della quale devono essere presi in considerazione i singoli effetti dell’opera sull’assetto del tronco di corso d’acqua interessato. Al paragrafo 2.8.3 Condizioni fisiche di riferimento cita “… il rischio di ostruzione parziale dell’alveo, a seguito del deposito temporaneo del corso della piena di materiale lapideo e/o arboreo, è necessario che la verifica dell’opera nella configurazione definitiva tenga conto di un’ipotesi di parzializzazione della sezione di deflusso, formulato sulla base di una ragionevole considerazione degli elementi che possono determinare tale fenomeno, quali ad esempio le condizioni di stabilità del bacino idrografico sotteso, le dimensioni del trasporto solido, la presenza di vegetazione arborea asportabile lungo l’asta fluviale”. Gli aspetti idraulici connessi alla realizzazione dei ponti sono disciplinati dal D.M. dei L.L.P.P. 4 maggio 1990 e dalla Circolare dello stesso Ministero n° 34233 del 25/2/1991: “I ponti che attraversano un corso d’acqua interferiscono con le condizioni di deflusso quando le pile siano collocate in alveo e quando le spalle o i rilevati di accesso diano luogo ad un restringimento dell’alveo stesso. …. Nel caso particolare dei ponti la presente direttiva si applica sia alle nuove opere in progetto che a quelle esistenti, in sede di verifica di compatibilità ai sensi e per gli effetti dell’art. 19, comma 2, Titolo 1 delle Norme di Attuazione del Piano Stralcio per l’Assetto Idrogeologico. Nel caso di una nuova opera le prescrizioni e gli indirizzi individuati sono rivolti a garantire:

- che l’inserimento della struttura sia coerente con l’assetto idraulico del corso d’acqua e non comporti alterazioni delle condizioni di rischio idraulico.

…. Nel caso dei ponti esistenti, la presente direttiva indica, oltre ai punti precedenti, nel caso di opere per le quali non sia soddisfatta la verifica idraulica di compatibilità:

- le eventuali condizioni di esercizio transitorio della struttura, sino alla realizzazione degli interventi di adeguamento progettati;

- i criteri di progettazione degli interventi correttivi e di adeguamento necessari.”

Per i ponti e i rilevati di accesso in progetto la direttiva prescrive al punto 3.2

“Posizionamento del ponte rispetto all’alveo. L’insieme delle opere costituenti l’attraversamento non deve comportare condizionamenti al deflusso della piena ed indurre modificazioni all’assetto morfologico dell’alveo. L’orientamento delle pile

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(ed eventualmente delle spalle) deve essere parallelo al filone principale della corrente. In particolare devono essere rispettate le seguenti condizioni:

- per i corsi d’acqua arginati la spalla del ponte deve essere sul lato campagna, ad una distanza minima di 10 metri dal piede dell’argine maestro; lo stesso limite vale per il caso siano presenti pile sul lato campagna; sul lato fiume la posizione delle pile deve essere al di fuori del letto dell’argine; in via eccezionale la pila può interessare il corpo arginale, purché non intacchi il nucleo centrale dell’argine stesso e sia integrata con opportuni accorgimenti di difesa e di rivestimento;

- per i corsi d’acqua non arginati le pile e le spalle devono essere poste al di fuori delle sponde incise dell’alveo; in via eccezionale la pila può interessare la sponda, purché sia integrata con opportuni accorgimenti di difesa e di rivestimento;

- nei casi in cui il ponte sia inserito in un tratto di corso di acqua interessato da altre opere di attraversamento poste in adiacenza, a monte od a valle, è necessario che le pile in alveo (ed eventualmente le spalle) siano allineate con quelle esistenti in modo che le pile presenti considerate congiuntamente, non riducano la luce effettiva disponibile, anche ai fini del rischio di ostruzione da parte del materiale trasportato in piena;

- la struttura deve consentire il mantenimento della continuità della pista di servizio in fregio al corso d’acqua ovvero sul rilevato arginale.

Effetti idraulici indotti dal ponte. La soluzione progettuale per il ponte e per i relativi rilevati di accesso deve garantire l’assenza di effetti negativi indotti sulle modalità di deflusso in piena; in particolare il profilo idrico di rigurgito ed eventualmente indotto dall’insieme delle opere di attraversamento deve essere compatibile con l’assetto difensivo presente e non deve comportare un aumento delle condizioni di rischio idraulico per il territorio circostante. Vanno inoltre verificati seguenti aspetti aggiuntivi:

- assenza di riduzione della superficie delle aree allagabili per effetto del ponte al fine di evitare effetti di minore laminazione della piena lungo l’asta fluviale;

- compatibilità dell’opera e delle eventuali sistemazioni idrauliche connesse con gli effetti indotti da possibili ostruzioni delle luci ad opera di corpi flottanti trasportati dalla piena ovvero di deposito anomalo di materiale derivante dal trasporto solido, soprattutto nel caso possano realizzarsi a monte invasi temporanei di dimensione

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significativa. … E’ raccomandabile considerare ogni qualvolta possibile i seguenti elementi: ….

- dislivello tra quota di intradosso impalcato e fondo alveo: non inferiore 6-7 m quando si possa temere il transito di alberi di alto fusto; valori maggiori vanno mantenuti per ponti con luci inferiori ai 30 m o posti su torrenti su cui sono possibili sovralzi del fondo alveo per deposito di materiale lapideo;

… - forma delle pile in alveo: è preferibile la forma circolare o di tipo profilato in modo da costituire minore ostacolo alla corrente (minore esposizione all’erosione); nei casi in cui si abbia elevata velocità di corrente abbinata ad un trasporto solido significativo, la parte delle pile a contatto con la corrente deve essere opportunamente protetta”.

Per i ponti e i rilevati di accesso esistenti la direttiva prescrive al punto 3.3 “Effetti idraulici indotti dal ponte. …Va inoltre verificata la compatibilità dell’opera e delle eventuali sistemazioni idrauliche connesse con gli effetti indotti da possibili ostruzioni delle luci ad opera di corpi flottanti trasportati dalla piena ovvero di deposito anomalo di materiale derivante dal trasporto solido, soprattutto nel caso possano realizzarsi a monte invasi temporanei di dimensione significativa”. Al paragrafo 4.8.3 Condizioni fisiche di riferimento “… Nel caso di un ponte esistente le condizioni fisiche da prendere in considerazioni sono:

- opera nella configurazione attuale;

- opera nella configurazione attuale, con ipotesi di ostruzione parziale delle luci, nel caso le caratteristiche del ponte, insufficienti a consentire un libero deflusso della piena, rendano probabile tale condizione.

Il secondo caso va definito in funzione della ragionevole presa in conto degli elementi che concorrono a determinare il manifestarsi in piena di ostruzioni dovute ai materiali trasportati: la luce parziale del ponte (tra due pile), lo stato del bacino idrografico e dell’asta fluviale a monte, l’altezza del ponte rispetto al fondo alveo. In questo caso la verifica deve valutare le condizioni di funzionamento residuo, il rigurgito indotto, la possibilità di formazione di invasi temporanei significativi a monte , la possibilità di tracimazione del ponte e relative sollecitazioni strutturali.“

L’allegato 2, “Normativa vigente relativa ai ponti”, della precedente Direttiva, in riferimento alla Circolare n° 34233 del 25 febbraio 1991 del Ministero LL.PP.

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“Istruzioni relative alla normativa tecnica dei ponti stradali”, al paragrafo 2.4.1 cita

“…esame delle conseguenze della presenza di natanti, corpi flottanti e trasportati dalle acque, ove ricorra detta possibilità, e studio della difesa dagli urti e dalle abrasioni, nonché delle conseguenze di possibili ostruzioni delle luci (specie se queste possono creare invasi anche temporanei a monte), sia nella fase costruttiva sia durante l’esercizio delle opere. …”. Nello stesso allegato, in riferimento al “Piano stralcio per la realizzazione degli interventi necessari al ripristino dell’assetto idraulico, all’eliminazione delle situazione di dissesto idrogeologico e alla prevenzione dei rischi idrogeologici nonché per il ripristino delle aree di esondazione” – PS 45 (art. 4, comma 5, Legge 22/95), viene dettato “… interasse minimo tra le pile adeguato a non provocare fenomeni di ostruzioni. …” . In ambito del tutto generale il Decreto Legislativo 22 gennaio 2004 n° 42 “Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della Legge 6 luglio 2002 n° 137” tutela agli artt. 131, 142 e 149 tutti i corsi d’acqua, le foreste, i boschi e tutta la natura. Si evidenza tutto l’impegno a non perdere l’occasione per tutelare l’ambiente ed evitare catastrofi! L’attuale assetto normativo è stato di recente oggetto di revisione a seguito dell’entrata in vigore del Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n° 152 recante “Norme in materia ambientale”, attuativo della Legge 15/12/2004, n° 308 (“Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione”). Le principali novità riguardano l’introduzione dei distretti idrografici previsti dalla Direttiva Quadro comunitaria (2000/60/CE) e dei relativi piani di gestione, modificando significativamente l’assetto politico istituzionale degli organi di governo e pianificazione in materia di acqua e suolo. Il Decreto Legislativo, com’è noto, è stato contestato da diverse Regioni che ne hanno promosso l’impugnativa presso la Corte Costituzionale, con particolare riferimento agli articoli 63 e 64 del nuovo testo (relativi rispettivamente alle autorità di bacino distrettuali e alle identificazioni dei distretti idrografici). Oggi, grazie al lavoro svolto dalle Autorità di Bacino e dalle Regioni nell’ambito dei Piani per l’Assetto Idrogeologico, giunti ad un livello di elaborazione avanzato su tutto il territorio nazionale, è ormai stato delineato anche il quadro degli interventi e delle necessità finanziarie per la sistemazione idrogeologica del territorio nazionale. In ottemperanza a quanto

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disposto dal D.L. n° 180/98, nel 1999 erano stati approvati su tutto il territorio nazionale i Piani Straordinari che contenevano la perimetrazione delle aree a rischio idrogeologico più elevato. Quindi, a partire dal 2000, sono stati elaborati i Piani stralcio per l’Assetto Idrogeologico (P.A.I.), redatti ai sensi della L. n° 183/89 e del D.L. n° 180/98, che ad oggi si trovano allo stadio finale e coprono quasi tutto il territorio nazionale. Le disposizioni previste dalla Legge 183/89 sono state modificate ed integrate dal D.L. 11 giugno 1998, n° 180, coordinato con la legge di conversione 3 agosto 1998, n° 267, successivamente modificato dal D.L. 13 luglio 1999, n° 226 e dal D.L. 12 ottobre 2000, n° 279, coordinato con la legge di conversione 11 dicembre 2000, n° 365. Sulla base di tali disposizioni i piani stralcio di bacino per l’assetto idrogeologico devono contenere “in particolare l’individuazione delle aree a rischio idrogeologico e la perimetrazione delle aree da sottoporre a misure di salvaguardia, nonché le misure medesime”. I criteri di individuazione e perimetrazione delle aree a rischio idrogeologico e di definizione delle misure di salvaguardia sono contenuti nell’Atto di indirizzo e coordinamento per l’individuazione dei criteri relativi agli adempimenti di cui all’art. 1, commi 1 e 2, del Decreto Legge 11 giugno 1998, n° 180, approvato con D.P.C.M. 29 settembre 1998. Infatti i P.A.I., che di per se sono uno stralcio tematico dei piani di bacino, al loro interno contengono:

- la perimetrazione delle aree a diverso grado di pericolosità e di rischio da alluvione, da frana e da valanga;

- la definizione delle misure di salvaguardia e dei vincoli all’uso del suolo, atti a non incrementare il rischio nelle zone in cui è individuato un pericolo;

- l’individuazione degli interventi di difesa (strutturali, non strutturali, di manutenzione, ecc.) con le

relative stime dei costi, atti a ridurre il rischio idrogeologico nelle aree riconosciute a rischio ed a non incrementarlo nelle aree critiche.

Lo stato di attuazione della pianificazione (aggiornato a dicembre 2005), che prevede un iter articolato in tre fasi con l’adozione del progetto di piano, l’adozione del piano e l’approvazione del piano. La Direzione Generale per la Difesa del suolo ha di recente condotto una analisi dei dati riportati nei P.A.I. redatti dalle varie Autorità di bacino che ha consentito la quantificazione delle aree a pericolosità e

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rischio più elevati presenti sul territorio italiano. La percentuale, ancora provvisoria (dicembre 2005), del territorio nazionale caratterizzato dalla presenza di aree a pericolosità e rischio idrogeologici più elevati è complessivamente stimata in circa il 9,8% del territorio nazionale e coinvolge oltre 6633 comuni (oltre 81% dei comuni italiani). Nello specifico, le regioni che presentano una percentuale del loro territorio soggetto a pericolosità od a rischio da alluvione maggiore del 5% sono Friuli V.G., Emilia Romagna, Veneto, Piemonte, Toscana e Lombardia. Per contro le norme di attuazione dei P.A.I., oggi per lo più vigenti su tutto il territorio nazionale, per le aree a più elevato rischio (“molto elevato” ed “elevato”), di fatto limitano la realizzazione di nuovi insediamenti, mentre è possibile in alcune situazioni prevedere la riduzione del rischio attraverso la realizzazione di opere di difesa a seguito delle quali l’area può essere in parte svincolata.

3.1.1- Bacino del fiume Po

Il fiume Po è il corso d’acqua più lungo in Italia e quindi quello più temibile. Si è stimato infatti che, delle diverse migliaia di attraversamenti presenti nel bacino del Po, molti dei quali realizzati in epoca non recente con criteri progettuali e di costruzione oggi superati, quasi duemila non offrano le garanzie di sicurezza strutturale ed idraulica richieste dalla normativa vigente in materia. Tradizionalmente la pratica progettuale ha mirato a rispondere in modo soddisfacente soprattutto alle problematiche strutturali, senza approfondire gli aspetti legati alle interazioni con le dinamiche fluviali. Il “Progetto di riduzione del rischio, sostenibilità e conservazione integrata nelle Fasce Fluviali”, denominato con l’acronimo SAFE, è stato avviato nel dicembre 2002, a seguito dell’approvazione del Piano stralcio per l’Assetto Idrogeologico (P.A.I.) e nel rispetto di quanto disposto dall’art. 1, comma 5 della Legge 3 agosto 1998, n° 267: “ Nei piani stralcio … sono individuati le infrastrutture e i manufatti che determinano il rischio idrogeologico. Sulla base di tali individuazioni le regioni stabiliscono le misure di incentivazione … al fine di adeguare le infrastrutture … . A tale fine le regioni, predispongono … con criteri di priorità connessi al livello di rischio, un piano per l’adeguamento … delle infrastrutture … . “ . Il SAFE prevede più azioni di natura non strutturale che si propone di espletare in maniera

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congiunta fra Autorità di bacino e Regioni. Ad esempio si pensi alla valutazione dell’impatto dell’adeguamento dell’opera sul profilo idraulico in corrispondenza delle altre opere poste a monte e a valle, o alla valutazione dei provvedimenti da prendere per difendere l’opera dalla divagazione trasversale del corso d’acqua. Particolare importanza riveste la considerazione degli effetti della presenza dell’opera inadeguata, prima della realizzazione degli interventi, sul rischio idraulico nel territorio circostante. In questo caso occorre valutare diversi scenari di piena che tengano conto delle possibili evenienze, quali l’ostruzione delle luci in caso di trasporto di materiale flottante da parte della corrente, sormonto dell’impalcato, ecc. Tali scenari, assieme ad una sintetica indicazione degli elementi esposti a rischio, devono essere condivisi per la redazione dei piani locali di protezione civile. Naturalmente anche un ottimo lavoro volto a migliorare progressivamente l’efficacia del sistema di previsione degli eventi calamitosi tende a veder sminuire la sua efficacia se poi sul territorio risulta diffusa la presenza di infrastrutture interferenti con i corsi d’acqua caratterizzate da tipologie e fattura spesso poco adeguate. Sappiamo infatti che di tutti gli attraversamenti fluviali presenti sul reticolo del bacino idrografico del Po, circa 2000, risultano oggi inadeguati a far defluire i deflussi di piena in condizioni di sicurezza, vista l’insufficienza delle luci di deflusso, l’instabilità strutturale delle fondazioni e l’ingombro prodotto dai rilevati di accesso posti nelle aree golenali. Ciò pertanto esige che i nuovi ponti siano progettati secondo criteri che garantiscano la stabilità strutturale dell’opera ed al contempo assicurino l’assenza di effetti negativi sul corso d’acqua. Per altro verso, i ponti esistenti dovranno essere verificati, con l’ausilio di modelli idraulici, rispetto a “criteri di compatibilità” prestabiliti, e, laddove risulti necessario, dovranno essere sottoposti ad opportuni interventi di adeguamento. Quindi, le Norme riguardanti gli attraversamenti fluviali sono organizzate in base ad uno schema a matrice basato sulla duplice classificazione: nuovi/esistenti, in Fascia/fuori Fascia (sul reticolo minore). Premesso che la realizzazione di nuovi attraversamenti è in genere consentita in quanto opere non altrimenti localizzabili, pubbliche o di interesse pubblico, in ogni caso, cioè indipendentemente dalla ripartizione in Fascia/fuori Fascia, essi “devono essere progettati nel rispetto dei criteri per la verifica idraulica” contenuti nella specifica

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Direttiva tecnica di Piano “Criteri per la valutazione della compatibilità idraulica delle infrastrutture pubbliche e di interesse pubblico all’interno delle fasce A e B”. I progetti sono quindi sottoposti all’espressione di un parere vincolante (“parere rispetto la pianificazione di bacino”) da parte dell’Autorità idraulica competente, individuata nella stessa Direttiva. Diverso è l’iter per gli attraversamenti esistenti, per i quali, se di luce superiore ai 6 metri, deve essere predisposta una verifica dell’interferenza idraulica (art. 19) e, in base ai risultati, devono essere progettati gli eventuali interventi di adeguamento necessari. Verifica e progetto di intervento vanno quindi inviati all’Autorità di Bacino ai fini dell’inserimento nei programmi triennali di intervento. La Direttiva richiamata contiene quindi i riferimenti e le prescrizioni, sia per la redazione della verifica di compatibilità per i manufatti esistenti, che per gli aspetti che devono caratterizzare gli interventi di adeguamento al fine di essere compatibili con la pianificazione di bacino vigente. Il “parere di compatibilità” rispetto alla vigente pianificazione di bacino, espresso dalla Autorità idraulica competente, ha lo scopo di verificare che le opere o gli interventi in progetto non generino in primo luogo “effetti negativi” sul corso d’acqua, ed in secondo luogo non risultino in contrasto con gli indirizzi di pianificazione vigenti per l’intera asta fluviale oggetto dell’intervento. Per “effetti negativi” si intendono quelli enunciati dall’art. 38 delle Norme di Attuazione del P.A.I. in riferimento alle opere pubbliche e di interesse pubblico: modifiche ai fenomeni idraulici naturali, modifiche alle caratteristiche di particolare rilevanza naturale dell’ecosistema fluviale, ostacolo al deflusso idrico, riduzione della capacità d’invaso e quindi di laminazione dei colmi di piena, ed ultimo, ma non per importanza, incremento del carico insediativo. In relazione agli indirizzi di pianificazione, il Piano di bacino individua “funzioni e modalità di gestione” della regione fluviale, in funzione della duplice finalità del ripristino delle condizioni naturali di evoluzione del sistema fluviale, e della riduzione della vulnerabilità in rapporto alla fruizione del territorio da parte della collettività. Appare opportuno osservare come quest’ultima finalità recepisca le indicazioni generali della legge quadro sulla difesa del suolo, ex L. 183/89, per la salvaguardia del territorio “ivi compresi gli abitanti e i beni”. La Provincia di Torino in collaborazione con Ambiente Risorse Territorio, sulla base del programma di azioni finalizzate al

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controllo della sicurezza idraulica dei ponti, nell’ambito del Progetto Strategico “Conoscere per prevedere, prevenire, intervenire” ha redatto un “Manuale operativo sulla vulnerabilità idraulica dei ponti” nel maggio 2004. Assai interessanti sono gli esempi schematici di interazione ponte – corso d’acqua riportati nel suddetto compendio, di seguito si riportano quelli di rilevanza maggiore.

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Fig. 3.2: Adeguamenti strutturali delle opere di attraversamento (2).

L’intero percorso procedurale costituito dalla organizzazione dei dati conoscitivi relativi al ponte, da quelli relativi al tratto di corso d’acqua interessato dall’attraversamento, dalle elaborazioni ideologiche ed idrauliche per la stima dei parametri caratteristici del deflusso e per l’attribuzione del giudizio di vulnerabilità è stato organizzato su schede rappresentative per ciascuna opera. Le schede vengono a costituire una banca dati rispetto alla quale saranno possibili gli

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aggiornamenti e gli approfondimenti di dettaglio collegati all’evoluzione delle attività del programma e alle successive fasi di analisi di vulnerabilità o di definizione degli interventi di adeguamento. Nel manuale viene illustrata la composizione di ciascuna delle sette sezioni costituenti la scheda relativa ad un ponte, vengono riportate di seguito le schede dell’interferenza.

Fig. 3.3: Caratterizzazione della vulnerabilità di un ponte (1).

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Fig. 3.6: Caratterizzazione della vulnerabilità di un ponte (4).

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Fig. 3.8: Caratterizzazione della vulnerabilità di un ponte (6).

Al capitolo 7 “Misure per la riduzione del grado di vulnerabilità” troviamo scritto

“…Le misure che possono essere attuate per ridurre la vulnerabilità di un’opera di attraversamento possono essere suddivise nelle seguenti categorie, in relazione alla loro funzionalità e all’oggetto di applicazione:

- adeguamenti strutturali dei manufatti di attraversamento;

- interventi strutturali sul corso d’acqua, per eliminare o controllare le interferenze negative legate alle condizioni di deflusso in piena;

- misure gestionali di prevenzione, per il mantenimento dell’opera di attraversamento e del corso d’acqua in buone condizioni di efficienza funzionale; - misure gestionali in corso di evento piena, finalizzate al controllo dei fenomeni di piena e all’adozione degli interventi di emergenza di volta in volta necessari per la sicurezza dell’opera e delle aree circostanti eventualmente influenzate. …”.

Le tipologie degli interventi possibili degli adeguamenti strutturali dell’attraversamento sono costituite da:

- aumento della luce complessiva del ponte tramite l’inserimento di nuove campate;

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- inserimento di fornici nei rilevati di accesso;

- rimozione delle occlusioni permanenti delle campate esistenti; - realizzazione di deflettori del flusso;

- realizzazione di rastremazioni sul lato di monte della pila; … “.

Mentre tra le misure gestionali di prevenzione per la riduzione del grado di vulnerabilità sono citate

“- sorveglianza periodica dello stato di manutenzione dell’opera e dell’alveo ai fini della funzionalità idraulica;

- interventi periodici di manutenzione, ordinaria e straordinaria, dell’alveo in corrispondenza del ponte (vegetazione, depositi alluvionali);

- interventi periodici di manutenzione delle opere idrauliche presenti funzionali alla vulnerabilità del ponte;

- interventi periodici di manutenzione delle strutture costituenti l’attraversamento; - monitoraggio idrometrico in corrispondenza del ponte;

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Fig. 3.11: Misure gestionali di prevenzione (3).

Di seguito vengono riportate le schede di descrizione delle misure di intervento più importanti.

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3.1.2 - Autorità di bacino dei fiumi Liri – Garigliano e Volturno

L’allegato C, “Norme di attuazione”, del Piano Stralcio di Difesa dalle Alluvioni del Bacino del Volturno stabilisce concetti e principi per la realizzazione e la verifica di compatibilità idraulica degli interventi nel settore, nelle diverse fasi della programmazione, progettazione, approvazione ed esecuzione delle opere. Il progetto delle opere di attraversamento, oltre alla documentazione prevista dalla normativa vigente, dovrà essere corredato da una relazione di progetto idraulico dei manufatti contenenti:

“- descrizione e giustificazione della soluzione progettuale proposta in relazione all’ubicazione e alle dimensioni degli elementi strutturali interessanti l’alveo (sia in fase di costruzione che di esercizio) in rapporto all’assetto morfologico attuale dello stesso e alla sua prevedibile evoluzione, alla

natura geologica della zona interessata, al regime idraulico del corso d’acqua; … - evidenziazione delle interazioni con l’alveo di piena in termini di eventuale restringimento della sezione di piena, orientamento delle pile in alveo in rapporto alla direzione della corrente, eventuale riduzione delle aree allagabili, eventuali effetti di possibili parziali ostruzioni delle luci a causa del materiale galleggiante trasportato dall’acqua;

- individuazione e progettazione degli eventuali interventi di sistemazione idraulica (difesa di sponda, soglia di fondo, argini) che si rendano necessari in relazione alla realizzazione delle opere secondo criteri di compatibilità ed integrazione con le opere idrauliche esistenti;

- quantificazione dello scalzamento necessario prevedibile sulle fondazione delle pile in alveo, delle spalle e dei rilevati e progettazione delle eventuali opere di protezione necessarie;

- indicazione delle eventuali interferenze delle opere di attraversamento con le sistemazioni idrauliche presenti (argini, opere di sponda,…) e delle soluzioni progettuali che consentano di garantirne la compatibilità. … Dovrà essere inoltre verificato che la presenza dell’attraversamento e/o del rilevato non provochi ostruzioni e condizionamenti delle modalità di deflusso dell’alveo di piena incompatibili con le condizioni di sicurezza dell’area circostante e con le caratteristiche delle opere di difesa esistenti.” Al paragrafo 3, Interventi di

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rinaturazione, di manutenzione idraulica, di idraulica forestale, viene dettagliatamente scritto “… Le alberature interessate dagli eventi di piena con tempo di ritorno trentennale, nei tratti fluviali di intervento, devono essere sottoposte al taglio selettivo, al fine di evitare la formazione di sezioni critiche in occasione del possibile sradicamento; la vegetazione arbustiva sulle sponde potrà essere controllata nel suo sviluppo attraverso il taglio periodico (ceduazione). … Il materiale legnoso non potrà di norma essere lasciato a rifiuto in alveo. Quello non collocabile sul mercato – arbusti, ramaglia, ecc. - dovrà essere ridotto in scaglie sul posto e comunque collocato al di fuori dell’alveo.” Successivamente viene dichiarato che per la progettazione esecutiva il dimensionamento delle opere di difesa idraulica deve essere definito in funzione anche “della dinamica del trasporto solido e delle relative fonti di alimentazione, per tutti gli aspetti interferenti con il buon funzionamento delle opere in progetto”.

3.1.3 - Autorità di bacino del fiume Arno

Nel Piano Stralcio per l’Assetto Idrogeologico del fiume Arno viene valutato anche il rischio da trasporto di sedimenti flottanti, in genere ramaglie, alberi e altri oggetti galleggianti resi disponibili sulle sponde o nelle aree allagate. Le conseguenze si traducono in azioni d’urto o di trascinamento sulle strutture, principalmente i ponti,e sull’incremento del rischio di esondazione per occlusione dei fornici. Si afferma che esistono eventi alluvionali derivanti, anche in parte, da ulteriori fenomeni specifici di difficile previsione. Tra questi, i cedimenti di argini non dovuti alla tracimazione, l’interferenza di ostacoli che riducono la capacità di smaltimento dell’alveo, l’occlusione casuale dei fornici dei ponti.

Il rischio di esondazione, come precedentemente scritto, può verificarsi a causa anche “delle occlusioni localizzate prodotte da detriti galleggianti quali, ad esempio, i tronchi, da accumuli di materiale d’alveo, da frane di sponda o da versante. La rottura delle opere di contenimento è conseguente alla perdita di stabilità di strutture arginali e di opere di sbarramento. Si manifesta in generale durante l’evento alluvionale attraverso, ad esempio, il sifonamento e lo scalzamento di un rilevato arginale. Può tuttavia originarsi per cause diverse quali

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il progressivo abbassamento dell’alveo per erosione generalizzata che determina l’instabilità di sponde e manufatti.”

Il rischio da dinamica d’alveo, come è ben noto, è originata da fenomeni di erosione e/o deposito, quindi dalla conseguenza dello squilibrio “tra la capacità di trasporto della corrente e la portata solida in arrivo al tronco considerato. La capacità di trasporto di un tratto fluviale è difatti la portata solida che potenzialmente la corrente è in grado di trasportare. Essa dipende dalle caratteristiche geometriche, idrauliche e sedimentologiche del tratto considerato: La portata di sedimenti che arriva al tronco considerato dalla rete idrografica a monte costituisce il trasporto solido e dipende dalle caratteristiche del corso d’acqua e del bacino di alimentazione quali il clima, la geologia e la vegetazione, nonché da attività antropiche a scala di bacino ed in alveo quali l’uso del suolo, la creazione di sbarramenti e l’estrazione di inerti.”

3.2

-

Gestione forestale

Quando si studiano le interazioni tra vegetazione, rive e regime fluviale si può partire da diversi punti di osservazione. Finora il problema è stato analizzato, considerando come fulcro dell’analisi il corso d’acqua. La problematica, però, può essere anche affrontata in termini di gestione forestale, considerando, questa volta, il bosco come base dei nostri studi. La gestione forestale ha origine antiche. Dall’Unità d’Italia il Corpo Forestale dello Stato, intendendo con questo termine tutte le strutture forestali unitarie succedutesi nel tempo, è stato la sola autorità deputata alla gestione e tutela del patrimonio boschivo con particolare riguardo alla stabilità idrogeologica e alla salute pubblica. Con l’avvento delle Regioni, previste dalla Costituzione, lo Stato ha gradualmente decentrato una serie di competenze. Le regioni a statuto speciale, sin dalla loro istituzione, hanno avuto una completa autonomia in materia di foreste, mentre il trasferimento o la delega delle competenze alle regioni a statuto ordinario è stato realizzato con i DD.PP.RR. n° 11 del 1972 e 616 del 1977. La gestione forestale, inizialmente, promuoveva lo sfruttamento economico-produttivo del materiale vegetale finché non divenne evidente e provata l’importanza dei boschi per la sicurezza idrogeologica. Nasce così, il primo strumento legislativo in termini di tutela del patrimonio boschivo,

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rappresentato dal R.D.L. 30 dicembre 1923 n° 3276, con il quale è stato disciplinato il primo intervento organico di riordinamento e di riforma della legislazione in materia di boschi e di terreni montani. Il R.D.L. n° 3276/1923, ripetutamente sottoposto a modificazioni e tuttora in vigore, prevede provvedimenti per la tutela del pubblico interesse, tra cui l’apposizione di vincoli per scopi idrogeologici sui “terreni di qualsiasi natura e destinazione che … possono con danno pubblico subire denudazioni, perdere la stabilità o turbare il regime delle acque. Inoltre i boschi, che per la loro speciale ubicazione, difendono terreni o fabbricati dalla caduta di valanghe, dal rotolamento di sassi … dalla furia dei venti, e quelli ritenuti utili per le condizioni igieniche locali, possono su richiesta delle Province, dei Comuni o di altri enti e privati interessati, essere sottoposti a limitazioni nella loro utilizzazione”. Il R.D.L. n° 3276/1923 è quindi volto a garantire e tutelare al massimo le aree boscate, e, anzi, promuove una politica di gestione del territorio basata sulla tecnica del rimboschimento e del rinsaldamento dei terreni coltivati. La normativa stabilisce anche le disposizioni penali nei confronti di coloro che nei boschi, vincolati per scopi idrogeologici, taglino o danneggino piante o arrechino altri danni, in contravvenzione alle prescrizioni emanate dal comitato forestale ed alle disposizioni impartite dalle autorità. Da tutto ciò traspare l’importanza ed il valore strategico che viene affidato al bosco. Il R.D.L. n° 3276/1923 obbliga le proprietà pubbliche a gestire i propri patrimoni boscati in conformità ad un piano economico. Tale obbligo è ripreso anche dalla legislazione successiva. La normativa, attuale legge urbanistica, presenta un intero titolo “Misure di salvaguardia per la tutela del patrimonio naturale e paesaggistico” che si occupa di introdurre misure di tutela del patrimonio naturale e del paesaggio. Sono oggetto di tutela urbanistica le fasce lungo i laghi e i fiumi, le aree golenali, le zone a rischio idrogeologico, i boschi. Per la prima volta i boschi sono considerati elementi degni di protezione, non solo per il fondamentale ruolo multifunzionale finora descritto, ma anche per il loro valore paesaggistico. Nel 1985, la Legge 431, detta “Galasso”, tentò di ribadire il concetto con il vincolo assoluto di protezione in aree le fasce attorno all’acqua, le zone umide, i parchi ed i boschi. Su queste quindi è calato il vincolo paesaggistico tra cui si può ricordare il vincolo forestale. In conseguenza a ciò, si possono così individuare due tipi di

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interventi effettuabili sui boschi: colturali, quindi soggetti alla sola disciplina forestale, e non colturali, in grado di andare ad alterare l’aspetto paesaggistico del territorio. A proposito di questi interventi bisogna precisare che spesso si confonde il “disboscamento”, cioè l’eliminazione del bosco per far posto a case, strade, piste da sci o campi coltivabili, con il “taglio del bosco”, cioè l’abbattimento di un certo numero di alberi per ricavare dalla foresta il legname indispensabile per l’economia o per eliminare le piante malate, pericolose o secche. Questa modalità di “taglio del bosco” è un taglio colturale e come tale è ammesso dalle leggi che tutelano la foresta, pensiamo al Codice sul Paesaggio (D.L. n° 42/2004, artt. 136 ,142 e 149), alla Legge Forestale Nazionale (D.L. n° 227/2001 art. 6) e alla Legge Forestale della Toscana (LR n° 39/2000). Ovviamente il “taglio del bosco deve essere fatto con precisi criteri tecnici che mirano a mantenere sana la foresta ed a permettere la nascita e la crescita di nuove piante (“rinnovazione naturale”). La scienza che insegna i criteri tecnici per il “taglio del bosco” si chiama selvicoltura. Prima di effettuare un “taglio del bosco”, per essere sicuri che l’operazione segua i criteri tecnici della selvicoltura e non causi danni, è necessario chiedere l’autorizzazione all’autorità competente. In particolare, i permessi per il “taglio del bosco” sono rilasciati:

- dai Parchi, per i boschi compresi in queste aree protette;

- dalle Comunità Montane, per i boschi di montagna fuori dai parchi; - dalle Province, per i boschi di pianura fuori dai parchi.

La Legge 33 del 1977 “Provvedimenti in materia di tutela ambientale ed ecologica” si è posta come scopo proteggere luoghi di particolare pregio naturalistico, occupandosi esplicitamente di “conservazione della Biodiversità” e di sviluppo sostenibile. Il D.P.R. 14 aprile 1993 del Ministero dell’Ambiente è stato il successivo passo in avanti per la manutenzione idraulica e forestale. Al paragrafo 2 del suddetto vi è descritto “Le tipologie degli interventi manutentori da effettuarsi nei corsi d’acqua non regimati sono le seguenti:

a) rimozione dei rifiuti solidi e taglio di alberature in alveo, intesi come eliminazione dalle sponde e dagli alvei dei corsi d’acqua dei materiali di rifiuto provenienti dalle varie attività umane e collocazione a discarica autorizzata; rimozione dalle sponde e dagli alvei attivi delle alberature che sono causa di

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ostacolo al regolare deflusso delle piene ricorrenti, con periodo di ritorno orientativamente trentennale, sulla base di misurazioni e/o valutazioni di carattere idraulico e ideologico, tenuto conto dell’influenza delle alberature sul regolare deflusso delle acque, nonché delle alberature pregiudizievoli per la difesa e conservazione delle sponde, salvaguardando, ove possibile, la conservazione dei consorzi vegetali che colonizzano in modo permanente gli habitat riparii e le zone di deposito alluvionale adiacenti; ….Le tipologie degli interventi manutentori da effettuarsi nei corsi d’acqua regimati sono le seguenti: … b) rimozione di rifiuti solidi e taglio delle alberature, intesi come eliminazione dalle sponde e dagli alvei dei corsi d’acqua dei materiali di rifiuto provenienti da attività antropiche e collocazione a discarica autorizzata; rimozione dalle sponde e dagli alvei attivi delle alberature che sono causa di ostacolo al regolare deflusso delle piene ricorrenti, con periodo di ritorno orientativamente trentennale, sulla base di misurazioni e/o valutazioni di carattere idraulico e ideologico, tenuto conto dell’influenza delle alberature sul regolare deflusso delle acque, nonché delle alberature pregiudizievoli per la difesa e conservazione delle sponde, salvaguardando, ove possibile, la conservazione dei consorzi vegetali che colonizzano in modo permanente gli habitat riparii e le zone di deposito alluvionale adiacenti; …

d) taglio di vegetazione e rimozione di depositi alluvionali su banchine in terra, intesi come sfalcio di vegetazione infestante e rimozione dei depositi alluvionali che riducono la sezione idraulica del corso d’acqua; …

g) rimozione di tronchi d’albero dalle luci di deflusso dei ponti, intesa come ripristino del regolare deflusso sotto le luci dei ponti, con rimozione del materiale di sedime e vario accumulato nei sottopassi stradali, nei tombini, nei sifoni, sulle pile od in altre opere d’arte; …

i) manutenzione di briglie e salti di fondo, intesa come sistemazione delle briglie ed idonei interventi a salvaguardia di possibili fenomeni di aggiramento o scalzamento o erosione dell’opera da parte delle acque, interventi di mitigazione dell’impatto visivo;…”.

L’ex D.L. 20 maggio 1993 n° 148 dichiara “ ... Il progetto esecutivo deve contenere, oltre alla descrizione degli interventi una relazione concernente: …

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- gli aspetti geomorfologici per la definizione dell’alveo tipo attuale e delle caratteristiche del trasporto solido;

- gli aspetti naturalistici e ambientali, con particolare riguardo alla salvaguardia e valorizzazione della vegetazione ripariale; …” .

Per avere delle definizioni ben precise in ambiente forestale si è dovuto attendere il D.L. 18 maggio 2001 n° 227, dove all’art. 2 si trova scritto “… si considerano bosco i terreni coperti da vegetazione forestale arborea associata o meno a quella arbustiva di origine naturale o artificiale, in qualsiasi stadio di sviluppo, i castagneti, le sugherete e la macchia mediterranea, ed esclusi i giardini pubblici e privati, le alberature stradali, i castagneti da frutto in attualità di coltura e gli impianti di frutticoltura e d’arboricoltura da legno di cui al comma 5. …” .

Nel 2003 con il D.P.R. n° 261/2003, “regolamentazione di organizzazione del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio”, si ha una descrizione delle competenze dirigenziale per la difesa del suolo, per la protezione della natura e la salvaguardia dell’ambiente. Nuovamente, con Legge 15 dicembre 2004 n° 308, si ha un riordino della legislazione in materia ambientale sulle misure di diretta applicazione. In ambito regionale la norma più recente è la Legge Forestale della Toscana n° 39 del 21 marzo 2000 modificata in alcune sue parti dalle Leggi Regionali n° 40 del 2 agosto 2004 e n° 23 del 9 giugno 2006. In suddetta Legge all’art. 3 viene data la definizione di bosco in maniera più dettagliata “… costituisce bosco qualsiasi area, di estensione non inferiore a 2.000 metri quadrati e di larghezza maggiore di 20 metri, misurata al piede delle piante di confine, coperta da vegetazione arborea forestale spontanea o d’origine artificiale, in qualsiasi stadio di sviluppo, che abbia una densità non inferiore a cinquecento piante per ettaro oppure tale da determinare, con la proiezione delle chiome sul piano orizzontale, una copertura del suolo pari ad almeno il 20 per cento. Costituiscono altresì bosco i castagneti da frutto e le sugherete.”.

All’art. 39 comma 4 viene disciplinato il regolamento forestale, in particolare per i boschi e per tutti i terreni a vincolo idrogeologico. Gli interventi nelle aree boscate dovranno integrare i tradizionali ruoli di protezione idrogeologica e produttiva con valenze anche di ordine ecologico e fruitivi, in modo che l’ecosistema possa ospitare reti trofiche complesse che comprendano anche la componente faunistica.

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Nelle zone di pianura, in cui l’attività agricola da tempo comporta alto reddito, si è persa ogni traccia della capacità di coltivazione del bosco da parte dell’uomo. Le operazioni di adeguamento del territorio, avranno come obiettivi principali:

- il miglioramento strutturale del bosco, con la conseguente diversificazione delle nicchie spaziali e trofiche e quindi della biodiversità;

- la sua connessione con gli ambienti circostanti, incrementando lo scambio di individui e riducendo gli effetti di frammentazione;

- l’incremento della funzione trofica e di rifugio del bosco.

Interventi proponibili per una gestione delle aree boscate finalizzati alla costituzione di ecosistemi strutturalmente e funzionalmente completi saranno: - creazioni di radure e di piccole zone umide;

- diradamento;

- governo a ceduo composto nelle formazioni a fustaia; - trattamenti selvicolturali scaglionati nel tempo;

- risagomatura delle fasce marginali; - pulitura dei boschi;

- tempi di effettuazione degli interventi di governo del bosco.

All’art 46 è disciplinato il taglio del bosco “Entro il 30 giugno di ogni anno, le Provincie e le Comunità montane individuano la superficie massima che, nei dodici mesi successivi al 1 settembre, può essere sottoposta a tagli suscettibili di determinare oltre il 70 per cento di scopertura del suolo. La superficie massima utilizzabile per i predetti tagli è determinata per singolo bacino o sottobacino idrografico in funzione delle sue caratteristiche ambientali, in modo particolare idrogeologiche, della tipologia dei boschi e dei tagli boschivi.”

All’art. 48 è spiegato il Piano di gestione e piano dei tagli. Da tutto ciò si capisce come la vegetazione ad alto fusto sia considerata da un solo punto di vista: il bosco è visto in un ottica multifunzionale, ma sempre e solo con una accezione positiva: è fonte di biodiversità, è un fattore di protezione del territorio, ed è un elemento di difesa dal rischio idrogeologico. Tutto ciò è inconfutabile, però si deve considerare che è anche vero che i boschi lungo le fasce fluviali sono la più probabile fonte di materiale destinato ad essere trasportato durante gli eventi di piena. Quindi, se da una parte, giustamente, gli enti hanno dato ai boschi un ruolo

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