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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA

FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA

DIPARTIMENTO DI SCIENZE DEL MONDO ANTICO

CORSO DI LAUREA IN LETTERE

Tesi di laurea

SOGNI NELLA TRAGEDIA

Relatore: Ch.mo Prof. Davide Susanetti

Laureanda: Filomena Tolfa Matr. n. 404083 / LT

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(3)

INDICE

Premesse

Capitolo Primo

Sogno: Coefore e Persiani

1. Le Coefore.

2. Il sogno, vv. 523-539.

2.1. Chi racconta il sogno a che punto dell’intreccio drammaturgico.

2.1. Oggetto del sogno.

2.3. Funzione drammaturgica del sogno. 3. I Persiani.

4. Il sogno, vv. 176-200.

4.1. Chi racconta il sogno e a che punto dell’intreccio drammaturgico.

4.1. Oggetto del sogno.

4.2. Funzione drammaturgica del sogno.

Capitolo Secondo

Euripide: Ifigenia in Tauride ed Ecuba.

1. Ifigenia in Tauride. 2. Il sogno, vv.42-55.

2.1 Chi racconta il sogno a che punto dell’intreccio drammaturgico.

2.2 Oggetto del sogno.

2.3 Funzione drammaturgica del sogno. 3. Ecuba.

4. Il sogno, vv. 68-91.

4.1 Chi racconta il sogno e a che punto dell’intreccio drammaturgico.

4.3 Oggetto del sogno.

4.3 Funzione drammaturgica del sogno.

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Capitolo Terzo Sofocle: Elettra

1. Elettra.

2. Il sogno, vv. 417-425.

2.1 Chi racconta il sogno e a che punto dell’intreccio drammaturgico.

2.2 Oggetto del sogno.

2.3 Funzione drammaturgica del sogno.

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Premesse.

Il sogno, nella sua sfuggente complessità e vasta gamma di manifestazioni ha interessato molti degli scrittori antichi che di esso o di qualche suo aspetto particolare si sono occupati sotto diverse prospettive e con finalità varie.

A differenza di quanto avviene oggi, il fenomeno onirico non era legato alla sfera individuale né dal punto di vista neuro-fisiologico né dal punto di vista dell’analisi freudiana dei contenuti mnestici.

Il sogno, infatti, in alcune rappresentazioni arrivava ad essere un personaggio vero e proprio raffigurato da un giovane dotato di ali e di un corno, tramite il quale versava i sogni nelle menti degli uomini addormentati.

Accanto a questi sogni si colloca il cosiddetto “sogno oggettivo”(Dodds) o “esterno”: un’entità dotata di una personale autonomia e concretezza, immaginata svolgersi non nella psiche del dormiente, ma in uno spazio fisico reale.

È un’esperienza strettamente legata alla vista: è un’immagine, variamente definita, che colpisce i sensi del dormiente; è, inoltre, direttamente coinvolto nella sfera del pensiero, rispetto al quale rappresenta un’esperienza alternativa pur partecipando del medesimo processo di formazione: come il pensiero infatti, il sogno è percezione, tant’è che nel riportare l’esperienza onirica, gli autori greci non usano mai le espressioni familiari ai moderni, “fare” o “avere sogni” ma sempre “vedere”: o1nar

i9dei~n.

Il sogno colto prevalentemente nel suo aspetto visivo, si configura sempre come un’apparizione o una manifestazione.

In gran parte delle occorrenze omeriche il sogno non è altro che un messaggero della divinità. L’affinità ad episodi che vedono protagonisti Iris o Hermes ribadiscono il ruolo che il sogno è chiamato a svolgere: comunicare al dormiente la volontà o le decisioni degli dei contribuendo allo stesso tempo a motivare le scelte e le azioni del personaggio e a definirne il carattere.

L’origine sovrumana del sogno inoltre faceva sì che ad esso venisse attribuita un’importanza notevole e fosse sempre considerato con timore e rispetto.

L’attendibilità del messaggio, vale a dire la certezza della provenienza divina di esso, era connaturata al carattere oggettivo del sogno, tale oggettività viene portata alle estreme conseguenze da Erodoto; nell’imminenza della spedizione contro la Grecia, a Serse si era presentato un sogno che lo invitava per due volte di seguito a non desistere dall’impresa mentre il suo consigliere Artabano si dichiarava sfavorevole alla spedizione(Her. VII 12-15).

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sostanzialmente identico, a più di una persona. Come afferma in seguito Artabano: “se continuerà a venire nuovamente, direi anch’io che è di natura divina”(Her. VII 16).

Nella Teogonia di Esiodo la schiera dei Sogni è ricordata insieme agli esseri divini che Notte aveva generato da sola e che appaiono associati alla sfera dell’al di là, alla morte e in genere al mondo precosmico. La schiera dei Sogni(fu~lon

'Onei/rwn)figura in un unico verso insieme con Thanatos e Hypnos(v. 212). Va

sottolineato come questi esseri siano generati da Notte senza il concorso di un’entità maschile(v. 213). Un “paese dei Sogni” figura nell’Odissea(XXIV, 11-13)quando Hermes guida le anime dei pretendenti nell’Ade, esse giungono alle rive di Oceano, alla pietra di Leucade, alle porte del Sole e alla terra dei Sogni. Qui è anche la sede delle anime, immagini dei morti: il paese dei sogni è chiaramente collocato ai confini della terra, alle soglie dell’al di là.

Anche Odisseo, quando si reca ad interrogare Tiresia, giunge ai confini del mondo, alle correnti di Oceano, dove risiede il popolo dei Cimmeri, avvolto da vapori e da nubi(Od. XI 13-15), i raggi del sole non penetrano mai in questa terra, né all’alba, né al tramonto; su di essi si stende la notte funesta. I Cimmeri, in opposizione agli abitanti dei paesi del Sole, sono qui espressione del regno di Notte. Come la terra dei sogni quella dei Cimmeri è collocata ai confini della terra tra il mondo degli uomini e l’al di là, all’imboccatura dell’oltretomba.

Nella Teogonia il rapporto del sogno con l’ordine precosmico, con un mondo cioè non ancora retto dalle leggi divine, viene espresso anche per via genealogica: i sogni sono figli di Notte, di una potenza oscura che si colloca all’inizio del divenire cosmico, precedente nel tempo il mondo attuale governato dagli dei e quindi relativamente autonoma rispetto ad esso. L’intervento della divinità in questa sfera è costantemente accompagnato da un successo parziale. Disciplinando queste forze e armonizzandole con il nuovo ordine, l’intervento divino ne avrebbe reso la presenza accettabile all’uomo e per certi versi anche utile.

Il sogno non rientrava per i greci nella medesima sfera della normalità, quella dei desti, nella quale opera l’uomo e che presuppone l’esistenza di un kosmos divino, ma, associato allo stato di sonno della persona il sogno diveniva espressione di attività esercitate in una condizione di alterazione del soggetto, durante la quale esso non disponeva delle sue normali capacità. Molti dubbi si nutrivano infatti sul loro significato dal momento che spesso erano possibili interpretazioni diverse.

Accanto alla tradizione che presentava i sogni quali figli di Notte, ne esisteva una parallela che li diceva figli della Terra.

In uno stasimo della Ifigenia in Tauride è narrato un notevole episodio della lotta tra Apollo e la Terra(Chthon)per la sovranità sull’oracolo delfico(Eur. If.t.vv.1259-82). Quando Apollo prese possesso dell’oracolo spodestandone Themis, Chthon generò i sogni che svelavano all’uomo nel sonno gli eventi passati, presenti e futuri(vv.1261-65).

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Apollo, vistosi privato degli onori ormai acquisiti, si recò sull’Olimpo da Zeus perché questi “togliesse dall’oracolo pizio l’ira della dea”(v.1273).

Zeus decise allora di far cessare le “voci notturne” e di restituire gli onori ad Apollo. Il racconto è importante per varie ragioni, qui è narrato infatti non solo un episodio della lotta per la signoria di Delfi ma anche il potere giurisdizionale di Chthon sui sogni: essa mantiene, nei confronti delle divinità olimpiche un comportamento di relativa autonomia. Nel caso specifico essendo Apollo divenuto il nuovo signore di Delfi dopo aver spodestato Themis, che è figlia di Chthon, essa non si adatta alla situazione e preferisce generare nuovi esseri, i sogni, piuttosto che cedere la signoria ad Apollo, e trasferisce quindi ad essi le sue facoltà oracolari. In questo modo essa mantiene il pieno controllo dell’oracolo dal momento che i sogni sono sue dirette emanazioni(come già avveniva in Esiodo, i sogni erano verosimilmente generati senza la cooperazione maschile).

Questo evento certamente rileva una crisi nell’ambito dei profondi mutamenti cosmici che precedettero l’avvento del nuovo ordine ma fu anche conflitto di dimensioni modeste dal momento che vedeva coinvolti soltanto Apollo e Chthon e interessava il controllo di un unico, per quanto notevole, centro oracolare. Alla disputa pone rimedio Zeus stesso che fa cessare le “voci notturne” e ristabilisce le condizioni createsi con l’avvento di Apollo. I sogni appaiono in questo luogo come l’ultimo mezzo di cui dispone la Terra per scuotere la nuova sovranità olimpica. È possibile che in età più antica una divinazione attraverso il sogno di tipo incubatoio, svolgesse a Delfi un ruolo di rilievo.

In ogni caso i nuovi signori del cosmo si rivelano in questa circostanza forti e il tentativo fallisce. Della rappresentazione tradizionale del sogno appare qui valorizzato il ruolo eversivo da esso svolto. D’altra parte i rappresentanti del nuovo ordine, per aspirare ad una sovranità duratura, devono non solo imporsi alle più antiche potenze dell’universo che dominavano il mondo prima del loro avvento, ma anche disporre di una forza bastante a scoraggiare ulteriori pretendenti.

I sogni, in quanto espressione di forze ancestrali, rappresentano una possibilità di crisi e di latente instabilità del sistema.

In condizione di normalità il rapporto tra l’uomo e le fonti prime della conoscenza, di cui le divinità preolimpiche sono depositarie, sono ormai regolati dalla mediazione divina. Ciò risulta chiaramente dal Coro euripideo: la Terra, per vendicare la figlia Themis, sottrae l’onore dell’oracolo ad Apollo(vv.1267-69).

Essa continua ad essere cioè la vera depositaria della conoscenza oracolare, anche se, con la venuta del dio, non può disporne liberamente come in passato. Probabilmente anche per questa ragione la conoscenza che si assumeva direttamente attraverso il sogno, era destinata a svolgere in Grecia un ruolo subordinato rispetto a quella cui presiedevano ormai le nuove divinità olimpiche.

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caso prevale la caratterizzazione notturna o ctonia del sogno, che ritroviamo più chiaramente delineata nella Teogonia esiodea.

Quanto fin’ora si è detto sul sogno è, però, frutto degli studi raccolti nel saggio di Brillante, La rappresentazione del sogno nella Grecia antica, che si occupa di circoscrivere e di definire i significati che si riconoscevano al fenomeno onirico attraverso il confronto con altre esperienze umane avvertite come simili, il lavoro di tesi qui proposto tenta, invece, di affrontare il tema da un punto di vista letterario, lasciando da parte l’aspetto antropologico culturale e religioso del fatto reale dell’esperienza onirica, per dare spazio e attenzione al racconto che del sogno fa la letteratura nella sua declinazione precisa di teatro. Il sogno in letteratura esiste nel momento in cui viene raccontato; quello che resta del sogno sono le tracce del suo passaggio, i reperti archeologici della città antica e l’idea che di essa filtra nella città nuova.

Le tracce sono le parole in cui si traduce il racconto.

In letteratura il sogno è il sogno, il suo racconto e la frontiera che li separa, frontiera che non è più il limite in cui combaciano e si intersecano i confini, il luogo comune all’uno e all’altro, ma piuttosto ciò che manca ad entrambi.

In Lituraterre(1971)Lacan spiega infatti la frontiera con la metafora del litorale, vale a dire non tanto la linea che separa due territori e che occorre varcare per passare dall’uno all’altro, quanto il punto di impatto, d’urto, fra due domini inassimilabili l’uno all’altro quali possono essere la terra continentale e l’oceano.

Il sogno è tutto nell’ossimoro “visione notturna” poiché quanto è legato alla notte si contrappone al giorno e al sole in termini di luminosità quindi di visibilità e di esistenza e percettibilità di un oggetto o di una forma.

Lo sguardo emergente nel racconto del sogno è una linea di fuga, punto di rovesciamento dentro i limiti della rappresentazione tale che i limiti non racchiudono e non contengono ma soltanto costituiscono un bordo.

Il sogno in letteratura è una visione che non accoglie, mostra; è un simbolo una realtà che è più di se stessa, e che nei testi di cui ci occuperemo svanisce, si dissolve si compie proprio nel momento in cui trova una congruenza con il divenire dell’azione del dramma, pur mantenendo fino a quel punto un rapporto di dialogo con esso che si traduce in uno stato si suspense, di abbacinante mancamento e sottrazione di certezze che lo attraversa.

I sogni qui studiati sono quelli nati alla foce della produzione letteraria dell’Atene del V sec. a.C. e che confluiscono nel letto del teatro di quel secolo: si tratterà del sogno di Clitennestra nelle Coefore e nell’Elettra di Sofocle, del sogno di Atossa nei Persiani, di quello di Ifigenia nell’Ifegenia in Tauride e del sogno di Ecuba nell’omonima tragedia di Euripide.

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voce, quella del narratore, al racconto di più voci, quella dei personaggi quindi dei ruoli.

Nell’epica il narratore è onnipresente e onnisciente, può vedere non solo attraverso muri e porte, ma anche attraverso le menti, i cuori, le forze di dinamica interna che muovono le scelte dei personaggi non solo degli uomini ma anche delle divinità e del fato; è presente ad ogni azione entra in ogni pubblico consiglio, conosce ogni segreto dell’Olimpo.

Il congegno del sogno, quindi, viene da lui svelato.

Nella poesia didascalica il poeta parla in propria persona, dopo aver ricondotto alle Muse la fonte di legittimazione del suo sapere continua ad insegnare come un uomo che è in maggior o minore misura esperto della materia in cui si professa istruito. In questo tipo di letteratura che tende a rendere chiaro e trasmettere pensieri e insegnamenti manca l’uso dell’immaginazione che è il dispositivo alla base dell’azionamento del meccanismo-sogno.

Nella tragedia l’onnisciente narratore e il poeta precettore non compaiono ad informare sulla trama degli eventi, e la storia deve necessariamente essere raccontata attraverso l’azione scenica delle persone coinvolte nelle tribolazioni del dramma. Esse non hanno la capacità di penetrazione del poeta epico che è a conoscenza di tutto quanto accade in cielo e tra gli uomini. Né hanno il privilegio di spiegare al loro pubblico le cause o l’imbastitura drammaturgica dell’opera, come invece può fare il poeta che parla in propria persona.

Il campo di conoscenza di ciascun personaggio del dramma è limitato, come del resto la conoscenza delle persone nella vita reale, a supposizioni basate su un criterio di verisimiglianza e di probabilità.

Il sogno, quindi, passando attraverso vari generi assumerà per forza di cose forme differenti. Un demone del sogno mandato da Zeus non apparirà mai sulla scena. L’oggettività, la personalità del sogno corrisponderà, invece, alle esperienze e alla conoscenza del personaggio rappresentato dall’attore in scena. Raramente si troveranno le divinità parlare al pubblico dei loro piani sull’invio di demoni del sogno o di indistinti fantasmi o sulla loro stessa imminente apparizione ai mortali. Il drammaturgo per essere efficace nell’uso del sogno dovrà servirsi di un mezzo diverso che ne regolerà la materia, in sostanza identica, cambiandone la forma.

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di fronte a leggende epiche che lo contenevano ma anche quando in esse non era presente. Ad esempio, nei Persiani, il plot sebbene abbia uno sfondo storico, non ha alcuna pretesa di autenticità nella scelta dei dettagli e il sogno probabilmente confermava questa volontà dell’autore.

Eschilo fu probabilmente il primo drammaturgo ad impiegare con successo l’espediente del sogno, ne riconosce il carattere psicologico, la fonte fisica della manifestazione onirica come legata ad uno stato di esclusiva passività e recettività mentale del soggetto, ma in generale la sua scelta artistica è votata alla concezione del sogno che pone la sua origine all’esterno della mente del sognatore, e che gli deriva dall’epica e dai racconti mitici.

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CAPITOLO I

Eschilo: Coefore e Persiani.

1. Le Coefore.

La scena è ambientata ad Argo, di fronte al palazzo degli Atridi. Oreste che era stato allontanato dalla città paterna e accolto in Focide da Strofio, amico di Agamennone, entra in scena con Pilade, figlio di colui che lo aveva ospitato. Eschilo non precisa quale intervallo di tempo sia trascorso tra la prima e la seconda tragedia ma è evidente che sono passati almeno sette anni, dal momento che Oreste, nato poco prima della partenza di Agamennone per Troia e allontanato da Argo poco prima della sua uccisione, adesso aveva sicuramente raggiunto i diciotto anni cioè l’efebia e con essa aveva, quindi, anche riconquistato il diritto di ritornare re e padrone della sua casa1.

I due si avvicinano alla tomba di Agamennone che domina la prima parte delle Coefore, qui Oreste, dopo aver ricevuto a Delfi da Apollo l’ordine di vendicare la morte di suo padre pone una ciocca di capelli della compiuta efebia2.

Frattanto, verso la tomba, si avanza un corteo di donne vestite di nero che portano libagioni(il Coro di Coefore ovvero portatrici di libagioni). Le conduce la sorella Elettra, da lontano in disparte Oreste la riconosce. Le donne, deportate come schiave ad Argo, entrano in scena salmodiando una nenia funebre, ma, quale il motivo: la notte precedente Clitennestra ebbe un sogno pauroso ed oscuro, che solo più tardi le sarà chiaro. Ma ora, subito, sente di dover placare l’anima del morto.

1PAULETTE GHIRON-BISTAGNE, Iconografia delle Coefore e problemi scenici, pag. 227 in Dioniso Istituto

Nazionale del Dramma Antico, Siracusa- volume XLVIII- annata 1977: “Il particolare più importante, nel vaso di Bari e nel vaso del Louvre è la figura del re ucciso sul trono. Dobbiamo notare che contrastando coll’immagine del re raffigurato con tutti gli accessori della sua potenza, i giovanotti sono nudi. Sui vasi attici anteriori, Oreste appare col vestito dell’oplite. La nudità degli eroi fa dimenticare, qui, la realia dello spettacolo. Tuttavia, il cappello, la clamide, le scarpe, bastano a caratterizzare Pilade e Oreste come viaggiatori(cf. Coef. 560 ss). Che significa questa nudità? La fedeltà del pittore alla tradizione plastica e pittorica che rappresenta gli eroi nudi? A differenza dei pittori dello stile severo, il nostro artista ha voluto rappresentare i giovanotti come efebi. Dobbiamo riferire allo studio tanto interessante di P. VIDAL-NAQUET sulla caccia e il sacrificio nell’Oresteia per capire tutta la differenza fra la rappresentazione dell’oplite e quella dell’efebo nudo. Abbiamo già notato che la composizione si svolge come una scena di caccia, attività che precede il passaggio allo stato dell’uomo adulto, soldato della città. La nudità caratterizza ugualmente gli atleti: Oreste è “l’atlete efedros” il campione di riserva, dal quale il coro aspetta la vittoria(Coef. 868). La rappresentazione dei giovani nudi corrisponde al pensiero profondo del poeta. Uccidere Egisto potrebbe sembrare lo scopo principale di Oreste. Difatto la sua missione è molto più complessa. Certo la morte di Egisto deve vendicare la morte di Agamennone. Ma questa morte si presenta anche come l’unica possibilità di rendere il trono ai suoi eredi legittimi”.

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“ La struttura del dramma, semplicissima, è già disegnata. Sono come due linee che si vengono incontro, una dalla casa del re e una dalla lontana Focide, condotte ambedue da un’unica volontà divina: la tomba di Agamennone è il punto di incontro”3.

Elettra si avvicina al sepolcro: non vuole fare le offerte, perché provengono dall’assassina del morto; pensa di spargerle a terra e chiede consiglio al Coro che le dice di pregare sia per Oreste sia perché qualcuno uccida gli assassini di suo padre. Proprio mentre sta pronunciando le invocazioni sulla tomba del padre, Elettra scorge una ciocca di capelli simili ai suoi e immediatamente, sospetta, sono del fratello. Ed ecco Oreste si fa avanti, e fratello e sorella finalmente si ritrovano: c’è un breve momento di felicità nell’incontro dei fratelli, che ormai sono una persona sola uniti dalla stessa volontà. “Così le fila del dramma si vengono annodando verso il loro centro, che è la vendetta ”4.

Sulla tomba di Agamennone si alza ora un lamento funebre, un grande corale a tre voci: alle voci del Coro si uniscono le invocazioni allo spirito di Agamennone pronunciate da Elettra e Oreste. E la tragedia si avvia ad essere “ il peana di vittoria che si sviluppa dalla trenodia del re ucciso… sono la vittoria del re morto”5.

Il pianto luttuoso di Oreste e Elettra si trasforma subito, sotto l’assillo continuo del Coro, in un appello appassionato perché gli assassini paghino per il loro gesto. Il delitto chiama il delitto, dichiara il coro rivolgendosi ad Oreste, anche se, immediatamente dopo, le donne piangono la sorte degli Atridi. Questi ripetuti contrasti di stati d’animo e di umore, sono alla base dello svolgimento delle Coefore e il coro vi ha largo peso. Gli interventi che il Coro, in un continuo crescendo, propone sono la cifra della sua capacità di giocare su effetti di contrasto.

Il canto cessa, i fratelli sono ancora davanti alla tomba, sordi all’infausto lamento delle Coefore; le donne raccontano ad Oreste del sogno di Clitennestra: partoriva un serpente, lo addormentava in fasce ma, al momento in cui lo allattava il serpente prendeva a succhiare dal suo seno latte misto a sangue. Oreste pensa e spera che il sogno sfoci in un evento reale.

Dopo il commo l’azione segue veloce, è ormai tarda sera e Oreste e Pilade vestiti da viaggiatori, si avvicinano alla reggia per annunciare a Clitennestra che Oreste è morto. Clitennestra accoglie in casa i due ospiti. Rientrano tutti tranne il Coro. Il primo provvedimento di Clitennestra è inviare un messaggio ad Egisto: che torni immediatamente e porti con sé un corpo di guardie armato. Arriva Egisto interroga le donne, il Coro dichiara di non conoscere i particolari e invita Egisto ad informarsi di persona. Il ritmo si accelera: Egisto entra nel palazzo. Si sentono urla dall’interno: Egisto muore e Clitennestra è in pericolo. “ I morti uccidono i vivi”6. Ecco il serpente che succhia il sangue dal suo seno: il sogno della regina non era che una premonizione, essere uccisa da colui che aveva tenuto in grembo. Clitennestra ordina che le sia data una scure, di fronte ha Oreste, gli mostra il seno, che ne abbia pudore,

3E

SCHILO, Le Coefore traduzione e commento critico di MANARA VALGIMIGLI , Bari Laterza 1926, pag. 103.

4

ESCHILO, Le Coefore introduzione e commento di M.VALGIMIGLI e M.V.GHEZZO, casa editrice G. D’ Anna, Messina 1947, pag. IX.

5M.V

ALGIMIGLI e M.V.GHEZZO, op. cit., pag. IX.

6

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Oreste è colto da esitazione ma Pilade gli ricorda il vaticinio di Apollo e le parole della Pizia: “ è meglio avere tutti contro ma non gli dei” e Clitennestra muore.

Uccisa la madre, il figlio è preso da furore di pazzia: e vede le Erinni vendicatrici “le cagne ringhiose del rancore materno”7 che lo perseguono e lo inseguono; fugge chiedendo aiuto al dio Apollo. È la terza tragedia per gli Atridi: la prima la compì Atreo padre di Agamennone, dando da mangiare al fratello Tieste i suoi stessi figli. La seconda fu l’uccisione di Agamennone. La terza è questa che colpisce Oreste8.

2. Il sogno, vv. 523-539.

Xo. oi]d', w} te/knon, parh~ ga&r: e1k t' o)neira&twn

kai\ nuktipla&gktwn deima&twn pepalme/nh

xoa_j e1pemye ta&sde du&sqeoj gunh&. (525)

Or. h} kai\ pe/pusqe tou1nar, w3st' o)rqw~j fra&sai; Xo. tekei=n dra&kont' e1docen, w(j au)th_ le/gei. Or. kai\ poi= teleuta|~ kai\ karanou~tai lo&goj; Xo. e0n sparga&noisi paido_j o(rmi/sai di/khn.

Or. ti/noj bora~j xrh|&zonta, neogene\j da&koj; (530) Xo. au)th_ prose/sxe masto_n e0n tw)nei/rati.

Or. kai\ pw~j a1trwton ou}qar h}n u(po_ stu&gouj; Xo. w3st' e0n ga&lakti qro&mbon ai3matoj spa&sai. Or. ou1toi ma&taion: a)ndro_j o1yanon pe/lei.

Xo. h( d' e0c u3pnou ke/klagen e0ptohme/nh. (535)

polloi\ d' a)nh|~qon, e0ktuflwqe/ntej sko&tw|, lampth~rej e0n do&moisi despoi/nhj xa&rin: pe/mpei d' e1peita ta&sde khdei/ouj xoa&j, a1koj tomai=on e0lpi/sasa phma&twn9

Coro

Lo so, figlio mio, perché c’ero: fu scossa da sogni e da terrori che fanno vagare nella notte, e mandò queste libagioni, la donna odiata dagli dei.

7mhtro&v e3gkotoi ku&nev”, v. 1054 Coefore, ESCHILO

8 Http://www.indafondazione.org/stagione/2008/coefore/appr_coefore.php 9

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Oreste

Ma sapete anche il sogno, da poterlo raccontare esattamente?

Coro

Le sembrò di aver partorito un serpente, come dice lei stessa…

Oreste

E dove mette capo alla fine il racconto?

Coro

…e che lo sistemasse nelle fasce come un bimbo.

Oreste

Che cibo voleva belva appena nata?

Coro

Lei stessa offrì il seno nel sogno.

Oreste

E come non fu ferita la mammella dal mostro?

Coro

Succhiò anzi nel latte un grumo di sangue.

Oreste

Non sarà certo vana questa visione.

Coro

E quella gridò nel sonno sconvolta, e molti bracieri accecati dal buio venivano accesi per la padrona nel palazzo. Mandò poi queste libagioni sepolcrali sperando di curare con un taglio i dolori.

2.1. Chi racconta il sogno e a che punto dell’intreccio drammaturgico.

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situazioni10; il soggetto che risponde alle domande non è coincidente con chi dal sogno è stato visitato e questo comporta, nell’esposizione del sogno, il passaggio alla terza persona e quindi una maggiore oggettività nel vestire l’indagine11. “Qui incomincia l’opera di pu/tesqai, che si concreta in un’ansia logica, propria di quel mondo apollineo incarnato ora da Oreste. Tutto questo breve discorso appare illuminato dall’impulso irresistibile che lo spinge a districare l’essenza delle cose oscure.”12

Oreste ha con sé la forza dell’oracolo di Delfi, esule è appena arrivato ad Argo, e si trova di fronte a quello che all’inizio, è un insieme confuso che avanza con lentezza grave, poi sono donne avvolte da grandi mantelli neri recanti offerte funebri e, finalmente, Coro: parlano, sono il primo interlocutore di Oreste, l’altro capo del filo. Dicono di sé che sono schiave di guerra, vennero in Argo portate via dalle loro case paterne(v. 76 sgg.)e dunque, vennero in Argo giovinette. Ma in un altro luogo(v.171), dicono anche che giovinette non sono più: e quindi non schiave Troiane, ma presenti nella casa fin da quando Agamennone partì per la spedizione di Troia; queste schiave di guerra sono parte della casa del re e, legate ed affezionate a questa casa da tempo, sono la rappresentazione mobile e viva della casa stessa: la casa non di Clitennestra ed Egisto, ma la vecchia casa del re ucciso13, un re magnifico e generoso di mite comando(v. 362)e quindi sono anche la casa del figlio di quel re, Oreste. Oreste non deve difendersi dal corteo delle ancelle con loro condivide un’intimità domestica e una familiarità resa ancora più significativa dalla presenza, tra le donne del Coro, della sorella di Oreste e figlia del re, Elettra e, se da un lato questa scelta abbassa Elettra al livello delle ancelle dall’altro, innalza le ancelle al livello di Elettra. Il risultato finale è che Elettra, il Coro e Oreste sono sullo stesso livello, uniti, dalla stessa parte; soltanto nell’incalzare di questa sticomitia, nel racconto del sogno, dopo la scena del riconoscimento e dopo il canto commatico per Agamennone dove le identità sono ancora distinte perché appena ritrovate, si raggiunge una cospirazione e un’unità focale di stati d’animo che non si ripete altrove nella tragedia che vive, invece, di contrasti dove il Coro gioca il ruolo fondamentale di contrappunto favorendo continui avvicendamenti e interferenze di stati d’animo: quando Elettra è indecisa, il Coro innalza una preghiera per perpetrare vendetta, quando Oreste ritrova e abbraccia la sorella, il Coro gli ricorda l’eredità che incombe, quando Oreste ed Elettra sono decisi a fare vendetta il Coro piange sugli Atridi; ma qui, in un’atmosfera quasi di miracolo14, gli eventi(il sogno di Clitennestra e l’oracolo di Apollo, il contemporaneo giungere delle donne portatrici di libami e di Oreste che aveva

10UMBERTO ALBINI, Compattezza nelle Coefore di Eschilo, in Dioniso Istituto Nazionale del Dramma Antico,

Siracusa- volume XLVIII- annata 1977: “Si è conosciuto un Oreste che rende onore al padre, un Oreste acceso di rabbia e che partecipa alla collera di tutti. Adesso emergono altri suoi tratti, le doti di chi ha acutezza e sa condurre in porto un’impresa. L’uomo in preda al furore diventa un analitico e esatto interprete dei sogni, un buon tattico nel dare ordini e distribuire ruoli; mette persino in moto il silenzioso Pilade”.

11

Il sogno raccontato con relazioni di Andreoli et al., Atti del convegno internazionale di Rende, 12/14 novembre pag.

58, a cura di N.MEROLA e C.VERBARO. Vibo Valentia: Monteleone, stampa 1995.

12E

SCHILO, Le Coefore a cura di WALTER LAPINI e VITTORIO CITTI, di MARIOUNTERSTEINER, Adolf M. Hakkert editore Amsterdam 2002.

13

Il Coro delle Coefore in riv. Fil. Cl. XLIX (1921).

14M.V

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appena consacrato una ciocca di capelli sulla tomba di Agamennone)e la loro coincidenza si fanno segni fatali, e tracciano la morfologia di un percorso già segnato da un’unica volontà divina, gli eventi15 non sono punti lontani nello spazio, ma sono relati, formano una costellazione e il tono del passaggio sticomitico tra Oreste e il Coro nel racconto del sogno è segno dell’adesione e della partecipazione in un reciproco consenso all’evento che ha sconvolto la regina “la donna odiata dagli dei”16.

Nella sticomitia del sogno si conferma molto più di una alleanza: Oreste ha ritrovato la sua vecchia casa e la vecchia casa il suo padrone; c’è un ritrovato senso di appartenenza che pervade il brano e che rende Oreste il nuovo Agamennone. E questo sogno che ha un rapporto molto complesso con la cronologia dell’opera, dal momento che racconta con verbi al passato un avvenimento che non troverà compimento se non alla fine della tragedia17, offre proprio nell’esplosione della dimensione temporale, lo spazio e il tempo opportuni per la rifondazione del presente. Una rifondazione del presente che chiede vendetta non solo per motivi politici, ma, soprattutto per motivi religiosi: la riconquista del regno è purificazione della casa attraverso l’espiazione della colpa che la segna, e restaurazione della devozione agli dei, e con la devozione degli dei, la devozione dei morti, ricordiamo che il sogno fu ispirato a Clitennestra da Apollo così come la venuta di Oreste18 ed era necessario che Oreste fosse messo a conoscenza del sogno della madre e che egli vi si riconoscesse perché apparisse chiara quella sempre maggiore urgenza del destino che è il punto d’appoggio su cui fa leva l’intera tragedia; al posto della narrazione si svolge una sticomitia, che ha lo scopo preciso di evitare un’esposizione lenta degli avvenimenti e che consente di circostanziare i particolari, proprio perché le conclusioni, tratte poi da Oreste, potessero prendere la concretezza di un’infallibile decisione.

2.2 Oggetto del sogno.

ta~| de \dra&kwn e0do&khse molei~n ka&ra bebrotwme&&noj a!kron,

15C

ARLO DIANO, Teodicea e poetica nella tragedia, in “Rivista di Estetica”, XI ( 1966), pp. 1 e sgg.: “O la tyche o gli dei. È il dilemma di Euripide...Nell’età di Eschilo, almeno fino all’Orestea sarebbe apparso incomprensibile: per la impossibilità stessa di formularlo. La tyche è l’evento, e non c’era evento che non venisse ricondotto all’azione degli dei.”

16du/sqeov gunh/” v. 525 Coefore, ESCHILO. 17

RACHEL AELION Songes et propheties d’eschyle: une forme de mise en abyme in Lalies: Actes des sessions

linguistique et de litterature, Paris 1984(dal 1-6 Sett. ’81, Aussois).

18M

(17)

e0k d'a1ra tou ~~basileu\v Pleisqeni/dav e0fa&nh

frammento 42B sopravvissuto dall’Orestea di Stesicoro che mostra Clitennestra visitata da un sogno simile a quello che la sconvolge nelle Coefore “a lei parve che un serpe si avvicinasse, insanguinato il sommo del capo; ed ecco da quello le balzò innanzi la figura del re Plistenide “19.

L’Orestea di Stesicoro è una delle fonti che Eschilo usò per il sogno del serpente, anche se il frammento è troppo breve per determinare in che misura; sicuramente in Stesicoro il serpente del primo verso rappresenta Agamennone, con la ferita al sommo del capo ancora visibile, e poiché la descrizione della ferita suggerisce che fu inflitta da una scure e non da una spada, da quando il sogno appare a Clitennestra, è lei che viene reputata essere l’assassina. Si è discusso, invece, se il secondo verso fosse da riferirsi ad Agamennone o ad Oreste, se basileu\v fosse Oreste allora il serpente sarebbe il padre da cui nascerebbe il figlio vendicatore, ma il titolo di

basileu\v non è adatto ad Oreste e Pleisqeni/dav è più facilmente considerato il

figlio e non il nipote di Plistene. Quindi sembra più giusto riferire entrambi i versi ad Agamennone. Il serpente prende la sembianza umana di Agamennone e mentre

e0do/khse descrive la prima impressione, e0fa/nh la finale e vera manifestazione del re

morto20.

L’immagine del serpente è un tema tradizionale legato alla figura dell’eroe morto, e l’associazione del serpente con le forze ctonie doveva essere abbastanza chiara al pubblico di Eschilo, che certo aveva ben presente Stesicoro e che agevolmente associava il sogno di Clitennestra ad una apparizione del morto Agamennone21. Indubbiamente Eschilo si valse anche di tradizioni popolari, come quella riferita da Aristotele (de mir. aus. 165, 846b):

“ quando il serpe maculato si congiunge con la vipera, questa nel congiungimento gli taglia il capo; allora i figli come a vendicare la morte del padre rompono alla madre il ventre”.

La ferocia dei rapporti familiari e il legame con le forze ctonie e con l’eroe morto sono due temi propri della figura del serpente.

Ma il simbolo del serpente e della vipera ricorre altrove nell’Orestea: Clitennestra è detta e0xi/dnh o altro mostro simile nelle Coefore, le Erinni hanno il capo cinto di serpi (coef. v. 1050) e proprio contro di esse Apollo minaccia di scagliare, nelle Eumenidi,

19Trad. it. V

ALGIMIGLI.

20A

ESCHYLUS, Choephori, With introduction and commentary by A.F.GARVIE, Clarendon Press-Oxford, 1986, pag. XX.

21

(18)

un serpe luminoso dal suo arco per l’ultima giustizia riparatrice; è chiaro che il serpente non può essere sempre e solo ricondotto ad espressioni di spregio né rappresentare il solo nesso con il defunto re.

In Eschilo non c’è solo un richiamo al mondo dei morti, che pure resta di fondante importanza per il meccanismo e il contenuto del sogno, né, tanto meno, un uso della visione onirica solo come prova della colpevolezza di Clitennestra quasi a suggello, risoluzione e chiusura del caso.

Intorno a questo simbolo, Eschilo crea un motivo fantastico, indipendente, in cui si innervano i più nascosti significati del dramma: è il centro del sogno, è il motivo per cui il Coro giunge alla tomba di Agamennone e che dà ad Oreste e Pilade da un lato, ad Elettra ed il Coro dall’altro la possibilità di incontrarsi, il suo racconto sospende l’azione, e fa quasi da spartiacque tra una prima parte di segni e riconoscimenti, e una seconda parte di fatti. Il sogno del serpente è una realtà che anticipa, in prospettiva divinatoria, la struttura del dramma e la coincidenza cui da luogo, è la personale impostazione eschilea del mito: il morso che il figlio-serpe avventa al seno materno ed il sangue che ne sugge, sono già il matricidio cruento.

Il racconto del sogno si propone sin da subito, nell’antistrofe del parodo, ma appena abbozzato, in brevi tratti paurosi: è notte fonda si odono grida di spavento dentro la casa, “ rabbrividirono i capelli” dice Eschilo, un sogno spirante ira è sceso sulla donna odiata dagli dei e du/sqeov gunh/ non è più solo apposizione dispregiativa, ma, l’aggettivo in relazione al sogno notturno è già il primo segno della maledizione divina22. Le Coefore non capiscono ancora che cosa sia questo sogno e per quale motivo sia stato mandato, ma sentono che quel sogno è un messaggio, una divina profezia che, però, si esprime non attraverso l’oracolo di Delfi, ma attraverso sogni domestici, nel cuore della notte in un’ ora contraria agli oracoli di Apollo,

o0rqo/qric(v. 32)accenna sì al terrore del sogno, ma la parola è proprio del terrore

mistico e di chi, come la sibilla(cfr.Verg. Aen. VI, 48)è posseduto dal dio; il pne/wn suggerisce espressamente questo afflato divino; muxo/qen si riferisce certo alle interne stanze delle donne, ma non senza allusione ai muxoi/ di Apollo e all’antro di Delfi;

a0mbo/ama ed e1lake indicano sì il grido di Clitennestra, ma sono espressioni proprie,

soprattutto l’ultimo, della voce dell’oracolo, e di Apollo quando parla dal tripode d’oro(Iph. T., v. 976 ).

Tutto questo è implicito, ma certo, tali associazioni e significati non potevano non essere colti da uno spettatore Ateniese. Si respira così, da subito, un’atmosfera religiosa di presagio, viene invocato Ermes ctonio23. Ermes chiama le forze infere che rivelano rancore e ira per i vivi, questa è l’unica cosa chiara: il sogno è un intervento divino volto ad avvertire i mortali. Quando il sogno più tardi, dopo il commo, viene descritto più dettagliatamente, Eschilo usa l’aggettivo nuktipla/gktwn che ha un significato attivo e passivo come se il sogno vagando fosse giunto a Clitennestra nella notte e fosse stato poi per lei causa di un vagare senza riposo24: il sogno è un movimento e mette in movimento, fa uscire da uno stato ed è per questo, che pur

22

MANARA VALGIMIGLI,op.cit., pag. 93 sgg.

23

Traghettatore oltre che di anime anche di sogni per un’ ovvia connessione tra sonno e morte.

24A.F.G

(19)

nella descrizione dettagliata, è difficile la comprensione; e sebbene il legame tra sogno, aspetto visivo e, quindi, verità oggettiva sia di particolare importanza per i greci, tant’è che Eschilo stesso ne sottolinea la relazione usando per primo il termine

o1yiv in connessione con “sogno”( Pers. V. 518), doke/w è il verbo che introduce la

visione notturna.

A Clitennestra sembra di partorire un serpente e che, il serpente da lei avvolto in fasce, come si usava fare per i bambini, addenti il seno che lei gli aveva offerto per nutrirlo e ne sugga nel latte, e non al posto del latte, un grumo di sangue. Le parole seguono l’ambiguità dell’immagine, che è contemporaneamente di bambino e di serpente: o0rmi/zw letteralmente significa “ancorare, ormeggiare un’imbarcazione” ed è parola strana per indicare la fasciatura d’un bimbo: “ma da una glossa di Eschilo pare che o0rmi/sai si debba intendere come dh~sai, a0napau~sai vale a dire legare, far stare fermo”25, mettere a riposo ed è parola adattabile al neogene/v da/kov: belva appena nata, in cui viene sottolineata la capacità di mordere, la ferocia e la parentela in questo con la madre indicata da Eschilo con lo stesso sostantivo nell’Agamennone v.123226; nonostante fosse un da/kov Clitennestra stessa(au0th_)gli offre il seno, e la domanda sul cibo, è fatta proprio per la stranezza della creatura generata che, se fosse stato un bimbo, si sarebbe saputo di quale cibo aveva bisogno.

Dalla scelta così particolareggiata dei termini è implicito che una realtà esiste di per sé indipendente, cionondimeno non se ne coglie il senso, né l’orientamento: i dettagli seppure precisi restano come chiusi, il groviglio di tenebra è da sciogliere, la penombra oscura sminuisce e cela cose appena intraviste che non hanno ancora rilievo e mescolano insieme i loro contorni. Presto, non appena la luce le investirà, balzeranno vive dalla loro maglia di tenebra, allora tutto riprenderà rilievo e avrà valore e significato. Questa luce è Oreste messo e interprete di Apollo. Per ora, del sogno, è chiaro solo che è una voce divina e che forze ctonie e il re morto ucciso, sono ostili a Clitennestra. La vendetta è nell’aria, il sogno ne è l’indice e ognuno lo percepisce.

2.3 Funzione drammaturgica del sogno.

La “mise en abyme” è un procedimento di composizione che trova una prima riflessione teorica in una pagina del “ Journal ” di Gide27, datata al 1893, divenuta poi celebre per l’uso che della mise en abyme fece il movimento letterario conosciuto con il nome di “Nouveau Roman”; Gide afferma che consiste nel dare ad uno dei personaggi del racconto il ruolo del narratore all’interno stesso del racconto, e fa un raffronto con un procedimento dell’araldica che sta nel mettere dentro il primo stemma il secondo “ en abyme ”.

25

VALGIMIGLI – GHEZZO,op. cit, pag. 76.

26

CRISTOPHER COLLARD,Aeshylus Oresteia, Oxford University Press 2002, pag. 183.

27A.G

(20)

Senza dubbio studiare le tragedie di Eschilo alla luce delle riflessioni di Gide e delle teorie del nouveau roman può sembrare sorprendente, ma la mise en abyme non è propria a nessuna epoca a nessun paese e a nessuno scrittore: è tecnica trasversalmente utilizzata. Numerosi sono gli esempi di mise en abyme in opere anteriori all’analisi di Gide, non sono soltanto autori recenti ad impiegare forme multiple e molto complesse di riprese, di corrispondenze, di echi, di riflessi all’interno di un’opera.

La mise en abyme non ha sempre stessa forma e funzione, esse cambiano rispetto alle opere e agli autori, ed è per questo che di volta in volta è necessario mettere a punto un concetto di mise en abyme che possa essere valido per lo studio di ciascuno autore. La Aelion nel suo lavoro, Songes et propheties d’Eschyle: une forme de mise en abyme28, propone prima un approfondimento sulla tecnica di mise en abyme e poi la particolare forma di mise en abyme adottata da Eschilo.

La mise en abyme si presenta come un’opera letteraria e artistica differente dall’opera principale dentro cui è inclusa, ed è creata dall’autore per riflettere quest’opera principale, non basta pertanto, che l’opera che costituisce la mise en abyme sia contenuta in un’altra ma è necessario anche che la rifletta.

Perché rifletta l’opera dentro cui è inclusa, l’episodio mis en abyme deveappartenere allo stesso universo dell’opera, quindi, fare intervenire personaggi di questo universo e situarsi nello stesso tempo e luogo; sono, perciò, esclusi la voce dell’autore fuori campo, il prologo o l’intervento di una divinità onnisciente; stando entro questi limiti, l’introduzione dell’opera enclavè risulta abbastanza problematica e frequenti diventano i casi in cui l’autore utilizza non un’opera nell’opera ma visioni o sogni o deliri evitando così il pericolo di rendere artificioso il procedimento.

L’episodio non deve essere troppo lungo per non compromettere l’equilibrio con l’opera intera e, riflettere quest’opera, non deve essere riprodurla ad una scala più piccola, ma riprodurre le linee principali della sua azione, anche deformandole, lasciando, però, analogie tali che il riflesso rinvii a quest’opera ad esclusione delle altre; l’episodio può essere spezzettato ma deve costituire un insieme isolabile e riconoscibile all’interno dell’opera e apportare nel suo sviluppo un’interruzione o almeno un cambiamento provvisorio.

Nelle Coefore, il sogno del serpente, usando figure simboliche riflette le linee principali dell’azione del dramma, appartiene all’universo temporale e spaziale della tragedia infatti si colloca dopo il commo e la preghiera al re morto ucciso e interrompe in qualche modo lo svolgimento dell’azione dal momento che viene raccontato proprio quando il Coro esorta Oreste a passare ai fatti: si ritrovano in esso tutte le caratteristiche della mise en abyme .

L’introduzione di un’opera nell’opera esiste già nei poemi omerici, ma la tecnica della tragedia greca non ne agevolava l’uso.

La tragedia, essendo azione drammatica, non ammetteva soprattutto racconti inseriti al suo interno, all’infuori dei resoconti del messaggero sugli avvenimenti sopravvenuti fuori scena.

28

(21)

Se un autore tragico voleva inserire in uno dei suoi drammi un episodio enclavè che rifletteva l’opera intera, doveva cercare un altro modo. I greci davano grande importanza ai segni attraverso cui le divinità manifestavano la loro volontà e facevano conoscere agli uomini il destino che li attendeva. L’interpretazione dei presagi, dei sogni, il ricorso agli oracoli la fiducia nelle profezie facevano parte della loro vita quotidiana ed Eschilo vi ha con estrema naturalezza attinto per poter inserire secondo le caratteristiche del procedimento della mise en abyme, l’episodio enclavè. Una mise en abyme rischia, però, nella misura in cui è orientata al futuro, di svelare in anticipo la storia raccontata, così gli autori spesso ricorrono a mezzi vari al fine di evitare una troppo facile comprensione del procedimento, altre volte, invece, scelgono la via opposta di svelare molto chiaramente il meccanismo per creare una dimensione fantastica o per caricare l’opera di una tensione estrema.

Gli spettatori di Eschilo sapevano già tutto della fine del dramma prima di assistere alla conclusione della rappresentazione al teatro di Dioniso, per cui, la preoccupazione di Eschilo, non era di celare qualcosa che era fin troppo chiaro agli occhi degli spettatori ma, al limite, di decidere se la mise en abyme doveva restare celata agli occhi dei personaggi del dramma o essere decifrata.

Dal momento che la mise en abyme concentra in sé quanto nell’opera principale è diffuso, permette nitidamente la distinzione tra cosa è essenziale e cosa è accessorio, tradisce il significato profondo dell’opera e ne rivela il senso: il personaggio che riesce a coglierla ha uno strumento di conoscenza degli accadimenti assai importante. Nelle Coefore Clitennestra responsabile dell’uccisione di Agamennone meriterà di essere a sua volta, per volontà divina, uccisa.

Qui la mise en abyme conferma ad Oreste l’appoggio degli dei per il suo contenuto, per il posto stesso dove si inserisce e per il modo in cui è accolta: tra le preghiere e il passaggio all’azione, conferma che le preghiere non erano empie e che l’azione sarà coronata da successo; ecco perché Oreste e non Clitennestra decifrerà correttamente l’episodio. Con la decifrazione del sogno si sottolinea l’ identità tra Oreste e il serpente in quanto nati dallo stesso grembo e nutriti allo stesso seno, si dice di come il serpente abbia morso e spaventato sua madre per far, poi, concludere ad Oreste: ”Dunque, poiché lei ha nutrito un terribile te/rav-e non: ha sognato di nutrire-deve morire violentemente, e io fattomi serpente-vale a dire te/rav, figlio che uccide la madre-la ucciderò, come dice il sogno.”(Coef. vv. 548-550) L’identificazione Oreste/te/rav è qui enfatizzata dalla parola e0kdrakontwqei/v, “diventare serpente”, un tipo di composto che è usato altrove ad indicare una metamorfosi attuale29.

A sogno decifrato, quindi, Oreste, è serpente e non solo per un procedimento analogico ma anche per una forma di metonimia, figura retorica che genera una stretta relazione, quasi una fusione, tra illustrans e illustrandum30.

29I paralleli più stringenti di questo tipo di composto inclusi dal Paley in una lista per un commento alle tragedie di

Eschilo (The tragedies of Aeschylus, 2nd ed, London 1861), sono e0kqhriou~sqai, che è usato per una trasformazione attuale in EURIPIDE, Baccanti v.1331, sebbene in autori più tardi abbia un significato metaforico, e e000candrou~sqai, che può significare “crescere e diventare adulto” ma è usato del crescere e diventare essere umano dei denti del drago in EURIPIDE, Supplici v.703.

30

(22)

La comprensione del sogno confermerà sì ad Oreste l’appoggio degli dei, ma ne farà anche un te/rav, e te/rav è vox media, indica lo straordinario, sia nel senso di mostruoso che nel senso di miracoloso31, e come ogni segno straordinario, Oreste richiederà interpretazione e attribuzione di un significato profetico. Intanto, però, proprio perché te/rav, Oreste può oscillare tra il mostruoso del matricida e il miracoloso del giusto vendicatore del padre, ed è il sogno che lo ha messo nella condizione di godere di questa sospensione di giudizio lasciandogli piena libertà di azione, fino al momento in cui il tribunale dell’Areopago non scioglierà l’intera vicenda “interpretando” Oreste come vendicatore32.

Nel teatro di Eschilo i sogni sono elementi proficui nel cammino catartico dell’uomo verso la conoscenza, la sua acquisizione è guidata dal dio attraverso la sofferenza(Oreste dovrà passare attraverso l’uccisione di sua madre e, soprattutto, attraverso la conseguente coscienza dell’orrore e della complessità della sua azione)e paura e timore sono il dono elargito dalla charis divina per l’emancipazione dell’uomo stesso.

Questa mise en abyme ci conduce alla comprensione oltre che del senso più profondo della trilogia, anche della concezione di Eschilo sugli errori degli uomini, sulla giustizia divina e sull’armonia finale che sarà poi delle Eumenidi.

3. I persiani.

La prima parte della tragedia, fino all’apparizione dell’ombra di Dario, gravita intorno ad un antico edificio(lo στέγος α0ρχαi=ον, menzionato al v. 141)dove risiede la camera di consiglio.

I fedeli, scelti da Serse come custodi dei sontuosi palazzi, prendono posto all’interno di tale costruzione subito dopo la conclusione del canto di entrata, nel corso della quale i riferimenti sia alla paura sia alla nostalgia, che tormentano intere famiglie, valgono a motivare come urgente necessità(xrei/a al v. 145)la decisione dei vecchi di tenere consiglio.

I fedeli sono immaginati nell’atto di entrare all’interno dell’edificio, dove hanno luogo prima i dialoghi fra i coreuti e la regina madre, tra questa e il messaggero e dove avviene poi, la comparsa di Dario. La camera di consiglio è pensata come comunicante da un lato con il territorio esterno alla città di Susa, dall’altro con il vicino palazzo reale, dal quale si è mossa la regina per incontrare i fedeli.

31

Il significato di “portento, meraviglioso” è in molti passaggi dell’Iliade e dell’Odissea, mentre il significato di “mostruoso” è più comune nei testi più tardi ma si trova anche nell’Iliade in riferimento alla Gorgone sullo scudo di Atena. Il termine è anche usato nel senso specifico di nascita mostruosa; cf. PLATONE Cratilo 393b e 394°,

Greek-English Lexicon LIDDELL AND SCOTT Oxford at the Clarendon Press 1968.

32

(23)

Quest’ultima si avvicina su un carro adorna di vesti lussuose, ma sottomessa da una situazione di ansia e paura che la pone subito in sintonia con i fedeli per l’impresa temeraria condotta dal re Serse, giovane e impetuoso, che non ha esitato a gettare una gran quantità di navi sull’Ellesponto.

La Regina inoltre narra ai fedeli un sogno nel quale ha visto il figlio cadere dal carro e lacerarsi le vesti mentre cercava di aggiogare due donne, una docile al morso(simboleggia l’Asia)e l’altra ostinatamente resistente(l’Europa). Sbigottita dal sogno la Regina si informa dai fedeli sulla Grecia e sulle sue risorse. La paura è che la grande ricchezza e prosperità ottenute grazie a Dario possano essere in poco tempo azzerate. I fedeli, non potendo negare il carattere sinistro della visione, invitano la loro sovrana sia a pregare gli dei perché aiutino il figlio sia a recare offerte alla terra e ai morti ma anche infine a supplicare Dario, lo sposo defunto di far venire dagli abissi ogni bene per lei e per suo figlio. Ma il dialogo viene interrotto dall’arrivo di un messaggero, che narra, con evidenza di dettagli realistici, lo svolgimento della battaglia navale di Salamina e la successiva, disastrosa ritirata persiana. Il resoconto rievoca agli occhi della Regina il senso della sua visione notturna e la induce ad uscire per offrire agli dei le offerte raccomandate dai fedeli e da lei stessa promesse. Alla fine del primo episodio la reggia si riduce al luogo dove la Regina ha prelevato le offerte, ma in seguito gli viene data la funzione di meta verso cui la Regina invita i fedeli ad accompagnare Serse nel caso in cui il monarca dovesse arrivare prima del rientro della madre.

Il messaggero con il suo racconto ha ormai troncato qualsiasi speranza di un esito fortunato dell’impresa oltre mare e solo attraverso un contatto con il mondo infero è dato sperare in una

“cura dei mali ”(v. 631 ).

Ai lamenti di Atossa e dei fedeli succede nella seconda parte della tragedia, l’evocazione del morto Dario. La sua ombra emerge lentamente e a fatica dopo le preghiere del corifeo ai demoni sotterranei, la terra ed Ermes. I fedeli alla vista dell’antico sovrano vengono colpiti da un senso di venerazione e paura.

Dario appreso della presunzione del figlio Serse, si sente umiliato per l’ambizione del figlio di volersi porre sul suo stesso livello.

L’ultima parte della tragedia coincide con la scomparsa di Dario che annuncia un’ulteriore disfatta persiana di Platea e l’arrivo di Serse a piedi, e neanche annunciato dal Coro.

Segno della degradazione del monarca è la veste lacerata, che insieme alle percosse, allo strappo della barba e alle brevi sequenze di suoni di lamento da parte del Coro, scandisce l’esito della tragedia nelle forme di cordoglio sulla caduta di un impero. Dario aveva anche esortato la sposa a rientrare nel palazzo per prelevare una veste adornata da fare indossare al figlio non appena questi fosse arrivato. Ma le premure del padre a scongiurare la degradazione del figlio saranno disattese a favore, invece, del presentimento onirico della madre.

(24)

dell’evocazione dell’Ombra di Dario ha sì aperto una nuova prospettiva etico-religiosa di moderazione che nei tempi lunghi potrà restaurare l’antico equilibrio tra Oriente ed Occidente, ma nell’immediato non è in grado di arrestare o anche solo di attutire l’inevitabile caduta del giovane despota33.

4. Il sogno, vv. 176- 200

Ba. polloi=j me\n ai0ei\ nukte/roij o)nei/rasin (175)

cu&neim', a)f' ou{per pai=j e0mo_j stei/laj strato_n 0Iao&nwn gh~n oi1xetai pe/rsai qe/lwn:

a)ll' ou1ti pw toio&nd' e0narge\j ei0do&mhn w(j th~j pa&roiqen eu)fro&nhj: le/cw de/ soi.

e0doca&thn moi du&o gunai=k' eu)ei/mone, (180) h( me\n pe/ploisi Persikoi=j h)skhme/nh,

h( d' au}te Dwrikoi=sin, ei0j o1yin molei=n, mege/qei te tw~n nu~n e0kprepesta&ta polu&, ka&llei t' a)mw&mw, kai\ kasignh&ta ge/nouj

tau)tou~: pa&tran d' e1naion h( me\n 9Ella&da (185) klh&rw| laxou~sa gai=an, h( de\ ba&rbaron.

tou&tw sta&sin tin', w(j e0gw_ 'do&koun o(ra~n, teu&xein e0n a)llh&lh|si: pai=j d' e0mo_j maqw_n

katei=xe ka)pra&unen, a3rmasin d' u3po (190) zeu&gnusin au)tw_ kai\ le/padn' u(p' au)xe/nwn

ti/qhsi. xh) me\n th|~d' e0purgou~to stolh|~ e0n h(ni/aisi/ t' ei]xen eu1arkton sto&ma, h( d' e0sfa&da|ze, kai\ xeroi=n e1nth di/frou

diaspara&ssei, kai\ cunarpa&zei bi/a| (195) a1neu xalinw~n, kai\ zugo_n qrau&ei me/son.

pi/ptei d' e0mo_j pai=j, kai\ path_r pari/statai Darei=oj oi0kti/rwn sfe: to_n d' o3pwj o(ra|~ Ce/rchj, pe/plouj r(h&gnusin a)mfi\ sw&mati.

kai\ tau~ta me\n dh_ nukto_j ei0sidei=n le/gw.34 (200)

Regina

33F

RANCO FERRARI, Visualità e tragedia. Per una lettura di Persiani, Sette contro Tebe, Supplici, in Civiltà Classica e

Cristiana; 1986, VII pp. 133-154.

34

(25)

Io ho frequenti visioni notturne, da quando

mio figlio ha allestito la spedizione ed è partito per devastare il paese degli Ioni. Ma non ne avevo mai avuta una così evidente come quella della scorsa notte. Te la espongo. Mi sembrava che mi si presentassero due donne ben vestite, una in abiti persiani l’altra in abiti greci,

di statura molto più alta del normale,

di bellezza perfette, sorelle della stessa stirpe: e come patria abitavano una la terra Greca,

avendola ottenuta in sorte, l’altra la terra barbara. Queste due donne(così mi pareva)venivano

a lite; mio figlio se ne accorge, cerca di trattenerle e di ammansirle, e le aggioga al suo carro,

legandole con un collare, una delle due si mostra tutta fiera di questa bardatura, e mantiene

docile al freno la bocca, mentre l’altra recalcitra: con le due mani rompe le briglie

del carro, si libera dal morso, spezza in due il giogo. Mio figlio cade, e accorre Dario, suo padre,

pieno di compassione, e Serse, come lo vede, si straccia le vesti che indossa. Ecco che cosa ho visto questa notte.35

4.1 Chi racconta il sogno e a che punto dell’intreccio drammaturgico.

Per la messa in scena dei Persiani a Siracusa nel 1990, il regista Mario Martone offre una visione della tragedia incentrata sull’idea di opera “senza azione e senza centro, priva di un protagonista assoluto, dominata da un’attesa estenuante”, in cui si cela “l’eterno rapporto tra Oriente e Occidente, l’illusorietà orientale del molteplice contro la conoscenza occidentale del finito”36. Lo spettacolo prende avvio con l’interminabile agghiacciante silenzio dell’attesa a cui i Persiani sono sottoposti dalla paura e dal presentimento della disfatta e, vero è che, i Persiani, come le Supplici, non hanno prologo: la scena si apre immediatamente con l’entrata all’interno

35E

SCHILO, I Persiani. Tradotti dalla Scuola di teatro antico dell’ INDA, sotto la direzione di GIUSTO MONACO, Siracusa 1990.

(26)

dell’edificio del Coro degli anziani la cui preponderante presenza fa di questo dramma, insieme ad altri fattori, un unicum nella produzione tragica greca e che, sebbene compaiano personaggi che hanno un’identità precisa e che, di volta in volta, impegnano lo spazio dal Coro circoscritto, come la Regina, il messaggero, lo spettro del defunto re Dario e lo stesso Serse di ritorno dalla Grecia, questi personaggi non hanno volontà di prevalere sull’operato e sul pensiero di altri, evitando così, discriminazioni fra chi assolve l’azione e chi ne subisce le conseguenze37: tutti in un’unità compatta sono partecipi dell’evento avverso e nessuno di loro viene a trovarsi mai emarginato, nel nome di una legge che tutti coinvolge nel rispetto di una tradizione.

Gli anziani, fu/lakev dell’impero, sono il simbolo di un passato ora costretto ad accettare un presente diverso, i kaka/ neo/kota(v.256), il ph~m’ a3elpton(vv. 265, 1026-7), ma aprendosi ad una esperienza dolorosa, inevitabile, non permettono che un singolo individuo, un sovrano sconfitto, turbi un cosmo nel quale tutti e sempre devono riconoscersi, poiché al di là di ogni umana iniziativa deve continuare ad esistere, un ordine stabilito dal dio, retto dalla giustizia e innato nella figura del sovrano.

Nondimeno qualche osservazione si impone per chiarire la specificità dei Persiani, la linearità apparente della struttura e la ricchezza congiunta della materia38.

Secondo il modello elaborato da Aristotele nella Poetica più di un secolo dopo, la compiutezza di una tragedia è affidata ad un intreccio complesso, in cui la peripezia, il “coup de théâtre” si accompagna ad un riconoscimento; il testo tragico si trova allora diviso in due parti, la desis(l’“annodamento”)e la lusis(lo “scioglimento”), servendo la peripezia da frontiera tra le due39.

Evidentemente niente di questo è nei Persiani: l’avvenimento atteso, l’esito della battaglia di Salamina, è annunciato al Coro e alla Regina già sulla fine del primo episodio, che costituisce pressoché un quarto dell’opera e fa scattare subito il primo kommos.

Tutto è detto molto presto, ma è anche vero che tutto resta da dire del pathos legato alla caduta dell’esercito40, nei Persiani, infatti, il rovesciamento tragico di cui parla Aristotele, il passaggio dalla felicità alla disgrazia di un uomo si opera all’interno del linguaggio sul piano dell’apprendimento e della reazione dei personaggi alle notizie dal campo di battaglia e investono la totalità del testo che deve ancora essere rappresentato, attraverso la complessità dei differenti registri della parola e dei reticoli di immagini intramezzati, caratteristici dell’arte eschilea.

Nei Persiani la scelta delle metafore quanto la loro dislocazione rispondono ad un criterio ben preciso di corrispondenza fra le immagini e il contenuto narrativo e

37L

UIGI BELLONI, Persiani di Eschilo, 1988, pag. XI.

38JEAN ALAUX, Mimêsis e Katharsis dans les perses, Universitè Stendhal-Grenoble III, pag. 4,

http://www.cairn.info/revue-I-informetionlitteraire-2001.

39

Vedi ARISTOTELE, Poetica, 1452 a12-1452b13; 1454b19-1455b32.

40G. PADUANO, Sui Persiani di Eschilo: problemi di focalizzazione drammatica, in Filologia e critica; collana diretta

(27)

concettuale della tragedia. Esse svolgono una “funzione drammatica secondaria”41 e l’intreccio dell’opera è tutto nello sviluppo di queste immagini e nell’uso di oggetti scenici: le parole utilizzate hanno forza evocativa, il che ha fatto anche parlare il Del Corno dei Persiani come di un racconto42, ed esse non solo sono simboli ed espressioni metaforiche con cui gli Ateniesi potevano decifrare nella loro immaginazione storica la disfatta dei nemici, ma sono anche mondi autonomi, oggetti vivaci veicolati nel dramma da un elemento visivo concreto sulla scena.

Le metafore floreali descrivono sia la hubris, che “fiorisce” e fa germogliare una messe di rovine(vv.821-2)sia gli amati morti Persiani, “il fiore della terra”(vv. 50, 525, 925), sacrificato a Salamina. Questo fiore, prodotto della ricca terra d’Asia, rappresenta fin dall’inizio il “rigoglio” perduto, la prosperità “sfiorita” a causa dell’immagine di hubris che si trova ai vv. 821-822. Questi fiori metaforici però, una volta constatata la sconfitta nelle parole del messaggero, trovano anche la loro controparte visiva, concreta, nei fiori che sono oggetto dell’offerta della Regina alla tomba di Dario.

L’arco è a significare Serse e per estensione la Persia: l’arco e la lancia stanno inequivocabilmente per Persia e Grecia. Uno dei titoli che il Coro attribuisce a Dario è “signore dell’arco”. Ma alla fine dell’opera Serse mostra al Coro solo la faretra: l’arco, il vero simbolo del potere militare della Persia, lo ha perduto.

Qui è l’assenza della manifestazione visiva concreta della precedente immagine verbale ad avere un significato notevole, implica la categoria di vuoto: la faretra è vuota quindi l’arco manca43. “Sono immagini che rappresentano visivamente tre momenti della tragedia: il presagio di rovina, il ricordo dello splendore passato e la constatazione della sconfitta”44.

Metafore e oggetti scenici hanno gran parte in quest’opera senza azioni e senza volontà45 pertanto anche l’entrata in scena della Regina, agitata da visioni notturne, su uno splendido carro in sontuose vesti doveva avere particolare risonanza e significato: il carro è legato al tema del giogo che è immagine di dominazione politica di Serse e rappresenta esso stesso l’istituzione imperiale persiana, quindi doveva servire non solo a dare solennità alla figura della Regina, ma anche autorità e potere. Uno studio del Taplin46 sull’arte scenica di Eschilo, mostra come in realtà l’entrata sul carro fosse un espediente comune del primo teatro per identificare, da subito, i personaggi reali, dal momento che, mancando la skene e quindi le porte per le entrate e le uscite da palazzo, tutti i personaggi, anche Re e Regine, erano costretti ad andare in scena passando per gli eisodoi senza possibilità di distinzione.

41

A. HENRY, Metonimia e metafora, trad. it. di P.M.BERTINETTO, Torino 1975(Métonymie et métaphore , Paris 1971).

42D

ARIO DEL CORNO, I Narcisi di Colono. Drammaturgia del mito nella tragedia greca, pp. 7-19, Raffaello Cortina editore, 1998.

43

EDITH HALL, Aeschylus Persians; 1996 General Editor: Professor M.M. Willcock, Aris & Plillips LTD- Warminster-England.

44V. VASSIA, Le immagini ricorrenti nei Persiani di Eschilo struttura e forma linguistica. La polis e il suo teatro,

1986 Editoriale Programma pp. 49-73.

45

DEL CORNO, op. cit.

46O

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