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Capitolo III

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Academic year: 2021

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Caratteristiche della decorazione a grottesche

3.1 Iconografia delle grottesche

La peculiarità della decorazione a grottesche, che risulta subito evidente anche al fruitore non esperto, è la “libera creatività” con cui venne realizzata, la quale permise di rappresentare al di fuori di un contesto realistico, senza perciò l’uso della finestra albertiana, esseri fantastici.

Vediamo accostata l’iconografia più varia: le figure della mitologia classica con i loro attributi o con specifici riferimenti ad alcune storie che li caratterizzano (ad esempio le Fatiche di Ercole), paesaggi entro riquadri spesso rappresentanti le quattro stagioni oppure rovine antiche, animali esistenti o fantasiosamente ibridati fra loro, fiori, frutta e piante in genere, accanto a candelabri giganti i cui bracci divengono esili racemi vegetali che sorreggono targhe, delfini, acrobati. Spicca tra tutte figure già citate, la ricomparsa della Diana d’Efeso (fig.1), un chiaro ripescaggio dal repertorio antico, riproposta per la prima volta nelle Logge Vaticane, dipinta da Giovanni da Udine in un pilastro1. Questa rappresentazione può sembrare piuttosto insolita; le radici della venerazione di questa dea è da ricercare, secondo gli antichi, in Asia Minore dove vi era una zona abitata da Amazzoni che, nell’antica città di Efeso, adoravano una divinità matronale rappresentata come una dea

polymaste: quella che è ancor oggi nota col nome di Diana d’Efeso. Questo era uno

dei rari culti della greca Artemide in cui si celebrava il potere generativo della dea, che alimentava generosamente la terra e la fauna, piuttosto che la sua celebre castità

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e la sua belligeranza come cacciatrice2. L’iconografia della Diana d’Efeso ebbe successo e venne riprodotta numerose volte sia all’interno di grottesche che isolatamente come a Villa Imperiale a Pesaro3. Si suppone che la ripresa di tale simbologia possa derivare dalla citazione di una statua romana, ma spesso nelle decorazioni a grottesche venivano convogliate fonti di origine diversa: pittoriche, plastiche e letterarie4.

Nonostante il contesto altamente anti-classico della decorazione a grottesche, che si oppone nettamente al filone predominante sottomesso alla mimési, ritroviamo il concetto di “varietà” espresso da Leon Battista Alberti5

.

A proposito della vasta iconografia presente nel decoro che stiamo analizzando, Morel ha proposto un’utile classificazione che vede suddivise secondo una struttura di derivazione linguistica, le parti e le sottoparti che compongono la decorazione6. Tale classificazione viene presa come modello di riferimento in questa tesi.

3.2 Grottesche e geroglifici

L’interesse verso l’antica e misteriosa cultura egiziana ha origini remote e, sebbene sia molto nota anche ai non addettil’ “egittomania” che si scatenò nel XVIII secolo, il fascino dell’antico Egitto aveva già ammaliato le più disparate popolazioni del tardo Impero romano e, senza che questo interesse si spegnesse mai totalmente,

2 Enciclopedia Treccani, ad vocem Diana.

3 A Villa Imperiale una Diana d’Efeso è rappresentata sopra la cappa del camino e fu dipinta da

Raffaellin del Colle nella Sala della Calunnia, detta anche dello Zodiaco.

4 Morel 1997, p. 15.

5 L.B. Alberti, L’architettura, (traduzione a cura di) G. Orlandi, Ed. Il Polifilio, Milano, 1989,

pp.67-69.

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41 raggiunse il culmine proprio nel XV e nel XVI secolo. Tale passione culturale diede vita a molteplici contaminazioni; ad esempio, la diffusione della religione egiziana nel periodo paleocristiano fece sì che alcuni attributi tipici della dea Iside passassero alla Vergine Maria e persino la triade composta da Osiride, Iside e Horus sembrano approssimarsi alla Sacra Famiglia cristiana composta da Dio Padre, la Vergine Maria e Gesù Cristo7.

Per quel che concerne l’architettura egizia è risaputa la profonda ammirazione e meraviglia che suscitò nei secoli grazie a numerose fonti scritte come i Mirabilia medievali e le testimonianze di viaggiatori. Nel Medioevo i pellegrini che andavano a Roma potevano ammirare sia la piramide di Caio Cestio che i numerosi obelischi trasportati lì in epoca romana. Il fascino verso questa cultura venne incrementato dalla perdita di conoscenza del modo di decifrarne la scrittura; di conseguenza, ci si trovava di fronte ad una antica popolazione dalla cultura misteriosa e che spesso risultava tanto affascinante quanto incomprensibile. Inoltre, molti storici antichi e persino l’Antico Testamento (Esodo 7,8)8

suggerivano che l’Egitto fosse la patria di un antico sapere, la terra di saggi, medici e astrologi, idea che influì nel pensiero di intellettuali del XV e del XVI secolo tramite i loro stessi studi e le loro traduzioni. Attorno al 1419 il prete e mercante fiorentino Cristoforo Buondelmonti portò in Italia dall’isola greca di Andros un manoscritto intitolato De hieroglyfica di uno scrittore del IV secolo d.C. : Orapollo9. Questo trattato rivestì notevole importanza non soltanto nel Rinascimento, bensì fino al XIX secolo, poiché era l’unica opera antica e completa inerente la scrittura egiziana; quindi, venne considerato un testo fondamentale per chiunque desiderasse approcciarsi a questo campo di studi, fino a che Champollion mise in evidenza le numerose discordanze presenti nell’opera e, al contempo, l’infondatezza di tutte le spiegazioni etimologiche.

7

Castelli 1979, p. 12.

8 La Bibbia, 1983, p. 84

9 De hieroglyfica di Orapollo è giunto in versione integrale fino a noi grazie a dodici manoscritti, fra

cui il più antico è quello sopraccitato come acquisto di Buondelmonti nel 1419 ed è ancor oggi conservato nella Biblioteca Laurenziana di Firenze.

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Sebbene sia difficile stabilire con certezza una datazione, data la mancanza di informazioni, il trattato di Orapollo appartiene agli studi ellenistici sull’antica scrittura egiziana già non più pienamente comprensibile; infatti, ad una esatta lettura fonetica dei segni si preferiva un’interpretazione allegorica. Tale lettura derivava dall’opera di Diodoro Siculo che per primo suggerì l’idea che ogni geroglifico rappresentasse un concetto come, effettivamente, ancor oggi funziona il sistema dei

kangi giapponesi. L’opera di Orapollo trasmise questa interpretazione erronea agli

intellettuali del Rinascimento. Il pensiero di Plotino, attraverso il neo-platonismo di Marsilio Ficino, fece da tramite tra la cultura ellenistica di Orapollo e quella rinascimentale.

Plotino sosteneva che ‘ogni geroglifico è una scienza, una saggezza, una cosa reale e non un ragionamento’e, partendo da tale presupposto, Marsilio Ficino acclarò che questa scrittura poteva essere intesa come un linguaggio “naturale” che trasmette alla mente di chi legge idee e concetti senza la necessità di spiegarli10.

De hieroglyfica di Orapollo si presentava come un testo diviso in due volumi nei

quali erano esposti 189 geroglifici, per ognuno di questi vi era una descrizione seguita da un’interpretazione metaforica e dalla delucidazione della sua origine. In realtà, come già Champollion aveva notato, i geroglifici di Orapollo non sono tutti frutto di fantasia, ma avevano il grave torto di dare a questi una lettura esclusivamente allegorica quando, invece, ne hanno anche una fonetica. Come è stato precedentemente accennato, la grande fortuna di cui godette questo trattato dal XV secolo in poi, determinò anche un’erronea interpretazione dell’antica scrittura egiziana11. Durante il Quattrocento circolarono numerose traduzioni manoscritte dell’opera di Orapollo e il successo che già aveva ottenuto questo trattato venne ulteriormente consolidato grazie alla stampa12. Il grande interesse che suscitò De

10

Morel 1997, p. 56.

11 Rigoni 1996, p. 43.

12 La prima pubblicazione è quella del 1505 a Venezia ad opera di Aldo Manuzio ed era in latino,

mentre la prima edizione in italiano si ebbe solo nel 1547 grazie alla traduzione di Pietro Vasolli da Fivizzano.

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hieroglyfica nel pubblico dell’epoca è testimoniato anche dalle citazioni di questo

presenti in altri trattati; infatti, divenne persino fonte per altre opere, come quella di Giovan Pietro delle Fosse e Francesco Colonna, ma anche spunto per le arti figurative, come nel caso del fregio del Bramante a Viterbo e dell’incisione che il Dürer fece per l’imperatore Massimiliano I. In particolare, è interessante ricordare come Leon Battista Alberti promosse l’uso dei geroglifici nel De re edificatoria del 1450, dove sostenne che l’utilizzo di una qualsiasi scrittura a lui contemporanea non dovrebbe essere utilizzata nelle epigrafi e nelle sculture, poiché col tempo divenendo lingue morte, quindi illeggibili, cadrebbero nell’oblio. Secondo l’Alberti i geroglifici, essendo composti da simboli, rappresenterebbero l’unica eccezione di scrittura sempre comprensibile13. L’approvazione dell’Alberti aprì agli artisti l’uso di geroglifici nelle opere più disparate, fra tutte si ricorda la presenza di uno struzzo trattenuto con la mano destra dalla personificazione della Giustizia nella Sala di Costantino nelle Logge vaticane e direttamente derivato dall’interpretazione di Orapollo del corrispettivo geroglifico di questo animale14. Molti autori sostennero l’utilità del trattato De hieroglyfica come fonte artistica o per iscrizioni e motti15

. Eppure non si deve incorrere nell’errore di credere che tale interesse avesse una scientificità simile a quella degli studi d’egittologia a noi contemporanei; oggi può sembrare incredibile che nel XV e nel XVI secolo sia stata data così tanta fiducia al trattato di Orapollo, senza averlo confrontato con le iscrizioni presenti sugli obelischi presenti a Roma. Non solo tali confronti non vennero fatti, ma ad accreditare il trattato del IV secolo agli occhi degli intellettuali del XV furono proprio quei riferimenti ad Aristotele e Plinio, quindi ad una cultura estranea a quella egiziana, che avrebbero dovuto insospettirli.

13 Si intende, ovviamente, sempre comprensibile per un pubblico colto e raffinato aduso a questo tipo

di associazioni.

14 Secondo il trattato di Orapollo, il geroglifico dello struzzo significava “giustizia” in quanto ha, a

differenza di altri uccelli, le piume lunghe tutte di ugual misura.

15 Ad esempio, Filippo Fasanini nell’introduzione alla sua traduzione in latino di De hieroglyfica del

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L’egittomania scaturita dalla lettura del De hieroglyfica fece sorgere altri trattati sul genere, in particolare si ricorda come Piero Valeriano, il nome d’arte di Giovan Pietro Delle Fosse, pubblicò il suo libro omonimo a quello di Orapollo nel 1556 dove il testo dell’autore del IV secolo era effettivamente la risorsa principale, ma certamente non l’unica, poiché fece riferimento anche ad altri autori antichi, quali Aristotele, Diodoro, Plinio e persino ai bestiari medievali, con particolare riguardo per il Physiologus.

Tuttavia, quando si disquisisce dell’influenza esercitata dal De hieroglyfica di Orapollo non manca mai un accenno all’Hypnerotomachia Poliphili (fig. 2) del già citato Colonna. Quest’opera, letteralmente traducibile come “sogno che racconta una battaglia d’amore”, fu stampata nel 1499 a Venezia da Aldo Manuzio e divenne uno dei suoi capolavori, anche grazie alle circa duecento xilografie che lo impreziosivano. In realtà, l’ Hypnerotomachia sebbene fosse, a tutti gli effetti, frutto del clima culturale dell’epoca e del nuovo interesse nato in quel periodo per l’antico Egitto, venne influenzato solo secondariamente dal Hieroglyphica. L’eroe, Polifilo, durante il sogno si trova dinanzi ad un pachiderma sopra il quale vi è un obelisco adorno di iscrizioni geroglifiche; tale scrittura viene figurativamente comparata ad altri idiomi antichi, come il greco e il latino, che vengono a loro volta immaginati sotto un cavallo. L’Hypnerotomachia sembra suggerire che le altre lingue, sebbene tutte prestigiose grazie alla loro antichità, in quanto traducibili e, quindi, meno misteriose, non possano essere utilizzate in relazione con Dio. Opere greche, infatti, erano già state tradotte, così come quelle ebraiche, ma l’antica scrittura egiziana rimaneva indecifrabile. È importante sottolineare che i geroglifici presenti nell’

Hypnerotomachia di fatto non hanno nulla a che vedere con quelli autentici.

Nonostante il trattato del Colonna proponesse un linguaggio egittizzante in codice, simile a un rebus, che non aveva alcun reale fondamento nell’antica cultura egiziana, fu considerato un testo autorevole da cui trassero spunto molti artisti16 (Figg. 3-4).

16 In particolare, si ricorda la scultura del Bernini nota come Pulcin della Minerva posta in Piazza

della Minerva a Roma, dove un elefante marmoreo con l’obelisco posto sul dorso deriva chiaramente dall’Hypnerotomachia Poliphili.

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45 La decorazione a grottesche presto si rivelò adatta ad inglobare in sé motivi di diversa provenienza e i geroglifici dell’Hypnerotomachia e del De hieroglyphica (sia quello di Orapollo, sia la versione di Valeriano) vennero utilizzati come risorsa iconografica e, come tali, furono accorpati nelle grottesche. Ma anche gli obelischi di Roma divennero fonte per le arti figurative. Come è noto, durante il XV secolo, vi fu parallelamente un’attenzione per l’antico che riguardava, in particolare, la cultura romana, greca ed etrusca. Ad intensificare l’interesse per queste culture antiche vi furono una serie di “scavi archeologici” ante-litteram, sia a Roma che a Firenze e Siena. I reperti rinvenuti suscitarono profonda ammirazione per le arti antiche, sebbene la conoscenza dell’epoca non permettesse ancora di distinguere correttamente quali oggetti appartenessero alla cultura etrusca, greca o romana. Per ragioni di prestigio culturale legato al territorio, il Ducato fiorentino a più riprese sostenne la supremazia della cultura etrusca sulle altre, come ad esempio tra il 1550 e il 1560 quando tale interesse spinse il duca Cosimo I all’acquisizione dell’Arringatore e della Chimera d’Arezzo; ma vi erano molte opinioni discordati dal momento che la Grecia era ritenuta patria assoluta delle scienze e della politica e l’Egitto quella della scrittura e della conoscenza più arcaica e perciò più pura17

. Il ritrovamento di tombe etrusche suscitò l’interesse di Leon Battista Alberti, il quale espresse un giudizio su di esse simile a quello che riservò alle piramidi egizie: delle costruzioni colossali ed ammirevoli ma eccessive e fuori da ogni canone di

proportio. La scrittura egizia, invece, venne apprezzata da tutti gli intellettuali

rinascimentali: questa, infatti, offriva l’esempio, secondo l’interpretazione dell’epoca, di un linguaggio che usava immagini per esprimere concetti e che poteva dirsi utile per creare una comunicazione riservata ad una stretta cerchia di eruditi. I geroglifici perciò offrivano agli studiosi rinascimentali proprio quello che stavano cercando: una scrittura per immagini. Questa ricerca è giustificata dagli autori del XV secolo con riferimenti alle autocritates; ad esempio, Pico della Mirandola

17 Secondo alcune leggende, spesso frutto di contaminazioni con mitologie di altre popolazioni, la dea

Iside o, addirittura la greca Io sfuggita a Zeus, avrebbe insegnato i segreti della scrittura al popolo egiziano. Vedi Mitografo II di Walsingham e De claris mulieribus di Boccaccio.

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sosteneva che Platone nascondeva concetti filosofici sotto ‘mathematicis imaginibus’ e che, allo stesso modo, il Vangelo illustra concetti attraverso parabole. Dopo questa premessa, risulterà comprensibilissima la presenza di immagini tratte dalle opere di Orapollo e Valeriano nel soffitto della biblioteca del Convento benedettino di S. Giovanni Evangelista a Parma, nel quale simbolicamente sono espressi concetti di natura neo-platonica (fig. 5).

3.3 Il rapporto tra grottesche, emblemi e imprese

Come è stato già preannunciato nel paragrafo precedente, la ricerca di un linguaggio d’elite era molto in voga nel XV secolo e coinvolse anche la nascita di imprese ed emblemi che, a loro volta, vennero inglobati nella decorazione a grottesche. Giovanni Paolo Lomazzo nel trattato Discorsi intorno al sileno del 1568 affermava che le grottesche‘voglion esser cinti/ D’embleme, istorie et altre mostrazioni’18. Gli emblemi nel decoro a grottesche furono impiegati più raramente rispetto alle imprese: il loro utilizzo è sporadico, li troviamo ad esempio nel Corridoio dei Mori del Palazzo Ducale di Mantova (fig. 6) o nella Sala delle Grottesche del Palazzo della Manta a Saluzzo. L’impiego di imprese è, invece, molto esteso; basti ricordare la Camera delle Imprese a Palazzo Tè a Mantova (fig. 7) o l’ossessionante ripetitività delle imprese del cardinal Farnese a Caprarola, solo per elencarne alcune delle tante. L’impresa, non dev’essere confusa con lo stemma famigliare; quest’ultimo ha origine attorno al XII secolo e aveva principalmente una funzione riconoscitiva, fondamentale in battaglia, ma anche di affermazione del proprio status symbol, indicava la proprietà di un terreno o di un bene immobile e divenne presto

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47 ereditario19. L’impresa, invece, è una icona personale: tende ad esaltare virtù, oppure a ricordare particolari momenti storici o vicende amorose del committente, quindi ogni nobile poteva avere più di una impresa. Questa moda di creare delle imprese sembra derivi dalla Francia, in particolare, dalla discesa di Carlo VIII in Italia nel 1494; ad informarci è il primo trattatista di questo genere, Paolo Giovio, noto storico e collezionista comasco il quale con le cinque regole che indicava nel suo trattato

Dialogo dell’imprese militari e amorose (1555) mise le basi per una solida

regolamentazione che si consolidò prevalentemente durante il XVI secolo20. Solitamente l’impresa è composta da un “corpo” e da un’ “anima”, vale a dire da un’immagine e da un motto (anche se quest’ultimo non è sempre presente)21

. È piuttosto interessante notare come le imprese, rispetto gli stemmi, abbiano la peculiarità d’essere intellegibili e oscure ai più, una caratteristica che li avvicinava ai geroglifici; Paolo Giovio, in particolare, sosteneva che l’impresa non doveva essere troppo esplicita né chiara a tutti22.

Per quel che concerne gli emblemi, invece, l’iniziatore del genere fu Andrea Alciani, celebre giurista e professore nelle più importanti università italiane ed europee, il quale scrisse l’ Emblematum Liber che venne pubblicato ad Augsburg nel 1531. Questo trattato era composto da epigrammi che descrivono immagini desunte dalla letteratura antica. L’emblema è formato da inscriptio, figura e subscriptio: è quindi presente un motto, spesso tratto da proverbi antichi, un’immagine che rappresenta un episodio della mitologia ed infine un commento in versi dell’autore stesso in cui esplica la costruzione dell’emblema giustificandolo con dotte citazioni dell’Antico.

19 Enciclopedia Treccani. Gli stemmi si suddividono in diverse tipologie: le cosiddette armi

agalmoniche, ossia “parlanti”, le quali fanno esplicito riferimento al cognome della famiglia a cui

appartengono, le armi di dignità che qualificano il proprio possessore indicando la posizione che occupa nella società, quelle di concessione usate grazie al consenso di un personaggio di rilievo, quelle di alleanza dovute ai matrimoni, oppure, più semplicemente, di successione vale a dire uno stemma che si tramanda per eredità famigliare.

20 Fazzini 2010, p. 18. 21

Giovio 1978, p.57.

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Geroglifici, emblemi e imprese sono strettamente connessi fra loro nella cultura del XVI secolo; infatti, l’origine stessa di quest’ultimi due si faceva risalire al linguaggio simbolico dell’occulta conoscenza dei “maghi” egiziani. Lo stesso Alciati, nonostante nell’Emblematum Liber faccia riferimento prevalentemente a fonti greche come l’Antologia Planudea, nel suo celebre trattato si sostiene che gli emblemi derivino dai geroglifici. Forse, il De hieroglyfica di Orapollo ha fornito agli autori di emblemi persino lo schema compositivo da imitare; infatti, la prima edizione illustrata del trattato del IV secolo, pubblicata ad opera di Kerver nel 1547, presenta una impaginazione tripartita (immagine del geroglifico, titolo, spiegazione dell’origine) che ricorda la configurazione dell’emblema triplex (motto, immagine, epigramma)23. Alessandro Farra, allo stesso modo, acclarava nella prima edizione di

Filosofia simbolica, ovvero dell’Impresa del 1571 che parte dell’iconografia usata

per la realizzazione di imprese derivasse dai geroglifici egizi24. Questa presunta origine comune favorì l’assimilazione contemporanea di geroglifici, emblemi e imprese nella decorazione a grottesche. In realtà, già nell’Antichità Classica nella pittura parietale del II stile nel decoro anti-naturalistico tanto contrastato da Vitruvio e Orazio, sebbene non si possa parlare propriamente di emblemi o imprese, si riscontra la pratica comune di dipingere simboli che rimandassero chiaramente al committente. Ad esempio, l’imperatore Augusto che soleva riconoscersi nel dio Apollo, permetteva che si usassero grifoni, betili, sfingi, tripodi e cetre che sono attributi di questa divinità per adornare vasellame, oggetti d’oreficeria e loriche25

. Quindi, non si può escludere a priori che anche i reperti antichi studiati nel XV secolo avessero contribuito a determinare l’impiego di emblemi e imprese associati alle grottesche. Un’altra ragione che influì nella scelta deriva, probabilmente, dalle

23 Orapollo 1996, pp. 14-17.

24 Si può facilmente constatare che anche in questo caso i geroglifici meno autentici (quelli del II

volume del trattato di Orapollo o dall’opera di Francesco Colonna), vennero privilegiati rispetto a quelli veri. Talvolta l’iconografia usata in emblemi e imprese è così poco egittizzante che è davvero arduo decretare se la fonte sia solo quella greca, ad esempio di Aristotele e Plinio, oppure anche quella più veritiera di Orapollo.

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49 idee esposte da Marsilio Ficino nelle sue opere, come De Christiana Religione e in

Theologia Platonica, dove avallava l’esistenza di una connessione tra religioni

pagane (specialmente greco-romana ed egiziana) e religione cristiana, dando in questo modo il via libero all’uso dell’iconografia più varia ed alle associazioni iconografiche più bizzarre26.

Gli stemmi famigliari entrano anch’essi a far parte della decorazione a grottesche del XV e del XVI secolo, talvolta citandone solo i simboli principali che li costituiscono come pars pro toto; un esempio significativo è quello dei bisanti dello stemma mediceo che appaiono, estratti dal loro contesto, come sfere con le quali dei putti giocano27.

Spesso compaiono anche i rimandi al segno zodiacale del committente, come è possibile vedere nel corridoio orientale degli Uffizi con l’ariete di Francesco I, ma anche a Palazzo Vecchio con la presenza del capricorno di Cosimo I. Tale uso dei segni zodiacali non è una novità rinascimentale, è bensì riscontrabile già nell’antica Roma, quando in epoca augustea si rappresentava il capricorno in rimando alla nascita di Ottaviano.

3.4 Ornamento o significato recondito?

A questo punto credo sia lecito domandarsi se le grottesche del XVI secolo seguissero un preciso programma iconografico avente significati allegorici, oppure se

26 La croce ansata presente nell’iconografia egiziana e nota col nome di ankh, è un interessante

esempio di errata interpretazione rinascimentale che determinò la credenza, anche da parte di intellettuali come Ficino, che l’antica cultura egiziana avesse già previsto l’arrivo di Cristo.

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Il riferimento è agli amorini dipinti dall’equipe di Vasari sulla volta della Scala Grande a Palazzo Vecchio a Firenze.

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era inteso solo come un ornamento. Gli storici dell’arte hanno dibattuto a lungo su questo e, nonostante alcuni pareri discordanti, credo si possa dire con una buona approssimazione che le grottesche fossero usate principalmente come ornamento. La struttura di questa decorazione si presta particolarmente bene per riempire spazi scomodi e, talvolta, irregolari come gli sguanci delle finestre, oppure per incorniciare la pittura di figura adornando fregi, lesene, ecc. Eppure l’autonomia che questo ornamento assunse nella prima metà del XVI secolo ha permesso alcune eccezioni. Ad esempio la già citata biblioteca di S. Giovanni Evangelista a Parma mostra un programma iconografico ed anche alcune campate del soffitto del corridoio orientale degli Uffizi. Sappiamo con certezza che Annibal Caro indicò per corrispondenza a Taddeo Zuccari quale iconografia usare e come disporla all’interno del decoro a grottesche che egli, con la sua equipe, doveva dipingere a Caprarola per il cardinal Alessandro Farnese. Il Caro spiegava che le grottesche dovevano essere disposte attorno alla figura principale (mitologica) ed intrattenere con essa un rapporto spaziale e di significato28.

Pirro Ligorio considerava le grottesche come una decorazione che avrebbe potuto essere ricca di allegorie e nel suo trattato Libro dell’antichità del 1570 suggeriva i molteplici modi per arricchirne di significati l’iconografia29

. Quindi, se ne deduce che sebbene il desiderio degli intellettuali del XVI secolo fosse quello di creare una linguaggio colto, misterioso, celato sotto icone incomprensibili per buona parte della popolazione, in realtà solo in rare occasioni questo desiderio trovò un’effettiva realizzazione nella realtà. Le allegorie erano suggerite, come è già stato accennato, da trattati come quello di Orapollo, di Valeriano, del Colonna, ma non ci si faceva

28 Si fa riferimento alla Camera di Aurora, la camera da letto del cardinale, dove attorno alle quattro

figure principali (Aurora, Notte, Mercurio, Luna) le grottesche inglobano, tra racemi e volute, gli attributi tipici di queste divinità. Vedi Morel 1997, p. 111-114.

29 Ad esempio, secondo Ligorio, le architetture impossibili presenti nella decorazione a grottesche,

caratterizzate da lunghe e sottilissime colonnine, sono i “ castegli in aria” e rappresentano la fragilità dei sogni degli esseri umani. Vedi Morel 1997, p. 123.

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51 scrupolo ad attingere anche al Physiologus, uno dei più celebri bestiari medievali, ed anche alle favole di Esopo30.

Paolo Lomazzo, nel suo trattato Discorso intorno al sileno del 1568, associa le grottesche agli emblemi e alle imprese in quanto tutte si accomunano, secondo il suo giudizio, perché sono immagini metaforiche che esprimono concetti spesso complessi. La parentela che Lomazzo rintraccia tra grottesche, emblemi e imprese, è dovuta in parte alla loro genesi costituita dalla scelta colta di un’immagine, come ad esempio quella di un satiro con una donna nuda, aggiungendo al suo significato primario uno convenzionale di “Lascivia”31

.

3.5 Il paesaggio: prima di diventare un genere indipendente

La decorazione a grottesche, dall’iconografia così ricca e varia, ingloba in sé nella sua storia oltre che tra i suoi racemi, anche un importante stadio dell’evoluzione pittorica del paesaggio. Vista l’importanza dell’argomento è sembrato opportuno fare un breve excursus al fine di individuare le peculiarità di questo genere quando era ancora ai suoi primordi affinché si possano precisare le caratteristiche che questi modelli trasmisero ai paesaggi che troviamo nelle grottesche del XV e del XVI secolo.

Sebbene solo nel XVII secolo il paesaggio sia assurto a genere autonomo e indipendente, la presenza di città, paesi, campagne e luoghi marittimi nella pittura è attestata fin dall’antichità. Data la scarsità di testimonianze pittoriche sopraggiunte

30 Nel Palazzo di Santa Croce di Oriolo Romano le grottesche sono arricchite di allegorie tratte dalle

favole di Esopo e di Fedro, le quali sono disposte attorno agli episodi biblici della vita di S. Giuseppe in modo da fungere da “commentario del testo principale”, vale a dire della pittura di figura posta al centro. Vedi Morel 1997, p. 125, anche Di Filippo 2012, p. 32-40.

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fino a noi, è ovviamente difficile per gli studiosi determinarne gli esordi e, talvolta, anche alcuni dei primi stadi evolutivi. Sebbene Aristotele nella Poetica lasci intendere che l’attenzione dello spettatore greco doveva essere focalizzata sugli attori e la trama, pena il mancato raggiungimento della catarsi, probabilmente una sorta di “paesaggio” era già presente nella scenografia teatrale, ma ben poco sappiamo di questi sfondi32. A darci indicazioni preziose per la comprensione dello status del paesaggio nell’arte greca è il celebre trattato geografico di Tolomeo (I sec. d.C.). La memoria di quest’opera era andata persa nel Medioevo e venne recuperata solo nella seconda metà del XV secolo quando, dopo l’invasione ottomana di Costantinopoli nel 1453, i fuggitivi portarono con sé il codice a Firenze, città nella quale Palla Strozzi ne divenne il primo possessore e dove, successivamente, venne tradotto dal greco da Iacopo Angeli il quale cambiò il titolo dell’opera dall’originale Geographia in Cosmographia.

Tolomeo nel suo trattato effettuava una differenzazione tra geografia e corografia in base alle loro caratteristiche precipue. La geografia viene presentata come una rappresentazione globale e unitaria della Terra e in quanto tale basata su regole matematiche, mentre la corografia come la raffigurazione di una sola parte del territorio che dev’essere riconoscibile agli occhi del fruitore, perciò è compito del pittore renderla tale. È interessante notare come la rappresentazione di città, la topografia, fosse esclusa dal trattato tolemaico ma, ciò nonostante, “ritratti” di centri abitati appaiano già nei primi codici prestigiosi del XV secolo, come il Parisinus, il

Vaticanus e l’Urbinas, derivati dalla riscoperta dell’opera greca33.

Per quel che concerne i paesaggi dipinti nell’arte greco-romana si suddividono normalmente in due tipologie, luoghi immaginari e luoghi reali, trattati rispettivamente dalla topothesia e dalla topographia, sebbene entrambi trattino di

32 I pannelli usati per la scenografia teatrale erano chiamati pìnakes, lo stesso termine che

successivamente andrà ad indicare i quadri. Vedi La Rocca 2008, p. 35.

33 Il riferimento è ai tre celebri codici decorati da Piero del Massaio di cui rispettivamente il Parisinus

nel 1458 per Alfonso d’Aragona e conservato a Parigi, il Vaticanus nel 1469 per Niccolò Perotti e l’Urbinas nel 1472 per Federico da Montefeltro entrambi conservati nella riserva papale. Vedi Nuti 1996, p. 24.

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53 spazi idealizzati e mai ritratti dal vero. Inoltre, gli studiosi sono soliti individuare all’interno del secondo tipo un’ulteriore divisione tra “paesaggio idillico-sacrale” descritto da Vitruvio e “paesaggio artificiale” di Plinio. Di fatto, quella tra paesaggio vitruviano e pliniano è una separazione fittizia. Mentre nel De Architectura viene privilegiata in pittura la rappresentazione di campagne, spazi bucolici e sereni per favorire la meditazione e, per questo, si suggeriscono corridoi e portici come posti ideali per tale genere decorativo, Plinio descrive ambienti mondani, giardini artificiali, canali e piccoli personaggi che movimentano la pittura con le loro azioni. In realtà, Vitruvio nel suo trattato riporta le peculiarità dei paesaggi dipinti nel II stile, vale a dire quello a lui contemporaneo, i quali sembrano dilatare gli spazi in modo illusionistico. Ovviamente, la creazione di uno spazio prospettico soggetto a regole geometriche è un’invenzione rinascimentale, nel caso delle campagne dipinte sulle pareti delle domos romane la profondità è suggerita grazie a due fasce: una riporta le figure in primo piano e, quindi, di dimensione maggiore, mentre l’altra tutto ciò che sta nel secondo piano ed appare perciò più piccolo. Il concetto di spazio infinito non esiste ancora, per questo si elude il problema con l’uso di colline e monti che nascondono la linea dell’orizzonte e, spesso, anche con uno sfondo indefinito che ricorda al fruitore odierno il pulviscolo atmosferico dei dipinti rinascimentali. Nell’antica pittura romana solo sporadicamente si riscontra un’unica fonte luminosa, mentre spesso vediamo architetture e alberi che, sebbene appartengano ad uno stesso insieme, alcuni d’essi presentano ombre sulla destra ed altri sulla sinistra e via dicendo. Come già preannunciato, la suddivisione di “paesaggio idillico-sacrale” e “paesaggio artificiale” desunta dai trattati antichi è fuorviante in quanto si osserva l’uso sovente di paesaggi con caratteristiche comuni ad entrambe le tipologie. La descrizione di Plinio dovrebbe ricondurci ad uno stile paesaggistico temporalmente più vicino a quello della domus neroniana e quindi al modello per eccellenza della decorazione a grottesche. Nel II stile compaiono all’interno di edicole e, successivamente in riquadri, dei paesaggi agresti, quieti, dove la natura regna

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sovrana, rispecchiando la descrizione vitruviana34. Durante questo periodo, più precisamente in età cesariana, cominciarono ad esser dipinti anche paesaggi mitologici, vale a dire scene mitologiche nelle quali però lo sfondo paesaggistico gioca un ruolo importante. Probabilmente, anche tale genere mitologico, assieme alla pittura più esclusivamente di paesaggio ed alle crustae (l’imitazione delle varie tipologie di marmo), rientrava nella pittura definita “antica” da Vitruvio e che l’autore privilegiava rispetto a quella a lui coeva35

. Verso la fine del III stile, questi

pìnakes scandiscono in maniera ritmica e simmetrica le pareti delle domos romane e

nel paesaggio le architetture dipinte assumono un ruolo sempre maggiore. Infine, nel IV stile i riquadri sono come gioielli che impreziosiscono un decoro già ricco, inoltre il modo di dipingere si trasforma: la pennellata si fa più veloce, compendiaria, a macchie di colore, privilegiando la freschezza del tocco piuttosto che la precisione del dettaglio. In particolare, nella Domus Aurea si possono ammirare dei paesaggi dipinti nella Stanza delle Maschere (n. 114); questi, come precedentemente annunciato, appartengono al IV stile e sono pensati per essere apprezzati da una certa distanza, nel loro effetto d’insieme, non da vicino. Questo tipo di paesaggio deve aver influito a determinare certe caratteristiche di quello che appare all’interno di riquadri nelle grottesche del XV e del XVI secolo.

Lo stesso schema compositivo del decoro romano che amalgama riquadri con scene mitologiche o paesaggistiche incastonati in volute vegetali impreziosite da putti, cornucopie e ibridi fantastici, è facilmente riconoscibile nelle grottesche rinascimentali; l’origine di tali riquadri dell’arte romana è riconducibile alle pinacoteche fittizie dei santuari ellenistici. La pinacotheca, secondo Strabone, era il termine con il quale si indicava un santuario adorno di pìnakes, questi erano

34 Un esempio di paesaggio del II stile lo si può apprezzare nella Sala delle Maschere della così detta

Casa di Augusto sul Palatino.

35 L’idea che la pittura mitologica rientri nel riferimento di Vitruvio è data dall’ utilizzo del termine

megalographia nel De Architectura con il quale, sostiene La Rocca, l’autore indicava non tanto la

dimensione del dipinto quanto l’importanza del soggetto rappresentatovi. La classificazione di soggetti più o meno degni d’essere rappresentati in pittura interessò ancor prima i greci e giunse a Vitruvio tramite Demetrio (I secolo a.C.) che sosteneva la pittura di storia e condannava la

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55 dapprima della tavolette votive, lignee o in terracotta che imitavano la lamina sbalzata, successivamente, assursero lo status di veri e propri quadri che impreziosivano anche le domos romane36.

Come è noto, nel Rinascimento rinacque la volontà di rappresentare il territorio ed i centri urbani con valori numerici. A favorire gli studi in tale direzione furono certamente la riscoperta di importanti trattati, come quello tolemaico e quello vitruviano, la nascita del sistema prospettico e la necessità di un rilevamento geometrico preciso dato dalle guerre e dal conseguente bisogno di un rafforzamento del sistema difensivo dei centri urbani. La fioritura di letteratura inerente gli strumenti e i metodi di rappresentazione matematica che ne derivò, determinarono quelle caratteristiche che differenziano sostanzialmente le raffigurazioni di ambienti urbani della pittura greco-romana da quelli rinascimentali. Infatti, come è già stato preannunciato, mentre nella pittura dell’antichità classica sembra che si dipingessero solo paesaggi tipizzati, senza alcuna volontà di ritrarre dei luoghi reali dal vero, all’interno dei pìnakes affrescati nelle grottesche del XV e del XVI secolo appaiono essenzialmente due tipologie: quella totalmente nuova dei ritratti di città e quella più in linea con le pitture greco-romane dei paesaggi di fantasia, non ritraenti un luogo reale, i quali però hanno ormai raggiunto un maggior livello di mimetismo e verosimiglianza grazie alle innovazioni tecniche rinascimentali. All’interno delle grottesche del XV e del XVI secolo appaiono infatti sia paesaggi di fantasia, talvolta in relazione con le stagioni o gli elementi, come nel corridoio orientale degli Uffizi, sia reali ritratti di città, come nella volta della Sala d’Ingresso del Palazzo Farnese a Caprarola. Tali paesaggi probabilmente derivano dall’esperienza pittorica fiamminga, non a caso alcuni studiosi hanno proposto anche il nome di Jan Ruyssch, originario di Utrecht, come possibile collaboratore e decoratore di grottesche all’interno delle Logge vaticane37

. Questa tipologia risulta più libera rispetto a quella

36 Vitruvio, infatti, con pinacotheca indicava una parte della domus destinata alla raccolta di pitture.

37

Tra i primi studiosi a proporre Jan Ruyssch come pittore delle grottesche della Stanza della Segnatura fu la Dacos. Vedi Dacos 1969, p. 103-104.

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del ritratto di città, non soggetta come la seconda a veri e propri principi matematici, ma comunque conscia delle nuove regole che si erano imposte nella rappresentazione; ad esempio si riscontra la presenza del pulviscolo atmosferico, di una maggior linearità nella resa della profondità, ecc.

Fin ora abbiamo quindi trattato della pittura di paesaggio come naturale evoluzione di un tipo di decorazione dall’Antichità Classica al Seicento, vale a dire quando realmente diventerà un genere totalmente autonomo; ma quali furono le antiche testimonianze che influenzarono in maniera diretta i pittori rinascimentali? Sebbene celebri autori come Vitruvio e Plinio il Vecchio fossero noti, ed entrambi facciano riferimento all’uso di pittura di paesaggio nell’antica Roma, è molto probabile che a spingere verso una maggiore attenzione a tale genere abbiano contribuito in maniera determinante delle fonti visive autentiche riscoperte nella ricca Città Eterna. Sfortunatamente, buona parte delle antiche pitture romane visibili nel XV e nel XVI secolo non si sono mantenute fino ai giorni nostri e non esiste una documentazione precisa che ci possa testimoniare con certezza cosa potessero vedere i pittori di quel periodo dipinto nelle rovine antiche38. Grazie all’Opusculum de mirabilibus urbis

Romae di Francesco Albertini, è noto che tra il 1502 e il 1509 (il periodo che

trascorse l’autore in città) erano visibili delle antiche pitture nella zona degli Horti

Sallustiani, tra il Quirinale e il Pincio, ma anche in un luogo non ben precisato

vicino alla via Salaria e sul Quirinale stesso39. Come precedentemente accennato, di queste pitture non c’è più traccia ai giorni nostri, ma dati i riferimenti degli autori rinascimentali a tali luoghi è effettivamente possibile che i pittori del XV e del XVI secolo abbiano trovato nei resti antichi quella stessa ispirazione che la Domus Aurea diede loro per la creazione delle grottesche.

38 Solo nel XVII secolo Cassano del Pozzo per primo eseguirà una raccolta sistematica delle pitture

antiche per il suo Museo Cartaceo. Ovviamente, nel XV secolo c’era a Roma Pomponio Leto e la sua accademia, ma erano interessati specialmente allo studio delle epigrafi.

39 Anche Pirro Ligorio fece un riferimento ad un antico cryptoportico presente sul colle del Quirinale.

Vedi Ligorio, Archivio di Stato, Torino, ms. a.III.10.J.8, vol. 8, libro 7°, f. 151v (ad vocem “Grottesche”). Anche in Dacos 1961, p. 161 e in La Malfa 2009, p. 102.

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3.6 Figure zoomorfe e teratomorfe

La decorazione a grottesche è soprattutto celebre per gli strani esseri che la popolano ed è anche uno dei maggiori motivi di fascino di tale ornamento. Mentre infatti tutto il Rinascimento sembra volto ad una resa sempre più realistica del mondo che lo circonda, le grottesche sembrano volgersi nella direzione opposta e, non paga di questo, si permette addirittura di mescolare senza remore “il vero” con “il fantastico”. Tale caratteristica è ancor più marcata nelle grottesche del XVI secolo rispetto a quelle del XV; mentre inizialmente le figure che l’adornano sono rese con un tocco più veloce e corsivo come quello del modello antico e risultano un po’ piatte, successivamente diventano quasi personaggi a tutto tondo, dettagliati, che si stagliano ancor più inspiegabilmente su un fondo monocromo, omogeneo e compatto.

Buona parte degli ibridi animali che vi compaiono possono sembrare agli occhi del fruitore moderno esseri bizzarri nati dalla fervida fantasia del pittore, eppure alcuni di questi non erano considerati tali nel XV e nel XVI secolo. Il confine tra reale e fantastico non era rigidamente delineato: la cultura europea in quel periodo stava prendendo coscienza di luoghi lontani ancora inesplorati e, per questo, potenzialmente ricchi di animali sconosciuti e di nuove etnie con insolite tradizioni. Fin dall’Antichità e per tutto il Medioevo la letteratura si presentava ricca di riferimenti a bizzarri popoli di paesi remoti; tra questi forse i più celebri sono gli abitanti del regno di re Giovanni, sciapodi, ecc. le deformità di queste etnie erano dovute, secondo il pensiero cristiano, alla privazione di Dio. Si sottolinea, inoltre, che attorno al XVI secolo nacque persino una scienza che si interessava del mostruoso e del fantastico e che venne chiamata teratologia.

Non a caso, anche nelle decorazioni a grottesche vediamo abbinati di sovente esseri immaginari e riferimenti a culture esotiche realmente esistenti. Realtà e fantasia,

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58

dunque, si mescolavano nelle grottesche ma il fruitore rinascimentale non percepiva quell’incongruità che vi potrebbe riscontrare l’osservatore contemporaneo. Molto probabilmente questa decorazione appariva come una sorta di enciclopedia del meraviglioso: varie specie di volatili ritratti con fedeltà, come estratti da un trattato ornitologico, si confondono tra satiri, centauri e stravaganti esseri ibridati40 (figg. 8-9).

Anche la conoscenza dei bestiari medievali di derivazione più o meno diretta dal

Physiologus alessandrino del II-III secolo d.C. influì nella realizzazione di tale

decoro41. Questi codici, infatti, come suggerisce il nome, trattavano principalmente di animali e presentavano originariamente dei capitoli bipartiti tra descrizione delle peculiarità che contraddistinguono l’animale e la spiegazione del suo significato simbolico. Il trattato è basato sul pensiero neo-platonico che traeva dalle parole di San Paolo la convinzione secondo la quale lo studio della realtà che ci circonda porterebbe ad una conoscenza profonda del sovrannaturale. Ovviamente, negli scritti paolini non ci si riferiva ad uno “studio delle scienze naturali” in senso moderno, bensì ad una decodificazione dei simboli presenti in natura tramite tecniche esegetiche. Quindi, come abbiamo visto nel caso dei geroglifici, sorse un trattato interpretativo, il Physiologus, successivamente tradotto in latino e in volgare, specialmente francese e italiano, ed arricchito di volta in volta con spunti tratti da altre fonti e che divenne, proprio come il De hieroglyfica , una importante risorsa iconografica. Non è noto se il Physiologus greco fosse o meno corredato di immagini, ma senz’altro diede origine ad un vasto numero di codici adorni di splendide illustrazioni. Durante i secoli tale trattato venne notevolmente modificato rispetto l’opera originaria tanto che, attorno alla metà del XIII secolo, si crearono manoscritti che si distaccano fortemente dagli intenti primitivi del Physiologus ; si ricorda brevemente il Bestiaire d’Amours che interpretava, secondo la logica

40 Morel 1997, p. 77-79.

41 Il termine “bestiario” indica tutti quei manoscritti appartenenti al tardo Medioevo che, sebbene

desunti dal Physiologus hanno ormai assimilato nozioni provenienti da altre fonti di soggetto analogo; tra queste l’Etymologiae di Isidoro e il De naturalis historiae di Plino erano privilegiate.

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59 dell’amor cortese, le allegorie animali in chiave erotica e il Bestiario moralizzato con intenti didattici ed edificanti. Quest’ultima versione risulta particolarmente interessante ai fini della nostra analisi del decoro a grottesche. Infatti da tale versione educativa, dove le interpretazioni allegoriche del Physiologus erano diventate degli

exempla morali, discende il filone che giunse fino al XV secolo ed influenzò persino

il breve bestiario di Leonardo da Vinci nel quale gli animali sono, appunto, emblemi di vizi e virtù. In questa veste la rappresentazione degli animali è accomunata, nell’utilizzo che i pittori potevano farne, ad altri trattati come i già citati

Emblematum Liber, De hieroglyfica, ecc.

Le grottesche, come è stato illustrato nel paragrafo 3.2, spesso hanno funzione esclusivamente ornamentale, mentre talvolta si arricchiscono di significati non sempre facili da decodificare; uno degli esempi più affascinanti di decorazione a grottesche che presenta un’iconografia parlante è quella del corridoio degli Uffizi. Morel, data la disomogeneità dell’organizzazione dei temi affrontati nelle varie parti che compongono il soffitto di questo corridoio, trovò come concetto unificante dell’intera opera l’idea di rappresentare una sorta di enciclopedia del sapere costruita tenendo conto della topografia del palazzo e dell’uso a cui erano adibite le stanze adiacenti. In quanto illustrazione enciclopedica, oltre all’obbiettivo di rappresentare tutti i saperi raccolti fino ad allora, testimoniato dalla presenza di un vasto repertorio ornitologico, di figure e oggetti dipinti riproducenti opere realmente esposte nella collezione Medici, la sua struttura è organizzata in modo simile alle opere mnemotecniche che ebbero grande fortuna proprio nel XVI secolo: una sorta di trade

d’union con l’organizzazione del celebre trattato dell’ Idea di un tempio del teatro di

Camillo.

La rappresentazione di ibridi mostruosi trovò invece rappresentazione nei pilastri del chiostro del convento benedettino di Oliveto Maggiore presso Siena (fig. 10), dove Giovan Antonio Bazzi, detto il Sodoma, dipinse attorno al 1505-’08 quelle strane popolazioni che, come è stato accennato precedentemente, erano illustrate nei codici medievali e trovarono poi nuova celebrità nelle prime stampe. In particolare, la fonte

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usata dal Sodoma in questo caso fu il Liber Chronicarum di Schedel, il quale conteneva accanto ad immagini di città anche xilografie delle etnie leggendarie42. Eppure è importante rilevare che, specialmente per le figure zoomorfe, ma non solo per queste, anche l’influenza dei decori medievali ebbe un ruolo importante nel determinare la fisionomia delle grottesche. Durante il Medioevo gli ornati di derivazione greco-romana non erano stati completamente dimenticati, bensì spesso modificati e trasformati tramite l’influenza di altre culture. Ad esempio, talvolta sopravvivono alcuni motivi iconografici tipicamente classici assumendo caratteristiche nuove che ne stravolgono l’aspetto originario; la Zamperini poneva l’esempio dei “mascheroni fitomorfi” che, sotto l’influsso celtico del Green Man43

, assunse inquietanti connotazioni maligne44. Ma nonostante la ricca presenza di animali, mostri e ibridi nei componenti architettonici medievali, quali capitelli, fregi, doccioni, la maggior affluenza di tali esseri fantastici è riscontrabile nei manoscritti. Nelle lettere iniziali, ma ancor più nei marginalia, la libera creatività del miniatore dava vita a tralci vegetali che si tramutavano in teste di draghi o altri esseri immaginari. Tale ornamentazione antimimetica è riscontrabile già nei codici irlandesi del VII e dell’ VIII secolo. Verso la fine del X secolo le cornici di impaginazione si fecero sempre più articolate e vennero disposte secondo la regola della simmetria, questa è una norma che le accomuna agli antichi decori parietali romani e alle grottesche rinascimentali45.

Se inizialmente i decori medievali tendevano maggiormente al “mostruoso” e “grottesco” (quest’ultimo da intendersi con il secondo significato che assunse tale

42 Credo sia importante sottolineare come la decorazione del Sodoma nel chiostro senese avvenne

prima che il pittore avesse potuto ammirare le pitture neroniane, tanto che le grottesche che dipinse successivamente nelle Stanze Vaticane si differenziano sostanzialmente dall’ornato dei pilastri del convento di Oliveto Maggiore.

43 Alcuni studiosi sostengono che l’origine del motivo decorativo del Green Man ( un mascherone

formato da fogliame), oltre che di derivazione da divinità forestali, sia in stretta connessione con la festa tradizionale del MayDay e il travestimento in Jack of the Green, dove un uomo indossa un costume da “cespuglio verde”.

44

Zamperini 2007, p. 71

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61 termine dal XVII-XVIII secolo), durante il periodo tardo-gotico le figure si fecero più aggraziate ed eleganti annullando quella distanza che forse avrebbe impedito agli artisti del Rinascimento di farle naturalmente affluire nella decorazione a grottesca.

Il primo pittore che inserì animali ritratti dal vero tra le volute del nostro ornamento, fu Giovanni da Udine. Egli diede inizio ad una peculiarità tutta cinquecentesca di tale decorazione: un realismo e un’attenzione al dettaglio nella rappresentazione degli animali tipici dell’illustrazione scientifica immessi in un contesto che oggi appare quanto meno bizzarro se non in antitesi con ciò che potremmo definire “rigoroso” e “scientifico”. Questa caratteristica è riscontrabile anche nelle grottesche successive, realizzate da altri artisti. In particolare, si ricorda il Bachiacca, il quale decorò a grottesche molte opere, a cui il duca Cosimo I richiese di ritrarre un uccellino in gabbia46 . Lo stesso Bachiacca, inoltre, ebbe parte attiva negli studi zoologici del duca, per il quale realizzava delle effettive illustrazioni scientifiche47. Ovviamente, questo non fu un caso isolato; molti artisti e decoratori di grottesche del XVI secolo spesso avevano anche delle particolari doti nel ritrarre animali e piante con profondo realismo.

3.7 Le Metamorfosi di Ovidio

Alcuni studiosi hanno osservato che tra le Metamorfosi ovidiane e le grottesche ci sono molte similitudini. Innanzi tutto, come suggerisce il titolo dell’opera latina, la

46 Lo testimonia una lettera del 23 febbraio 1551. Doc. 99.

47 Una lettera del 16 settembre 1550 del naturalista napoletano, Simone Porzio, al servizio del duca

Cosimo I narra di tre pesci di diversa specie che fece ritrarre dal Bachiacca. Doc. 64. Vedi La France 2008, p. 156.

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continua trasformazione di un essere vivente in un altro è il tratto più evidente di contatto tra il testo di Ovidio e la decorazione rinascimentale. Certamente le analogie che si possono riscontrare sono molteplici: ad esempio entrambe hanno come perno centrale il tema dell’amore, attorno al quale ruotano diverse emozioni, come passione, gelosia, invidia, odio e varie situazioni sia negative che positive. Inoltre, la struttura stessa con cui si presentano le Metamorfosi di Ovidio e le grottesche è simile: un concatenarsi di eventi, storie, personaggi, trasformazioni. Infine, entrambe trattano di mitologia, ma con molti riferimenti alla natura ed ai suoi eventi, mescolando quindi tratti realistici ad altri fantastici.

La differenza fondamentale delle Metamorfosi ovidiane rispetto ad altre opere antiche già menzionate nei paragrafi precedenti è che in questo caso non siamo di fronte ad un testo caduto nell’oblio per anni e poi riscoperto nel XV secolo, bensì ad una pietra miliare della letteratura latina che non è mai stata dimenticata ed ha subito numerose modifiche nel tempo. La fortuna di quest’opera fu senz’altro la possibilità di intendere in diversi modi le storie che racchiude; non a caso presto si formarono due correnti interpretative principali: una moralizzata ed una cortese. Il primo filone interpretativo vide la luce grazie all’ Ovide moralisé e presto questa versione “cristianizzata” divenne nota anche ad un pubblico meno colto, che non sapeva leggere ma frequentava assiduamente la chiesa: infatti, divenne un’abitudine diffusa quella di utilizzare dei rimandi a tale testo durante le omelie. Quest’uso frequente che ne facevano i preti è attestato fin dal XIV secolo, ed ancora alla fine del secolo successivo il Savonarola condannava ferocemente questa pratica. Quindi, rispetto alle opere antiche precedentemente analizzate, come il De hieroglyfica di Orapollo o la Geographia tolemaica, c’è una conoscenza dei testi che si estende ad un pubblico più ampio. In questo caso, perciò, siamo di fronte ad un’opera che era considerata erudita dagli intellettuali, ma che al contempo aveva una insolita popolarità che la portò ad avere, fin dalle prime stampe, edizioni illustrate48. Questa “anomalia” può essere spiegata in quanto è noto che le Metamorfosi erano spesso usate anche come

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63 libro d’apprendimento per gli studenti; a tal proposito si ricorda la lettera inviata da Gentile Becchi il 5 settembre 1461 a Piero il Gottoso per informarlo degli studi di suo figlio Lorenzo de’ Medici, dove si evince che il dodicenne stava leggendo proprio questo testo ovidiano49. Questa diffusione verso un pubblico più ampio comportò, molto probabilmente, una conoscenza diretta delle Metamorfosi da parte degli artisti. Ovviamente, le edizioni lette dai pittori saranno state quelle in italiano, dato che il latino raramente era conosciuto al di fuori dello strato sociale più alto. La traduzione del 1497 di Giovanni dei Bonsignori, l’Ovidio Metamorphoseos

vulgare50, con le sue numerose riedizioni che ne attestano il grande successo, è quindi il testo che più verosimilmente potrebbe esser stato letto dagli artisti rinascimentali, specie nella versione illustrata. Da Raffaello Regio in poi le

Metamorfosi vennero intese principalmente come una sorta di opera enciclopedica

sulla mitologia classica e le edizioni illustrate vennero usate come fonte iconografica per la rappresentazione delle storie principali. È stato dimostrato, infatti, che l’influenza delle xilografie dell’edizione di Bonsignori è già presente sulle volte dipinte del 1510-’20: nello stesso periodo la decorazione a grottesche già adornava le facciate esterne dei palazzi fiorentini51.

Tra i primi studiosi ad individuare una sorta di analogia tra le Metamorfosi di Ovidio e la decorazione a grottesche fu Barolsky52, il quale sottolineò come tutta la cultura rinascimentale italiana fosse fortemente imbevuta di opere ovidiane e come quindi fosse improbabile che le grottesche sfuggissero a tale costante. A proseguire gli studi in questa direzione è Kommerell53 che indica due modi con i quali il testo di Ovidio potrebbe aver influenzato la creazione o lo sviluppo del decoro rinascimentale. Secondo lo studioso, infatti, le Metamorfosi non solo procurarono i soggetti per la

49 Anselmi e Guerra 2006, p. 75

50 Giovanni de’ Bonsignori, Ovidio Metamorphoseos vulgare, Venezia, Lucantonio Giunta, 1497,

ristampe 1501, 1508, 1517, 1519, 1520, 1523.

51 Kommerell 2008, p. 67. 52

Barolsky 1998, p. 89.

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pittura centrale, ma anche per le grottesche che l’attorniavano come un commento agli episodi principali, dove si sottolineava il tema trattato (ad esempio la presunzione nel caso del mito di Atena e Aracne, ecc.) Questa concezione della decorazione a grottesche come resa di “concetti invisibili resi visibili” che propone Kommerell in realtà non è una proposta interpretativa totalmente nuova: lo studioso tedesco, per sua esplicita ammissione, si rifà spesso agli studi della Dacos, tanto che narra persino d’averla incontrata personalmente un paio di volte nel suo viaggio di studio in Italia ed aver disquisito con lei alcune delle problematiche principali inerenti il nostro decoro. Sempre in accordo con la studiosa belga, Kommerell asserisce che le grottesche non hanno una funzione narrativa e, per questo, è difficile riscontrarvi dei chiari riferimenti alle storie ovidiane contrariamente alla pittura centrale che, di frequente, vi fa un esplicito rimando. Lo studioso tedesco tenta di creare un ponte per unire gli studi della Dacos con quelli di Godwin, con particolare riferimento alla sua teoria del sogno pagano’54

. Kommerell, infatti, vede la decorazione a grottesche alla luce del fatto che nel XV secolo i collezionisti d’oggetti antichi si approcciassero all’Antichità classica come modo per evadere dalla quotidianità: le decorazioni “all’antica” permettevano di rappresentare ciò che altrimenti sarebbe stato proibito, come corpi nudi e immagini lascive. Al contempo, però c’era un desiderio intellettuale che veniva appagato tramite gli oggetti, le pitture e la letteratura che permettevano al fruitore di immedesimarsi maggiormente nel “sogno” e di sentirsi per un attimo parte del proprio mondo antico, frutto della sua immaginazione, con lo scopo di dar diletto. In definitiva, Godwin attribuisce al desiderio collezionistico del XV secolo e alla spinta verso l’antico di tutta la produzione artistica una ricerca del piacere, da parte dell’uomo rinascimentale, molto simile a quella che l’uomo moderno intraprende tramite la lettura d’evasione o la visione di un film.

Concludendo, sostengo che lo studio dell’influenza delle Metamorfosi di Ovidio sulla decorazione a grottesche meriterebbe d’essere maggiormente approfondito:

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65 sfortunatamente Kommerell si è limitato solo ad accennare ad alcune problematiche senza giungere a vere e proprie conclusioni che supportassero la sua tesi. Sarebbe interessante, ad esempio, se si potesse considerare più dettagliatamente ciò che lo studioso tedesco accenna a proposito dell’edizione di Bonsignori del 1497; dove pone l’accento sulla decurtazione di alcune parti del testo e della privazione della struttura tipica dell’opera originaria realizzata in un continuo concatenarsi di storie mitologiche. Se realmente questa edizione fu la fonte da cui i pittori di grottesche attinsero, di certo non si potrebbe affermare l’influenza della struttura letteraria ovidiana su quella pittorica delle grottesche. Allo stesso modo, credo possa essere utile ampliare lo studio anche alle edizioni successive, affinché si possa valutare quale testo più verosimilmente possa esser stato letto dagli artisti e se i cambiamenti apportati tra XV e XVI secolo all’opera di Ovidio abbia determinato un mutamento anche nelle arti pittoriche.

Il nuovo prestigio raggiunto dalla lingua italiana nel XVI secolo comportò mutamenti anche nelle traduzioni degli antichi testi latini, ad esempio, mentre nella versione di Niccolò degli Agostini55 del 1522 ci si accontentò di attingere a manoscritti molto recenti rispetto all’originale ovidiano, scadendo un po’ a livello linguistico e culturale, nelle successive versioni di Lodovico Dolce56 del 155357 e di Giovan’Andrea dell’Anguillara58

del 1561, avendo l’epica ormai raggiunto un

55 Niccolò degli Agostini scrisse Tutti gli libri de Ovidio Metamorphoseos tradutti dal litteral in verso

vulgar con le sue Allegorie in prosa stampata a Venezia da Niccolò Zoppino e Vincenzo di Pollo nel

1522, subendo numerose ristampe (1533, 1537, 1538, 1547, 1548). Güthmuller in un capitolo dell’Anselmi e Guerra 2006, pp. 151-164, sottolinea che l’Agostini apparteneva alla retrovia letteraria ed era impegnato a scrivere per un vasto pubblico senza grandi pretese’ la continuazione dell’Orlando

Innamorato del Boiardo e un rifacimento dei romanzi di materia bretone, come Il primo libro dello inamoramento de messer Tristano et di madonna Isotta (1515) e Lo inamoramento de messer Lancilotto e di madonna Genevra (1521).

56

È bene specificare che L. Dolce nel 1539 aveva scritto una prima traduzione in versi sciolti sostenendo, in linea con le idee del Trissino, che tali versi della metrica italiana corrispondessero all’esametro di quella latina.

57 All’Invittiss. e Gloriosiss. Imp. Carlo Quinto. Le Trasformazioni di M. LodovicoDolce, con

privilegii, Venezia, Gabriel Giolito de Ferrari e fratel[li], 1553.

58 Letterato che cercò fortuna presso numerose corti italiane e persino in quella francese da come è

possibile dedurre dalla dedica iniziale del suo libro Le Metamorfosi d’Ovidio al Christianissimo re di

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successo consolidato grazie alla fortuna avuta dell’Orlando Furioso ariostesco, le

Metamorfosi vennero “stravolte” in un adattamento in ottava rima con il chiaro

intento di trasformare l’opera latina in una moderna opera italiana. I notevoli mutamenti che subisce il testo ovidiano sono stati ampiamente studiati, ma in che misura tale cambiamento ha influenzato i pittori? Senz’altro è una domanda a cui è difficile rispondere in maniera esaustiva, ma sarebbe interessante se si potesse approfondire l’argomento.

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