BIOGRAFIA DI PRIMO LEVI
Primo Levi nasce a Torino il 31 luglio 1919. Nel 1937 si iscrive alla Facoltà di Scienze all’università di Torino e si laurea in Chimica nel 1941 con il massimo dei voti. Dopo la laurea Levi si trasferisce per lavoro a Milano. Quando l’8 settembre 1943 cade il Fascismo, Primo Levi entra a far parte di una banda di partigiani, ma viene scoperto e poco tempo dopo viene arrestato. Durante l’interrogatorio è costretto ad ammettere di essere ebreo e non partigiano, per evitare di essere fucilato all’istante. Viene dunque internato nel campo di concentramento di Fossoli, vicino a Modena, per 5 mesi. Nel 1944 la gestione del campo passa nelle mani dei tedeschi, i quali decidono di trasferire gli internati ad Auschwitz. Levi arriva ad Auschwitz nel febbraio del 1944 e viene internato nel campo di Buna-Monovitz (Auschwitz III), dove i nazisti stavano realizzando un grosso impianto industriale per produrre la gomma sintetica. Dopo i primi mesi di duro lavoro all’aperto (e al freddo), la sua laurea in chimica gli salverà la vita, perché viene selezionato per lavorare in laboratorio (quindi al chiuso e al caldo). Dopo un anno di prigionia, il 27 gennaio 1945 arrivano le truppe sovietiche a liberare gli internati di Auschwitz.
L’esperienza del lager verrà riportato nell’opera più famosa dello scrittore, il romanzo “Se questo è un uomo”. Il 19 ottobre 1945 ritorna a Torino. Diventa in poco tempo direttore dell’industria di vernici Siva e contemporaneamente scrive.
Tra il 1946 e il 1947 scrive “Se questo è un uomo”, che verrà però pubblicato dalla piccola casa editrice De Silva. Levi però nel 1958 riuscirà a convincere Einaudi a pubblicare l’opera, che diventerà un best-seller mondiale. Muore suicida a Torino l’11 aprile 1987.
Se questo è un uomo
Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo che lavora nel fango
che non conosce pace che lotta per mezzo pane che muore per un si o per un no.
Considerate se questa è una donna, senza capelli e senza nome senza più forza di ricordare vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa, la malattia vi impedisca, i vostri nati torcano il viso da voi.
Levi in questa poesia esprime il suo odio e il suo disprezzo nei confronti della deportazione nel lager e la durissima vita (trattati come schiavi) imposta dai nazisti agli ebrei.
La sua poesia si può dividere in tre parti.
Nella prima comincia nominando le persone a cui sono dirette le sue parole e cioè a noi che siamo sicuri nelle nostre case tiepide e che una volta tornati a casa troviamo il cibo caldo in tavola e le persone amiche o i familiari.
Ci invita poi a riflettere chiedendo se si può considerare un uomo una persona che lavora nel fango, che non conosce un attimo di tregua, che lotta ogni giorno per un pezzo di pane e la cui vita è sospesa tra un semplice sì o di un semplice No.
Lo stesso paragone lo fa poi per una donna; chiede se così si può considerare una persona senza capelli, senza nome, senza più neanche la forza di ricordare, con gli occhi vuoti, senza espressione e che non più procreare, sia per le condizioni fisiche che per la poca voglia e paragona questa donna ad una rana d’inverno.
Chiede poi di pensare a quello che accaduto e comanda di imprimere queste parole nel cuore e di ripeterle in ogni momento ai figli.
A questo punto, vi è la parte più cruda, in cui Primo Levi lancia una
“maledizione”: scrive che se queste parole non fossero state tramandate ai figli, sarebbe crollata la casa, sarebbe arrivata la malattia, e i figli avrebbero storto il viso ogni volta che ci guarderanno.