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I luoghi del dominio Divieti spaziali e potere totale secondo Elias Canetti

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I luoghi del dominio

Divieti spaziali e potere totale secondo Elias Canetti

di Giorgia Serughetti

1. Canetti e il suo secolo

Massa e potere, l’opera fondamentale di Elias Canetti, viene data alle stampe nel 1960 dopo oltre trent’anni di studi e di elaborazione: «Meritava questo dispendio?» si chiede l’autore alla vigilia della sua pubblicazione, «mi sono sfuggite in questo modo molte altre opere? Cosa devo dire? Dovevo fare quello che ho fatto». Confessando una coazione irresistibile quanto incomprensibile, che l'ha «incatenato» al progetto «senza scampo»

lungo l'intero corso della sua maturazione intellettuale, afferma: «non l’ho concluso un’ora prima di quanto mi sembrasse giusto. I miei migliori amici, col passare degli anni, persero fiducia in me, andava troppo per le lunghe, non potevo biasimarli. Ora mi dico che mi è riuscito di afferrare questo secolo alla gola»

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.

Canetti ci consegna in questa immagine di straordinaria potenza visiva il senso e l'unità del suo sforzo conoscitivo, a lungo mal compreso e ignorato dalla comunità degli studiosi, considerato e mantenuto marginale nella tradizione di studi sulla massa e il potere. Massa e potere è un «capolavoro disturbante»

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, un'opera sconcertante sul piano metodologico e concettuale, che si colloca al di là della distinzione accademica tra le scienze dell'uomo, abbatte le barriere tra il mondo animale e quello umano, congiunge nella continuità della ricerca la quotidianità del vivere e l'evento straordinario, porta a contatto figure storiche enormemente distanti tra loro nello spazio e nel tempo, impiega nello stesso percorso discorsivo materiali antropologici e casi psichiatrici, prodotti dell'inconscio collettivo come i miti e tradizioni altamente codificate come le liturgie religiose.

Ciò che soprattutto ha generato perplessità nei critici e che è valso per lungo tempo all'autore l'accusa di Ahistorismus

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è la mancanza di un'esplicita storicizzazione dell'indagine, l'assenza di un contenitore spazio-temporale definito, dunque l'apparente distanza dalla bruciante attualità dei decenni in cui il lavoro fu concepito e dato alla luce.

Canetti, secondo i suoi detrattori, avrebbe inteso i fenomeni della massa e del potere in una dimensione statica, ignorandone la condizionatezza storica e non prestando sufficiente attenzione alla specificità e determinatezza di ogni singola manifestazione, alla sua dipendenza da una pluralità di cause e circostanze altrettanto determinate e condizionate. La soddisfazione di aver «afferrato il secolo alla gola» parrebbe in questa luce una dichiarazione grottesca, contraddetta dalla mancanza di una reale capacità euristica rispetto ai fenomeni novecenteschi. Se letta in profondità, tuttavia, l'opera di Canetti rivela non soltanto la chiara filiazione dagli eventi del tempo, ma altresì la finalità esplicativa rivolta al presente.

Massa e potere è stato inteso dal suo autore come il tentativo di comprendere il XX secolo, l’epoca dei totalitarismi, con i suoi imponenti fenomeni di massa e le sue mostruose formazioni di potere, senza limitarsi alle cause prossime ma risalendo alle radici dei fenomeni indagati fino a rinvenirne i fondamenti antropologici. È in questa profondità che risiede l'unità di senso di una trattazione in cui il radicamento dei fenomeni nelle strutture dell'umano ricompone e giustifica la complessità della costruzione.

Canetti stesso dichiara nel Gespräch mit Horst Bienek: «Il mio principale compito in quel periodo era proprio l’indagine delle radici del fascismo, questo era il senso di Massa e

1 E. Canetti, La provincia dell’uomo, Adelphi, Milano 1978, p. 248.

2 E. Rutigliano, Il linguaggio delle masse. Sulla sociologia di Elias Canetti, edizioni Dedalo, Bari 2007, p. 15.

3 Cfr. K. M. Michel, Die Intellektuelle und die Masse. Zu zwei Büchern von Elias Canetti, in «Neue Rundschau», 1964, Heft 75, pp. 308 16 ; E. Fischer, Bemerkungen zu Elias Canettis Masse und Macht, in «Literatur und Kritik», 1966, Heft 7, pp. 12-21.

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potere. Per riuscire a comprendere che cosa era accaduto, non semplicemente come fenomeno del tempo, ma nelle sue origini più profonde e nelle sue più vaste diramazioni, avevo vietato a me stesso ogni lavoro letterario. E i quaderni di appunti erano solo un prodotto secondario di questo lavoro. Chi vi senta la mancanza della parola “fascismo”

deve soltanto aprire il volume più grande, e sebbene anche lì la parola forse non ricorrerà, sono comunque all’incirca cinquecento pagine che in verità non trattano di nient’altro»

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. Se si ripercorre, d'altronde, la genesi dell'opera, appare evidente il radicamento storico dell'indagine. Le masse che si impongono alla comprensione per la prepotenza della loro manifestazione sono, fin dal principio, le masse operaie contemporanee. Nel 1922, a diciassette anni, Canetti si trova ad assistere a Francoforte a una manifestazione operaia di protesta contro l’assassinio di Rathenau e per la prima volta fa esperienza dell’immensa forza d’attrazione della massa, del violento desiderio di partecipare che coglie lo spettatore, della «metamorfosi», come la denominerà in seguito, che l’individuo vi subisce;

nel 1927, a cinque anni di distanza, si imbatte nuovamente nella massa a Vienna, nel contesto di una manifestazione di lavoratori culminata nell'incendio al Palazzo di Giustizia.

«Sono passati cinquantatré anni», scrive Canetti nella sua autobiografia, «eppure sento ancora nelle ossa la febbre di quel giorno. [...] Mi trasformai in un elemento della massa, la massa mi assorbì in sé completamente, non avvertivo in me la benché minima resistenza contro ciò che la massa faceva. [...] Le cose che sono andato a cercare nelle fonti più disparate, che ho esaminato, trascritto, letto e riletto quasi a rallentatore, le ho tutte potute confrontare con il ricordo di quell’evento centrale»

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, un ricordo che sopravvive nitidissimo agli eventi successivi del secolo, nonostante le più ampie dimensioni e gli effetti di più vasta portata.

Nei primi anni '30 allo studio della massa si intreccia, significativamente, quello del potere:

«molto tardi, nel 1931», scrive Canetti, «dopo un violento scontro con la biografia di Cesare di Svetonio e la Vita di Filippo Maria Visconti, un capolavoro psicologico dell’Umanesimo italiano, mi divenne chiaro che uno studio della massa, da solo, sarebbe necessariamente rimasto insufficiente. Doveva essere integrato mediante un’indagine altrettanto ampia e profonda del potere»

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. Non si tratta però, con ogni evidenza, di una risoluzione dettata unicamente da incontri ed esperienze letterarie. Sono i tempi a esigere un ampliamento del campo di indagine, è la necessità di comprendere quei nuovi poteri che si nutrono delle masse, che ne promuovono la crescita e al contempo sviluppano efficacissime forme di controllo.

In un colloquio radiofonico con Adorno del 1962 Canetti afferma: «arriverei perfino a dire che le dittature che noi abbiamo vissuto sono costituite interamente da masse, che senza la crescita delle masse, che è particolarmente importante, e senza la consapevole e artificiale sollevazione di masse sempre più grandi, il potere delle dittature sarebbe del tutto impensabile»

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. È da questa consapevolezza che muove l'intera indagine, a cui gli avvenimenti che segnano l'Europa a partire dalla prima guerra mondiale conferiscono un carattere non solo d'attualità ma anche di dolorosa urgenza. «Perché ogni potere che sorge ai nostri giorni», spiega ad Hermann Broch nell'autobiografia, «si ciba deliberatamente della massa. In pratica, chi mira al potere politico sa come bisogna operare sulla massa. Solo gli altri, le persone consapevoli che queste operazioni portano diritto alla nuova guerra mondiale, non sanno come influire sulla massa per evitare che venga manovrata a danno di tutti noi»

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.

Costretto a lasciare Vienna in seguito all'annessione dell'Austria ad opera dei nazisti,

4 E. Canetti, Gespräch mit Horst Bienek, in Id., Die gespaltene Zukunft, Hanser, München 1972, p. 98.

5 E. Canetti, Il frutto del fuoco. Storia di una vita (1921-1931), Adelphi, Milano 1982, pp. 250-55.

6 E. Canetti, Welt im Kopf, citato in J. Schickel, Aspekte der Masse, Elemente der Macht. Versuch über Elias Canetti, in «Text + Kritik», 1973, Heft 28, p. 15.

7 E. Canetti, Gespräch mit Adorno, in Id., Die Gespaltene Zukunft, cit., p. 74.

8 E. Canetti, Il gioco degli occhi. Storia di una vita (1931-1937), Adelphi, Milano 1985, p. 53.

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Canetti dedicherà un intero ventennio esclusivamente alla stesura del suo Lebenswerk, come già a partire dal 1927 soleva definirlo: «La situazione del mondo esterno addossava ad ogni uomo pensante una tormentosa responsabilità. Ogni anno che passava, la soluzione del problema che mi ero posto appariva più urgente»

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.

L’imponente risultato di questa laboriosa riflessione è un’opera che si colloca al di fuori dei termini e delle convenzioni di qualsiasi disciplina stabilita, che si segnala per un’autentica originalità e singolarità, che sviluppa la propria terminologia e le proprie categorie a partire dai fenomeni stessi, dall’immediatezza del contatto con essi. Che, a dispetto della mancanza di storicizzazione, parla del suo tempo e al suo tempo, ma propone chiavi di interpretazione universalmente valide, radicate nei fondamenti dell'umano, e che proprio per questo, per usare le parole di Karl Heinz Bohrer, «verrà letta ancora fra cent’anni»

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.

2. Il fascismo e i luoghi del potere

La massa vera e propria è per Canetti la massa aperta: dilagante, contagiosa, mutevole, molteplice e distruttrice come il fuoco, inquieta e intensa, che si estingue improvvisamente e inspiegabilmente così come è nata. La sua spontaneità e imprevedibilità ne fanno il nemico per eccellenza del potere, che esprime la propria esigenza di controllo sugli altri uomini mediante i divieti di metamorfosi, concrezione di una tendenza originaria e radicale a negare il movimento e la molteplicità in funzione dell'immutabilità e dell'unità. Poiché nella massa l’incontrollabile assume dimensioni enormi, la ricerca di un rapporto positivo con la massa, di cui è costituito e a cui non può in alcun modo rinunciare, è in ogni tempo e luogo il problema principale del potere. Rispetto alle tesi di Freud, che in Psicologia delle masse e analisi dell’io attribuiva al capo un ruolo fondamentale e costitutivo nella formazione della massa, Canetti opera infatti un autentico capovolgimento, affermando che solo dalla massa può scaturire il potere e che questo «si nutre della massa»

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: masse di uomini, di armi, di denaro e, inevitabilmente, di morti.

La necessità che ne deriva di dominare e controllare la moltitudine, di arginarne il potenziale metamorfico, ha dato origine nella storia a istituzioni sociali destinate a inserire il singolo individuo in una massa chiusa, circoscritta da uno spazio stabilito e sottoposta all’ordine di regole e cerimonie. «Tutte le cerimonie e tutte le regole di tali istituzioni tendono in fondo a catturare la massa»

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, a fornirle uno spazio di manifestazione oggettiva nell’ordine e nella ripetizione, e perciò ad assicurarle «una sorta di esperienza addomesticata di se stessa»

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.

Maestre dell'arte di domesticazione delle masse furono le religioni universali, che se dapprima «tentano di raggiungere e di convincere tutti coloro che possono essere raggiunti e convinti»

14,

gradualmente, nello sforzo di durare, attribuiscono un'importanza sempre maggiore alle istituzioni, il cui peso «addomestica progressivamente l’impeto della propaganda originaria»

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. I fedeli sono posti in uno «stato di massa mitigato», che contribuisce al loro equilibrio psichico ed esclude ogni esito pericoloso o incontrollabile per le gerarchie interessate al loro contenimento. L'equilibrio creato da queste strutture di controllo doveva tuttavia rivelare i suoi limiti di fronte alle trasformazioni della modernità, con la crescita del numero degli uomini, in particolare sullo scenario urbano, e la formazione di nuove e più grandi masse che nessuna istituzione preesistente sarebbe stata in grado di arginare. La Rivoluzione Francese e le innovazioni tecnico-industriali

9 E. Canetti, Welt im Kopf, citato in J. Schickel, Aspekte der Masse, Elemente der Macht. Versuch über Elias Canetti, cit., p. 15.

10 K. H. Bohrer, Der Stoiker und unsere prähistorische Seele. Zu »Masse und Macht«, in H. G. Göpfert (Hrsg.), Canetti lesen.

Erfahrungen mit seinen Büchern, Hanser, München-Wien 1975, p. 61.

11 E. Canetti, Massa e potere, Adelphi, Milano 1981, p. 535.

12 Ivi, p. 25.

13 Ibidem.

14 Ivi, p. 29.

15 Ibidem.

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segnano così l’ingresso della massa nella storia: a partire da allora, città sempre più grandi, sempre più fittamente popolate hanno fornito alle masse lo spazio per una crescita potenzialmente sconfinata. «Da allora non è chiaramente più stato possibile trovare un rapporto positivo con le masse.[…] Ciò che in questo secolo è stato intrapreso in questa direzione, e che doveva fornire la prova che l’uomo è il signore delle masse, ha condotto alla catastrofe o – come attualmente – quantomeno a mille attese di catastrofe»

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.

Il succedersi di tentativi di contenimento e ordinamento di masse sempre più numerose vengono ripercorsi da Canetti in relazione alle vicende della Germania unificata, a partire dagli ultimi decenni del XIX secolo. Il simbolo di massa della nuova nazione tedesca era e rimase l’esercito, «cittadini, contadini, studiosi, cattolici, protestanti, bavaresi, prussiani, tutti vedevano nell’armata l’emblema della nazione». La militarizzazione della vita che ha luogo nella Germania guglielmina riesce inizialmente nello scopo di privare la moltitudine del suo aspetto caotico e minaccioso, introducendo nella compagine nazionale un sentimento d’ordine, regolarità, ritmo e disciplina. Ma anche questo tentativo era destinato a fallire con lo scoppio della prima guerra mondiale, che segna allo stesso tempo il trionfo della militarizzazione e la fine del precedente sistema di contenimento delle masse:

«quando scoppiò la prima guerra mondiale l’intero popolo tedesco divenne un’unica massa aperta»

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.

Le conseguenze della guerra e della catastrofe che rappresenta per i tedeschi sono di importanza decisiva dal punto di vista della struttura di massa della Germania. La sconfitta è seguita dall’ordine di disciogliere l’esercito imposto dal trattato di Versailles, un divieto che colpisce la nazione nella sua più essenziale massa chiusa, e «ogni massa chiusa che venga disciolta violentemente si trasferisce in una massa aperta alla quale conferisce tutte le sue caratteristiche»

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. È ciò che accade con l’avvento del nazionalsocialismo, in cui «il partito prende il posto dell’esercito, e non ha limiti all’interno della nazione. Ogni tedesco – uomo, donna, bambino, soldato o civile – può diventare nazionalsocialista [...] Il divieto del servizio militare per tutti è la nascita del nazionalsocialismo»

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.

Il fascismo europeo, dunque, e il nazismo in particolare, rappresenta il nuovo tentativo di conciliazione dell’individuo con la massa che segue alla mobilitazione di uomini e mezzi avvenuta nella prima guerra mondiale e all'intensificarsi dei movimenti di massa prodotti in particolare dalla crisi economica del dopoguerra. Nel fascismo l’individuo viene inserito forzatamente in strutture di massa, in formazioni di ogni tipo; le masse stesse vengono poi plasmate interamente secondo le esigenze di grandezza, splendore, disciplina, e soprattutto di controllo proprie del potere. Si tratta perciò della forma moderna in cui il rapporto massa-individuo-potere ha trovato l'espressione più estrema, sostituendo le grandi religioni storiche e le loro tecniche di domesticazione, come d'altronde aveva intuito già nel 1938 Eric Voegelin interpretando i «collettivismi politici» come «religioni politiche», secolarizzazione e realizzazione immanente dell’eschaton cristiano

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.

Non è tuttavia in Massa e potere che Canetti sviluppa più compiutamente la sua interpretazione del fenomeno totalitario, bensì in un saggio successivo, del 1971, intitolato Hitler secondo Speer. Qui il disegno di dominio sulle masse elaborato da Hitler viene chiarito nei suoi tratti essenziali attraverso l'analisi delle memorie dell'architetto del Reich, che ripercorrono i progetti voluti dal führer per la nuova Berlino.

Significativamente è nell'organizzazione dello spazio che Canetti cerca la chiave di lettura più efficace per la delucidazione dell'intimo rapporto potere-massa istituito tra un caso estremo di potente paranoico come Hitler e l'intera nazione tedesca. In Massa e potere la

16 E. Piel, Elias Canetti, Beck, München 1984, p. 77.

17E. Canetti, Massa e potere, cit., p. 215.

18 Ivi, p. 216.

19 Ibidem.

20 E. Vögelin, Le religioni politiche, in Id., La politica: dai simboli alle esperienze, Giuffré, Milano 1993, pp. 20-76.

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dimensione del controllo esercitato dal potere sulla massa è infatti in larga misura spaziale, in senso letterale e nelle immagini impiegate per esprimerla, costruite intorno alla coppia antinomica di distanza e vicinanza. La vita dell'individuo è, secondo Canetti, interamente impostata su distanze, «la casa in cui egli rinserra se stesso e la sua proprietà, l’incarico che riveste, il rango cui aspira – tutti servono a creare, consolidare, ingrandire distacchi»

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. Con ciò viene esclusa ogni possibilità di metamorfosi sociale, ogni libertà di movimento dall’uno all’altro uomo; «nelle proprie distanze l’uomo si irrigidisce e si oscura. Egli si trascina sotto il peso di questi carichi e non riesce a spostarsi»

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. Solo nella scarica, la liberazione dai carichi di distanza che avviene con il costituirsi della massa, l'essere umano esperisce il sollievo della vicinanza e dell'uguaglianza con i suoi simili, «ha la sensazione di oltrepassare nella massa i confini della propria persona. Egli prova sollievo perché sono abolite tutte le distanze che lo rigettavano e lo chiudevano in sé.

Tolto il peso della distanza, egli si sente libero e la sua libertà è di passare oltre questi confini»

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.

Gli ordinamenti gerarchici e la divisione sociale del lavoro, caratteristici di ogni gruppo umano, altro non sono che divieti di metamorfosi, limitazioni poste all'espressività multiforme propria dell'essere umano originario. E sono a tal punto coestensivi al potere sociale da poter essere collocati nella struttura di comandi che, come frecce, il potere continuamente scocca; se infatti l'umanità originaria e autentica è libertà e metamorfosi, il potere è antimutamento, riduzione della molteplicità e delle spinte trasformatrici, che pertanto sottrae agli uomini la loro forza produttiva e creatrice, la fluidità multiforme, fissandoli in funzioni e posizioni stabilite: «ciascun uomo ha un suo posto preciso nel quale si sente sicuro, e con i gesti esprime efficacemente il suo diritto di tener lontano da sé tutto ciò che gli si avvicina. Egli sta come un mulino a vento in un’immensa pianura, pieno di espressione e mobile: non c’è nulla fino al prossimo mulino»

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.

Fondamentalmente avverso alle formazioni di massa aperte e spontanee, capaci di oltrepassare e distruggere i confini del singolo e le gerarchie sociali, il potere pone dunque inevitabilmente un particolare accento sul contenimento spaziale degli aggregati umani. Di qui l'interesse mostrato da Canetti per i progetti architettonici di Hitler, finalizzati a creare strutture di controllo e organizzazione per le masse della capitale tedesca. Nel totalitarismo nazista viene data nuovamente alle masse l’opportunità di fare esperienza di se stessa in spazi dedicati, un'esperienza addomesticata dal potere sebbene in una forma diversa rispetto alle religioni universali.

Essendo la «grandezza» e la «durata» le idee-guida che animavano Hitler nella progettazione degli edifici per la nuova Berlino, un ruolo di grande rilievo spettava naturalmente alle strutture destinate a contenere masse chiuse, votate a una maggiore durata grazie al principio della ripetizione di forme rituali o liturgiche, sul modello dei luoghi di culto delle grandi religioni del passato. Ma nella progettazione di spazi enormi destinati a masse aperte Hitler rivela anche il proposito e la capacità di promuoverne l’accrescimento incessante, trasformandole al contempo in masse irreggimentate, passibili di un perfetto controllo, in tutto dipendenti dal loro capo e in grado di durare proprio in virtù di una ripetizione regolare del loro formarsi negli spazi predisposti. In questo modo vengono rese funzionali alla conservazione e all’accrescimento del potere non soltanto formazioni di massa mitigate, come quelle chiuse, ma masse di ogni tipo, comprese quelle aperte, cariche in altre circostanze di un potenziale altamente sovversivo nei confronti dei poteri costituiti.

La formazione di masse aperte, capaci di incrementare illimitatamente il proprio numero, e con esso il proprio entusiasmo, viene promossa dal potere stesso e perfettamente

21 E. Canetti, Massa e potere, cit., p. 21.

22 Ivi, p. 24.

23 Ibidem.

24 Ivi, p. 216

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controllata, addomesticata e strumentalizzata. Ciò cui Hitler infatti mira è impedire la dissoluzione delle masse a cui deve il suo stesso potere e mediante cui soltanto può mantenerlo. Le masse che crescono sotto la volta del dominio hitleriano sono però prive di spontaneità, un partito unico di massa potenzialmente identificabile con la popolazione di un’intera nazione, che assume tutte le caratteristiche della massa chiusa soppressa, cioè dell’esercito, e ne conserva anche in un certo senso la chiusura, rappresentata dai confini del Reich e dall’appartenenza razziale.

3. I divieti spaziali nel lager nazista

I progetti architettonici di Speer, pur segnalando la peculiarità di una formazione di potere per molti versi inedita quale fu il regime nazista, definiscono tuttavia un ideale universale del potere, un controllo totale sulla vita umana che proprio con Hitler troverà la sua logica e suprema realizzazione nel lager, istituzione centrale e «ideale sociale» del potere totalitario secondo Hannah Arendt: «la società dei morenti instaurata nei campi è l’unica forma di società in cui sia possibile impadronirsi interamente dell’uomo»

25

.

Sebbene Canetti non faccia menzione dell'istituto dei campi di concentramento in nessuna delle sue opere, un coerente sviluppo della sua teoria del potere applicata alla sociologia dei campi si può rinvenire nello studio di Wolfgang Sofsky, L'ordine del terrore

26

, che molto deve alle formulazioni canettiane. Nel lager, spiega il sociologo tedesco, lo spazio fisico viene interamente trasformato in uno «spazio sociale coatto», in cui gli individui vengono ammassati in sovrannumero, e al contempo suddiviso in aree funzionali e internamente articolato al fine di incatenare ogni azione a circostanze spaziali ben determinate. Il risultato è la creazione di un unico grande spazio di sorveglianza, all’interno del quale i prigionieri sono sottoposti a un controllo totale. Nel campo di concentramento, luogo chiuso per eccellenza, spiccano innanzitutto i confini che lo dividono dal mondo esterno e su cui si concentrano le misure di sorveglianza; il confine ha la funzione di un divieto spaziale assoluto, la cui trasgressione viene punita con la morte. In tal modo mura impenetrabili assicurano l’isolamento e la chiusura totale di un perimetro privo di orizzonte esterno, all’interno del quale è possibile privare interamente gli uomini della propria spontaneità innanzitutto attraverso la sottrazione dello spazio necessario all'interazione sociale e alla libera espressione della personalità individuale.

Hannah Arendt d'altronde riteneva che proprio nel «liquidare ogni spontaneità» risiedesse la condizione necessaria per il dominio totale sull'uomo: «il cane di Pavlov, l’esemplare umano ridotto alle reazioni più elementari, eliminabile o sostituibile in qualsiasi momento con altri fasci di reazioni che si comportano in modo identico, è il cittadino modello di uno stato totalitario, un cittadino che può essere prodotto solo imperfettamente fuori dai campi»

27

. Indispensabile alla realizzazione di un simile esperimento sono appunto la chiusura ermetica dei campi rispetto al «mondo dei vivi» e la distruzione dello spazio fra gli individui, ottenuta premendo gli uomini l’uno contro l’altro. In questo modo viene distrutto dal potere il presupposto di ogni libertà e di ogni spontaneità: la possibilità di movimento che non esiste senza spazio.

Il lager come ideale sociale del regime nazista, laboratorio di «sinistre marionette con volti umani»

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, rappresenta per Hannah Arendt il compimento di quel potere totalitario in cui va individuato un sistema di dominio di tipo nuovo e singolare, non riducibile all'autoritarismo, alla tirannide, alla dittatura. Per Canetti invece nessun fenomeno di potere, nemmeno l'«ordine del terrore» nazista, può comportare autentiche discontinuità storiche. Radicati nelle profondità dell'umano, il desiderio di dominio e sopraffazione e la brama di controllo

25 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni Comunità, Torino 1999, p. 624.

26 W. Sofsky, L’ordine del terrore, Laterza, Roma-Bari 2002.

27 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 624.

28 Ivi, p. 623.

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delle masse metamorfiche uniscono in una medesima trama, fin troppo umana, Adolf Hitler e il sultano di Delhi Mohommad Tuglak, i re africani dell'epoca pre-coloniale e le Memorie di un malato di nervi di Paul Schreber.

Parlare di istituzioni totali seguendo le indicazioni suggerite da Canetti significa allora anche estendere lo sguardo al di là dell'eccezionalità storica, cogliendo la dimensione del controllo spaziale in una struttura che non nasce come il lager all'epoca di Canetti, ma che ha una storia più antica e ancora attuale: il carcere.

4. Il carcere: una metafora del potere

Nel 1968 Canetti dedica un saggio, L'altro processo

29

, a Franz Kafka, scrittore a lui molto caro per la minuziosa rappresentazione che ha offerto del potere: «fra tutti gli scrittori Kafka è il più grande esperto del potere. Egli ha vissuto e raffigurato il potere in tutti i suoi aspetti»

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; poiché lo teme sopra ogni cosa e fa della sua vita intera un tentativo di evitarlo in ogni sua forma, «il potere egli lo percepisce, lo riconosce, lo nomina, lo raffigura in tutte quelle situazioni in cui altri sarebbero disposti ad accettarlo come qualcosa di ovvio»

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. Lo scrittore praghese rappresenta per Canetti l'espressione letteraria di quell'ossessione per il fenomeno del potere che ha dominato trent'anni della sua stessa vicenda intellettuale, tanto che le osservazioni che dedica alla trattazione kafkiana del potere potrebbero senza difficoltà essere rivolte alla propria analisi. Basti pensare a questa annotazione di carattere metodologico: «Bisognerebbe scusarsi dell’uso ingenuo della parola “potere” se non fosse che Kafka adopera con disinvoltura questa parola, incurante della sua ambiguità. È una parola che compare spesso nelle sue opere nei più vari contesti. […] Ma ciò che egli esprime con un coraggio e una chiarezza senza pari non è soltanto la parola, ma anche la cosa, ossia le infinite sfumature e ambiguità che la parola contiene»

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. La stessa assenza di delimitazioni concettuali dell'oggetto del discorso caratterizza le opere di Canetti, in cerca di una chiarezza che emerga non dalla parola ma dalle cose stesse. Così, in assenza di definizioni filosofiche o politico-giuridiche del potere, siamo indotti come lettori a seguirlo nel suo avvicinamento al fenomeno da numerose e sempre nuove prospettive.

Nel luogo in cui Massa e potere, con il suo linguaggio immaginifico, cerca più compiutamente di chiarire il concetto in questione, la metafora che compare è quella del carcere. A differenza della forza, che è più «pressante e immediata», qualcosa di presente, di vicino, che afferra e tiene stretta la sua «preda», il potere è «più generale e più ampio, [...] contiene di più, e non è altrettanto dinamico. È più complesso e possiede perfino una certa misura di pazienza. La parola stessa (Macht) deriva dall’antica radice gotica “magan” che significa “potere, essere in grado di”»

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. Il potere concede a chi vi è sottoposto più spazio, più tempo e una certa misura di speranza, pur nel permanere di una vigile sorveglianza e dell’interesse per la distruzione della «preda». L’immagine adeguata di tale rapporto è, appunto, quella del prigioniero in un carcere.

Il carcere nasce per Canetti dal prototipo della bocca, l'organo in cui comincia l'atto di incorporare la preda. I denti ne rappresentano le «guardie armate», ordinate, levigate, modello a loro volta di ogni ordinamento di potere. Spazio angusto per eccellenza, le fauci che si rinserrano senza lasciare scampo alla preda devono aver esercitato un'«oscura influenza» sull'idea del carcere. «Pressoché sterminati i draghi e le fauci mostruose, se ne trovò un equivalente simbolico: le prigioni. Dapprima, quando erano ancora camere di tortura, esse assomigliavano fin nei particolari alle fauci nemiche. E così ancora oggi è raffigurato l'inferno». Nel tempo invece, prosegue l'autore, “le vere e proprie prigioni si

29 E. Canetti, L’altro processo. Le lettere di Kafka a Felice, in La coscienza delle parole, Adelphi, Milano 1984.

30 Ivi, p. 188.

31 Ivi, p. 195.

32 Ibidem.

33 E. Canetti, Massa e potere, cit., p. 339.

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sono trasformate in senso puritano: la levigatezza dei denti ha conquistato il mondo, le pareti delle celle sono una superficie liscia e il finestrino per la luce è molto esiguo. Per i prigionieri la libertà è tutto lo spazio che si trova di là dalla barriera delle due fila di denti rinserrate l'una sull'altra, al posto delle quali vi sono ora le pareti nude della cella»

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. Il carcere è dunque un'amplificazione delle fauci, come il potere lo è della forza: «nelle fauci non c'è più alcuna speranza, tempo e spazio vengono a mancare», mentre nel carcere «si possono muovere alcuni passi in qua e in là, come fa il topo sotto gli occhi del gatto, e spesso ci si sente alle spalle l'occhio del carceriere»

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. Tempo, spazio e speranza trasformano l'esperienza del dominio: il prigioniero non sarà immediatamente divorato ed incorporato da mandibole mostruose, può confidare nella possibilità di fuggire o di essere liberato, ma non cessa di avvertire l'interesse per sua distruzione, nutrito (anche quando sembra cessare) dall'apparato che lo controlla. L'immagine del carcere come amplificazione delle fauci avvicina secondo Canetti alla comprensione dell'essenza del potere, perché «chi vuole dominare sugli uomini cerca di svilirli, di sottrarre loro forza di resistenza e diritti, finché siano dinnanzi a lui impotenti come animali. Egli li trasforma in animali, e anche se non lo dice apertamente, entro di sé è sempre ben cosciente di quanto poco gli importino: parlandone con i suoi confidenti, egli li definirà pecore o gregge»

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. La dimensione della sorveglianza in uno spazio più ampio, che qualifica il carcere come evoluzione moderna dell'antica camera di tortura, riconduce l'analisi dell'istituto penitenziario alla più generale trattazione del potere come istanza di controllo spaziale, mediante la ripartizione, le distanze, la suddivisione funzionale. Michel Foucault, che alla genesi dell'istituzione carceraria ha dedicato il saggio Sorvegliare e punire, individua nel Panopticon di Bentham la realizzazione ideale di una simile aspirazione. Nel

«panoptismo» trovano conciliazione, secondo Foucault, le istanze dell'esclusione e quelle della disciplina.

Nella costruzione ideale di Bentham, al centro di una costruzione ad anello divisa in celle trasparenti sia verso l'interno che verso l'esterno della circonferenza, sta una torre circolare tagliata da larghe finestre che si aprono verso la faccia interna dell'anello; un sorvegliante posto nella torre centrale è in grado così di controllare, grazie alla luce che attraversa le celle, i movimenti di ogni recluso: «tante gabbie, altrettanti piccoli teatri, in cui ogni attore è solo, perfettamente individualizzato e costantemente visibile»

37

. È il trionfo dell'ordine e della levigatezza di cui parla Canetti: «il principio della segreta viene rovesciato»

38

. Il Panopticon come struttura disciplinare ideale «permette prima di tutto – come effetto negativo – di evitare quelle masse compatte, brulicanti, tumultuose, che si trovano nei luoghi di detenzione [...]. Ciascuno, al suo posto, rinchiuso in una cella, è visto in faccia dal sorvegliante; ma i muri laterali gli impediscono di entrare in contatto coi compagni»

39

. Ne deriva un ordine garantito dalla separazione, un controllo della «folla, massa compatta, luogo di molteplici scambi, individualità che si fondono, effetto collettivo»

mediante la creazione di una «collezione di individualità separate»

40

.

Il carcere ideale quindi, per Foucault come per Canetti, rappresenta un «laboratorio del potere»

41

, un'istituzione del controllo totale in cui l'asimmetria del sapere e del vedere tra il centro e la periferia realizza al meglio l'istanza dell'assoggettamento del comportamento individuale. Un'istanza che per Canetti, come s'è visto, non ha niente di moderno, essendo consustanziale al potere come fenomeno antropologico: l'ansia paranoica di allontanare

34 Ivi, p. 251.

35 Ivi, p. 340

36 Ivi, p. 252.

37 M. Foucault, Sorvegliare e Punire, Einaudi, Torino 1976, p. 218.

38 Ibidem.

39 Ibidem.

40 Ivi, p. 219.

41 Ivi, p. 223.

(9)

da sé la morte spinge il potente, in ogni luogo e tempo, a porre «tra sé e il pericolo grandi spazi che si possano abbracciare con lo sguardo e controllare»

42

. L'istituto penitenziario rappresenta tuttavia una concrezione moderna di questa tendenza del potere, che risponde al mutamento delle condizioni storiche: Foucault individua nella grande spinta demografica del XVIII secolo e nella crescita degli apparati produttivi il terreno di nascita di quel potere disciplinare che trova espressione nel progetto benthamiano, così come Canetti vede nella crescita della popolazione sugli scenari urbani l'origine dei tentativi moderni di controllo delle masse, in cui rientrano a pieno titolo gli istituti disciplinari menzionati da Foucault: il carcere, l'ospedale, la fabbrica, la scuola.

È interessante notare quanta affinità mostrino l'analisi canettiana del potere e il concetto di

«disciplina» introdotto dal filosofo francese, come tecnica per la regolamentazione delle molteplicità umane che neutralizza ogni effetto di contropotere mediante meccanismi di

«verticalità» e «separazione», gli stessi principi che Canetti pone all'origine dei «divieti sociali di metamorfosi» che introducono gerarchie, ruoli, divisione del lavoro. Mediante

«reti gerarchiche rigorose» le discipline «oppongono alla forza intrinseca e contraria della molteplicità il procedimento della piramide continua e individualizzante»

43

. Nelle tecniche disciplinari di Foucault, come nell'antimutamento canettiano, va dunque cercato il terreno di coltura di ogni istituzione totale, volta alla regolamentazione depotenziante del comportamento umano. La privazione di libertà garantita dalla reclusione carceraria realizza in modo emblematico questo controllo, individuando nell'esclusione e nella ripartizione funzionale le modalità spaziali del dominio, in linea con le osservazioni svolte più sopra sui lager nazisti.

Una pretesa di trasparenza e controllo totale ha segnato, secondo Zygmunt Bauman, le

«guerre spaziali» della modernità, a partire dall'esigenza dello stato moderno di dominare il territorio attraverso una cartografia sempre più accurata. In una spazialità progressivamente più «leggibile» si iscrive quella gerarchia di poteri che va dalla certezza all'incertezza, dall'invisibilità alla trasparenza priva di ombre. Al cuore di ogni sistema di potere, scrive Canetti, sta il segreto: «è caratteristica del potere un'ineguale ripartizione del vedere a fondo»

44

. Visibilità e invisibilità stanno dunque agli estremi opposti di una scala gerarchica, a cui nella società tardo moderna o postmoderna si associano rispettivamente, secondo Bauman, mobilità globale e immobilità localizzata, extraterritorialità priva di vincoli per le nuove élites politiche ed economiche, e territorialità obbligata degli altri, che «non fa tanto pensare a una casa, a una base sicura, ma sempre più a una prigione, tanto più umiliante quanto più viene ostentata la libertà di movimento degli altri»

45

.

Proprio nelle prigioni, come «fabbriche di immobilità», si realizza in sommo grado l'istanza del controllo spaziale nella contemporaneità: «il segno dell'esclusione nell'età della compressione dello spazio/tempo è l'immobilità»

46

. La «prigione-modello» di Pelican Bay in California, interamente automatizzata e progettata per l'assoluto isolamento di ogni recluso rispetto agli altri e al personale carcerario, rappresenta per Bauman l'«incarnazione ultima del sogno di Bentham di un controllo totale mediante la sorveglianza assoluta»

47

, privandolo però di ogni istanza correttiva e riducendolo alla pura tecnica dell'immobilizzazione. «Se i campi di concentramento servivano da laboratori di una società totalitaria, nei quali si esplorava fino a che punto si poteva sottomettere e schiavizzare l'uomo, e se le case di lavoro del Panopticon servivano da laboratori della società industriale, nelle quali si sperimentava fino a che limite si potevano replicare in

42 E. Canetti, Massa e potere, cit., p. 275.

43 M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 239.

44 E. Canetti, Massa e potere, cit., p. 353.

45 Z. Bauman, Dentro la globalizzazione, Laterza, Roma-Bari, 1998. p. 29

46 Ivi, p. 124.

47 Ivi, p. 119.

(10)

modo meccanico e routinario le attività umane, la prigione di Pelican Bay è un laboratorio della società “globalizzata” [...]: in essa si mettono a punto i modi in cui confinare nello spazio i rifiuti e la feccia della globalizzazione, e se ne esplorano i limiti»

48

.

Proprio l'immobilizzazione, la soppressione di ogni uso libero e metamorfico dello spazio e del tempo costituiscono per Canetti la tendenza più peculiare e irreprimibile del potere, tradotta in quei divieti di trasformazione che denaturano l'umanità originaria riducendola a funzione sociale controllabile. La consonanza di questa visione con l'analisi della mobilità globale di Bauman rivela la profondità e la vastità della riflessione canettiana che, frutto del proprio tempo e perciò anteriore al dibattito sulla globalizzazione, mostra tuttavia una portata esplicativa molto più ampia.

5. Considerazioni conclusive

Analizzando l'opera di Canetti alla ricerca di elementi d'organizzazione del potere nello spazio si delinea, come s'è visto, un quadro teorico capace di contenere forme di imposizione molto distanti tra loro, accomunate però da un'identica tendenza antropologica al dominio dell'uno sui molti attraverso una progressiva erosione della capacità di metamorfosi originaria in funzione di strutture stabili di controllo. Resta da chiedersi tuttavia se un potere inteso come comando e gerarchia, che vede la sua realizzazione compiuta nei campi di concentramento nazisti, nelle istituzioni totali e nei meccanismi disciplinari, che frequentemente trova la forma di un singolo con i suoi deliri di dominio contrapposto ai molti che vi sottostanno, sia da considerarsi un concetto desueto nell'epoca dell'affermazione del modello vincente liberal-democratico occidentale.

Se si va alla ricerca di quella che per Canetti rappresenta la radice e il cuore del potere, ci si imbatte in Massa e potere nell'esperienza del sopravvivere. «L’istante del sopravvivere è l’istante della potenza»

49

, il momento più radicale e originario del potere. Il fatto «orribile e nudo» del confronto con la morte dell’altro, di fronte a cui chi guarda, quale che fosse il suo rapporto con il defunto, è un sopravvissuto, è per quest’ultimo il momento della

«crescita», della soddisfazione, porta con sé l’ineliminabile sensazione di aver conseguito una vittoria. Di fronte alla realtà della morte l’uomo esperisce la potenza contenuta nel vivere ancora, una sensazione che assume proporzioni mostruose nella situazione dell'unico sopravvissuto dinnanzi a un «mucchio di morti», per esempio sul campo di battaglia. Risiede qui la radice della tendenza più profonda che si annida dietro a ogni potere: «il desiderio di sopprimere gli altri per essere l’unico, oppure, nella sua forma più mitigata e frequente, il desiderio di servirsi degli altri per divenire l’unico con il loro aiuto»

50

. Nel sopravvissuto la figura del potente trova quindi l'incarnazione più appropriata, ma l'analisi del potere è in realtà ben più ampia nell'opera di Canetti, lungi dal ridursi alla logica paradossale dell'unicità. Mediante l'analisi dei divieti di metamorfosi l'autore offre un'immagine più pervasiva del potere, capace di improntare di sé ogni elemento della vita umana associata, dalla divisione del lavoro alle gerarchie sociali, dagli spazi dell'organizzazione alle relazioni interpersonali. Un potere sociale onnipresente vive in qualunque ordinamento, modellando i rapporti tra gli uomini in ogni tempo e sotto tutte le forme di governo, negli antichi regni africani come nelle moderne democrazie occidentali.

E poiché unica è la radice del fenomeno, poiché i fondamenti antropologici del potere sono strutture universali, non viene meno nemmeno nello scenario della post-modernità globalizzata la specifica dialettica massa-potere che nel totalitarismo ha trovato espressioni così estreme. Canetti in tutta la sua vicenda intellettuale non ha mai mancato di guardare al presente del mondo, all’attualità dei processi storici. Non soltanto questa costituisce il punto di partenza delle sue ricerche, ma rappresenta un imprescindibile

48 Ivi, p. 124.

49 E. Canetti, Massa e potere, cit., p. 273.

50 Ivi, p. 561.

(11)

termine di confronto per i risultati del suo pensiero, che, per il carattere di apertura che gli è essenziale, si presta a un’incessante interazione con il nuovo e a un perpetuo sforzo di comprensione della realtà.

Nell'Epilogo di Massa e potere, giunto al termine della stesura della sua opera, l'autore torna quindi a fare i conti con l’attualità, confrontandosi con le trasformazioni nel frattempo intervenute nel corso del mondo. La vera e propria cifra del presente è per Canetti il

«furore dell’accrescimento»

51

, il culto della produzione divenuta uno scopo fine a se stesso. Come nelle antiche formazioni umane di cui tratta lungamente nell'opera, sono due le direzioni in cui l'incremento viene promosso e auspicato: da un lato enormi energie vengono mobilitate allo scopo di produrre una quantità sempre maggiore di beni, dall’altro lato l’incremento della produzione genera il bisogno e il desiderio di una crescita parallela del numero degli uomini, in quanto «compratori solvibili e disponibili». «La produzione necessita di un numero sempre maggiore di uomini; dal moltiplicarsi degli oggetti essa giunge fino al significato originario di ogni accrescimento: il moltiplicarsi degli uomini»

52

. In dimensioni inedite, planetarie, si è dunque prodotta una nuova conciliazione della massa con il potere: la moltitudine dei consumatori, sottoposta al controllo di strumenti di coercizione sempre più sottili e pervasivi, prende il posto delle masse irregimentate dei regimi totalitari, mentre il potere, proprio quando sembra più nettamente allontanarsi dal possesso dell'uno che domina sui molti, subisce un processo di più estrema concentrazione. La situazione del sopravvissuto è infatti mutata nel presente, ma nel senso di un «inasprirsi della sua attività» in conseguenza del perfezionamento e della disponibilità di procedimenti tecnici dotati di una smisurata forza di distruzione: «un uomo singolo può senza fatica annientare buona parte dell’umanità. […] Il contrasto fra la sua unicità e il numero di coloro che egli annienta non è più esprimibile in un’immagine sensata. Oggi si ha la possibilità di sopravvivere con un solo colpo a un numero di uomini che supera quello di intere generazioni dei nostri predecessori»

53

.

La crescita illimitata della produzione e il corrispondente incremento del numero degli uomini contengono così in se stessi la paradossale conseguenza di fornire al potente, all’«unico» votato alla propria esclusiva sopravvivenza, strumenti mille volte più numerosi e molti più uomini, sempre più fittamente ammassati, cui sopravvivere in un colpo solo:

una «massificazione della morte»

54

rispetto a cui «i sogni più temerari dei potenti del passato, per i quali il sopravvivere era divenuto una passione e un vizio, oggi sembrano miseri»

55

.

A conclusione di queste riflessioni sull'attualità delle analisi di Canetti è necessario infine tornare a considerare il dominio spazio-temporale del potere, l'ideale sociale che nel campo di concentramento, nel carcere, nelle istituzioni disciplinari ha trovato nei secoli la realizzazione più appropriata. Emerge allora la persistenza nel tempo presente, anche nelle democrazie avanzate, di strutture di controllo repressivo la cui funzione resta intimamente connessa ai divieti di metamorfosi e alla domesticazione delle masse per un dominio più pervasivo sugli individui. L'attuale fortuna di cui gode in tutti i paesi la soluzione carceraria dei fenomeni devianti mostra la profondità del radicamento antropologico delle dinamiche di potere messe in luce dallo studio canettiano. Sorgono al contempo nuove strutture di contenimento delle masse umane, come i centri di reclusione per gli immigrati senza documenti istituiti alle frontiere del benessere economico. Nel

«campo» come luogo di sospensione del diritto e libero arbitrio del potere sovrano Giorgio Agamben, in notevole consonanza con Canetti, ha individuato il «paradigma biopolitico

51 Ivi, p. 566.

52 Ibidem.

53 Ivi, p. 569.

54 E. Canetti, La tortura delle mosche, Adelphi, Milano 1993, p.110.

55 E. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 569-570.

(12)

della modernità»

56

.

I luoghi del potere e del controllo, moderne «amplificazioni delle fauci», conservano dunque e perpetuano i processi descritti da Canetti di radicale opposizione del potere alla vita, alla metamorfosi e alla libertà. Oggi come nell'interno corso della storia «chi vuole dominare sugli uomini cerca di svilirli, di sottrarre loro forza di resistenza e diritti, finché siano dinnanzi a lui impotenti come animali». Per questo Massa e potere, nella sua visionaria profondità, è un’opera che «dovremo leggere daccapo ogni dieci anni»

57

.

56 G. Agamben, Homo sacer, Einaudi, Torino 1995.

57 K. H. Bohrer, Der Stoiker und unsere prähistorische Seele. Zu »Masse und Macht«, cit., p. 66.

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