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Legittimità, “nomofilachia” e motivazione della sentenza: l’incontrollabilità in cassazione del ragionamento del giudice. - Judicium

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B

RUNO

S

ASSANI

Legittimità, “nomofilachia” e motivazione della sentenza:

l’incontrollabilità in cassazione del ragionamento del giudice.

Sommario: 1. L’illusione “nomofilattica” – 2. Legittimità e “nomofilachia” – 3. Controllo di logicità come “senso delle cose” – 4. Funzione prospettica e giudizio – 5. Precedente giudiziale ed equivoci culturali – 6. Il complesso del filtro – 7. Insegnava Virgilio Andrioli ... – 8. Bilanciamento dei fatti e criterio di sussunzione – 9. La storia si ripete? – 10. Il recupero del n. 3 e la gabbia del principio di diritto – 11. Una perdita fatale: il défaut de base légale.

1. L’illusione “nomofilattica” – L’idea di distaccare il giudizio di legittimità dal controllo della motivazione della sentenza “somiglia all’illusione di poter separare in modo indolore la carne dal sangue in un organismo vivente”. Con questa metafora di Giovanni Verde1 riprendo il filo di un mio precedente articoletto2 * in cui manifestavo il disorientamento di chi un bel giorno scopre la cancellazione del controllo della motivazione nel giudizio di cassazione e la conseguente riduzione della Corte Suprema a “Corte del Sillogismo”.

L’eliminazione del controllo sulla motivazione (tale non è certo il controllo a carattere latamente revocatorio introdotto dal nuovo n. 5 dell’art. 360 c.p.c.) nasce dall’idea che l’ufficio cardinale della Corte sarebbe il perseguimento della

“funzione nomofilattica”, funzione intesa come tendenzialmente incompatibile con l’indagine sugli aspetti di fatto della controversia, aspetti di fatto che inquinerebbero il motivo del n. 5, incrementando il contenzioso e imponendo alla Corte di confrontarsi con temi e questioni estranee ad un giudizio di legittimità.

1 L’autore l’ha espressa in una sua Relazione, nella sede della Corte di cassazione, in uno degli innumerevoli incontri/dibattito sulla recente riforma delle impugnazioni nel corso del mese di novembre 2012. Alla Relazione corrisponde sostanzialmente l’articolo Diritto di difesa e nuova disciplina delle impugnazioni in www.judicium.it

2 “La logica del giudice e la sua scomparsa in cassazione”, in www.judicium.it , 31.10.2012 e in Riv. trim. dir. proc. civ. 2012. * PER COMODITÀ DEL LETTORE SI RIPORTA IL TESTO DI QUESTO BREVE SAGGIO IN CODA AL PRESENTE ARTICOLO

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La reazione è provocata certo dall’esasperazione per la sovrabbondanza di ricorsi

‘senza capo né coda’ (copyright Andrioli), ricorsi che ripropongono stucchevolmente la migliore qualità della testimonianza di Tizio sulla deposizione di Caio, ovvero denunciano la mancata preferenza accordata alla CTP rispetto alla CTU. Cionondimeno – come è ormai costume nella frenesia riformatrice del processo – la drastica eliminazione rischia di rivelarsi rimedio peggiore del male, foriera di più svantaggi che vantaggi. Cosa, questa, ben percepita dal legislatore del 2006 che aveva imboccato il cammino inverso quando aveva cancellato l’incongruo tentativo delle Sezioni Unite di restringere la ricorribilità ex art. 111 cost. attraverso un’interpretazione della locuzione “violazione di legge” del suo settimo comma come escludente il controllo della motivazione.3 Il decr. lgsl n.

40/06 aveva infatti aggiunto un comma finale all’art. 360 c.p.c. con la precisa intenzione di impedire discriminazioni sul piano dei motivi di ricorso. Scopo dichiarato era la reintroduzione del motivo del n. 5, incongruamente espulso dalla sfera del ricorso straordinario.4 La prolungata assenza del controllo della motivazione da questo ampio settore del giudizio di cassazione aveva sollevato un sentimento di ingiustizia5 ma non aveva in alcun modo accelerato i tempi o compresso il numero dei ricorsi, dal momento che il d. lgs. n. 40/06 era

3 Cass., sez. un., 16 maggio 1992, n. 5888.

4 SASSANI B., Il nuovo giudizio di cassazione, Riv. dir. proc. 2006, § 9. Il quarto comma aggiunto all’art. 360 c.p.c. prescrive: «Le disposizioni di cui al primo comma e terzo comma si applicano alle sentenze ed ai provvedimenti diversi dalla sentenza contro i quali è ammesso il ricorso per cassazione per violazione di legge». Questo vuol dire soprattutto che viene bandita la possibilità di leggere riduttivamente l’espressione

«violazione di legge» dell’art. 111, 7° comma, Cost. con conseguente delegittimazione della linea giurisprudenziale che esclude dai motivi di ricorso straordinario il n. 5 dell’art.

360 c.p.c. Non vi è alcuna ragione di diversificare l’ambito dei motivi tra il ricorso contro le sentenze in grado d’appello o in unico grado previsto dal codice e il ricorso contro gli altri provvedimenti fondato sul dettato costituzionale, diversificazione che aveva reso quest’ultimo un mezzo inadeguato al fine. Tramite il ricorso straordinario diveniva possibile la denuncia dell’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione della decisione (in realtà tornava ad essere possibile, se si considera che la lettura riduttiva nasceva da sez. un. n. 5888/1992 che, illusoriamente, aveva immaginato di poter arginare il flusso crescente dei ricorsi ex art. 111 cost. attraverso la limitazione dei motivi ai soli nn. da 1 a 4 art. 360 c.p.c.: R. TISCINI, Il ricorso straordinario in cassazione, Torino 2005, 292 ss.; B. SASSANI,Corte suprema e jus dicere, in Giur. it. 2003, p. 822, nota 2.)

5 Sono proprio le materie in cui prevalentemente opera il ricorso straordinario a richiedere più di tutte il controllo della motivazione, sia per ragioni intrinseche, sia per la molto minore garanzia del giudizio (lato sensu) di fatto dovuta alla natura di pronunce in unico grado dei provvedimenti impugnati.

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giustificato, tra l’altro, dalla crescita esponenziale del contenzioso proprio nel lasso di tempo considerato.

2. Legittimità e “nomofilachia” – In ogni caso l’opzione attuale è frutto di un errore di prospettiva radicato in una sostanziale incomprensione del fenomeno del controllo di legittimità. Controllo confusamente attratto dalla generica idea che il riscatto della Corte sia affidato alla sua funzione c.d. ‘nomofilattica’, versione salvifica del giudizio di legittimità cioè del giudizio di controllo e garanzia del rispetto, da parte del giudice della sentenza impugnata, della legge nel caso concreto. Caso concreto vuol però dire fatto (giuridico non meno che storico) e vuol dire scelta tra le opzioni possibili: senza considerazione del fatto, come mediato dal giudizio, non è possibile giudicare del rispetto della legge, e, per conseguenza, non è neppure possibile svolgere una funzione lato sensu nomofilattica.

A proposito della quale funzione, si impone un chiarimento: nel suo significato autentico (cioè nella prospettazione di Calamandrei, padre dell’espressione e indiscussa auctoritas in materia) con ‘funzione nomofilattica’ si designa il compito della Corte di reprimere6 la violazione concretamente perpetrata dal giudice del merito.7 In tale accezione nomofilachia coincide però con legittimità, mentre resta concettualmente distinta dall’ufficio della Corte di regolare in prospettiva l’interpretazione giudiziaria del diritto obiettivo in vista della sua uniformazione, attività di unificazione della giurisprudenza esercitata in nome della auctoritas rerum similiter iudicatarum. Se questo è vero, pensare che possa aversi un controllo di legittimità sostanzialmente indifferente al fatto – rectius alla ricostruzione del fatto concretamente operata e rappresentata dal giudice di merito – è un controsenso: dell’intervenuta applicazione della legge si può conoscere solo ripercorrendo la vicenda evocata in sentenza.

6 Repressione diretta ed immediata, intrinsecamente diversa dalla repressione apparente del giudizio d’appello, in cui il giudice non è chiamato a giudicare sul giudizio pronunciato dal giudice di primo grado ma a pronunciare un nuovo giudizio che a quello si sostituisce per autonoma scelta preferenziale del secondo giudice.

7 Gardien de la loi traducono i francesi (cfr. J. BORE, L. BORE, La cassation en matière civile, Paris 2003, 01.92).

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3. Controllo di logicità come “senso delle cose” – La tradizionale formulazione del n. 5 rendeva denunciabile “la trasgressione del dovere processuale di decidere causa cognita” in modo da non “lasciare in chi legge il testo l’incognita circa il

«perché»”.8 Sotto il nome di ‘controllo di logicità’ opera(va) in realtà il controllo degli aspetti discrezionali del giudizio, della “graduazione di opportunità secondo il senso delle cose”,9 perso il quale è perso appunto il “senso delle cose”.

L’eliminazione del controllo di motivazione sposta il fuoco su costruzioni giuridiche meramente ipotetiche: il termine nomofilachia diventa sinonimo di creazione di nuova norma astratta (seppure ad un livello di minore astrazione della disposizione legislativa), in flebile collegamento con i fatti e con le scelte.

Ovvero in collegamento con mere supposizioni di fatti, in assenza del controllo di congruità della loro ricostruzione.

La confusione tra il concetto di legittimità (comprensivo dell’elemento nomofilattico correttamente inteso) e lo spurio concetto di nomofilachia consistente nella funzione regolatrice della futura interpretazione giudiziaria, ha portato alla lettura del primo concetto attraverso la lente deformante del secondo.

Ed ha condotto a invocare il bando del controllo di logicità come attività sostanzialmente estranea alla funzione della Corte, come discesa ingrata agli aspetti storici della vicenda giudicata e quindi come indebita assunzione di compiti esclusivi del giudice di merito. Ma la Corte può svolgere le sue funzioni di nomofilachia solo attraverso la formulazione di un vero e proprio giudizio, seppur reso secondo i canoni precipui del giudizio di legittimità. Giudizio di legittimità significa giudizio sul rispetto della legge, da parte del giudice di merito, nel caso concreto,10 e poiché a “caso concreto” corrisponde il “fatto”, l’unica differenza rilevante tra legittimità e merito sta nella circostanza che il

8 REDENTI, Diritto processuale civile, Milano 1957, II, p. 445 “... non solo l’omissione integrale dell’esame di fatti suscettibili di assumere una determinata configurazione giuridica e di costituire di per sé il fondamento di un’azione o di un’eccezione, ma anche la pretermissione di dati o elementi storici analitici, quando il prenderli in considerazione potesse mutare le sorti del giudizio sintetico circa la sussistenza o insussistenza di fatti giuridicamente qualificati”

9 CALOGERO G., La logica del giudice e il suo controllo in cassazione, rist. Padova 1964, 65.

10 È la “esatta osservanza” di cui all’art. 65 T.U. Ord. giud.

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giudice del merito, lungi dal considerare il fatto come realtà preesistente, lo assume come realtà da ricostruire secondo criteri giuridicizzati (wie es eigentlich gewesen), laddove il giudice di legittimità assume il fatto come realtà già ricostruita, controllabile nella sua rappresentazione (wie es eigentlich vorgestellt):

a nulla serve giuridicizzare i criteri della ricostruzione del fatto se non ne è possibile il controllo, seppure effettuato sulla mappa che riproduce l’indagine ricostruttiva. La stessa esercitabilità della nomofilachia è condizionata da questa premessa perché la norma della cui lettura ortodossa la Corte è guardiano, è sempre concepita in funzione dell’ordito degli eventi presentatisi e vanamente se ne discute senza collegamento alle circostanze della vita che essa è chiamata a regolare.

4. Funzione prospettica e giudizio – Di un giudizio in senso proprio (fatto/diritto) non si può a rigore fare a meno neppure nelle situazioni (eccezionali) in cui la legge consente di separare artificialmente la funzione prospettica (nomofilachia in senso traslato ed improprio)11 dalla repressione della violazione commessa dal giudice di merito (legittimità, cioè nomofilachia stricto sensu). Ciò si verifica in due ordini ipotesi: la prima è quella in cui nel caso di specie gli effetti del giudizio per le parti vengono neutralizzati da ragioni cogenti di preclusione processuale; la seconda è quella in cui un quid pluris va ad aggiungersi all’ordinario giudizio di legittimità. Il primo è il caso del ricorso nell’interesse della legge, nelle due versioni di cui all’art. 363 c.p.c.; il secondo è illustrato dal caso delle decisioni delle Sezioni Unite in questioni di massima di particolare importanza o in funzione repressiva di contrasti.12 Anche qui la Corte deve giudicare sempre di episodi concretamente presentatisi, qualificarli, sussumerli nella fattispecie astratta e trarre le conseguenze legali. L’esperienza ci dice invece che la Corte si trasforma in tali casi in autonoma fonte di produzione del diritto, nel senso che il più delle volte relega il caso sottoposto ad occasione

11 La “uniforme interpretazione” di cui all’art. 65 T.U. Ord. giud.

12 Oscilla tra le due species la c.d. correzione della motivazione dell’art. 384 u. c. c.p.c.

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della creazione di un principio di diritto che lo trascende. È il trionfo dell’obiter dictum.13

5. Precedente giudiziale ed equivoci culturali – La strada intrapresa dalla versione nostrana della nomofilachia (nella sua variante prospettica, cioè della nomofilachia in senso improprio e allargato) porta a riflettere sulla sua incolmabile distanza dalla cultura – petulantemente invocata ma fondamentalmente fraintesa – del precedente. Il voler ‘fare diritto’ della Corte ignora che, in quella cultura, il precedente non è la massima ma è the case itself: è la ratio del caso (dell’ evento) trasformata in necessitas, cioè normativizzata in attesa della ripetizione dell’evento. È la logica del factum ipsum loquitur, cioè del riconoscimento della forza normativa dell’intreccio di circostanze che il capriccio della sorte ha destinato al giudizio. In questa logica non v’è spazio per il

“precedente” distillato dal fatto che ha interpellato la risposta del giudice, quel tipo di precedente nomofilattico in cui rischia di cadere il controllo della legge nella sua presunta purezza. È anche evidente che con la tecnica e con lo spirito del precedente nulla ha a che fare la versione della nomofilachia che, nell’ubriacatura degli ultimi anni, ci sta regalando sentenze monstre, zeppe di digressioni sistematiche, giudizi ipotetici in fuga dall’avvenimento nella sua articolazione concreta e proiettati su futuribili incontrollabili. La foga nomofilattica sprigionata dalle sentenze della nostra Cassazione è affogata nella schiuma delle ipotesi non verificate su una strada inevitabilmente lastricata dagli obiter.14

13 Gran parte del contenuto significativo delle sentenze storiche delle Sezioni Unite consiste infatti in veri e propri obiter dictum, dal momento che, per la concreta disciplina del caso sottoposto, il principio adottato resta indifferente, estraneo alla sua ratio decidendi. Gli episodi sono numerosi: a titolo minimo si possono ricordare (ma gli esempi sono tanti) Cass. S.U. 29 gennaio 2000, n. 16 (B. SASSANI, Le sezioni unite della cassazione e l'inammissibilità dell'appello carente di motivi specifici, in Riv. dir. proc.

2000) che irrigidì l’interpretazione dell’art. 342 c.p.c. (aprendo la stagione conclusa – per ora – dallo sciagurato bricolage normativo che ha portato infine al pasticciaccio brutto del nuovo appello) ma che non aveva nulla a che fare con la questione sottoposta a giudizio; la famosissima Cass. S.U. 22 luglio 1999 n. 500 che ruppe il muro dell’irrisarcibililità dell’interesse legittimo; la famigerata Cass. S. U. 9 settembre 2010, n.

19246 che scatenò la tempesta sui termini di costituzione nell’opposizione a decreto ingiuntivo, poi sedata dall’intervento del legislatore.

14 Gli esempi sono numerosi e agevoli; il lettore che voglia toccare con mano quel vado dicendo è invitato a prendere in esame Cass. 24 maggio 2011, n. 11370 in Riv. es. forz.

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Quando veste la toga del ‘nomofilattico’ (cioè del giureconsulto), il nostro giudice di vertice soccombe volentieri al “complesso dell’accademico”, cioè del giurista dommatico ossessionato dalla coerenza teorica del migliore dei sistemi possibili: il contrario della logica del common lawyer che, per definizione, è un problem solver laddove la lettura delle nostre sentenze a vocazione nomofilattica rende evidente che il nostro giudice supremo si è forzatamente trasformato in un problem maker.15 Il ruling ricavabile dal precedente è imposto dai fatti ed ha ben più modesto stato del principio di diritto che al contrario si erge sopra i fatti a venire e li piega a sé: stare decisis, non stare consultis.

6. Il complesso del filtro – Alla conclusione dell’insensatezza dell’incontrol- labilità della motivazione, spingono la considerazione congiunta della legge processuale (tota perspecta), il modello di Corte ereditato, la sua storia, la sua collocazione nella cultura processuale e la sensibilità professionale degli operatori. Lo stesso sviluppo del fenomeno della cassazione senza rinvio per ragioni di merito, a cui si assiste giorno dopo giorno, impone di considerare criticamente l’idea della possibilità di compartimentare le tipologia di giudizio (di diritto e di c.d. logicità) come se si trattasse di mondi incomunicabili.

A tutto questo da un po’ di tempo si suole contrapporre un duplice ordine di osservazioni:

a) la necessità di accelerare i tempi e migliorare la qualità del lavoro della Corte,

b) la presenza, fuori d’Italia, di sistemi di accesso più restrittivi al giudizio di legittimità.

2011, 473 ss., dove è strabordante la volontà di fare nomofilachia al di là del caso da

decidere la cui soluzione è contornata da un indagine apertamente ipotetica.

15 Come prova la discutibilità di gran parte delle sentenze con le quali le Sezioni Unite si industriano di dicere jus novum nella prospettazione nomofilattica. A cominciare dalla (ahimé) storica sentenza sull’art. 37 (Cass. S.U. 9 ottobre 2008, n. 24883, in Giur. it.

2009, 412 ss. con Nota di R. VACCARELLA, Rilevabilità del difetto di giurisdizione e translatio iudicii) che oltre ad introdurre l’idea che la loi c’est moi (il codice dice che la questione di giurisdizione è rilevabile “in ogni stato e grado”, ma non conta se noi vogliamo il contrario), ha introdotto nell’ordinamento l’incauta idea del c.d. giudicato implicito.

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Quanto ad a). La ricerca dell’accelerazione a tutti i costi (secondo lo slogan del

“non possiamo più permettercelo”) impegna da decenni il legislatore nazionale con risultati opposti alle intenzioni: a tagli dolorosi corrispondono risultati pressoché nulli, sicché niente indica che l’infelice amputazione del n. 5 porti a qualcosa di positivo sotto questo profilo. E comunque, ammessa e non concessa, l’accelerazione sarebbe guadagnata a scapito della stessa funzione, cioè della ragion d’essere della Corte.

Quanto a b). Sistemi restrittivi certo esistono e fioriscono, ma si fondano su modelli (e culture) complessivamente diversi, nonché su ordinamenti comunque privi della garanzia costituzionale del ricorso (di cui in maniera così pregnante e intensa è stata principalmente artefice la Corte di cassazione), sicché il problema può inquadrarsi, a dirlo brutalmente, ad una sorta di complesso di inferiorità della Corte italiana nei confronti di Corti che “scelgono” su cosa giudicare (qualcuno lo chiama “complesso del filtro”). Restrittivo però non è certo il sistema che funge da modello del nostro, quello francese, dove di filtri non è traccia e dove la Cour de cassation svolge un controllo pieno ed incisivo della motivazione. E il bello è che lo svolge orgogliosamente, consapevole che senza tale controllo la funzione della Corte si ridurrebbe a ben poco.

7. Insegnava Virgilio Andrioli ... – Chiunque si trovi a trattare di queste cose potendo vantare solo pratica di biblioteche16 è portato a sottovalutare inevitabilmente il fatto che relativamente pochi sono i casi in cui la questione da affrontare presenta natura schiettamente interpretativa – e quindi mette in gioco un vizio di Auslegung, cioè una violazione della legge (sostanziale come processuale) indotta dall’errata interpretazione del testo normativo – rispetto alla moltitudine dei casi in cui il problema verte sull’applicazione (Anwendung) della norma, cioè sull’uso che ne è ha concretamente fatto il giudice del merito rispetto agli “episodi della vita” presentatisi. Chi invece è investito per professione dai problemi del giudizio di legittimità, si riconosce nelle parole di Virgilio Andrioli17, che (in un testo a natura didattica!) riteneva di non poter affrontare il

16 Vale a dire ignorando la tèchne della redazione di un buon ricorso per cassazione.

17 V. ANDRIOLI, Diritto processuale civile, I, Napoli 1979, 862 s.

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problema se non richiamandosi alla “esperienza pratica del giudizio di cassazione”, un’esperienza che mette in guardia dall’illusione che il vizio di falsa applicazione delle norme di diritto si presenti “allo stato puro”. Gli passo la parola: la prassi è chiamata a fronteggiare un vizio tipico della decisione che caratteristicamente emerge e “viene prospettato in collegamento con la

‘denuncia’ di insufficiente o contraddittoria motivazione di punto decisivo (n. 5)”, prospettazione, questa, “effettuata in forma alternativa o globale”. All’occhio esperto non sfugge, in altri termini, l’intreccio inestricabile tra la ‘denuncia’ del motivo della falsa applicazione della legge e la ‘censura’ relativa alla motivazione. Difficile parlare di giudizio senza guardare alla base del giudizio stesso: “imputa il ricorrente al giudice di merito di aver mal deciso perché l’ingiustizia della sentenza impugnata è provocata dalla inadeguata sussunzione dei fatti concreti alla norma a rigor di diritto applicabile per erronea utilizzazione dei canoni indicati nell’art. 12 disp. sulla legge in generale (in particolar guisa nel 2° comma) e, ciò facendo, fa (il ricorrente) uso di una tecnica sufficientemente analitica di attacco della sentenza di merito, ovvero il ricorrente evidenzia i fatti, che si assumono decisivi, ponendoli a raffronto con il dispositivo (più precisamente con le statuizioni finali) e dimostra (o s’industria di dimostrare) che tra gli uni e l’altro (o le altre) difetta il collegamento logico giuridico, ma ciò facendo, finisce con recepire la tecnica del défaut de base légale, di cui larghissime tracce si avvertono nelle esperienze francese e belga”.18

8. Bilanciamento dei fatti e criterio di sussunzione – Il discorso di Andrioli trova alimento in uno bello scritto di Angelo Lener19 che analizza l’imbarazzante intreccio tra fatto e diritto20 e il necessario coordinamento di controllo della motivazione e giudizio sull’applicazione della norma. Prende spunto da una sentenza di legittimità chiamata ad affrontare l’incessante problema del bilanciamento del peso degli elementi dalla fattispecie concreta, bilanciamento dal

18 V. ANDRIOLI, Diritto, cit., 862.

19 A. LENER, Nota a Cass. 20 gennaio 1977, n. 290 in Foro it. 1977, I, 1194 s., meritoriamente richiamata da Andrioli, op. loco cit.

20 Il tema è peraltro acutamente ed analiticamente trattato nel lavoro di F. MAZZARELLA, Analisi del giudizio civile di cassazione, II ed. Padova 1994, passim ma partic. 85 ss.

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cui esito dipende l’inquadramento del fatto in una ovvero in un’altra fattispecie astratta. Lo scheletro del problema si riproduce (mutatis mutandis) di continuo: di che tipo contrattuale stiamo parlando? Quando elementi di ‘dare’ si mescolano ad elementi di ‘fare’, si tratta di appalto o di compravendita? Chi sostiene che il contratto di cui si discute è un contratto di appalto e non una vendita (e viceversa) è costretto a proporre “fermi restando gli elementi di fatto acquisiti al giudizio, una nuova valutazione sintetica o ‘ricostruzione’ del fatto, che definisca il peso rispettivo del dare e del facere nella concreta fattispecie in modo diverso da quello ritenuto (o implicitamente presupposto)” dal giudice di merito. In tale contesto, osservare che l’attribuzione del nomen juris è, in sé e per sé, questione di puro diritto non coglie nel segno quando la qualificazione viene messa in discussione non perché “sia contestato il modello legale di riferimento, ma perché

“si assume che sia stata inesattamente ricostruita la species facti da raffrontare al modello legale”. In altri termini, la denuncia della falsa applicazione di cui al n. 3 può difficilmente evitare di appoggiarsi sul controllo motivazionale – e qui entra(va) quindi potentemente in gioco il n. 5 – tutte le volte che l’applicazione del modello legale di riferimento viene contestata per aver il giudicante alterato il peso specifico degli elementi fattuali considerati.

La guerra al controllo della motivazione si illude di circoscrivere la preclusione alla determinazione del ‘dato storico’ senza avvedersi che la limitazione trascina con sé anche gli aspetti originariamente fattuali ma divenuti oggetto di valutazione sub specie iuris.21 L’adeguamento del nomen juris del contratto dipende dalla soluzione del problema della preminenza del dare o del fare nella fattispecie concreta, cioè da una quaestio facti non confondibile con la questione (strettamente storica) riguardante l’attività di acquisizione del materiale di causa.

Ma la incontrollabilità della motivazione comporta inevitabilmente la incontrollabilità della applicazione dei criteri adoperati per il giudizio presuntivo, controllo tradizionalmente esercitato dalla Cassazione nei limiti segnati dal n. 5

21 “...anche se è probabilmente inesatto operare una simile scissione, ritenendo che il primo non si compia senza l’influenza dei criteri di valutazione normativa e che il ‘dato storico’ arrivi ancora grezzo all’appuntamento con la definizione giuridica” (A. LENER, op. cit., 1195 che richiama SCALFI, La qualificazione dei contratti nell’interpretazione, Milano, 1962, 33. s.; 38; 41).

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dell’art. 360. Non si capisce allora come una presunzione balordamente attinta dal giudice di merito possa trovare censura in sede di legittimità.22 Poiché la Corte non può operare attraverso la rinnovazione del procedimento presuntivo, il rispetto, da parte del giudice di merito, dei due criteri della eliminazione del dubbio e della coerenza del procedimento23 veniva constatato dalla Cassazione

“tramite il controllo di conformità della motivazione, in proposito svolta dalla sentenza impugnata, alle tre direttive, desumibili dallo stesso n. 5 dell’art. 360:

non basta cioè che dalla motivazione risulti che al giudice di merito sia stata presente la duplice esigenza della eliminazione del dubbio e della coerenza, ma è necessario che la motivazione di quel giudice sia sufficiente”.24 Ma oggi? Con quale mezzo si potrà censurare l’eliminazione del dubbio attraverso un procedimento incoerente o palesemente irrispettoso delle direttive dell’art. 2729 c.

c.?

L’amputazione della funzione repressiva della Corte per la violazione di tali prescrizioni, impone di riconsiderarne il loro stesso senso.

9. La storia si ripete? – Se da un lato la formulazione del novello n. 5 lascia presagire un taglio netto al controllo, da un altro lato essa spaventa per la sua subdola capacità di riaprire episodi del processo che nessuno pensava potessero avere accesso in legittimità. La formulazione dell’attuale n. 5 (“omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”) è stata ripescata dal passato ed è stata quindi già vagliata dall’esperienza.

E l’esperienza ce ne rivela un lato oscuro sfuggito ai più. La formula adoperata dal dilettantesco legislatore del 2012 riprende infatti cose già sperimentate e ripudiate perché ricalca quella originaria del codice del 1940 spazzata via dopo pochi anni. Conviene ancora rivolgersi a Virgilio Andrioli che, testimone illuminato di quella vicenda insieme a Gian Antonio Micheli, fa toccare con mano

22 A differenza dei giudizio di fatto “valorativo” per il quale ci si può illudere nella sua attrazione alla quaestio juris.

23 Secondo la ricostruzione di V. ANDRIOLI, Presunzioni, voce in NNDI, 1966, XIII, § 4 (oggi in V. ANDRIOLI, Studi sulle prove civili, Milano 2008, 124 s.), che vi aggiunge la necessità che il fatto oggetto di presunzione semplice “sia stato prospettato dalla parte ed assuma, nel sistema assertivo di questa, carattere di decisorietà”.

24 V. ANDRIOLI, ibidem.

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l’illusione che si tratti di una formula destinata a sopire piuttosto che a scatenare tempeste. Andrioli e Micheli attaccano frontalmente la “eliminazione del difetto di motivazione quale motivo di ricorso e la sostituzione con l’omesso esame di un fatto decisivo”, ricordando che l’esperienza pregressa (codice di rito del 1865) aveva insegnato che la censura circa la motivazione difettosa e contraddittoria non era “un perditempo, inflitto alla Corte Suprema” perché ingiustizia si commette

“non solo nell’applicazione di norme di diritto, ma anche nell’accertamento dei fatti”. Viceversa l’esperienza successiva al 21 aprile 1942 “dimostra che l’omesso esame del fatto decisivo finisce con l’attribuire alla Cassazione un ben più penetrante esame del fatto, in quanto la valutazione della decisorietà implica o può implicare il riesame di tutto il materiale istruttorio acquisito alla causa”.

Meglio, quindi, “mantenere fermo il controllo sulla logica congruenza della motivazione, purché lo si limiti ai vizi causali, incidenti, cioè, sul dispositivo”.25 Insomma, al controllo della motivazione consacrato dalla felice formula “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione” (solo di striscio modificata dal d. lgs.

n. 40/2006 che aveva trasposto ‘fatto’ a ‘punto’),26 si perviene perché la si reputa meno pervasiva e più congrua di un’indagine sul procedere e sull’incedere del processo che, come è noto, è indagine condotta direttamente in punto di fatto.

L’unica soluzione sensata è un ragionevole e circoscritto controllo della motivazione, cioè la conservazione del potere di verificare (in negativo) che la ricostruzione operata in sentenza non presenti lacune e sviste tali da rendere insostenibile la conclusione in punto di diritto. Quel che accade dove è in gioco la naturale (ed ineliminabile) discrezionalità delle opzioni che va sotto il nome di

‘convincimento’ del giudice, quel convincimento che, nonostante la corrente qualificazione di “libero”, realmente libero non è, né può esserlo per le ragioni che ognuno conosce elencare e che sarebbe qui ozioso riepilogare. Verificare la tenuta in fatto della decisione fondandosi su elementi esterni alla motivazione,

2525 V. ANDRIOLI,G.A.MICHELI, Riforma del codice di procedura civile, Relazione in Annuario di Diritto Comparato e Studi legislativi, § 14 B), Roma 1946, 199 ss. (oggi in V. ANDRIOLI, Scritti giuridici, III, Milano 2007, 1576).

26 Cosa a cui la prassi era restata del tutto indifferente, avendo continuato negli ultimi otto anni ad esprimere gli stessi giudizi ed dare le stesse risposte fornite in precedenza.

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significa invece imporre un compito ingrato alla Corte, riportandola ad un passato già sperimentato e travolto dalla sua infelice riuscita.

10. Il recupero del n. 3 e la gabbia del principio di diritto – Sparita la norma che esplicitamente ammette il controllo della motivazione, resta ovviamente la possibilità che il bravo avvocato impieghi tutta la sua abilità per ricondurre sotto l’egida del n.3 (o, talvolta, del n. 4) giudizi e situazioni che finora avrebbe agevolmente classificato con le ragioni del n. 5. Mi auguro caldamente di essere in errore ma temo che si tratti, al momento, di una possibilità più che altro teorica.

La cruda voluntas legis è infatti quella dello smaltimento del contenzioso a tutti i costi (anche a costo del decorum) sicché si profilano tempi duri per le raffinate interpretazioni di salvataggio. La scure dell’inammissibilità è stata ben affilata e le intenzioni decifrabili non sono certo a favore della ragionevole riconduzione alla falsa applicazione della mancata o difettosa giustificazione dell’applicazione della norma al fatto. D’altro canto la non edificante esperienza del quesito di diritto ha insegnato che la logica dello smaltimento non è neppure quella di una sana “raccolta differenziata”, dal momento che l’eliminazione sommaria, più che colpire il ricorso “senza capo né coda”, spesso e volentieri ha riguardato il buon ricorso, il ricorso in cui la professionalità ed onestà dell’ autore aveva avuto il pudore di non prendere alla cieca lettera le arbitrarie (e sostanzialmente oziose) modalità relative alla fattura del quesito impartite dalla Corte. Prove di questa follia si osservano ancora oggi quando si legge della necessità della presenza (nei ricorsi successivi al febbraio 2006 e anteriori al luglio 2009) del famigerato

“omologo del quesito di diritto” (sic) per il n. 5, perché ... lo avrebbe voluto il legislatore!27 Quale testimone delle intenzioni del mitico personaggio,28 posso garantire che mai nessuno aveva pensato ad una cosa simile, fantasiosamente inventata in seguito, con l’appoggio di una torbida motivazione, da una sentenza della III sezione, e ripresa poi con pura tecnica di taglia e incolla dalle Sezioni Unite. Anzi! Il secondo comma dell’articolo 366-bis voleva proprio dire che, per

27 V. in tal senso l’incredibile Cass. 30 gennaio 2013, n. 2205.

28 Testimone della genesi del testo dell’art. 366-bis c.p.c. da parte di una Commissione composta da autorevoli esponenti della processualistica operanti in collaborazione con la élite della Corte di cassazione dell’epoca.

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il n. 5, non c’era bisogno di elementi aggiuntivi, esterni al motivo poiché l’ammissibilità dipendeva dalla presenza nel corpo del motivo stesso degli elementi di giudizio.29 Il che non ha bisogno qui di articolate dimostrazioni dal momento anche il medio studente di giurisprudenza è in grado di valutare la distanza che, all’interno dello stesso articolo di codice, separa il testo sull’obbligo del quesito di diritto dall’obbligo di essere chiari sul fatto e sulla sua decisività nel contesto del ragionamento del giudice.30

Ammettiamo tuttavia che la previsione sia sbagliata o eccessiva, e che si abbia invece una rilevante migrazione della censura caratteristicamente ricompresa nel n. 5 verso il n. 3 dell’art. 360. Si aprirebbe comunque uno scenario di conflitto con la politica saggiamente perseguita nel tempo dalla Corte, una politica basata sulla ragionevolezza del controllo in chiave motivazionale di molti dei giudizi di diritto tipicamente pronunciati dal giudice.

L’impiego del n. 3 significa innanzitutto obbligare la Corte a pronunciare sempre il ‘principio di diritto’ relativo al caso deciso (“La Corte enuncia il principio di diritto quando decide il ricorso proposto a norma dell’art. 360 primo comma n. 3)”: art. 384 c. 1 c.p.c.), ma ciò contraddice la storica consapevolezza della pericolosità della massimazione di tale principio di fronte alla difficoltà di generalizzare il caso di specie. Difficoltà che è caratteristica dei giudizi – a rigore

“di diritto” – che la tradizione riserva però al controllo indiretto della motivazione evitandone il controllo diretto della falsa applicazione.31 Questo non è arbitrario

29 Scrivevo all’epoca che il legislatore “ha inteso inviare un monito operativo inteso alla riorganizzazione della tecnica dei motivi. In tal senso l’accento sul «fatto» serve a rendere immediatamente inammissibili le censure ex n. 5 quando queste non individuino in modo semplice, chiaro e immediato il nucleo fattuale (non importa se extraprocessuale o processuale) la cui ricostruzione (in positivo o in negativo) comporta omessa o contraddittoria motivazione. La modifica della formula del n. 5 non è in altre parole comprensibile se non alla luce del comma 2 dell’art. 366-bis c.p.c. che impone «la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria». Ciò vuol dire che i motivi costruiti sul modulo di controllo del n. 5 devono essere caratterizzati dall’aggancio evidente all’elemento di fatto rilevante, nel senso di presentare e caratterizzare i fatti in maniera tale che il controllore sia immediatamente posto nella condizione di verificare il procedimento di positio, inclusio, o exclusio, del giudice di merito rispetto all’elemento di fatto” (SASSANI B., Il nuovo giudizio di cassazione cit., § 7).

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poiché troppo spesso le peculiarità del caso sono tali da non consentire la enucleazione di una regola idonea a proiettarsi come ‘principio di diritto’, cioè norma sufficientemente generale ed astratta. Qualificando il controllo su questi giudizi come controllo sulla motivazione “la Corte guadagna molto in duttilità nello stabilire cosa sindacare e cosa non sindacare”.32 Tendenzialmente (istintivamente, direi) la Corte ha finora riservato alla modalità del controllo diretto i giudizi sottopostile quando ha ritenuto di essere “in grado di enunciare una regola di portata generale, suscettibile di essere utilizzata, come precedente, anche in casi simili.” Dove questo non è possibile (o non è agevole) per la peculiarità del caso di specie, il controllo è avvenuto in negativo, come controllo cioè della tenuta argomentativa della giustificazione del risultato.

11. Una perdita fatale: il défaut de base légale – La difficoltà di riportare tout court al n. 3 quel che prima era ricompreso nel controllo della motivazione sta anche nella (spesso dimenticata) complementarità dei due giudizi, per cui la correttezza dell’applicazione della norma ai sensi del n. 3 è frutto di una valutazione indipendente dalla sua motivazione (tant’è vero che il ricorso può essere rigettato con correzione della motivazione: art. 384 c. 4 cp.c.) mentre la resistenza della conclusione passata al vaglio del controllo del n. 5 è strettamente affidata all’esito di tale controllo, e dunque dipende esclusivamente dalla correttezza della motivazione (qui non ha senso una correzione della motivazione, essendo proprio la sua ‘correggibilità’ indice dell’inaccettabilità della conclusione e fattore di accoglimento del ricorso). Il che ci riporta all’esperienza del défaut de base légale a cui accennava Virgilio Andrioli nel passo più su riportato.

Credo che il défaut de base légale sia il vizio capitale la cui percezione ci si avvia perdere a causa della pasticciata soluzione legislativa che attenta seriamente alla sua rilevanza. L’esperienza del giudizio di cassazione francese appare particolarmente interessante proprio per la chiara coscienza che, nel rapporto tra fatto e norma, si deve aver cura di distinguere il défaut de base légale dalla fausse application de la loi. Ambedue vanno considerati vizi di sostanza (fond) ma il

32 F. P. LUISO, Diritto processuale civile, 6a ed., Milano, 2010, II, p. 426 ss.

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primo trova spazio nella mancanza (o nell’opacità) del ‘perché’ della decisione (altri potrebbero esserne i presupposti e questo non permette di classificarla come buona o cattiva). Essa non è quindi censurata perché sbagliata in sé: potrebbe in ipotesi essere giusta ma non lo si può stabilire perché il controllore non è in grado di verificarlo, e il vizio della decisione si radica proprio in questa impossibilità (in altre parole: i limiti ricostruttivi del fatto propri del giudice di legittimità non giustificano comunque l’arbitrarietà dei presupposti). La fausse application dà invece luogo ad un giudizio sintetico, centrato sull’erroneità della conclusione: il controllore si confronta direttamente con l’errore della decisione che viene oggettivamente valutata indipendentemente dalla motivazione fornitane. In questo caso la sentenza è cassata non per un errore nel procedimento ricostruttivo ma per il suo risultato ultimo: la base fattuale è sufficientemente chiara ma non ne è seguita la corretta individuazione del modello legale di riferimento.

Fatto è che il motivo della fausse application raramente basta: se può, con un certo sforzo, recuperare i giudizi di diritto caratterizzati dalla legittima concorrenza di scelte possibili (natura della condizione, collegamento negoziale ecc.), esso fatica molto a dare inquadramento ai veri concetti indeterminati, alle clausole generali, ai concetti elastici e via dicendo. Fallisce infine seccamente rispetto al controllo del ragionamento presuntivo.

Si converrà che non è una cosa seria. Di per sé è poco serio che la legge processuale sia ormai trattata come un mantice di fisarmonica, ma mancanza di serietà per mancanza di serietà, il male minore sarebbe avere il coraggio di riscrivere il vecchio n. 5.

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LA LOGICA DEL GIUDICE E LA SUA SCOMPARSA IN CASSAZIONE

Che la motivazione della sentenza sia buona, apparente, corretta, illogica, incongrua, plausibile o folle non deve più interessare la nostra Corte Suprema che viene così chiamata a fare “nomofilachia” sulla sabbia. Con un colpo di penna è stato sostanzialmente cancellato il n. 5 dell’art. 360 c.p.c. Addio al controllo, ché controllo non è l’ombra pallida del giudizio latamente revocatorio che lo spensierato legislatore del 2012 ha lasciato in vita, tanto per non ridurre a quattro i numeri dell’articolo.

Una bella regressione: funzione “nomofilattica” ora significa in ære ædificare e l’abbreviazione “C. S.” praticata dal giuridichese potrebbe divenire “Corte del Sillogismo”, recte del controllo della premessa maggiore (violazione di legge).

Per consolidata tradizione, la Corte infatti ammette il controllo della premessa minore (fattispecie concreta) solo quando si possa operare un controllo diretto della c.d. falsa applicazione, riconducibile immediatamente al n. 3 dell’art. 360. Il che avviene però solo quando la ricostruzione fattuale non lascia margini per una pluralità di opzioni, vale a dire quando il fatto considerato si presenta come la riduzione in scala della species facti contemplata dalla legge, cioè corrisponde ad essa come un oggetto alla sua figura geometrica di riferimento.

Sappiamo che questo non accade tutte le volte che la ricostruzione fattuale lascia la possibilità che ricostruzioni alternative possano venir legittimamente ricondotte alla fattispecie astratta. Non accade nell’illimitata casistica in cui il c.d.

“giudizio” contiene elementi lato sensu valutativi. Talvolta è sufficiente un aggettivo: la condizione è la condizione ma, poiché il regime del codice sembra presupporne la natura bilaterale, la semplice comparsa dell’aggettivo “unilaterale”

crea seri problemi giuridici per la sorte del contratto in caso di mancato avveramento (o di avvera mento, se la condizione è risolutiva). Ma se la condizione apposta dalle parti al contratto sia bilaterale o unilaterale, la Corte lo ha faticosamente e fruttuosamente ricostruito con il mezzo del controllo indiretto fornitole dal famigerato n. 5): è attraverso questo prudente tipo di controllo che la Corte ha congegnato i caratteri della condizione unilaterale che oggi troviamo

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rispecchiati nelle massime di decenni. Così, parimenti, se il mandato è in rem propriam, se la prestazione è divenuta impossibile in parte, se le cose cessano di servire all’uso a cui sono destinate se divise ecc. ecc. Come può vedersi, lo spostamento dal controllo diretto al controllo indiretto non riguarda solo i veri e propri concetti indeterminati (categoria a cui qualcuno si attarda a ridurre i giudizi del n. 5). Riguarda invece i tanti giudizi di diritto che in vario modo colorano le vicende giuridiche ma non sono riducibili alla direttive per principi che caratterizzano il concetto indeterminato: si tratta piuttosto di concetti “a fattispecie ampia”, in cui il giudizio è seriamente condizionato dalle oscillazioni del fatto, e dalla sua valenza nel contesto di interessi in cui esso si muove, sicché il giudice di legittimità tocca con mano il rischio di anteporre la regola al fatto e di usare il nomen come una camicia di forza. Di qui il tradizionale self-restraint per cui il controllo deve pudicamente limitarsi al riscontro della coerenza logica e semantica della rappresentazione che il giudice del merito ha fatto della vicenda e del suo senso giuridico.

Un discorso analogo vale per l’armamentario concettuale del diritto processuale: se lo scopo dell’atto sia stato raggiunto (ovvero non sia raggiungibile per inidoneità della forma dell’atto), se la causa sia comune, se la separazione delle cause ritardi o renda più gravoso il processo, se il rifiuto a consentire l’ispezione sia ingiustificato, se sia giustificato il rifiuto di rispondere all’interrogatorio formale, la causa è matura per la decisione ecc. ecc. Diritto processuale che non di rado s’asside su giudizi estratti dal mondo del diritto sostanziale: per es., se l’immobile costituisca una unità culturale o se il frazionamento ne potrebbe impedire la razionale coltivazione (art. 577 c.p.c.). Dal momento che il giudizio è sì di diritto, ma è fortemente condizionato dalle circostanze concrete, la Corte ammette che il suo controllo deve restringersi necessariamente alla verifica della congruità e plausibilità della rappresentazione fattane dal giudice di merito: è un giudizio in negativo mille volte riflesso dalla massima che la Corte non cassa perché il giudizio alternativo proposto si rivela migliore di quello prescelto dal giudice di merito, ma cassa perché quest’ultimo non starebbe in piedi da solo (e poco importa che si tratti di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione).

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Ma questo è ancora niente quando si pensa che la cancellazione del controllo della motivazione porta inevitabilmente con sé l’incontrollabilità delle presunzioni operate dal giudice di merito. A che serve imporre che esse siano

“gravi precise e concordanti”, se poi il giudice può impunemente presumere quel che gli pare? X è legato dal rapporto α ad Y e di questo rapporto è provata la natura di frode fiscale; Z è a sua volta parte del rapporto β con Y e, poiché quest’ultimo soggetto è un poco di buono, anche il rapporto β partecipa della frode fiscale. Chi ritiene che questo ragionamento non funzioni perché la massima d’esperienza sottostante è bizzarra, dica anche con quale mezzo può censurarlo la parte che lo subisce (non a caso ho preso un esempio proveniente dal diritto tributario, dal momento che chi ha pratica di commissioni tributare avrà più di una volta visto come “ragiona” questo giudice).

Stando così le cose, occorre riconoscere che la disinvolta eliminazione dell’ampio controllo del n. 5) non elimina solo il controllo sulla rappresentazione/ricostruzione dei fatti storici (come racconta la vulgata), ma taglia alla radice la possibilità di verifica di quella miriade di giudizi la cui rappresentazione nella sentenza forma la base della piramide sulla quale si assidono ricognizione ed interpretazione della norma. Questo è però il colmo per una Corte che orgogliosamente rivendica il suo ruolo di guida dell’ordinamento giuridico, perché la autorizza a mettere il carro davanti ai buoi, cioè ad impegnarsi in una sorta di legiferazione di secondo grado sganciata dalla sua base e dalla sua ragion d’essere, cioè dall’esperienza che ha generato il quesito giuridico concretamente risolto nella sentenza impugnata.

Franco Cordero vede nella guerra alla distinzione tra giudizio di fatto e giudizio di diritto la prova della confusione mentale di chi vi si impegna. Ha ragione in principio, ma temo che il rischio concreto sia ora l’abusivo scivolamento di tutta la congerie di giudizi di diritto di cui parliamo nella categoria del “giudizio di fatto”, qualcosa che Roma non curat. Che liberazione per la Corte che non dovrà più occuparsi della maggioranza dei motivi di ricorso!

Si dirà che a questo esito si oppone la natura di “giudizio di valore (giuridico)”

delle nostre valutazioni e che l’abrogazione del controllo indiretto li dovrebbe sospingere nell’area del controllo diretto in chiave di fausse application. In tal

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modo l’erroneità del giudizio sull’unilateralità della condizione dovrebbe potersi denunciare con il mezzo del n. 3 dell’art. 360. Fermo restando che l’indagine per relationem del defunto n. 5 meglio si adattava al problema, la riconduzione alla

“falsa applicazione di norma di diritto” sarebbe la strada che non solo permetterebbe a chi subisce un abuso, di non perdere il diritto al controllo in cassazione (cosa apprezzabile, e tuttavia poco consona allo spirito dei tempi che vuole lo jus litigatoris subordinato allo jus constitutionis), ma consentirebbe di dare un senso alla stessa funzione guida della Corte di cassazione in un campo delicato e quanto mai bisognoso della bussola “nomofilattica”, trattandosi di individuare soluzioni applicative poco o nulla esplicitate dalle norme scritte. Se questo accadesse si sarebbe in buona parte neutralizzato l’effetto perverso della innovazione legislativa. Dubito però che questo accada (o almeno accada nella maggior parte dei casi). A differenza delle Corti Supreme d’autrefois, quella attuale sembra ossessionata dall’idea della deflazione a tutti i costi. Messa in crisi dall’interpretazione dell’art. 111 u. c. cost. che essa stessa ha praticato, è altamente probabile che la Corte leggerà nel taglio legislativo l’attesa autorizzazione a sbarazzarsi all’ingrosso della massa dei ricorsi, operazione di bonifica già sciaguratamente sperimentata con il quesito di diritto, un istituto che è stato gestito come il cacciatore gestisce la trappola tesa alla selvaggina. D’altro canto, non si legge tutti i giorni che il sistema delle impugnazioni è un lusso che non ci possiamo permettere?

Abbiamo oggi una Corte in crisi di identità che suole lamentarsi che l’assedio a cui soccombe trova in massima parte la sua strada nel defunto n. 5). Certo si è tentati di darle ragione quando si leggono le migliaia di ricorsi in cui l’incultura della nostra strabordante avvocatura dà mostra di sé spingendosi a deplorare le conclusioni del CTU che non avrebbe capito la miglior qualità delle conclusioni del CTP, o l’avere il giudice di merito creduto ad un teste piuttosto che a un altro (è disperante notare quanto sia difficile far intendere che la scelta degli elementi di valutazione spetta al giudice di merito che può trascurarne alcuni, a preferenza d’altri, senza doverne rendere analiticamente conto). La soluzione non è però la tranquilla soppressione del controllo della motivazione, cioè della censura al

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possibile défaut de base légale della decisione: fare questo significa buttare il bambino con l’acqua sporca.

Oltre alla regressione, la rimozione: l’errore di pensare che del controllo della motivazione si possa fare a meno è un classico delle nostre altalene legislative, e proprio dalla Corte di cassazione è venuta in altri tempi la resistenza e la produzione dell’antidoto. Il codice del 1865 non prevedeva norme analoghe a quella vigente finora, ma la pratica delle Cassazioni italiane aveva escogitato una forma di controllo sulla motivazione forzando il numero 2) dell’articolo 517, che consentiva il ricorso per nullità della sentenza a tenore dell’articolo 361 allargato a comprendere l’omissione dei “motivi in fatto ed in diritto”. Il codificatore del 1940 introdusse un formula (“omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio”, che fosse stato oggetto di discussione tra le parti: formula sinistramente ripresa oggi), di cui venne immediatamente percepita la portata troppo ristretta, riducentesi ad un caso di violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato. Fu sulla spinta (anche) della stessa Corte di cassazione che la riforma del 1950 introdusse la formulazione (“omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d'ufficio”) sopravvissuta fino al ritocco (fatto in luogo di punto) del decreto legislativo n. 40/2006 che non ha toccato la sostanza della disposizione, né alterato la giurisprudenza della Corte. Vale forse la pena ricordare che l’abortito “progetto Tarzia” aveva considerato il problema proponendo l’impiego della formula “mancanza o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato” (è il testo dell’art. 606 lett. e) del codice di procedura penale). Nella sua adozione si era vista una possibile soluzione del “difficile equilibrio tra la funzione di giudice del diritto e la parallela funzione della verifica della corretta ricostruzione del fatto, attraverso il controllo della motivazione”: disincentivare il ricorso indiscriminato alla Corte conservandole il suo fisiologico potere di controllo.

Non sappiamo se avrebbe funzionato. Quel che sappiamo è che la sottrazione del potere di controllo che consegue al nuovo testo del n. 5) priva l’ordinamento del mezzo per evitare che la formula “controllo del diritto” diventi un vuoto simulacro. Un serio controllo della motivazione costituisce il mezzo che

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« empêche les juges du fond de faire obstacle au contrôle de Cour de cassation en dissimulant une illégalité derrière un silence ou une ambiguité » (Boré). Esso è così indispensabile che se non esistesse, bisognerebbe inventarselo. Se la inventò infatti la Corte di cassazione delle origini33. Se ne appropriarono in qualche modo le Corti di cassazione italiane in difetto di previsioni legislative, nella coscienza che, senza di esso, si può parlare di applicazione della legge solo in un senso accademico. Evidentemente la Corte di cassazione dell’oggi non è più la stessa delle origini.

Cosa sia, e cosa voglia diventare, però non si sa.

B. S.

33 Per la precisione: Cour de cassation, chambre civile 26 ottobre 1808 (decidendo di un litigio relativo a diritti feudali, la Corte cassò una sentenza da cui non risultava con sufficiente chiarezza se gli abitanti del luogo avessero rivestito effettivamente lo stato di vassalli, sicché nell’incertezza del punto di fatto, non si capiva bene se dovesse essere applicato alla causa l’art. 8 della legge del 28 agosto 1792).

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