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L’INDICE PENALE

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Academic year: 2021

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L’INDICE PENALE

Rivista fondata da

PIETRO NUVOLONE

Diretta da

ALESSIO LANZI

Novissima Serie - Anno IV - N. 2 Maggio-Agosto 2018

◊ Ancora in tema di nomofilachia

◊ Le misure alternative alla detenzione

◊ In tema di colpa medica

◊ Sul cyberbullismo

◊ Imparzialità del giudice

e esposizione mediatica

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LE MISURE ALTERNATIVE ALLA DETENZIONE

NEL QUADRO DELLA RIFORMA ORLANDO:

DISCONTINUITÀ VIRTUOSA O RICONFERMA

DEL DISORDINE NORMATIVO?

Muovendo da una indagine dei vari fenomeni di disgregazione e degli attuali vizi strut-turali del sistema delle misure alternative alla detenzione, l’Autore evidenzia come la delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario e il recente schema di decreto legislativo in via di approvazione definitiva si pongano in una discontinuità virtuosa ri-spetto al passato, contribuendo al recupero della coerenza e della razionalità dell’edifi-cio normativo. Al fine di poter superare i limiti, peraltro, ancora presenti nella riforma Orlando, vengono individuati nei valori della legalità e della giurisdizione rieducativa i presupposti culturali per una complessiva e più organica revisione del sistema*.

Sommario: 1. Le misure alternative alla detenzione tra disordine normativo e nuove prospettive di

riforma. – 2. Incompletezza della legge e discrezionalità giudiziale libera. – 3. Instabilità del siste-ma e discrezionalità ampia: le prassi devianti. – 3.1. Le prassi virtuose. – 4. La destrutturazione. Dalla logica rieducativa a quella deflattiva: mutamento della fisionomia delle misure alternative e discrezionalità degradata. – 4.1. Le alternative alla detenzione nel recente schema di decreto legislativo: verso un recupero della coerenza sistematica. – 5. La decodificazione: norme ostati-ve, automatismi legislativi e discrezionalità negata. – 6. La ricostruzione sistematica delle misure alternative nella riforma Orlando: superamento del disordine normativo ma non (ancora) del modello carcero-centrico. – 7. L’impegno del giurista per una complessiva revisione del sistema.

1. Le misure alternative alla detenzione tra disordine normativo e nuove prospettive di riforma

La legge di delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario1, la cui

attua-* Il presente contributo è stato concluso in data 20 marzo 2018.

1 Legge 23 giugno 2017, n. 103, recante «Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale

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zione è ancora in itinere2, stimola una riflessione sul presente e sul futuro del siste-ma delle misure alternative alla detenzione.

La presente indagine si snoderà, dunque, lungo una duplice prospettiva. Da un lato, si tratterà di esaminare l’attuale assetto normativo delle misure alternative per scorgerne i limiti in termini di coerenza sistematica e di rispetto dei valori fon-damentali tipici di un ordinamento giuridico. Dall’altro lato, occorrerà valutare se le nuove disposizioni messe a punto dal Governo provochino una più accentuata disgregazione del sistema o se, invece, contribuiscano al recupero della coerenza e della razionalità dell’edificio normativo.

L’orientamento di fondo della riforma Orlando – lo si evince dai criteri diret-tivi enucleati nell’art. 1 comma 85 lett. a), b), c) e d) della legge 23 giugno 2017, n. 103 – è nel senso di un’apertura a favore del condannato, poiché si intende allargare l’ambito applicativo delle alternative alla detenzione attraverso la revi-sione delle modalità, dei presupposti e delle procedure di accesso alle misure. Inoltre, la legge delega fa riferimento, almeno sulla carta, alla necessità di ren-dere effettiva la funzione rieducativa della pena (art. 1 comma 85 lett. q), con il chiaro proposito di potenziare il trattamento e favorire il reinserimento sociale del condannato: si vuole ridurre il ricorso al carcere, agevolando, parallelamente, le possibilità di fruizione delle misure, incentivando le attività di giustizia ripa-rativa, quali momenti qualificanti del percorso di recupero sociale (art. 1 comma 85 lett. f), dando altresì specifico rilievo alla osservazione scientifica della perso-nalità da condurre in libertà.

Queste, in sintesi, le direttive enunciate dal legislatore in materia di esecuzione penale esterna e poi recepite nello schema di decreto legislativo del Governo n. 501 del 20183, già oggetto del parere favorevole delle Commissioni parlamentari4 ed approvato nuovamente in data 16 marzo 2018 da parte del Consiglio dei Mini-stri5. Il testo è stato ritrasmesso il 20 marzo alle Camere per i pareri definitivi, da

2 Il termine per l’adozione del decreto legislativo è di un anno dalla entrata in vigore della legge

(v. art. 1 comma 83, l. n. 103 del 2017). L’attuazione della delega si sta concretando nello schema di decreto legislativo del 15 gennaio 2018, Atto n. 501, approvato in via preliminare dal Consiglio dei Ministri il 22 dicembre 2017, oggetto del parere favorevole condizionato delle Commissioni parla-mentari, e nuovamente approvato in un secondo esame preliminare il 16 marzo 2018 dal Governo, il quale non ha inteso conformarsi totalmente ai pareri parlamentari.

3 Schema di decreto legislativo del 15 gennaio 2018, Atto n. 501 (Schema di D.lgs. n. 501 recante

«Riforma dell’Ordinamento penitenziario in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 82, 83, 85, lettere a), b), c), d), e), f), h), i), l), m), o), r), s), t) e u), della legge 23 giugno 2017, n. 103»). Il testo

normativo si compone di 26 articoli, suddivisi in sei capi, toccando molti aspetti dell’ordinamento penitenziario: dalle disposizioni riguardanti l’assistenza sanitaria in carcere a quelle in tema di vita penitenziaria e di trattamento. Ai fini del presente lavoro, si prenderà in considerazione principal-mente il Capo IV (artt. 14-22) dedicato alla «Modifica delle norme dell’ordinamento penitenziario in tema di misure alternative».

4 Pareri della Commissione Giustizia presso la Camera dei Deputati e presso il Senato, seduta del

7 febbraio 2018, consultabili rispettivamente in www.camera.it e in www.senato.it.

5 Non sono mancati, nel frattempo, gli appelli rivolti al Consiglio dei Ministri. Tra questi, si può

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rendersi entro dieci giorni da questa nuova trasmissione. Decorso tale termine, il decreto può essere comunque emanato (art. 1, comma 83, l. n. 103 del 2017). L’iter dei lavori per la riforma non si è, dunque, ancora concluso6.

Da una prima lettura dello schema di decreto emergono diversi interrogativi. In quale direzione si muove veramente la riforma? Verso un recupero delle finalità risocializzanti delle misure oppure verso una finalità di deflazione carceraria? I nuovi istituti sono ricostruiti in maniera tale da rispondere davvero a una esigen-za rieducativa o sono concepiti per sfoltire la popolazione delle carceri italiane e contenere i costi gravanti sulla finanza pubblica? Va inoltre accertato se la nuova normativa – che appare nel suo complesso come un intervento robusto ed esteso – si ponga in chiave di semplificazione e di ridefinizione del sistema, segnando una discontinuità virtuosa rispetto al passato, oppure se accresca le difficoltà per l’interprete e riconfermi la tendenza alla decomposizione e alla distorsione della fisionomia degli istituti racchiusi nelle misure alternative.

Per cogliere la reale portata della riforma occorre, ovviamente, guardare il pre-sente e capire come si è arrivati alla situazione prepre-sente. Nel nostro tempo, nessuno può disconoscere il grave vizio metodologico legato alla asistematicità e alla parcel-lizzazione degli interventi legislativi – e parallelamente di quelli della Corte costi-tuzionale – che hanno modificato più volte la legge di ordinamento penitenziario (l. 26 luglio 1975, n. 354, da ora in poi, ord. penit.)7. Si è così creato un disordine normativo tale da rendere difficile persino la lettura di molti testi, compromessi nella loro linearità da un articolato esorbitante nella sua numerazione e da commi densi di latinismi numerici.

Quello della esecuzione della pena è stato un sistema per molto tempo trascura-to8 ed ora in crisi di identità, in totale disgregazione, sempre più lontano dalla rea-lizzazione effettiva del finalismo rieducativo consacrato nell’art. 27 comma 3 Cost.

Penale, il quale aveva sollecitato il Governo a una rapida approvazione dello schema di decreto le-gislativo predisposto in attuazione della l. n. 103 del 2017: Messaggio al Governo, Roma, 19 febbraio 2018, in Sito web Associazione tra gli Studiosi del Processo Penale “G.D. Pisapia”, 20 febbraio 2018. All’indomani delle elezioni politiche del 4 marzo 2018, è stato indirizzato al Governo un altro appel-lo – sottoscritto da diverse associazioni in rappresentanza dei mondi dell’università, dell’avvocatura, della magistratura e del volontariato, nonché da autorevoli giuristi e da personalità della società civile – che auspica l’approvazione definitiva della riforma penitenziaria, poiché, si legge nell’appello, «la riforma rischia ora una battuta d’arresto per via della fine della legislatura»: Appello per la riforma

penitenziaria, in Dir. pen. cont., 13 marzo 2018.

6 Nel presente contributo si farà riferimento allo schema di decreto legislativo del 15 gennaio 2018,

n. 501, non essendo ancora disponibile alla consultazione il testo dello schema di decreto approvato dal Governo il 16 marzo 2018, che peraltro dovrebbe rimanere pressoché invariato rispetto al precedente.

7 Parla di un vizio «di metodo» che affligge il disegno riformatore del sistema penale, O. mazza,

Dalla sentenza Torreggiani alla riforma del sistema penale, in Arch. pen., 2014, fasc. 2, 365.

8 …tanto da meritare in passato l’appellativo di Cenerentola: v. F. Carnelutti, La lotta del

di-ritto contro il male, in Foro ital., 1944-46, IV, 4, il quale aveva attribuito lo stesso epiteto anche alla

procedura penale: id., Cenerentola, in Riv. dir. proc., 1946, I, 73. Come è noto, il motivo di questa

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A partire dall’inizio degli anni Novanta, l’impianto originario di quello che si potrebbe chiamare “codice penitenziario” del 1975 è stato progressivamente eroso e deformato ad opera della giurisprudenza, ma soprattutto del legislato-re. I numerosissimi interventi legislativi degli ultimi venticinque anni, oscillanti continuamente tra riforme e controriforme, hanno creato una disordinata co-stellazione normativa intorno al codice, senza mai assumere una precisa linea razionale né un disegno coerente, con il risultato non confortante che il sistema è alla deriva9. Complice di questa deriva il problema del sovraffollamento car-cerario, di recente ripropostosi10, che, oltre a rendere impossibile lo sviluppo di un’ampia riflessione propedeutica alle singole iniziative parlamentari, ha impres-so al sistema un orientamento in senimpres-so fortemente deflattivo. Questa ineimpres-sorabile e deviante tendenza alla deflazione penitenziaria a tutti i costi non solo ha come corollario quello di scaricare sul giudice responsabilità di politica criminale che sarebbero proprie del potere legislativo, ma, sul piano sistematico, è ormai de-stinata a convivere o, meglio, a soppiantare il primitivo modello “discrezionale-personalistico”11, improntato alla finalità rieducativa, vale a dire alla logica sulla quale esclusivamente si fondavano, in principio, le misure alternative alla esecu-zione della pena detentiva.

Concepite dal legislatore del 1975 come strumento finalizzato a realizzare un trattamento ispirato a istanze di risocializzazione del detenuto12, le misure alterna-tive alla detenzione si collocavano, infatti, nella prospettiva di un rinnovato con-cetto di esecuzione della pena, in cui l’elemento prioritario ed essenziale doveva essere l’obiettivo del reinserimento sociale del condannato13. La loro

regolamenta-9 Sull’argomento, più ampiamente, F. della CaSa, Quarant’anni dopo la riforma del 1975 (ovvero:

il continuo divenire della “questione penitenziaria”), in Riv. it. dir. e proc. pen., 2015, 1163 ss.

10 Corte eur., Sez. II, 8 gennaio 2013, Torreggiani e altri c. Italia. La legge 11 agosto 2014, n. 117

(insieme alle precedenti l. 21 febbraio 2014, n. 10 e l. 9 agosto 2013, n. 94) è stata varata per ripristi-nare una tutela allineata all’art. 3 Conv. eur. dir. uomo. Dopo il giudizio favorevole del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, due più recenti sentenze della Corte di Strasburgo hanno ritenuto che il problema dell’overcrowding delle carceri italiane presenti oggi proporzioni meno drammatiche (Corte eur., Sez. II, 16 settembre 2014, Stella e altri c. Italia; Corte eur., Sez. II, 16 settembre 2014, Rexhepi e altri c. Italia), ma la realtà odierna esibisce dei numeri per nulla rassicuranti: al 31 gennaio 2018 negli istituti penitenziari italiani risultano presenti 58.087 detenuti, rispetto ai 50.517 previsti dalla capienza regolamentare (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria-Ufficio del Capo del Dipartimento-Sezione statistica, in www.giustizia.it).

11 L’espressione è di F. Palazzo, Riforma del sistema sanzionatorio e discrezionalità giudiziale, in

Dir. pen. e proc., 2013, 99.

12 Cfr. F. della CaSa, Misure alternative ed effettività della pena tra realtà e prospettive, in Giust.

pen., 2001, 65 ss.; id., voce Misure alternative alla detenzione, in Enc. dir., Ann., vol. III, Milano,

2010, 816 ss. V., altresì, tra gli altri, F. BriCola, Le misure alternative alla pena nel quadro di una

«nuo-va» politica criminale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1977, 13 ss.; E. dolCini, Le misure alternative oggi:

alternative alla detenzione o alternative alla pena?, ivi, 1999, 857 ss.; F. mantovani, Pene e misure

alternative, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1977, 93.

13 La loro originaria disciplina nella legge di ordinamento penitenziario era stata definita, non a

caso, «la parte più nuova e vitale della riforma» (così, F. Palazzo, La recente legislazione penale, 3ª

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del-zione dovrebbe quindi continuare ad essere coerente con questa fundel-zione. Invece, tale condizione non è stata più rispettata14.

Il “sistema” delle misure alternative, forgiato dalla legge del 1975 e messo a punto dalla legge Gozzini del 1986 (l. 10 ottobre 1986, n. 663), ha subìto un pro-cesso di logoramento dall’ultimo decennio del secolo scorso in poi: prima le leggi 12 luglio 1991, n. 203 e 7 agosto 1992, n. 356 basate su esigenze di difesa sociale, poi le disposizioni securitarie del 2005 (c.d. legge “ex Cirielli”) e, ancora, i pacchet-ti sicurezza del 2008-2009 hanno introdotto vistosi inasprimenpacchet-ti nella normapacchet-tiva penitenziaria delle alternative alla detenzione.

A questa stagione dell’emergenza ha fatto da contraltare – secondo un anda-mento altalenante tipico di questa materia15 – l’impegno riformatore in senso am-pliativo, come quello della legge Simeone-Saraceni (l. 27 maggio 1998, n. 165), la quale ha avuto indubbiamente il merito di creare il meccanismo sospensivo del-la esecuzione deldel-la pena detentiva per i condannati a pene brevi16, ma che, nel contempo, ha inaugurato la tendenza a una impropria utilizzazione delle misure alternative a scopo di contenimento della popolazione detenuta17. Da allora, le incoerenze con lo spirito originario cui erano improntate le alternative al carcere non sono affatto diminuite e sono diventate, anzi, una vera e propria costante nella successiva legislazione penitenziaria. La funzione risocializzante è stata progressi-vamente degradata a funzione deflattiva, nonché a funzione di controllo della pe-ricolosità sociale del condannato: ciò ha determinato non solo una crisi di identità delle misure, ma anche una crisi dell’idea di rieducazione.

All’interno di questo quadro, occorre fotografare il contesto attuale, allo sco-po di verificare i guasti del sistema vigente. Per procedere in questo senso, si sco- pos-sono utilizzare alcune categorie rivelatrici dello sgretolamento dei valori tipici di un ordinamento normativo moderno, che sono: completezza, unità, coerenza, stabilità18.

la pena detentiva inflitta, consegnate alla competenza della magistratura di sorveglianza (A. PreSutti,

voce Esecuzione penale, in Enc. giur. Treccani, vol. XIII, Roma, 1996, 1).

14 Per analogo rilievo, F. della CaSa, L’ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza, in

Processo penale e valori costituzionali nell’insegnamento di Vittorio Grevi, Atti del convegno, Pavia,

2-4 dicembre 2011, a cura di L. Giuliani, Padova, 2013, 44.

15 Alle politiche di carcerizzazione si sono alternate spesso quelle di decarcerizzazione: «si tratta

di due anime che sono in aperto contrasto tra loro»: così, F. della CaSa, L’ordinamento penitenziario

tra riforme ed emergenza, in Processo penale e valori costituzionali, cit., 45.

16 La procedura sospensiva dell’esecuzione della pena ha consentito una reale «mutazione della

pena […] da detentiva in alternativa», sconvolgendo il tradizionale schema penitenziario che con-figurava la misura alternativa vincolata a una previa esperienza intramuraria: così, D. vigoni, La

metamorfosi della pena nella dinamica dell’ordinamento, Milano, 2011, 53.

17 In questo senso, A. PreSutti, Legge 27 maggio 1998 n. 165 e alternative penitenziarie: la pena

rinnegata, in Esecuzione penale e alternative penitenziarie, a cura di A. Presutti, Padova, 1999, 27 ss.

18 Per analoga impostazione, nel quadro di una indagine sulla disgregazione del sistema

proces-suale penale, v. E. amodio, Il processo penale tra disgregazione e recupero del sistema, ne L’ind. pen.,

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Crisi strutturale del sistema vuol dire che vengono meno questi quattro valori-cardine della nostra tradizione filosofico-giuridica, tramandataci dal pensiero degli illuministi e rinvigorita poi dall’enorme lavoro sull’idea di codice portato avanti da illustri ed autorevoli maestri come Francesco Carrara19, Luigi Lucchini20 e Alessan-dro Stoppato21.

Può così risultare proficuo procedere a un’analisi della crisi della legalità nel sistema delle misure alternative percorrendo, in negativo, ognuno di questi va-lori.

La trattazione si articolerà, perciò, lungo quattro linee direttrici: incompletez-za, instabilità-non continuità operativa, incoerenza interna e, infine, dis-unità del sistema.

Si dovrà, di volta in volta, verificare se nella riforma Orlando questi vizi struttu-rali siano stati enfatizzati oppure se le quattro categorie trovino una sistemazione che consenta il superamento delle patologie individuate. Naturalmente, del testo dello schema di decreto legislativo si prenderanno in considerazione le disposizio-ni più sigdisposizio-nificative ai fidisposizio-ni di questa analisi.

L’indagine sulla incompletezza verterà sui problemi legati alle lacune normative in tema di misure alternative. Sotto altra angolatura, tenuto conto del binomio legalità-giurisdizionalità, il fenomeno della incompletezza legislativa si ricollega alla libera discrezionalità giudiziale22. Dunque, pur senza pretesa di esaustività, si procederà ad analizzare qualche punto della materia penitenziaria che i conditores hanno rimesso alla piena discrezionalità del giudice. Si cercherà, infine, di chiarire se e in che misura la normativa che sta per entrare in vigore sia in grado di colmare i vuoti esistenti nel vigente sistema.

La instabilità-non continuità operativa, quale profilo che attiene all’essere del sistema, è un prodotto del diritto vivente. La trattazione si concentrerà,

pertan-19 F. Carrara, Codicizzazione (1869), in id., Opuscoli di diritto criminale, vol. II, Firenze, 1909,

227 ss.: da queste bellissime pagine emerge come, nel pensiero liberale di Carrara, i caratteri della codificazione si debbano fondare sull’uguaglianza, sulla reciprocità dei diritti e sulla stabilità del contenuto normativo. Per una efficace sintesi del pensiero carrariano sulla procedura penale, v. G. riCCio, Codificazione e principi del sistema processuale: due testimonianze dell’attualità culturale di

F. Carrara, in Francesco Carrara nel primo centenario della morte, Atti del Convegno internazionale,

Lucca-Pisa, 2-5 giugno 1988, Milano, 1991, 741 ss.

20 L. luCChini, La terza serie della Rivista Penale, in Riv. pen., 31, XVI, 1890, 5 ss. Sul ruolo svolto

dalla Rivista Penale nella preparazione del Codice Zanardelli (un codice liberale, garantista, armoni-co e armoni-coerente «armoni-così nella sostanza armoni-come nella forma», ivi, 6), v. M. SBriCColi, Il diritto penale liberale.

La «Rivista penale» di Luigi Lucchini, 1874-1900, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 1987, n. 16, 105 ss.

21 A. StoPPato, Sul fondamento scientifico della procedura penale, in Riv. pen., XXXVII, 1895, 305;

v. altresì, a firma di Stoppato, la Relazione (1912) al testo definitivo del Codice di procedura penale Finocchiaro-Aprile del 1913.

22 In questi casi, si può parlare più precisamente di discrezionalità-eterointegrazione in presenza

di dati di normazione sintetica che causano la indeterminatezza della fattispecie: v. F. Cordero, Le

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to, sulle prassi giurisprudenziali, devianti ovvero virtuose23. Qui, la discrezionalità della magistratura di sorveglianza si muove in presenza della legge, ma con ampi spazi di manovra24, i quali possono sfociare in applicazioni elastiche di norme che necessitano del giudizio del caso concreto (discrezionalità fisiologica)25 ovvero nelle disapplicazioni delle norme (discrezionalità patologica)26. A ben vedere, in materia penitenziaria, si allargano le maglie del principio di legalità-tassatività: la

legali-tà è imperfetta, volta com’è a far fronte fisiologicamente non solo all’esigenza di

certezza del diritto, ma anche alle esigenze di rieducazione del condannato e di individualizzazione della pena27. Oggetto del procedimento è la personalità del condannato e il giudice di sorveglianza opera nella prospettiva di un’ampia discre-zionalità – anche con l’ausilio di esperti del trattamento, psicologi e criminologi – ponendosi di fronte al dato normativo processuale con più elevati spazi valutativi rispetto a quanto accade nel processo penale di cognizione28. Nel corso di questa analisi, si cercherà di mettere in luce quale influenza abbiano avuto le prassi virtuo-se o devianti sulle scelte del legislatore delegato.

La terza e la quarta linea direttrice, oggetto della presente indagine, sono acco-munate da un elemento, che è quello del piano del dover-essere: si tratterà, in en-trambi i casi, di fenomeni generati dall’intervento del legislatore – destrutturazione e decodificazione – appartenenti al genus della disgregazione.

23 Le prassi “virtuose” sono le prassi giurisprudenziali allineate al sistema, ma che vanno al di là

del dato letterale della legge (v., infra, § 3.1), mentre le prassi “devianti” (v., infra, § 3) sono le pra-tiche quotidiane che portano alla «disapplicazione delle norme» contenute nel codice: «il sistema si disgrega in forza del suo operare effettivo in modi e forme che rinnegano le prescrizioni legislative». Così, E. amodio, Il processo penale tra disgregazione e recupero del sistema, cit., 8.

24 Per questo, si è ritenuto di connotare questa discrezionalità giudiziale come “ampia”, quale

genus della discrezionalità “fisiologica” e “patologica”. V., infra, nel testo.

25 Nella determinazione di questo concetto, si fa riferimento ai poteri di apprezzamento che

com-petono al giudice nella ricostruzione (secundum legem) di qualche momento della fattispecie legale non sufficientemente determinato. In argomento, v. F. BriCola, La discrezionalità nel diritto penale, I,

Nozione e aspetti costituzionali, Milano, 1965, 68.

26 La discrezionalità ampia può diventare “patologica” qualora l’attività giurisdizionale degeneri

in modificazioni del dato normativo: in questi casi, si fa riferimento a scelte giudiziali che si pongono al di fuori del principio di legalità (contra o praeter legem).

27 V., per tutti, G. gioStra, Il procedimento di sorveglianza nel sistema processuale penale, Milano,

1983, 135 ss. Da ultimo, su questo aspetto, S. aleo-E. lanza, L’ampliamento degli spazi di

discrezio-nalità del giudice nella determinazione della pena, dal codice Rocco ai giorni nostri, come sintomo della trasformazione della funzione penale, ne L’ind. pen., 2017, n. 3, 853 ss., per i quali «la funzione delle

misure alternative è proprio antitetica rispetto alla logica formale della corrispondenza tra fatto e sanzione, perché attraverso di esse si consente che elementi estranei alla rilevanza penale degli acca-dimenti possano incidere sulla quantità e qualità della pena», ivi, 864.

28 Quanto alle caratteristiche della «giurisdizione rieducativa», si aderisce qui alla impostazione

tradizionale: G. gioStra, Il procedimento di sorveglianza nel sistema processuale penale, cit., 142. Di

recente, in dottrina, è emersa «un’impostazione alternativa incentrata sulla sopravvenuta centrali-tà dei giudizi fattuali» nel procedimento di sorveglianza, così, F. della CaSa, Prossimità/terzietà,

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L’incoerenza interna del sistema può infatti derivare anche da scelte normative, dalla presenza di norme “intruse”29, che derogano ai principi posti in origine alla base della codificazione e la cui strutturazione è dissonante dalle norme originarie: è il fenomeno della destrutturazione30. Merita, perciò, di essere studiato il mutamen-to della fisionomia delle misure alternative prodotmutamen-to dalla legislazione successiva al 1975 e al 1986, e, al contempo, dal punto di vista del giudice, va esaminato il conte-nuto attuale della discrezionalità “degradata”, frutto della logica improntata solo alla deflazione carceraria. Bisogna, inoltre, individuare se, con le nuove disposizioni dello schema di decreto legislativo, la linea della destrutturazione si sia rafforzata ed estesa ovvero se abbia conosciuto una revisione tale da rendere il sistema più coerente.

Infine, l’analisi verterà su quella coloritura del principio di tassatività della leg-ge penitenziaria che ha visto, nel tempo, l’accentuarsi della creazione di norme ostative basate su presunzioni di pericolosità, volte a impedire il normale esercizio della discrezionalità giudiziale (discrezionalità “negata”). Su questo piano, viene in rilievo il fenomeno della decodificazione31: gli automatismi legislativi, le norme osta-tive alla concessione di misure alternaosta-tive o di benefici penitenziari, come quelle previste dall’art. 4-bis ord. penit., producono la dis-unità del sistema, costruendo una sorta di doppio binario caratterizzato da un regime differenziato applicabile a coloro che sono stati condannati per specifici delitti di particolare allarme sociale. Anche qui, si tratterà di sondare se le modifiche apportate all’art. 4-bis ord. penit. dal decreto delegato in itinere abbiano contribuito a un riavvicinamento tra il re-gime penitenziario speciale e quello ordinario o se, invece, l’impianto delle preclu-sioni ai benefici penitenziari sia rimasto sostanzialmente inalterato.

Una volta conclusa la parte analitica del presente studio e misurato il grado di «risanamento conservativo»32 a cui potrebbe giungere il sistema in caso di appro-vazione del decreto delegato, si potrà valutare l’opportunità di delineare i contorni di un modello di misure alternative alla detenzione da riscoprire nella sua comples-siva coerenza logico-sistematica33.

2. Incompletezza della legge e discrezionalità giudiziale libera

In linea generale, nel diritto penitenziario si riscontrano di frequente spazi la-sciati volutamente dal legislatore alla libera discrezionalità del giudice o, ancor

29 La denominazione risale a G. marziale, Norme “intruse” in tema di pubblicità delle società

com-merciali, in Foro ital., 1983, V, 242, ed è stata adottata in ambito processualpenalistico da E. amodio,

Il processo penale tra disgregazione e recupero del sistema, cit., 8.

30 Per questa terminologia, v. E. amodio, Il processo penale, cit., 8, che intende la destrutturazione

interna come «fenomeno di disorganicità e presenza di antinomie» (ivi, 8).

31 Per la definizione di decodificazione legislativa come «creazione di sistemi dotati di logiche

autonome ed organiche extra codicem», v. E. amodio, Il processo penale, cit., 8.

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peggio, dell’amministrazione penitenziaria. Per più di quindici anni, per esempio, non si è data soluzione normativa al problema della tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti34.

Nell’ambito delle misure alternative alla detenzione, un problema di norma processuale in bianco si è prospettato in tema di effetti conseguenti alla revoca dell’affidamento in prova al servizio sociale. L’art. 47 comma 11 ord. penit., sin dal testo originario del 1975, poi modificato dalla legge n. 663 del 1986, disciplinava l’ipotesi di revoca della misura in caso di comportamento incompatibile con la prosecuzione della prova, ma nulla prevedeva sul computo, ai fini della pena com-plessiva da espiare, del periodo trascorso in affidamento anteriormente alla revoca. Sul punto era intervenuta la Corte costituzionale, stabilendo la regola secondo cui, nel determinare la durata della pena residua, il tribunale di sorveglianza dovesse

tener conto sia del periodo di prova trascorso dal condannato nell’osservanza delle prescrizioni imposte e del concreto carico di queste, sia della gravità oggettiva e soggettiva del comportamento che ha dato luogo alla revoca35. Senonché, nella prassi, i collegi giudicanti della sorveglianza hanno dimostrato di rifuggire da un utilizzo bilanciato e puntuale di questi criteri, preferendo, piuttosto, scegliere i due estremi rigidi e automatici della revoca ex nunc ovvero – e più sovente – della revoca con effetto ex tunc36. L’enorme discrezionalità rimessa al giudice di merito è dunque sfociata in arbitrio, con la conseguenza che si sono create ingiustificate disparità di trattamento per situazioni analoghe. Il protrarsi di questo fenomeno e dei suoi profondi disequilibri ha spinto il legislatore a intervenire per ripristinare le garanzie di legalità: l’art. 98 comma 7, d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230 disciplina il caso di revoca del beneficio penitenziario, con l’obbligo, per il tribunale di sor-veglianza, di determinare la pena detentiva residua da espiare, tenuto conto della durata delle limitazioni patite dal condannato e del suo comportamento durante il periodo trascorso in affidamento in prova37.

Il silenzio del legislatore permane, invece, per quanto attiene alla diversa ipotesi della declaratoria di esito negativo della prova e alle conseguenze sulla determi-nazione del quantum di pena da scontare. A fronte di questa perdurante lacuna legislativa, le Sezioni unite della Cassazione hanno statuito che il tribunale di

sor-34 Come è noto, dalla pronuncia della Corte costituzionale del 1999 (Corte cost., 11 febbraio

1999, n. 26, in Giur. cost., 1999, 176), il legislatore è intervenuto soltanto nel 2014, con l’introduzione dell’art. 35-bis ord. penit. (d.l. n. 146 del 2013, convertito in l. n. 10 del 2014).

35 Corte cost., 29 ottobre 1987, n. 343, in Giur. cost., 1987, 2627.

36 Per questo rilievo, v. F. della CaSa, voce Misure alternative alla detenzione, cit., 837. 37 L’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità è nel senso di

conside-rare il tempo trascorso in affidamento o parte di esso come pena espiata: Cass., Sez. I, 14 luglio 2014, B.E.G., in Cass. pen., 2015, 754; Cass., Sez. I, 19 febbraio 2014, A.S., in CED Cass., n. 259474; Cass., Sez. I, 18 ottobre 2011, Z.B., ivi, n. 251844; Cass., Sez. I, 6 ottobre 2011, F.L., ivi, n. 251476. Nel rispetto dei parametri legislativi, si è anche statuito che la revoca ex tunc può essere disposta quando il comportamento del condannato sia stato così negativo da rivelare l’inesistenza

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veglianza deve determinare la durata della residua pena detentiva da espiare, prendendo in considerazione l’entità delle specifiche circostanze poste a fon-damento del giudizio di negatività della prova38. Lo sforzo della Corte in fun-zione nomofilattica, volto a restituire coerenza al sistema, pare indubbiamente apprezzabile. Per lo meno, al libero potere discrezionale conferito al giudice da un legislatore silente fa da contraltare un preciso e stringente obbligo motiva-zionale concernente non solo l’esito della prova, ma anche il calcolo del

quan-tum residuo di pena da scontare39.

Con riferimento alla valutazione negativa dell’esito della prova, nulla dispone il recente schema di decreto legislativo, per cui l’incompletezza normativa sul punto è destinata a rimanere inalterata.

Nel complesso, tuttavia, si deve riconoscere lo sforzo del legislatore delegato nel colmare alcuni vuoti importanti, persistenti da molti anni nella disciplina delle misure alternative: il bilancio può dunque dirsi senz’altro positivo.

Ad esempio, sul piano processuale, un intervento di rilievo che si deve alla riforma Orlando è riconducibile alla direttiva che impone di fissare a quattro anni – anziché a tre anni – il limite di pena che consente la sospensione dell’ordine di esecuzione (l. n. 103 del 2017, art. 1 comma 85 lett. c): ciò porrebbe fine al problema del disallineamento tra l’art. 656 comma 5 c.p.p. e la previsione di cui all’art. 47 comma 3-bis ord. penit.40. Questa incongruità legislativa è, peraltro, da ritenersi comunque superata dalla recentissima declaratoria di illegittimità costi-tuzionale dell’art. 656 comma 5 c.p.p., con la quale si è ripristinato il parallelismo tra il limite di pena previsto ai fini della sospensione dell’ordine di esecuzione e il corrispondente limite che consente l’accesso alla misura dell’affidamento in prova c.d. allargato. Nel mancato adeguamento da parte del legislatore della soglia san-zionatoria indicata nella disposizione codicistica, il Giudice delle leggi ha infatti riscontrato una lesione dell’art. 3 Cost. e non già un mero difetto di coordinamento normativo41.

Si può altresì segnalare, sempre a titolo esemplificativo, la novità che si vuole introdurre per colmare la totale assenza di garanzie in merito alla partecipazione personale del soggetto in vinculis all’udienza davanti al tribunale di sorveglianza, quando l’interessato sia detenuto in un istituto posto fuori della circoscrizione del

38 Cass., Sez. un., 27 febbraio 2002, Martola, in Cass. pen., 2002, 2303.

39 La durata della pena residua va calcolata sulla base di parametri commisurativi da valutarsi

caso per caso, in relazione alla personalità del condannato, al livello di risocializzazione raggiunto dallo stesso e al grado di insuccesso della prova: Cass., Sez. un., 27 febbraio 2002, Martola, cit., 2310.

40 La previsione è stata ritenuta in dottrina quanto mai opportuna. Tra gli altri, P. Corvi, Venti di

riforma sull’esecuzione penale: la delega per la modifica dell’ordinamento penitenziario, in Le recenti riforme in materia penale, a cura di G.M. Baccari-C. Bonzano-K. La Regina-E.M. Mancuso, Milano,

2017, 595; F. Fiorentin, La delega di riforma in materia di esecuzione penitenziaria, in La riforma della

giustizia penale, a cura di A. Marandola-T. Bene, Milano, 2017, 424.

41 Corte cost., 2 marzo 2018, n. 41, in www.cortecostituzionale.it, anche per il riferimento nel

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giudice (v. il vigente art. 666 comma 4 c.p.p.)42: per questo caso, lo schema di d.lgs. prevede, di regola, la partecipazione a distanza mediante collegamento audiovisivo (nuovo art. 678 comma 3.1.1 c.p.p.)43.

Ed ancora, accanto a disposizioni che mirano alla eliminazione di evidenti di-sparità di trattamento tra condannati, nonché alla realizzazione del finalismo riedu-cativo e del principio di umanità della pena, nell’articolato in fase di approvazione vi sono diverse norme che riempiono le lacune preesistenti recependo gli insegna-menti della Corte costituzionale (si pensi al diritto alla pubblicità dell’udienza, che verrebbe garantito anche nel procedimento di sorveglianza dall’art. 678 comma 3.1 c.p.p.) ovvero alcuni orientamenti consolidati della giurisprudenza di legittimità (si pensi al principio della impossibilità che il provvedimento di cumulo determini effetti sfavorevoli per il reo, sancito dal nuovo art. 4-ter ord. penit.).

3. Instabilità del sistema e discrezionalità ampia: le prassi devianti

Il diritto giurisprudenziale provoca vistose alterazioni in peius della fisionomia tracciata dalle norme in tema di misure alternative. La disapplicazione delle dispo-sizioni legislative e la conseguente instabilità del sistema rappresenta, infatti, un fenomeno che, nella dimensione della reale operatività delle misure alternative alla detenzione, è senz’altro più diffuso di quello risultante dalle prassi virtuose.

L’espansione delle prassi devianti – i cui pericoli derivano dall’assunzione da parte del giudice di poteri extra ordinem, in violazione del principio di legalità dell’attività giurisdizionale (artt. 101 comma 2 e 111 comma 1 Cost.) – è sintomo di un atteggiamento della magistratura di sorveglianza più incline a valorizzare la dimensione prescrittiva delle misure che non a riconoscerne una finalità riedu-cativa. Del resto, i giudici di sorveglianza si sono convinti di non poter incidere più di tanto sulla portata risocializzante di benefici come l’affidamento in prova, tenuto conto della inadeguatezza numerica e, talvolta, qualitativa del servizio sociale44. Dalla fine degli Novanta in poi, a fronte della strumentalizzazione – da parte del legislatore – delle misure alternative in chiave di deflazione carceraria, la giurisprudenza di merito ha reagito, adottando scelte orientate in senso rigo-ristico, anche per difendere se stessa e la propria immagine davanti all’opinione pubblica45.

42 Sull’argomento, v., tra gli altri, M. ruaro, La magistratura di sorveglianza, Milano, 2009, 296 ss.,

che evidenzia i diversi profili di illegittimità costituzionale dell’attuale disciplina codicistica.

43 Cfr., Relazione illustrativa allo Schema di decreto legislativo n. 501, 20-21, consultabile in www.

archiviopenale.it.

44 In chiave critica, v. F. della CaSa, La crisi d’identità delle misure alternative tra sbandamenti

le-gislativi, esperimenti di «diritto pretorio» e irrisolte carenze organizzative, in Cass. pen., 2002, 3278 ss.

45 Descrive bene il fenomeno F. della CaSa, La crisi d’identità delle misure alternative, cit., 3283,

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Per questo, nelle decisioni in materia di misure alternative, si riscontra spesso lo sviluppo di una discrezionalità ampia e patologica46, in una duplice direzione. Da un lato, il diritto giurisprudenziale ha introdotto, per la concessione di alcuni benefici, condizioni di applicabilità non stabilite dalla legge; dall’altro, ha riempito di con-tenuti maggiormente afflittivi di quelli previsti dalla legge le prescrizioni dirette al condannato ovvero ha determinato nuove prescrizioni preater legem.

Si possono esaminare alcune manifestazioni dell’una e dell’altra tendenza giuri-sprudenziale che, essendo in ogni caso ascrivibili alle prassi devianti, si pongono in contrasto con le linee e i principi del sistema.

Quanto alla prima tendenza, esemplare è il caso della estensione giurispruden-ziale del requisito della «idoneità della misura ad evitare il pericolo che il con-dannato commetta altri reati» a determinate species di detenzione domiciliare or-dinaria, per le quali il legislatore non ha fissato come condizione di applicabilità alcuna valutazione prognostica di non recidiva. La Corte di cassazione e i Giudici costituzionali, secondo un orientamento ormai consolidato, hanno richiesto, per la concessione della detenzione domiciliare a favore dell’ultrasettantenne (art. 47-ter comma 01 ord. penit.) e di quella a fini umanitari e per giovani adulti (art. 47-ter comma 1 ord. penit.), la previa valutazione da parte del tribunale di sorveglianza della idoneità dello stato detentivo domiciliare a evitare il rischio di recidiva, in quanto questo presupposto sarebbe immanente nel sistema delle misure alterna-tive e la ratio, anche di queste misure, sarebbe quella di favorire il recupero del condannato e di prevenire la commissione di nuovi reati47. A ben vedere, invece, il requisito della prognosi di non recidiva è stabilito dall’art. 47-ter comma 1-bis ord. penit. soltanto per l’ipotesi di detenzione infrabiennale, mentre le altre

spe-cies sono state concepite dal legislatore per finalità solo umanitarie ed

assisten-ziali. Pare, pertanto, fuori luogo imporre, per queste, una verifica giudiziale sulla meritevolezza del detenuto. È evidente come il diritto giurisprudenziale giunga qui a rinnegare tanto il principio di tassatività-determinatezza, stante il carattere tassativo delle norme che disciplinano specifiche tipologie di misure alternative e le relative condizioni, quanto la riserva di legge, perché l’introduzione di un requisito così pregnante, tra l’altro con effetto restrittivo della libertà personale, non può

46 V., supra, § 1.

47 Cass., Sez. I, 8 febbraio 2012, Tanzi, in CED Cass., n. 252921; Cass., Sez. I, 18 giugno 2008,

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avvenire per via giudiziale, essendo una scelta squisitamente di politica criminale. Anche il principio di umanizzazione della pena viene scalfito: si impregna l’istituto della custodia domiciliare di istanze securitarie, che mettono in ombra le finalità umanitarie cui è improntato lo schema normativo.

È ascrivibile sempre alla prima tendenza deviante l’indirizzo giurisprudenziale che ha richiesto il medesimo presupposto della prognosi di non recidiva ai fini della concessione dell’affidamento in prova terapeutico, facendo intendere che l’i-stituto non abbia soltanto finalità terapeutiche e di recupero del condannato, ma anche finalità di prevenzione speciale48. Recependo queste prassi modificative in

malam partem, la legge 21 febbraio 2006, n. 49, nel riformulare l’art. 94 comma 4,

d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (T.U. stup.), ha poi inserito la previsione secondo cui il tribunale deve verificare se il programma terapeutico da eseguirsi durante l’affi-damento in prova nei confronti di persona tossicodipendente o alcooldipendente contribuisca al recupero del condannato e assicuri «la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati».

Gli argini legislativi alle deformazioni giurisprudenziali di questi istituti si fanno sempre più deboli.

Non è, invece, orientata in questa direzione la legge di delega Orlando, là dove indirizza il Governo verso una revisione dei presupposti di accesso alle misure al fine di facilitarne la fruizione (art. 1 comma 85 lett. b) e, dunque, non certo con l’intento di immettere nel tessuto normativo nuovi parametri selettivi. Questa impostazione viene accolta nello schema di decreto legislativo, ove non vengono introdotti ulteriori requisiti per la concessione della detenzione domiciliare umani-taria e neppure per quella dell’ultrasettantenne. Pertanto, le prassi devianti sopra evidenziate non hanno inciso sulle opzioni legislative. Nello schema di decreto, anzi, si vuole estendere la possibilità di beneficiare della detenzione domiciliare alle madri condannate per delitti di cui all’art. 4-bis comma 1 ord. penit.49, senza specificare che per la concessione della misura occorra un giudizio prognostico di non recidiva (artt. 47-ter comma 1.1.1 ord. penit.)50.

48 Si trattava di un orientamento costante, già anteriormente alla l. n. 49 del 2006: v., tra le altre,

Cass., Sez. I, 4 aprile 2001, Di Pasqua, in Cass. pen., 2003, 2042; Cass., Sez. I, 8 febbraio 1999, Ro-vesti, in CED Cass., n. 212969; Cass., Sez. I, 28 aprile 1997, Dessì, in Giust. pen., 1997, II, 572. Nello stesso senso, valorizzando il nuovo dato normativo, v. Cass., Sez. I, 10 maggio 2006, Trione, in Giust.

pen., 2007, III, 180; Cass., Sez. I, 11 aprile 2006, Muscari, in CED Cass., n. 233881; v. anche Corte

cost., 16 marzo 2007, n. 87, in Giur. cost., 2007, 845.

49 Si recepisce qui l’estensione operata da Corte cost., 22 ottobre 2014, n. 239, cit., 3922, mentre,

nel nuovo art. 47-quinquies comma 1-ter ord. penit. viene recepita la decisione Corte Cost., 12 aprile 2017, n. 76, in Giur. cost., 2017, 725. Sul punto, E.N. la roCCa, Lo schema di decreto legislativo per

la riforma penitenziaria, in Arch. pen., 2018, 37.

50 È invece nelle condizioni di modifica al decreto contenute nel parere della Commissione

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Tornando all’analisi delle prassi devianti, c’è un’altra area del sistema delle mi-sure alternative nella quale è possibile individuare una vera e propria deviazione dal modello legale generata dalle elaborazioni fuorvianti del dettato normativo: l’affidamento in prova al servizio sociale per i c.d. «colletti bianchi».

Qui, le prassi devianti sono sicuramente espressione di quella seconda ten-denza interpretativa volta a rendere più aspre le prescrizioni indirizzate all’af-fidato e sono, nel contempo, rivelatrici anche della prima tendenza poco sopra illustrata.

Infatti, per la concessione e l’esecuzione della misura dell’affidamento in prova nei confronti di soggetti socialmente «iperintegrati», la giurisprudenza di merito ha da tempo adottato un orientamento molto restrittivo51, imponendo non solo prescrizioni più rigorose o di maggior contenuto afflittivo di quelle previste dalla legge (art. 47 commi 5, 6 e 7 ord. penit.), ma anche individuando particolari e più pregnanti criteri valutativi di applicazione.

Soprattutto negli anni delle inchieste per reati di corruzione politico-imprendi-toriale, note con il nome di “Tangentopoli”, il Tribunale di sorveglianza di Milano ha stabilito peculiari requisiti per l’accesso all’affidamento: la completa resipiscen-za, fondata sul distacco dalle precedenti scelte devianti, il risarcimento del danno, lo svolgimento di attività lavorativa diversa da quella precedente, le attività di vo-lontariato e di impegno sociale, dirette a dare valore compensativo ai danni provo-cati dal reato52. Qui è emerso un grave scivolamento all’indietro della valutazione del comportamento del condannato dal momento dell’esito della prova a quello iniziale della concessione della misura. Infatti, nessuno di questi quattro requisiti è enunciato dalle disposizioni legislative come presupposto per l’adozione del prov-vedimento (art. 47 comma 2 ord. penit.): l’aver stabilito ciò, arbitrariamente, in via giurisprudenziale ha significato non rispettare il canone di legalità di cui all’art. 13 comma 2 Cost.

La stessa Corte di cassazione è intervenuta, a suo tempo, per dare dei corret-tivi alla impostazione seguita dai giudici milanesi: sulla premessa per cui ai fini dell’affidamento in prova non è richiesto un giudizio di completa rieducazione del condannato, in presenza del quale non avrebbe ragione di applicarsi alcuna pena, da considerarsi, altrimenti, costituzionalmente illegittima (art. 27 comma 3 Cost.), si sono esclusi dall’ambito dei presupposti della misura i tre requisiti della

Senato, che sul punto richiede la soppressione dell’intero comma 1.1.1 dell’art. 47-ter ord. penit., introdotto dall’art. 15 comma 1 lett. a), n. 3) dello schema.

51 I precedenti in materia risalgono al famoso «caso Lockeed»: Trib. Roma, Sez. sorv., 23 agosto

1979, Tanassi, in Cass. pen., 1979, 1626, con nota critica di V. zagreBelSky; Trib. Roma, Sez. sorv., 23

agosto 1979, O. Lefébvre D’Ovidio, in Cass. pen., 1979, 1632; Trib. Roma, Sez. sorv., 23 agosto 1979, A. Lefébvre D’Ovidio, ivi, 1979, 1637.

52 Trib. Sorv. Milano, 23 luglio 1997, Cusani, in Foro it., 1998, II, 31; Trib. Sorv. Milano, 23 luglio

1997, Gorrini, ivi, 1998, II, 32; Trib. Sorv. Milano, 29 maggio 1997, Tassan Din, ivi, 1998, II, 33; Trib. Sorv. Milano, 3 aprile 1997, Pillitteri, ivi, 1998, II, 33. V., inoltre, Trib. Sorv. Milano, 4 marzo 1998, Schemmari, 1998, in Foro ambr., 1999, 83; Trib. Sorv. Milano, 11 febbraio 1998, Ligresti, in Quest.

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resipiscenza, del risarcimento del danno e del cambiamento di attività lavorativa. Si è mantenuto, invece, il parametro dell’attività compensativa di tipo solidaristico, non – si badi – come condizione di applicabilità, bensì come prescrizione rivolta a questa particolare tipologia di condannati, per i quali è necessario – secondo la giurisprudenza di legittimità – disporre regole di condotta particolarmente incisive o afflittive anche sotto il profilo della prevenzione del pericolo di recidiva53.

È questo un passaggio nevralgico: oltre a porsi in contraddizione con se stessa, cioè con altre pronunce di segno contrario54, la Corte di cassazione si è posta al di fuori del principio di legalità, poiché la previsione normativa richiede un impegno da parte del condannato di «adoper[arsi] in quanto possibile in favore della vit-tima del suo reato» (art. 47 comma 7 ord. penit.) e non in favore di indefiniti enti pubblici o privati diversi dalla persona offesa. E, come si è rilevato in dottrina, ope-ra un principio di stretta legalità delle prescrizioni, essendo queste da consideope-rarsi alla stregua di un numerus clausus55.

È chiaro come in questa esperienza applicativa così tormentata affiori la dif-ficoltà di adeguare questa misura, concepita in origine per soggetti socialmente emarginati, agli «white collars», però, finché non interviene il legislatore, non si possono riempire le disposizioni normative in tema di affidamento in prova di con-tenuti che veicolano una maggiore e ingiustificata afflittività nella esecuzione della pena. L’inclusione delle attività di volontariato o di generica solidarietà sociale tra le prescrizioni imposte all’affidato – senza altre specificazioni di sorta ricondu-cibili a finalità trattamentali e rieducative – fa emergere una fisionomia distorta dell’affidamento in prova, piegato, nella sua realtà operativa, a finalità espiative e compensatorie e, dunque, utilizzato in funzione retributiva e non più in funzione risocializzante56.

La disapplicazione giurisprudenziale delle norme si è oltremodo accentuata anche successivamente alle vicende di «mani pulite», soprattutto in seno alla ma-gistratura di sorveglianza, la quale, se in un primo momento sembrava volersi

al-53 Cass., Sez. I, 5 febbraio 1998, Cusani, in Foro it., 1998, II, 513 ss., da cui sono tratti anche i

riferimenti immediatamente precedenti nel testo. In senso conforme, Cass., Sez. I, 10 gennaio 2002, Bissoli, in Cass. pen., 2003, 2039; Cass., Sez. I, 10 luglio 1998, Schemmari, in Foro ambr., 1999, 84; Cass., Sez. I, 9 dicembre 1997, Armanini, in Giust. pen., 1998, II, 575.

54 Per una chiara negazione della possibilità per il giudice di stabilire prescrizioni contrarie alla

legge e di immotivata afflittività, Cass., Sez. I, 7 Aprile 1998, Girardo, in Cass. pen., 2000, 1421 ss.; v., successivamente, Cass., Sez. I, 23 novembre 2001, Contin, in Cass. pen., 2003, 2039 ss., secondo cui è illegittima la prescrizione che imponga all’affidato attività di generica utilità sociale, in favore di enti o soggetti diversi dalla persona offesa.

55 F. della CaSa, voce Misure alternative alla detenzione, cit., 834. Sulla stessa linea, P. ComuCCi,

In tema di affidamento in prova, «colletti bianchi» e obbligo di risarcimento del danno, in Foro ambr.,

2001, 282.

56 Sul punto, F. alBano, Affidamento in prova con «funzione retributiva»: un binomio possibile?,

in Rass. penit. e crim., 2007, n. 3, 126; F. della CaSa, Affidamento al servizio sociale o pura e semplice

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lineare ai moniti dei giudici di legittimità57, è poi ritornata sui suoi passi, negando l’idoneità dell’affidamento a realizzare finalità rieducative e preventive, ove manchi

ab initio una revisione critica del passato58. I termini del problema risultano nuo-vamente spostati dal momento della verifica circa l’esito della prova a quello della valutazione delle condizioni di applicabilità59.

In definitiva, si è creato, in materia di affidamento in prova per i «colletti bian-chi», un microsistema di diritto giurisprudenziale soggetto a oscillazioni e, comun-que, contra legem.

Di questa applicazione distorta si trova conferma nel più recente provvedi-mento adottato nei confronti di Silvio Berlusconi, emblematico delle prassi inte-se a dare rilievo ad obiettivi solidaristici e restitutori60. Le modalità di esecuzione della misura sono consistite principalmente in attività di volontariato a favore di persone anziane e disagiate: questa tipologia di prescrizioni è frutto di una inter-pretazione in malam partem delle disposizioni legislative. Il profilo risarcitorio e riparativo, nel quadro di un giudizio personalizzato del comportamento del condannato, continua, peraltro, ad essere un punto controverso nella giurispru-denza più recente61.

Le prassi devianti qui richiamate in tema di affidamento in prova per i «colletti bianchi» hanno sicuramente influenzato le scelte del legislatore delegato, il quale le ha estese alla generalità dei condannati.

Lo schema di decreto si ispira al filone della giurisprudenza di legittimità sopra ricordato, piuttosto che a quello della magistratura di sorveglianza, per cui le quat-tro prerogative della resipiscenza, del risarcimento del danno, dello svolgimento di attività lavorativa e della prestazione di attività di volontariato e di utilità socia-le non vengono recepite come condizioni per la concessione della misura, bensì come prescrizioni rivolte all’affidato. L’obiettivo è quello di arricchire e di rendere adattabili i contenuti della misura anche ai soggetti iperintegrati, rispetto ai quali

57 Trib. Sorv. Milano, 6 ottobre 1999, Forlani, in Quest. giust., 2000, n. 1, 190. 58 Trib. Sorv. Milano, 10 febbraio 2000, Curtò, in Quest. giust., 2000, n. 4, 797.

59 In senso critico, con diverse sfumature: v. F. Pironti, Misure alternative e «colletti bianchi».

Il Tribunale di Sorveglianza di Milano insiste, in Quest. giust., 2000, n. 4, 794 ss.; M. tirelli,

“Colletti bianchi” e affidamento in prova: verso una nuova concezione?, ivi, 2000, n. 1, 187 ss. V.,

altresì, P. ComuCCi, In tema di affidamento in prova, «colletti bianchi» e obbligo di risarcimento

del danno, cit., 278 ss.; G. la greCa, «Colletti bianchi» e benefici penitenziari, in Foro it., 1998,

II, 34 ss.

60 Trib. Sorv. Milano, 10 aprile 2014, Berlusconi, in Foro it., 2014, II, 349.

61 La giurisprudenza di merito, al riguardo, ostenta prevalentemente un indirizzo rigoristico

(Trib. Sorv. Torino, 22 febbraio 2012, D.G., in Riv. pen., 2012, 902; Trib. Sorv. Trieste, 15 giugno 2009, F.C., in Giur. merito, 2011, 783, con nota di F. Fiorentin, Criminalità dei «colletti bianchi» e

af-fidamento in prova al servizio sociale, ivi, 790 ss.), mitigato dall’orientamento consolidato della Corte

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la valenza riabilitativa dei comandi attualmente enumerati dalla legge risulta del tutto inadeguata62.

Si interviene sul testo dell’art. 47 comma 5 ord. penit., che nella sua nuova formulazione contempla un ricco e articolato elenco di prescrizioni che devono o possono essere inserite nel verbale da redigere all’atto dell’affidamento. Tra quel-le obbligatorie, è previsto «l’adoperarsi, anche attraverso l’assunzione di specifici impegni, a elidere o attenuare le conseguenze del reato» (art. 47 comma 5 lett. g) ord. penit.): si richiede dunque al condannato un autentico ravvedimento operoso. Rimane invariata la disposizione che concerne «l’adoperarsi in quanto possibile in favore della vittima» (lett. h), annoverata tra le prescrizioni necessarie. Entrano invece a far parte della disciplina in via di approvazione, quali comportamenti da prescriversi a discrezione del giudice, tanto «la prestazione di attività anche a titolo gratuito per l’esecuzione di progetti di pubblica utilità in favore della collettività» (lett. i), quanto il «coinvolgimento dell’affidato in percorsi di giustizia riparativa», sempre che «gli interessati abbiano manifestato la propria disponibilità» (art. 47 comma 6 ord. penit.). Del resto, la prospettiva di una valorizzazione della

restora-tive justice è stata espressamente coltivata dai conditores della legge delega n. 103

del 2017 (art. 1 comma 85 lett. f).

Nello schema di decreto legislativo vi è, peraltro, un dato normativo che si rive-la di non poca importanza sul piano interpretativo: non va infatti sottaciuto il rife-rimento alla esigenza di individualizzazione del trattamento rieducativo, esigenza della quale il giudice di sorveglianza deve tener conto nel redigere il verbale di affidamento in prova (art. 47 comma 5 ord. penit.). Emerge, perciò, dalla riforma una configurazione finalistica dell’istituto diversa da quella – espiativa e retribu-tiva – sottesa alle prassi devianti sopra menzionate e orientata a individuare, per il condannato sottoposto alla misura, percorsi efficaci di responsabilizzazione e di reinserimento nella società63.

3.1. Le prassi virtuose

La giurisprudenza ha elaborato anche orientamenti in senso garantistico, im-prontati al principio del finalismo rieducativo della pena, ma che vanno al di là del dettato letterale della norma: sono le c.d. prassi virtuose. Spesso si tratta di soluzio-ni interpretative “forti” delle garanzie fondamentali e, in particolare, delle finalità costituzionali della pena, ovvero di soluzioni che si pongono in linea con sentenze additive o manipolative della Corte costituzionale in materia penitenziaria.

A questo riguardo, può risultare di qualche interesse una indagine attinente al particolare tema della “doppia sospensione” dell’ordine di esecuzione della pena detentiva non superiore a diciotto mesi. Nella prassi si è infatti prospettato un pro-blema di coordinamento tra la sospensione della esecuzione della pena disciplinata dall’art. 656 comma 5 c.p.p. e la sospensione stabilita dall’art. 1, l. 26 novembre

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2010, n. 199 (e successive modificazioni). Qui, la giurisprudenza ha adottato una interpretazione in bonam partem di una disposizione processuale non univoca, in quanto non sufficientemente determinata nei casi e nei modi della sua applicazio-ne.

La norma in questione è precisamente l’art. 1 comma 3 della cosiddetta legge “svuota-carceri” del 2010, per il quale l’esecuzione dell’ordine di carcerazione di una pena detentiva non superiore a diciotto mesi è sospesa dal pubblico ministero, per consentirne l’esecuzione presso il domicilio, «salvo che [il pubblico ministero] debba emettere il decreto di sospensione di cui al comma 5 dell’art. 656 c.p.p.». La clausola di salvezza è stata intesa – secondo l’interpretazione giurisprudenziale estensiva – come clausola di priorità (per la fruizione di misure più favorevoli al condannato), senza effetto preclusivo della successiva sospensione “speciale” pre-vista dalla legge del 2010, che, dunque, è stata ritenuta applicabile anche quando la norma codicistica non possa in concreto operare perché il meccanismo ivi con-templato sia già stato infruttuosamente impiegato, in conseguenza della dichiara-zione di inammissibilità della istanza di misura alternativa da parte del tribunale di sorveglianza ovvero a seguito di mancata richiesta del condannato entro il termine di trenta giorni64.

È quanto accaduto nel “caso Sallusti”. Con Decreto della Procura di Milano del 26 novembre 2012, è stata disposta una nuova sospensione della esecuzione dell’ordine di carcerazione emesso nei confronti del giornalista Alessandro Sallu-sti, il quale aveva volutamente lasciato decorrere il termine dei trenta giorni senza presentare l’istanza per la concessione di una misura alternativa65. Nel consentire l’applicazione cumulativa dei due meccanismi sospensivi, la Procura milanese ha adottato una soluzione esegetica dell’art. 1 comma 3, l. n. 199 del 2010 che si pro-spettava non solo come il risultato di una interpretazione sistematica aderente alla

ratio della legge c.d. “svuota-carceri”, ma anche come interpretazione

costituzio-nalmente orientata66.

Più di recente, nella giurisprudenza di legittimità è prevalso l’orientamento ga-rantistico e possibilista, nella direzione di una più ampia utilizzazione del beneficio

64 Cass., Sez. I, 11 gennaio 2012, Sanzo, in CED Cass., n. 253333, per la quale la seconda

sospen-sione è applicabile anche nell’ipotesi in cui l’istanza dell’interessato sia stata respinta. Per un indirizzo intermedio, v. Cass., Sez. I, 3 ottobre 2012, Fazio, in CED Cass., n. 253973, che ha escluso la possibi-lità di una ulteriore sospensione soltanto nel caso di rigetto della richiesta.

65 Proc. Rep. Milano, decr. 26 novembre 2012, Sallusti, in Dir. pen. cont., 5 dicembre 2012.

Successivamente, il Magistrato di sorveglianza di Milano, accogliendo la richiesta del pubblico ministero, ha applicato al direttore del quotidiano il Giornale la misura della esecuzione della pena presso il suo domicilio. V., inoltre, la Circolare della Procura della Repubblica di Milano del 6 dicembre 2012, sui «Criteri applicativi della legge n. 199 del 2010», in Dir. pen. cont., 7 dicembre 2012.

66 In questi termini, Proc. Rep. Milano, decr. 26 novembre 2012, Sallusti, cit., 3. Contra, per

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della esecuzione della pena presso il domicilio67. La tesi dell’ammissibilità di una seconda sospensione dell’ordine di esecuzione si sta dunque facendo sempre più largo non solo nella pratica quotidiana delle Procure della Repubblica, ma anche nelle decisioni della prima Sezione della Corte di cassazione, determinando sul punto un superamento della instabilità del sistema68.

Peraltro, dopo un anno dalla entrata in vigore del decreto legislativo sulla rifor-ma penitenziaria (sempre che venga erifor-manato il relativo scherifor-ma), il problerifor-ma inter-pretativo non avrebbe più ragione di porsi, stante la previsione della abrogazione dell’art. 1, l. n. 199 del 2010 e, cioè, dell’istituto della esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori a diciotto mesi.

Quanto alle influenze delle prassi virtuose sulle scelte del legislatore del 2018, è probabile che la previsione volta ad allineare il meccanismo di sospen-sione dell’ordine di esecuzione al limite di pena massima che consente l’accesso all’affidamento in prova allargato sia da ricondursi – oltre che, naturalmente, a una valutazione di opportunità – alla volontà di superare le incertezze inter-pretative createsi in presenza del “vecchio” testo dell’art. 656 comma 5 c.p.p.69, ora modificato a seguito della sentenza manipolativa n. 41 del 2018 della Corte costituzionale70.

67 Cass., Sez. I, 9 dicembre 2014, Paris, in Guida dir., 2015, n. 12, 83; Cass., Sez. I, 9 dicembre

2014, Vullo, in Cass. pen., 2015, 3696. Per un commento alle due sentenze, v. A. della Bella, Un

revirement della Cassazione in tema di doppia sospensione dell’ordine di esecuzione, in Dir. pen. cont., 10 febbraio 2015.

68 Il nuovo assetto giurisprudenziale è, peraltro, un risultato che scaturisce anche dal contributo

offerto dalla dottrina e al quale le sentenze “gemelle” del 2014 hanno fatto esplicito riferimento: la dottrina richiamata dal redattore si può identificare in G. romeo, Osservazioni, in Dir. pen. cont., 17

dicembre 2012, nel contesto di un dibattito con A. SPataro, ivi, 15 dicembre 2012.

69 La Corte di cassazione, infatti, al di là del dato formale, ha proposto una interpretazione

costituzionalmente orientata dell’art. 656 comma 5 c.p.p., stabilendo che «il limite edittale non è quello di tre anni, ma di una pena da espiare, anche residua, non superiore a quattro anni»: Cass., Sez. I, 31 maggio 2016, Fanini, in CED Cass., n. 270007; Cass., Sez. I, 4 marzo 2016, Trani, ivi, n. 267605; analogamente, Trib. Milano, Sez. XI, 16 marzo 2017, in www.giurisprudenzapenale.com, 2017, 4. Contra, Cass., Sez. I, 21 settembre 2017, Gjini, in CED Cass., n. 270923. Sul punto, in senso fermamente critico, F. CaPrioli, Il Giudice e la legge processuale: il paradigma rovesciato, ne

L’ind. pen., 2017, 974. In dottrina, v., tra gli altri, P. Corvi, Venti di riforma sull’esecuzione penale,

cit., 595; F. Fiorentin, La delega di riforma in materia di esecuzione penitenziaria, cit., 424; C. Fio -rio, Art. 1, comma 85, Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento

penitenziario, in Codice di procedura penale commentato, a cura di A. Giarda-G. Spangher, Tomo

III, 5ª ed., Milano, 2017, 3547; E.N. la roCCa, Lo schema di decreto legislativo, cit., 21; P. maggio,

La delega in materia penitenziaria, in Arch. n. proc. pen., 2017, 70; M. Palma, L’affidamento in prova

al servizio sociale: la “terra di mezzo” tra il nuovo art. 47, comma 3-bis, ord. penit. e il vecchio art. 656, comma 5, c.p.p., in Cass. pen., 2017, 2891.

70 Corte cost., 2 marzo 2018, n. 41, cit., la quale si è pronunciata sulla questione di legittimità

costituzionale sollevata dal G.i.p. del Tribunale di Lecce (Trib. Lecce, 13 marzo 2017, in

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4. La destrutturazione. Dalla logica rieducativa a quella deflattiva: mutamento della fisionomia delle misure alternative e discrezionalità degradata

Le antinomie interne e le disorganicità create dal legislatore penitenziario nell’o-riginario ordito normativo delle misure alternative sono fattori che hanno portato alla disgregazione del sistema in maniera ancora più accentuata e determinante di quanto non sia avvenuto ad opera del formante giurisprudenziale. La crisi di iden-tità delle misure alternative alla detenzione nasce dal progressivo mutamento della fisionomia e dei tratti distintivi dei singoli istituti ivi racchiusi, i quali, da strumenti di attuazione della finalità rieducativa della pena, si sono trasformati, attraverso una lunga stratificazione normativa, in strumenti che operano alla stregua di san-zioni sostitutive della pena detentiva.

Si sono già ripercorse, in linea generale, alcune delle tappe del cammino legisla-tivo che – soprattutto a partire dal 1998, con la legge Simeone-Saraceni – ha por-tato alla incoerenza interna del sistema e alla caduta dell’idea di risocializzazione71.

La metamorfosi delle misure alternative è divenuta, però, ancora più evidente dal 2010 in poi, a seguito della legislazione emergenziale introdotta per porre rime-dio alla grave situazione di sovraffollamento delle carceri italiane.

Nel decreto legge 23 dicembre 2013, n. 146, convertito in l. 21 febbraio 2014, n. 10, ci sono, infatti, due istituti riconducibili alla categoria delle norme “intruse”: l’affidamento in prova c.d. “allargato” e la esecuzione presso il domicilio delle pene

detentive non superiori a diciotto mesi.

La modificazione apportata dalla legge del 2014 all’art. 47 ord. penit. attiene ovviamente all’affidamento in prova al servizio sociale, che nel corso degli anni ha subìto radicali trasformazioni72. Nella nuova ipotesi di affidamento in prova c.d. “allargato”, la soglia della pena detentiva, anche residua, per poter usufruire della misura è stata elevata a quattro anni. Non solo. L’art. 47 comma 3-bis ord. penit. prevede – come ulteriore presupposto di applicabilità – la valutazione positiva del comportamento serbato dal soggetto «quantomeno nell’anno precedente alla pre-sentazione della richiesta». È questo l’elemento di novità che differenzia la nuova fattispecie dalle precedenti a cui si affianca: la durata del periodo di osservazione personalistica si allunga fino a un anno, mentre normalmente, quantomeno in car-cere, l’osservazione è condotta per almeno un mese. Appare chiara la logica com-pensativa sottesa alla riforma: se si stabilisce un limite di pena più elevato di quello ordinario, occorre effettuare una indagine prolungata e attenta della personalità del condannato.

Riaffiora in modo evidente la funzione di controllo della pericolosità sociale, preposta a fare da contraltare alla dimensione indulgenziale della misura, costruita

71 V., supra, § 1.

72 Per un quadro complessivo della evoluzione dell’affidamento in prova, v. A. PreSutti, Sub art.

47, in F. della CaSa-G. gioStra, Ordinamento penitenziario commentato, a cura di F. Della Casa, 5ª

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