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Il regime giuridico della responsabilità civile ambientale nell ordinamento italiano. 10

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Il danno ambientale

Autore: Pietro Cucumile In: Diritto amministrativo

Sommario Abstract. 1

La definizione di ambiente. 2 1.

La tutela sovranazionale dell’ambiente. 3 2.

Considerazioni preliminari sulla responsabilità per danno ambientale. 7 3.

Il regime giuridico della responsabilità civile ambientale nell’ordinamento italiano. 10 4.

La natura patrimoniale del danno ambientale e la relativa istruttoria. 14 5.

L’ambito di applicazione del danno ambientale e le relative procedure. 17 6.

Le misure di riparazione e l’espansione della giustizia contabile. 21 7.

Transazioni in materia di bonifica e danno ambientale dei siti di interesse nazionale (SIN). 23 8.

Questioni aperte e alcuni casi in tema di danno ambientale. 23 9.

Alcuni significativi orientamenti giurisprudenziali 26 10.

Bibliografia. 32

1.

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La definizione di ambiente

L’ambiente è un bene giuridico unitario, fruibile dalla collettività e dai singoli liberamente, costituito da diverse componenti, beni ambientali, ciascuna delle quali può essere isolatamente e separatamente oggetto di cura e di tutela.

È un bene immateriale, non patrimoniale, di natura composita, dinamica, relazionale in riferimento al quale si configurano interessi individuali, collettivi e pubblici.

La Corte costituzionale, chiamata a decidere sulla legittimità dell’art. 18 della Legge n. 349/86, con la nota sentenza del 30 dicembre 1987, n. 641, ha sostenuto che l'ambiente è un “bene immateriale unitario sebbene a varie componenti, ciascuna delle quali può anche costituire, isolatamente e separatamente, oggetto di cura e di tutele; ma tutte nell'insieme, sono riconducibili ad unità”[1].

Il legislatore nazionale non ha coniato una definizione, neanche a seguito della attribuzione all’ambiente di una propria rilevanza costituzionale con la riforma del titolo V della Costituzione[2] che ha messo in capo allo Stato la competenza legislativa esclusiva in tema di «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali»[3].

In proposito la Consulta, con sentenza n. 536/2002, ha comunque rilevato che, già prima della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione, la protezione dell’ambiente aveva assunto una propria autonoma consistenza ricavabile dall’art. 9, che garantisce la tutela del paesaggio e del patrimonio storico - artistico e dall’art. 32, che garantisce il diritto di ogni persona a vivere in un ambiente salubre.

Nella risoluzione della questione definitoria si sono contrapposti due distinti orientamenti: quello

«pluralista» che enuncia la nozione di ambiente attraverso[4] la descrizione delle sue componenti possibili oggetti della tutela ambientale e quello «monista» tendente a costruire una nozione omnicomprensiva.

La teoria pluralista per la prima volta enunciata da Massimo Severo Giannini[5] attribuisce alla nozione di ambiente tre distinti significati all’interno di ambiti disciplinari tra loro difformi per finalità e strutture:

quello riferito al paesaggio, quello relativo alla difesa del suolo, dell’acqua e dell’aria, quello, infine, utilizzato nella normativa urbanistica. Alla tripartizione gianniniana, parte della dottrina ha contrapposto una bipartizione tra la nozione di ambiente che contraddistingue la disciplina del paesaggio e quella desumibile dalle norme sulla difesa dell’acqua, dell’aria e del suolo, finalizzate tutte alla tutela della salute ex 32 cost.[6] , oppure una bipartizione fondata sulle due distinte aree di funzioni omogenee (gestione sanitaria e gestione territoriale-urbanistica) connesse rispettivamente alla disciplina del diritto ad un

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ambiente salubre e a quella relativa alle forme ed all’assetto del territorio[7].

Sull’opposto versante teorico i sostenitori della c.d. concezione monista[8] che hanno promosso l’accoglimento di una nozione unitaria di ambiente, sostenuta, in prima battuta, in due note sentenze, dalla Corte di Cassazione a Sezioni unite[9] che, attraverso l’interpretazione dell’art. 32 della Costituzione, ha riconosciuto l’esistenza del «diritto ad un ambiente salubre».

Un’importante spinta per l’affermazione della teoria monista è stata successivamente offerta dai giudici costituzionali i quali, chiamati a giudicare la legittimità della legge istitutiva del Ministero dell’ambiente, si sono avvalsi degli spunti offerti dalla normativa comunitaria ed internazionale, anticipando e favorendo la definizione di una nozione unitaria di ambiente.

È sufficiente, al riguardo, richiamare le sentenze della Corte costituzionale nn. 210[10] e 641[11] del 1987 ove si teorizza l’esistenza di un bene giuridico ambientale. Riguardo al danno ambientale, merita menzione la sentenza della Corte costituzionale n. 641/1987, secondo cui tale danno “è certamente patrimoniale, sebbene sia svincolato da una concezione aritmetico-contabile e si concreti piuttosto nella rilevanza economica che la distruzione o il deterioramento o l'alterazione o, in genere, la compromissione del bene riveste in sé e per sé e che si riflette sulla collettività la quale viene ad essere gravata da oneri economici. Pur non trattandosi di un bene appropriabile, esso si presta ad essere valutato in termini economici e può ad esso attribuirsi un prezzo”.

Le sentenze nn. 367[12] e 378[13] del 2007 nelle quali la Corte costituzionale definisce nuovamente l’ambiente come un «bene giuridico in senso lato», evidenziandone i caratteri di unitarietà, complessità e materialità costituiscono una chiara espressione di una forte inversione di tendenza rispetto alla giurisprudenza che sosteneva la concezione di ambiente-valore.

La consacrazione dell’ambiente a valore costituzionale «primario ed assoluto» è frutto dell’insegnamento della Corte costituzionale[14] che, nel corso degli anni, ne ha esaltato anche il contenuto «integrale»

precisando che, in esso, sono sommati una pluralità di valori quali gli aspetti estetico-culturali, sanitari ed ecologici della tutela, e quelli partecipativi che coinvolgono non solo i soggetti pubblici, ma anche i membri della collettività.

Ciò detto, i beni ambientali, possono essere definiti come le risorse naturali, unitarie (flora e fauna selvatica; aria; atmosfera; suolo; corpo idrico) o integrate (ecosistema, habitat, territorio, biodiversità) e servizi ecologici o antropici da queste assicurate (paesaggistico, servizio di habitat, salubrità, ricreativo, depurativo, trofico, ecc.) a livello locale e/o globale (clima, biodiversità, ecc.).

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2. La tutela sovranazionale dell’ambiente.

Il Trattato istitutivo della Comunità economica europea (TCE) del 25 marzo 1957 non conteneva espresse disposizioni in materia ambientale.

Il Trattato sull’Unione Europea (TUE)[15] riporta, nel preambolo, la determinazione degli Stati membri a

“promuovere il progresso economico e sociale dei loro popoli, tenendo conto del principio dello sviluppo sostenibile nel contesto della realizzazione del mercato interno e del rafforzamento della coesione e della protezione dell'ambiente, nonché ad attuare politiche volte a garantire che i progressi compiuti sulla via dell'integrazione economica si accompagnino a paralleli progressi in altri settori”.

L’art.3, comma 3, del T.U.E. indica che “L'Unione instaura un mercato interno. Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell'Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un'economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell'ambiente. Essa promuove il progresso scientifico e tecnologico”.

A proposito dell’azione esterna dell’Unione, l’art.21, comma 2, lett. f) impegna alla definizione e attuazione di politiche comuni e azioni e opera per assicurare un elevato livello di cooperazione in tutti i settori delle relazioni internazionali al fine anche di “contribuire all'elaborazione di misure internazionali volte a preservare e migliorare la qualità dell'ambiente e la gestione sostenibile delle risorse naturali mondiali, al fine di assicurare lo sviluppo sostenibile”.

L’art.4, comma 2, lett. e) del Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE)[16] prevede, in materia di ambiente, una competenza dell’Unione agli articoli 191[17], 192[18]e 193[19] che costituiscono i pilastri della disciplina comunitaria di tutela dell’ambiente e in cui si coagulano e concentrano le linee di indirizzo che hanno pervaso la più recente disciplina nazionale italiana e, in particolare, il D.lgs. 3 aprile 2006 n.152 recante “norme in materia ambientale”, attuativo della Direttiva 2004/35/CE.

In particolare, l’art.191, comma 2, del TFUE indica che “La politica dell'Unione in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni dell'Unione. Essa è fondata sui principi della precauzione e dell'azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché sul principio "chi inquina paga"”.

La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea indica all’art. 37 che “Un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell’Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile”.

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Quindi, la tutela comunitaria dell’ambiente si sviluppa inizialmente attraverso i programmi di azione per tradursi in obiettivi e, poi, in principi inseriti nei Trattati istitutivi. Il Trattato di Maastricht del 1992 ha elevato l’azione comunitaria in materia ambientale a politica fondamentale dell’Unione introducendo l’obiettivo di assicurare «un elevato livello di tutela» (art. 130 R) attraverso la promozione di «una crescita sostenibile, non inflazionistica…» (art. 2) cui risulta connessa la previsione di una politica nel settore ambientale (art. 3).

L’obiettivo viene poi inserito fra i principi della Comunità europea con l’art. 2 del Trattato di Amsterdam ai sensi del quale bisogna promuovere un «elevato livello di protezione dell'ambiente ed il miglioramento della qualità di quest'ultimo». Il successivo art. 3 C, specifica inoltre che «Le esigenze connesse con la tutela dell'ambiente devono essere integrate nella definizione e nell'attuazione delle politiche e azioni comunitarie di cui all'articolo 3, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile».

La politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni della Comunità. Essa è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio “chi inquina paga”, ex 174 Trattato CE[20].

La prima norma dell’ordinamento europeo in materia è stata la direttiva 2004/35/CE[21], avente ad oggetto la responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, che prevede:

una nozione di danno ambientale legata a fattispecie tipiche: danni a specie ed habitat naturali protetti dalla normativa nazionale e comunitaria; danni ai corpi idrici, in caso di impatti negativi significativi sullo stato ecologico, chimico o quantitativo o sul potenziale ecologico ex direttiva 2000/60 o sullo stato ambientale delle acque marine ex direttiva 2008/56; danni al terreno, in caso di una contaminazione che produca un rischio significativo di effetti nocivi per la salute umana.

un regime di responsabilità oggettiva per i soggetti esercenti attività professionali elencate nell’allegato della direttiva[22]. Vi è una parziale inversione dell’onere della prova. Il danneggiato deve provare che esiste un rapporto casuale tra l’attività dell’operatore e il danno. L’operatore, per liberarsi dalla responsabilità, deve provare di avere agito senza dolo o colpa e che l’attività dannosa si è svolta in conformità ad una autorizzazione che sia stata conferita nel rispetto della normativa ambientale o l’attività dannosa non era considerata come una probabile causa del danno secondo le conoscenze esistenti all’epoca in cui era svolta.

un regime residuale di responsabilità soggettiva (dolo o colpa) per chiunque causa un danno a specie ed habitat protetti.

un risarcimento da attuare sempre e solo in forma specifica attraverso le seguenti misure: in caso di danni al terreno con interventi che permettano di eliminare il rischio sanitario dovuto alla contaminazione; in

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caso di danni a specie ed habitat protetti e corpi idrici con la riparazione primaria, la riparazione complementare e la riparazione compensativa.

La direttiva 2004/35/CE prevede una rigida tipizzazione del danno in tre fattispecie tipiche e tassative di danno e non prevede una rigida tipizzazione della condotta.

Nella direttiva 2004/35/CE è disciplinata anche la minaccia di danno ambientale ovvero il rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno ambientale in un futuro prossimo.

Si prevede, quindi, un regime di responsabilità oggettiva, con inversione dell’onere della prova, per i soggetti che esercitano le attività professionali elencate nell’allegato della direttiva che hanno causato la minaccia di danno.

La direttiva 2004/35/CE prevede anche una norma finale di salvaguardia: gli Stati membri, nel recepire la direttiva, hanno facoltà di introdurre o mantenere disposizioni nazionali più severe sulla responsabilità per danno ambientale

La Corte di Giustizia europea ha, poi, confermato il potere della legislazione degli Stati membri[23].

Le Convenzioni IMO (Organizzazione Marittima Internazionale) sulla responsabilità civile per i danni dovuti ad inquinamento da idrocarburi (1969/1992), sull’istituzione di un fondo internazionale per i danni dovuti ad inquinamento da idrocarburi (1971/1992) e sulla responsabilità e l’indennizzo dei danni causati dal trasporto via mare di sostanze nocive potenzialmente pericolose (1996) hanno introdotto un regime di responsabilità civile che prevede di risarcire, accanto ai danni ai privati, anche il danno ambientale causato da una nave, a seguito di una fuga o di uno scarico di idrocarburi o di sostanze pericolose.

Ciò detto, la direttiva 2004/35/CE è stata recepita nell’ordinamento italiano con la parte sesta del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152.

La parte sesta del D.lgs. n° 152/2006 prevede, per la nozione di danno, per il regime di responsabilità e per le misure di riparazione una disciplina nuova rispetto all’articolo 18 della legge n. 349/86.

Dopo il 2006 tale normativa è stato oggetto di importanti modifiche per effetto del decreto legge 29 settembre 2009 n. 135 (articolo 5-bis) e della legge 6 agosto 2013, n. 97 (articolo 25).

Tali modifiche sono state giustificate con l’esigenza di assicurare una migliore coerenza con la direttiva 2004/35/CE, a seguito dell’avvio di una procedura di infrazione da parte della Commissione europea in cui si ipotizzava il non corretto recepimento della direttiva.

La Commissione U.E. ha, poi, recentemente reso disponibili le “Linee guida in tema di prevenzione e riparazione del danno ambientale”. Con la comunicazione, pubblicata in Gazzetta Ufficiale dell’Unione

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europea del 7 aprile 2021, n. C 118, si è inteso fornire un’interpretazione comune della direttiva 2004/35/CE che nel nostro Paese è stata recepita con il D.lgs. n. 152/2006, meglio noto come “Codice ambientale”[24].

3. Considerazioni preliminari sulla responsabilità per danno ambientale

Per danno anno ambientale si intendono le conseguenze negative indotte sui beni ambientali da un fenomeno naturale o da un’attività antropica. Si aggiunga che il danno ambientale risarcibile non comprende i danni causati dai fenomeni naturali[25] o a carattere diffuso, come l’inquinamento causato dagli autoveicoli, o non riconducibili ad una attività antropica.

Molte sono le attività antropiche che determinano danni ambientali e in accordo ai principi dello sviluppo sostenibile tali attività vanno evitate e, ove questo non sia possibile, tali attività vanno regolamentate attraverso un regime giuridico (penale o amministrativo) finalizzato a limitarne le conseguenze negative e, in accordo al principio chi inquina paga, a internalizzare i costi delle esternalità negative[26].

Quando le conseguenze negative indotte da attività antropica riconducibili a singoli soggetti causano una compromissione significativa e misurabile dei beni ambientali esplicitamente tutelati da norme specifiche[27] o sono causate da attività illecite, non conformi al regime giuridico, i responsabili sono sottoposti a un regime di responsabilità civile finalizzato al risarcimento di tali conseguenze, il c.d. danno ambientale risarcibile.

Alla valutazione equitativa del danno ambientale si è fatto ampiamente ricorso non soltanto a causa della difficile quantificazione del danno determinata dalla particolare natura del bene ambientale ma anche per l’intento già implicitamente manifestato dal legislatore nell’art. 18 di attribuire alla responsabilità ambientale una funzione sanzionatoria-punitiva[28]; intento che sembra confermato dall’applicazione dei criteri previsti all’art. 18 comma 6 anche nell’ipotesi in cui l’ammontare del danno fosse precisamente determinabile[29].

Nell’ambito dell’art. 18 costituiscono espressione del carattere sostanzialmente sanzionatorio della responsabilità per danno ambientale: la gravità della colpa come parametro di valutazione equitativa del danno (comma 6); la previsione di una responsabilità individuale, e non solidale, in caso di concorso nello stesso evento dannoso, in deroga all’art. 2055 c.c. (comma 7) e il mancato riferimento al canone dell’«eccessiva onerosità» nel risarcimento in forma specifica[30].

La tutela contro i danni ai beni ambientali è una strategia globale fondata sui principi generali di previsione, esclusione, prevenzione e riparazione dei danni ambientali.

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La previsione è un principio finalizzato allo studio e alla determinazione dei fenomeni naturali e delle attività antropiche che possono causare conseguenze negative ai beni ambientali, alla valutazione dei rischi e alla individuazione dei beni ambientali soggetti a tali rischi[31].

La precauzione è, invece, un principio finalizzato ad evitare situazioni di pericolo anche solo potenziali per la salute umana e per i beni ambientali esplicitamente tutelati da norme specifiche e viene adottata quando gli effetti potenzialmente pericolosi di un fenomeno, di un prodotto o di un processo sono stati identificati tramite una valutazione scientifica e obiettiva, ma questa valutazione non consente di determinare il rischio con sufficiente certezza.

In accordo al principio di precauzione[32], di cui all’art. 174 del trattato CE, in caso di pericoli anche solo potenziali per la salute umana e per l’ambiente, vanno attuate adeguate misure di precauzione finalizzate ad assicurare un alto livello di protezione attraverso la riduzione dell’entità di tali pericoli, con modalità definite dal Ministero dell’ambiente.

La prevenzione, detto diversamente, è un principio finalizzato ad evitare o ridurre al minimo il rischio che i fenomeni naturali e le attività antropiche causino conseguenze negative ai beni ambientali anche sulla base delle conoscenze acquisite per effetto delle attività di previsione.

Tale principio si basa sul concetto secondo il quale il costo da sostenere per prevenire i danni ambientali è inferiore a quello degli interventi di riparazione. Inoltre, alcuni danni possono essere, tecnicamente o economicamente, irreversibili o possono causare la perdita temporanea di servizi ecologici/antropici essenziali o compromettere definitivamente quelli già alterati da comportamenti scorretti mantenuti nel corso degli anni.

La prevenzione è, invece, un principio che persegue due diverse finalità diffuse trasversalmente in tutta la normativa ambientale: evitare o ridurre al minimo la probabilità che un evento pericoloso per l’uomo e per l’ambiente si possa verificare e evitare o ridurre l’entità delle conseguenze negative sui beni ambientali.

La prevenzione[33] è uno strumento di tutela contro i danni ambientali, caratterizzati da un deterioramento significativo dei beni ambientali esplicitamente tutelati da norme specifiche, previsto per i casi in cui, a causa di una attività professionale, esiste una minaccia imminente che si verifichi un danno ambientale.

La riparazione, invece, è un principio finalizzato a ripristinare i beni ambientali danneggiati alle stesse condizioni esistenti prima del danno.

La tutela contro i danni ambientali causati dalle attività antropiche avviene attraverso l’utilizzo di diversi strumenti operativi: la regolamentazione delle attività antropiche che sono pericolose per l’uomo e per l’ambiente (obblighi, divieti e sanzioni); la promozione e l’adozione, su base volontaria, di comportamenti virtuosi; la definizione di piani e programmi; l’informazione e la partecipazione dei cittadini; la vigilanza e

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il controllo ambientale.

La regolamentazione delle attività antropiche che sono pericolose per l’uomo e per l’ambiente avviene attraverso l’adozione di un regime giuridico finalizzato a evitare e mitigare preventivamente le conseguenze negative tramite la definizione di obblighi e divieti nonché procedure autorizzative, competenze e sanzioni, a internalizzare preventivamente i costi delle esternalità negative tramite tasse, canoni di concessione, assicurazioni e a risarcire a posteriori i danni causati tramite la riparazione.

Il regime giuridico viene adottato mediante l’emanazione di leggi e provvedimenti specifici settoriali o integrati o di testi unici nonché la ratifica di Direttive comunitarie o di Convenzioni internazionali (IMO).

Quando un’attività antropica, riconducibile a singoli soggetti, viene esercitata in violazione degli obblighi e dei divieti stabiliti del regime giuridico i responsabili sono sottoposti a sanzioni amministrative o penali e sono ritenuti civilmente responsabili dei danni causati.

La sanzione penale e amministrativa mira a salvaguardare la vita associativa mentre, la responsabilità civile ha l’obiettivo di salvaguardare gli interessi patrimoniali dello Stato[34].

A tal proposito, nell’ordinamento vigente[35] la sanzione amministrativa va intesa, in via principale, come il pagamento di una somma di denaro ed in via secondaria o concomitante, come un provvedimento che limita il godimento di beni[36] e che può estendersi perfino alla privazione della proprietà degli stessi[37].

La responsabilità civile nei confronti del danno ambientale comporta un obbligo per i responsabili a sostenere, in alternativa e nell’ordine: le misure o spese necessarie per il ripristino dell’ambiente allo stato originario, ovvero il risarcimento in forma specifica; il pagamento nei confronti dello Stato di una somma pari al valore economico del danno ambientale ovvero il risarcimento per equivalente patrimoniale.

In accordo alla parte VI del D.lgs. n. 152/06, il risarcimento del danno ambientale può essere richiesto dal Ministero dell’Ambiente in modo autonomo con una ordinanza o in sede civile, o come parte offesa in un procedimento penale.

In alcune circostanze[38] i contenziosi possono essere risolti mediante un accordo transattivo. Tali accordi possono essere di natura puramente economica o prevedere anche impegni a realizzare interventi di ripristino ambientale o compensatori.

4. Il regime giuridico della responsabilità civile ambientale

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nell’ordinamento italiano

Molte sono le attività antropiche che possono determinare danni ambientali, ma non tutte danno luogo a una responsabilità civile nei confronti del danno ambientale. La responsabilità civile nei confronti del danno ambientale può nascere solo a seguito di un illecito penale o amministrativo per responsabilità colposa o dolosa ovvero indipendentemente dalla colpa o dal dolo, per responsabilità oggettiva.

La responsabilità oggettiva è in genere richiesta per il risarcimento del danno ambientale costituito da una compromissione significativa e misurabile di beni ambientali esplicitamente tutelati da norme specifiche originato da una attività professionale.

La responsabilità colposa o dolosa è in genere richiesta per il risarcimento del danno ambientale costituito da qualsiasi alterazione, deterioramento o distruzione, in tutto o in parte, dei beni ambientali originato da chiunque.

Il D.lgs. n. 152/2006, infatti, ha accolto in materia di responsabilità per danno ambientale un generalizzato regime di responsabilità soggettiva, basato sul presupposto del dolo o della colpa, disponendo altresì, nel caso di danno imputabile ad una pluralità di soggetti, che ciascuno risponda “nei limiti della propria responsabilità personale”. È stato, quindi, introdotto il principio della responsabilità parziaria e non già solidale, vigente in generale in campo civilistico.

Nel 2008, la Commissione europea ha aperto una procedura di infrazione per inosservanza della direttiva 2004/35/CE, in relazione alla mancata previsione di ipotesi di responsabilità oggettiva, qualora il danno ambientale sia stato causato da una delle attività professionali elencate nell’allegato III della direttiva, in violazione dell’art. 3, paragrafo 1, lettera a) e dell’art. 6 della stessa direttiva. Inoltre, la Commissione ha contestato il fatto che varie disposizioni del d. lgs. n. 152/2006, gli artt. 311, 312 e 313, consentano che le misure di riparazione possano essere sostituite da risarcimenti per equivalente pecuniario, in violazione degli articoli 1 e 7 e dell’allegato II della direttiva. La riparazione, primaria, complementare o compensativa costituisce, infatti, lo strumento ottimale per l’attuazione del fondamentale principio comunitario secondo cui "chi inquina paga", al contrario del mero risarcimento pecuniario.

A tal fine, il Ministero dell’Ambiente esercita i poteri e le funzioni dello Stato in materia di tutela, prevenzione e riparazione dei danni ambientali ed è titolare dell’azione di prevenzione della minaccia di danno e dell’azione di ripristino e risarcimento in forma specifica del danno ex 299 del T.U.A.

La titolarità esclusiva del Ministero dell’Ambiente, ora Ministero della Transizione ecologica, per tutte le azioni di danno ambientale trova giustificazione nei caratteri di unitarietà e indivisibilità di tale tipologia di danno.

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Altri soggetti pubblici o privati possono comunque agire per specifici danni[39] sofferti in conseguenza del fatto che ha causato il danno ambientale ex articolo 313 del D.lgs. n. 152/06.

Ebbene, la Corte costituzionale ha confermato la legittimità della titolarità esclusiva dello Stato[40] e il nuovo D.lgs. n. 152/2006 propone una nuova definizione di "danno ambientale" ed una precisa ripartizione di competenze in materia di prevenzione, ripristino ambientale e risarcimento in capo al Ministero dell’Ambiente, Enti locali, persone fisiche e giuridiche.

Due principi vigono: quello dell'accertamento del nesso di causalità tra condotta e inquinamento e quello, anch’esso contenuto nella direttiva 2004/35/CE, che impone alla pubblica Amministrazione di accertare sempre quale sia l'operatore che ha effettivamente provocato il danno.

Nel nostro ordinamento il risarcimento del danno ambientale è stato regolamentato da varie normative specifiche, come quelle sui siti inquinati[41].

La citata normativa recepisce quanto stabilito dalla Direttiva comunitaria 2004/35/CE sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale.

Inoltre, il risarcimento del danno ambientale tiene conto di quanto previsto nell’ambito di varie Convenzioni internazionali sottoscritte dal nostro paese in materia di danno causato da installazioni

“trasfrontaliere”.

Come si è visto, a livello comunitario il risarcimento del danno ambientale è regolamentato dalla Direttiva 2004/35/CE del 21 aprile 2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale.

La Direttiva è finalizzata ad attuare ed armonizzare tra i paesi dell’Unione il principio “chi inquina paga”, ex 174 del Trattato istitutivo della CE[42], attraverso la definizione di un livello minimo e comune di protezione contro i danni ambientali.

Infatti, la Direttiva introduce un regime di risarcimento solo per il danno ambientale caratterizzato da una compromissione significativa e misurabile dei beni ambientali esplicitamente tutelati da norme specifiche.

A tal proposito, si registrano in letteratura due opinioni discordanti: la prima vede nella formula

«inquina paga» un fondamentale strumento di responsabilità civile che si concretizza nella necessità che ogni autore di un danno ambientale sopporti le conseguenze tradotte in termini di costi[43]. La seconda considera, invece, il suddetto principio come un mezzo per far sopportare agli inquinatori i costi delle misure necessarie per la prevenzione ed il controllo dell’inquinamento, escludendo ogni collegamento con la materia del danno ambientale, dell’individuazione del responsabile e della sanzione pecuniaria[44].

Come si è accennato, nel nostro ordinamento il risarcimento del danno ambientale è stato regolamentato

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da varie normative specifiche[45] e dall’art. 18 della Legge n. 349/86.

Tale regime è stato in parte riformato, anche in attuazione della Direttiva comunitaria 2004/35/CE, dal D.lgs. n.152/06, vigente per tutti i danni ambientali risarcibili verificatosi a partire dal 29/4/2006.

Il regime giuridico vigente nel nostro paese in materia di tutela risarcitoria contro i danni all'ambiente è stato, quindi, in parte riformato dal D.lgs. n. 152/06 del 3 aprile 2006.

Successi decreti hanno introdotto ulteriori disposizioni correttive ed integrative[46]; il nuovo testo normativo: recepisce il regime di responsabilità oggettivo previsto dalla Direttiva 2004/35/CE in caso compromissione significativa e misurabile di beni ambientali esplicitamente tutelati da norme specifiche e lo estende a tutte le attività professionali a meno che gli operatori dimostrino di non avere colpa o dolo (Titolo II, parte VI); nel caso in cui il danno riguardi il suolo, il sottosuolo e/o le acque sotterranee di un sito contaminato (dove i valori delle concentrazioni soglia di rischio – CSR risultano superati) estende la responsabilità oggettiva a chiunque l’abbia cagionato (Titolo V, parte IV); recepisce il regime di responsabilità colposo previsto dalla Direttiva 2004/35/CE per chiunque arrechi danno alla biodiversità e lo estende, in analogia all’art. 18 della Legge n. 349/86, a ogni alterazione, deterioramento o distruzione anche parziale dell’ambiente, indipendentemente dai beni ambientali compromessi e dall’entità degli effetti avversi (comma 2, art. 311).

La prima norma dell’ordinamento italiano in materia di danno ambientale è stata, quindi, l’articolo 18 della legge n. 349/86[47].

Il sistema si fondava pertanto su tre presupposti principali: un regime di responsabilità soggettiva da fatto illecito; un campo di applicazione esteso alla compromissione, di qualsiasi grado (distruzione totale o parziale, alterazione, ecc.), di qualsiasi risorsa ambientale; un risarcimento per equivalente monetario (con valutazione in via equitativa) e, solo ove possibile, in forma specifica.

L’articolo 18 della legge n. 349/86 prevedeva la tipizzazione della condotta, una attività illecita dolosa o colposa e non prevedeva la tipizzazione del danno ma una compromissione di qualsiasi grado di qualsiasi risorsa.

L'art. 18 della legge n. 349/1986 è stato interpretato dalla Corte Suprema[48] con criteri ermeneutici diversi. In un primo approccio metodologico è stata evidenziata la specialità delle discipline da esso introdotta rispetto alla previsione generale dell'art. 2043 c.c., individuando le differenze formali e sostanziali rispetto al regime codicistico e sottolineando la natura “adespota” dell'ambiente, quale bene immateriale, e, conseguentemente, l'irrilevanza del profilo dominicale, pubblico o privato, delle sue componenti naturali[49].

In seguito, la disciplina dell'art. 18 è stata innestata nel regime ordinario della responsabilità, con riferimento all'art. 2043 c.c. ed all'art. 2050 c.c. per le attività pericolose, configurando una sorta di

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“regime misto” che ha mutuato dalla disciplina codicistica la responsabilità oggettiva per le attività pericolose e la solidarietà dei responsabili e dalla disciplina speciale il profilo della rilevanza autonoma del danno-evento (la lesione in sé del bene ambientale), sostituito al “danno-conseguenza” considerato dal codice e parametrando il danno medesimo non al pregiudizio patrimoniale subito ma «alla gravità della colpa del trasgressore, al profitto conseguito dallo stesso ed al costo necessario al ripristino»[50]. La Corte ha ribadito la peculiarità del danno ambientale, pur nello schema della responsabilità civile, rilevando che esso consiste nell'alterazione, deterioramento, distruzione, in tutto o in parte dell'ambiente, inteso quale insieme che, pur comprendendo vari beni appartenenti a soggetti pubblici o privati, si distingue ontologicamente da questi e si identifica in una realtà immateriale, ma espressiva di un autonomo valore collettivo, che costituisce, come tale, specifico oggetto di tutela da parte dell'ordinamento[51].

Con successivo orientamento la Corte ha affermato che la stessa configurabilità del bene-ambiente e la risarcibilità del danno ambientale, pur specificamente regolato dall'art. 18 della legge n. 349/1986, trovano «la fonte genetica direttamente nella Costituzione, considerata dinamicamente e come diritto vigente e vivente, attraverso il combinato disposto di quelle disposizioni (art. 2, 3, 9, 41 e 42) che concernono l'individuo e la collettività nel suo habitat economico, sociale e ambientale» ed ha ritenuto, pertanto, che, anche prima della legge n. 349/1986, la Costituzione e la norma generale dell'art. 2043 c.c.

«apprestavano all'ambiente una tutela organica»[52]. Secondo tale interpretazione, la disciplina speciale poste dall'art. 18 è stata retroattivamente applicata a fatti lesivi dell'ambiente posti in essere in data anteriore a quella dell'entrata in vigore della stessa legge n. 349/1986.

5. La natura patrimoniale del danno ambientale e la relativa istruttoria

Dottrina e giurisprudenza si sono ampiamente interrogate sulla natura patrimoniale o non patrimoniale del danno ambientale e questo dibattito ha inevitabilmente influenzato la questione della funzione assolta dalla relativa responsabilità e quella relativa alla sua quantificazione. Per sostenere la tesi della patrimonialità, dottrina e giurisprudenza hanno dovuto dimostrare la presenza, nel danno ambientale, dei due tratti caratteristici del danno patrimoniale: quello dell’economicità cioè della «misurabilità in denaro»

del bene danneggiato e quello della individualità. Il risarcimento del danno patrimoniale si attua, infatti, solo in presenza di una perdita economica che si soggettivizza in un individuo determinato. Tale operazione ermeneutica si è rivelata alquanto complessa in quanto l’ambiente, come si è sopra rilevato, si caratterizza per la sua inappropriabilità e insuscettibilità di godimento esclusivo nonché per la sua riferibilità ad una generalità indifferenziata di individui.

La Corte dei Conti è stata la prima a sostenere la patrimonialità del danno ambientale in quanto danno pubblico erariale, sottolineando però come la sua quantificazione prescindesse da una valutazione puramente economico– ragionieristica della perdita di valore del bene: la perdita non si identificava,

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secondo il giudice contabile, in un mero detrimento dell’erario bensì nelle perdite risentite dalla collettività per la compromessa fruibilità del bene[53]. L’esclusione della patrimonialità veniva confermata dal fatto che, così come evidenziato dall’esperienza dei tribunali, una precisa quantificazione» del danno è possibile soltanto in casi del tutto marginali, mentre, normalmente, il danno è liquidato in via equitativa facendo riferimento non soltanto alle conseguenze pregiudizievoli del fatto dannoso ed ai costi per eliminarle ma anche alla gravità della colpa ed al profitto del trasgressore.

La Suprema Corte di Cassazione, nel confermare la tesi della non patrimonialità del danno ambientale, ha precisato che «il danno ambientale supera e trascende il danno ai singoli beni che ne fanno parte (onde) bisogna distinguere tra danno ai singoli beni di proprietà pubblica o privata, o a posizioni soggettive individuali, che trovano tutela nelle regole ordinarie, e danno all'ambiente considerato in senso unitario, in cui il profilo sanzionatorio, nei confronti del fatto lesivo del bene ambientale, comporta un accertamento che non è quello del mero pregiudizio patrimoniale, bensì della compromissione dell'ambiente, vale a dire della lesione -in sè del bene ambientale»[54]

Si ricordi che, in punto di risarcimento per equivalente patrimoniale, ex 311, comma 2 e art. 313, comma 2, se il responsabile non provveda in tutto o in parte al ripristino ambientale anche a seguito di una ordinanza ingiuntiva immediatamente esecutiva, o qualora il ripristino risulti in tutto o in parte impossibile oppure eccessivamente oneroso, il Ministero competente, con successiva ordinanza, ingiunge il pagamento entro sessanta giorni di una somma pari al valore economico del danno accertato o residuo a titolo di risarcimento per equivalente patrimoniale.

Ciò detto, le richieste di risarcimento del danno da parte del Ministero della transizione ecologica[55]

possono essere formulate attraverso:

un’azione civile, esercitata anche in sede penale;

un iter amministrativo con ordinanza, ai sensi dell’articolo 313 del D.lgs. 152/06;

a seguito di citazione del Ministero della Transizione ecologica tra le persone offese in sede di procedimento penale;

a seguito di denuncia ex 309 del D.lgs. 152/06;

a seguito di evidenze di danno o minacce di danno in sede di altri iter istruttori o attività di controllo e vigilanza.

Da un altro punto di vista, Regioni, Enti locali, persone fisiche e giuridiche e associazioni ambientaliste possono agire per l'annullamento degli atti amministrativi ritenuti illegittimi, chiedere l'intervento statale a mezzo di denuncia da presentare al Ministero della Transizione ecologica tramite le Prefetture o agire per il risarcimento del danno ambientale subito a causa del ritardo nell'attivazione delle misure di

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precauzione, di prevenzione o di contenimento del danno stesso.

Inoltre, il Ministero della Transizione ecologica ha diramato a tutte le Prefetture una “Lista di controllo ex art. 309 del D. Lgs.152/2006”, con allegato un documento di puntuazione, al fine di uniformare le modalità di deposito delle istanze presso le Prefetture, Uffici Territoriali del Governo.

Tale modulistica è stata appositamente elaborata per disporre dei riferimenti anagrafici dell’istante, consentire l’individuazione del presunto danno o minaccia ambientale, dei suoi effetti e dei suoi responsabili, nonché imporre all’istante una autovalutazione preliminare circa l’effettiva presenza di un danno o una minaccia ambientale[56].

L’istruttoria per l’accertamento del danno ambientale viene in genere effettuata relativamente ad eventi avvenuti, in media, due o più anni prima. Pertanto, considerata la capacità dell’ambiente ad autoripararsi dopo un danno, per la sua resilenza, è necessario che gli accertamenti inerenti all’esercizio dell’azione per il risarcimento del danno ambientale vengano effettuati in tempi immediatamente successivi gli eventi.

L’istruttoria per l’accertamento del danno ambientale può essere avvantaggiata quando l’azione di risarcimento venga avviata nell’ambito o a valle di un procedimento penale o amministrativo. In tali circostanze, infatti, si dispone di un fascicolo giudiziario raccolto dai magistrati del pubblico ministero o di un verbale di accertamento o di un fascicolo processuale con la relativa sentenza emessa dai Giudici che forniscono i responsabili, gli illeciti contestati e una serie di prove che possono essere utili per l’accertamento del danno ambientale.

A tal fine, strumenti utili per l’accertamento del danno ambientale sono:

i sistemi di monitoraggio ambientale locale, efficaci per produrre e raccogliere dati utili relativi ai fenomeni di inquinamento e di prelievo di una risorsa naturale;

i sistemi di monitoraggio ambientale territoriale, meno efficaci in quanto costruiti e gestiti con finalità diverse a quella di catturare gli effetti locali e transitori in genere associati al danno ambientale;

i sistemi di telerilevamento, da aereo o satellite, e di archiviazione dei dati territoriali nel tempo, efficace per produrre e raccogliere dati utili relativi alla trasformazione dei luoghi e ai fenomeni di inquinamento visibili a sensori utilizzati;

i sistemi di monitoraggio delle emissioni, efficaci per produrre e raccogliere dati utili relativi alle sorgenti di inquinamento;

le attività di vigilanza e controllo sul territorio e sulle attività produttive pericolose per l’uomo e per l’ambiente;

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le segnalazioni e denunce dei cittadini e delle associazioni ambientalistiche.

Ebbene, il Ministero della Transizione ecologica può delegare l’attività di istruttoria al Prefetto competente, può avvalersi di enti e istituzioni pubbliche dello Stato e può disporre apposite consulenze tecniche di parte svolte dagli uffici di queste organizzazioni e anche da liberi professionisti.

L’istruttoria per l’accertamento del danno ambientale è un’attività di indagine e di valutazione integrata e interdisciplinare di una serie di aspetti giuridici, tecnici, scientifici ed economici, finalizzata a identificare il danno ambientale risarcibile e i relativi responsabili, quantificare il danno ambientale, valutare le misure di riparazione o del valore economico del danno.

Al riguardo, il danno ambientale viene dimostrato con la raccolta e l’analisi delle informazioni disponibili e utili per accertare e documentare le conseguenze negative (gli effetti) sui beni ambientali (i bersagli) originate da fatti omissivi o commissivi (le cause) riconducibili a specifici soggetti (responsabili) per cui è prevista la responsabilità civile.

Il relativo collegamento causa-effetto tra i fatti omissivi o commissivi (le cause) contestati ai responsabili e il danno (gli effetti) viene dimostrato attraverso la ricostruzione e l’analisi dello scenario di riferimento in termini di sorgenti, vie di esposizione e bersagli.

Ciò detto, la ricostruzione e l’analisi dello scenario di riferimento richiede che, caso per caso, venga descritta soprattutto la quantificazione del danno ambientale, frutto dell’attività dell’istruttoria finalizzata a fornire una descrizione quantitativa articolata e analitica del danno ambientale attraverso la descrizione della severità del danno di ciascun bene ambientale.

La severità del danno di ciascun bene viene descritta in termini di grado di alterazione, di deterioramento e di distruzione, parziale o totale a seconda se si ha una variazione rispetto allo stato precedente (alterazione); può essere quantificata sulla base del confronto dello stato della compromissione, lo stato precedente e con il limite massimo di alterazione o deterioramento oltre il quale si ha la distruzione del bene ambientale considerato.

Una tabella che riassuma questi parametri, per tipo di sorgente e bene ambientale, insieme alle informazioni sull’estensione[57] e sulla durata temporale fornisce una quantificazione articolata o analitica del danno ambientale.

La raccolta sistematica dei limiti massimi di alterazione o deterioramento (Lmax) oltre il quale si ha la distruzione del bene ambientale considerato[58], relativi a beni ambientali tipici del territorio italiano o delle sue ecoregioni, è essenziale per la determinazione del deterioramento della distruzione delle varie risorse naturali e dei relativi servizi.

In genere, la riparazione primaria non è in grado di assicurare un ripristino completo e deve essere

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integrata con una riparazione complementare finalizzata a surrogare i beni e i servizi ambientali non riparati con altri a questi equivalenti e il cui dimensionamento dipende dalla riparazione primaria realizzata.

La riparazione primaria e complementare, tuttavia, non esauriscono il risarcimento in quanto non compensa il danno connesso alla compromissione temporanea dei beni e dei servizi che le risorse naturali assicuravano nel periodo di tempo compreso tra l’evento dannoso e il completo ritorno dell’ambiente alle condizioni originarie.

La valutazione economica del danno ambientale deve essere effettuata tenendo conto delle misure di riparazione, ex comma 3 dell’art. 311, e deve comprendere il pregiudizio arrecato alla situazione ambientale con particolare riferimento al costo necessario per il ripristino, ex comma 3 dell’art. 314.

La relazione di valutazione del danno ambientale rappresenta il documento finale elaborato dall’organismo tecnico che il Ministero o il Prefetto ha chiamato ad effettuare l’istruttoria per l’accertamento del danno ambientale risarcibile.

Attraverso la valutazione delle misure di riparazione o del valore economico del danno anche l’ambiente, quale bene fuori mercato, può essere valutato per assicurarne la risarcibilità e promuovere uno sviluppo sostenibile consapevole. Infatti, la valutazione delle misure di riparazione o del valore economico del danno può incoraggiare lo sviluppo e l’adozione di forme e mercati di garanzia finanziaria, previsti dall’art. 318 comma 3, utili per assicurare un’effettiva riparazione dei danni ambientali e una ripartizione dei rischi che gravano sugli operatori.

6. L’ambito di applicazione del danno ambientale e le relative procedure

La disciplina della parte sesta del D.lgs. n. 152/2006 si applica al danno ambientale causato da una delle attività professionali elencate nell'allegato 5 alla stessa parte sesta e a qualsiasi minaccia imminente di tale danno derivante dalle suddette attività e al danno ambientale causato da un'attività diversa da quelle elencate nell'allegato 5 alla stessa parte sesta e a qualsiasi minaccia imminente di tale danno derivante dalle suddette attività, in caso di comportamento doloso o colposo[59].

La parte sesta del D.lgs. n. 152/2006 non si applica al danno causato da un’emissione, un evento, un incidente avvenuti prima della data di entrata in vigore della parte sesta, al danno in relazione a cui siano trascorsi oltre 30 anni dall'emissione, dall'evento o dall'incidente che lo ha causato, al danno ambientale o alla minaccia di danno causati da inquinamento di carattere diffuso, se non è possibile accertare il nesso causale tra il danno e l’attività di singoli operatori, al danno ambientale o alla minaccia di danno provocati da incidenti per i quali la responsabilità o l'indennizzo rientrano nella Convenzione sulla responsabilità

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civile per danni da inquinamento da idrocarburi oppure nella Convenzione istitutiva del Fondo internazionale per l’indennizzo di danni da inquinamento da idrocarburi e così via.

Secondo la giurisprudenza comunitaria[60] e amministrativa italiana[61] gli elementi indiziari necessari e sufficienti da accertare sono soprattutto la vicinanza dell’impianto dell’operatore all’inquinamento accertato (c.d. vicinitas) e la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate e i componenti impiegati dall’operatore nell’esercizio dell’attività

In punto di responsabilità oggettiva, se si accerta dai fatti che un’attività rientrante nell’allegato III della direttiva 2004/35/CE ha causato dei danni all'ambiente, l’Ente pubblico è legittimato ad imporre misure preventive o di riparazione a questi operatori, senza che la pubblica Amministrazione sia tenuta a dimostrare l'esistenza di un comportamento doloso o colposo in capo agli stessi: ad esempio una spedizione transfrontaliera di rifiuti, scarichi in acqua autorizzati, fabbricazione di sostanze pericolose, uso di ogm e così via.

Altrimenti spetta a questa autorità, da un lato, ricercare preventivamente l'origine dell'accertato inquinamento, attività riguardo alla quale detta autorità dispone di un potere discrezionale in merito alle procedure e ai mezzi da impiegare, nonché alla durata; pertanto, in base alle norme nazionali in materia di prova, va cercata l'esistenza di un nesso di causalità tra l'attività degli operatori cui sono dirette le misure di riparazione e l'inquinamento di cui trattasi.

Il principio "chi inquina paga" non implica che gli operatori debbano farsi carico di oneri inerenti alla riparazione di un inquinamento al quale non abbiano contribuito.

A parte i casi precedenti la disciplina della parte VI del D.lgs. n. 152/2006, si applica anche ai danni ambientali causati da un’attività diversa da quelle elencate nell'allegato 5 alla stessa parte sesta e a qualsiasi minaccia imminente di tale danno derivante dalle suddette attività, in caso di comportamento doloso o colposo[62].

In generale, l'operatore sostiene i costi delle iniziative statali di prevenzione e di ripristino ambientale adottate secondo le disposizioni di cui alla parte sesta del D.lgs. n. 152/2006.

In caso di spese anticipate dal Ministero della Transizione ecologica questo recupera, anche attraverso garanzie reali o fideiussioni bancarie a prima richiesta e con esclusione del beneficio della preventiva escussione, dall'operatore che ha causato il danno o l'imminente minaccia, le spese sostenute dallo Stato in relazione alle azioni di precauzione, prevenzione e ripristino adottate ma il Ministero della Transizione ecologica può decidere di non recuperare la totalità dei costi qualora la spesa necessaria sia maggiore dell'importo recuperabile o qualora l'operatore non possa essere individuato.

In punto di procedure per la prevenzione, in base all’articolo 304, l’operatore deve presentare al Ministero della Transizione ecologica, per l’approvazione, le misure di ripristino non oltre trenta giorni dall’evento

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dannoso. A tal proposito, ha facoltà di chiedere all’operatore informazioni sul danno e sulle misure adottate, ordinare all’operatore di adottare le misure di ripristino, adottare direttamente le misure di ripristino, addivenire ad un accordo con l'operatore in merito alle misure di ripristino.

Se l’operatore non provvede il Ministero può adottare le misure di ripristino, con diritto di rivalsa sull’operatore. Se l’operatore non viene individuato il Ministero può adottare le misure di ripristino, con diritto di rivalsa sull’operatore purché questi sia individuato entro cinque anni dalla spesa

In base agli articoli 305-308, titolo II, in caso di danno ambientale l’operatore deve presentare al Ministero della Transizione ecologica, ai fini dell’approvazione, le misure di ripristino non oltre trenta giorni dall’evento dannoso; il Ministero dell’ambiente ha poi facoltà di chiedere all’operatore informazioni sul danno e sulle misure adottate, di ordinare all’operatore di adottare le misure di ripristino, di adottare direttamente le misure di ripristino e di addivenire ad un accordo con l'operatore in merito alle misure di ripristino.

Se l’operatore non provvede il Ministero può adottare le misure di ripristino, con diritto di rivalsa sull’operatore. Se l’operatore non viene individuato, il Ministero può adottare le misure di ripristino, con diritto di rivalsa sull’operatore purché questi sia individuato entro cinque anni dalla spesa.

L’articolo 311 del titolo III prevede, in caso di danno ambientale, che l’operatore deve adottare le misure di riparazione previste degli allegati 3 e 4.

Gli allegati 3 e 4 prevedono, come la direttiva 2004/35/CE, gli interventi per i danni al terreno o i danni a specie ed habitat protetti e corpi idrici[63].

L’articolo 311, comma 3, prevede che con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentito il Ministro dello sviluppo economico, …, sono definiti, in conformità a quanto previsto dal punto 1.2.3 dell’allegato 3 (…) i criteri ed i metodi, anche di valutazione monetaria, per determinare la portata delle misure di riparazione complementare e compensativa. Tali criteri e metodi trovano applicazione anche ai giudizi pendenti non ancora definiti con sentenza passata in giudicato alla data di entrata in vigore del decreto di cui al periodo precedente.

In caso di danno ambientale, si prevede la possibilità del Ministero della Transizione ecologica di promuovere l’azione di risarcimento del danno in sede civile o di promuovere l’azione di risarcimento del danno mediante la costituzione di parte civile nel processo penale o di adottare un’ordinanza esecutiva per il risarcimento del danno.

L’articolo 311 del titolo III prevede i casi in cui l’adozione delle misure di riparazione risulta in tutto o in parte omessa, realizzata in modo incompleto, realizzata in modo difforme dai termini e dalle modalità prescritti.

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Il Ministero della Transizione ecologica valuta i costi delle attività necessarie ad attuare le misure di riparazione e agisce nei confronti del responsabile per il pagamento delle somme corrispondenti[64].

Le somme relative al risarcimento del danno ambientale sono versate all’entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnate, con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, al “Ministero dell’ambiente” per essere destinate alla realizzazione delle misure di prevenzione e riparazione.

L’art. 311, prevede poi la procedura dell’ordinanza ovvero:

se il responsabile del danno ambientale non attiva le procedure previste dal titolo II, il Ministro della Transizione ecologica, con una prima ordinanza esecutiva, ingiunge il risarcimento in forma specifica;

se il responsabile non realizza le misure di riparazione nei termini e con le modalità prescritti, il “Ministro dell’ambiente”, con un’altra ordinanza, ingiunge il pagamento, entro 60 giorni, delle somme necessarie ad attuare tali misure.

l’ordinanza può essere adottata solo entro il termine di decadenza di due anni dalla notizia del fatto e nel termine di 180 giorni dalla comunicazione di avvio dell’istruttoria.

In punto di richieste di intervento statale, le regioni, gli enti locali, le persone fisiche o giuridiche che sono o che potrebbero essere colpite da un danno ambientale o che vantino un interesse legittimante la partecipazione al procedimento relativo all’adozione delle misure di prevenzione o ripristino possono presentare al “Ministro dell’ambiente” depositandole presso le Prefetture, denunce e osservazioni, corredate da documenti e informazioni, su qualsiasi caso di danno ambientale o di minaccia imminente di danno ambientale e chiedere l'intervento statale a tutela dell'ambiente a norma della parte sesta del D.lgs.

n. 152/2006. Il Ministero valuta tali richieste di intervento e le osservazioni allegate e informa senza dilazione i richiedenti in merito ai provvedimenti assunti al riguardo.

Quando un danno ambientale non si è ancora verificato, ma esiste una minaccia imminente[65] che si verifichi l'operatore interessato deve adottare, entro 24 ore e a proprie spese, le necessarie misure di prevenzione e di messa in sicurezza, far precedere gli interventi suddetti da apposita comunicazione al comune, alla provincia, alla regione o alla provincia autonoma nel cui territorio si prospetta l'evento lesivo, nonché al Prefetto competente che, nelle 24 ore successive, informa il Ministro della Transizione ecologica.

Se l'operatore non provvede agli interventi sopramenzionati e alla comunicazione, l’autorità preposta al controllo o comunque il Ministero della Transizione ecologica irroga una sanzione amministrativa non inferiore a mille euro né superiore a tremila euro per ogni giorno di ritardo;

Nella prassi l’irrogazione di queste sanzioni si applica la legge di depenalizzazione con adozione, da parte del “Ministero dell’Ambiente”, di ordinanze ingiunzione ai sensi dell’art. 18, legge n. 689/1981, con

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verbali di accertamento e contestazione di illecito amministrativo emessi anche dal Comando Carabinieri Tutela dell’Ambiente.

Quando un danno ambientale non si è ancora verificato, ma esiste una minaccia imminente («rischio sufficientemente probabile che stia per verificarsi uno specifico danno ambientale») che si verifichi, il Ministro ha facoltà, in qualsiasi momento, di:

chiedere all'operatore di fornire informazioni su qualsiasi minaccia imminente di danno ambientale o su casi sospetti di tale minaccia imminente;

ordinare all'operatore di adottare le specifiche misure di prevenzione considerate necessarie, precisando le metodologie da seguire;

adottare egli stesso le misure di prevenzione necessarie con eventuale azione di rivalsa nei confronti dell’operatore, nel termine di cinque anni dal pagamento effettuato.

Quando si è verificato un danno ambientale l’operatore deve:

comunicare senza indugio tutti gli aspetti pertinenti della situazione alle autorità di cui all'articolo 304, con gli effetti ivi previsti, e, se del caso, alle altre autorità dello Stato competenti, comunque interessate.

adottare immediatamente:

tutte le iniziative praticabili per controllare, circoscrivere, eliminare o gestire in altro modo, con effetto immediato, qualsiasi fattore di danno, allo scopo di prevenire o limitare ulteriori pregiudizi ambientali ed effetti nocivi per la salute umana o ulteriori deterioramenti ai servizi, anche sulla base delle specifiche istruzioni formulate dalle autorità competenti relativamente alle misure di prevenzione necessarie da adottare;

le necessarie misure di ripristino di cui all'articolo 306.

Sia per le Ordinanze assunte ai sensi dell’art. 304, comma 2, che per quelle adottate ai sensi dell’art. 305, comma 2, D.lgs. n. 152/2006, è sempre necessaria una relazione tecnica di accertamento del danno ambientale, con indicazione delle idonee misure di riparazione ai sensi dell’Allegato III alla parte sesta, D.lgs. n. 152/2006

ISPRA fornisce, in genere, il supporto tecnico al “Ministero dell’Ambiente” con la redazione di relazioni tecniche che dovrebbero essere utilizzate per l’emissione delle ordinanze di prevenzione o di riparazione del danno ambientale

Anche il CCTA, con i suoi Comandi territoriali, ha fornito e fornisce relazioni tecniche utilizzabili per

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l’emissione di ordinanze.

7. Le misure di riparazione e l’espansione della giustizia contabile

A seconda della risorsa ambientale compromessa[66] l’allegato III della parte sesta del D.lgs. n. 152/2006, prevede diverse misure di riparazione.

Nel caso di danno all'acqua o alle specie e agli habitat naturali protetti la riparazione del danno ambientale dovrà essere conseguita riportando l'ambiente danneggiato alle condizioni originarie tramite misure di riparazione primaria, complementare e compensativa, da intendersi come segue:

riparazione "primaria": qualsiasi misura di riparazione che riporta le risorse e/o i servizi naturali danneggiati alle o verso le condizioni originarie;

riparazione "complementare”: qualsiasi misura di riparazione intrapresa in relazione a risorse e/o servizi naturali per compensare il mancato ripristino completo delle risorse e/o dei servizi naturali danneggiati;

riparazione "compensativa”: qualsiasi azione intrapresa per compensare la perdita temporanea di risorse e/o servizi naturali dalla data del verificarsi del danno fino a quando la riparazione primaria non abbia prodotto un effetto completo;

"perdite temporanee": perdite risultanti dal fatto che le risorse e/o i servizi naturali danneggiati non possono svolgere le loro funzioni ecologiche o fornire i servizi ad altre risorse naturali o al pubblico fino a che le misure primarie o complementari non abbiano avuto effetto. Non si tratta di una compensazione finanziaria al pubblico.

Qualora la riparazione primaria non dia luogo a un ritorno dell'ambiente alle condizioni originarie, si intraprenderà una riparazione complementare. Inoltre, si intraprenderà una riparazione compensativa per compensare le perdite temporanee. La riparazione del danno ambientale, in termini di danno all'acqua o alle specie e agli habitat naturali protetti, implica inoltre che si deve sopprimere qualsiasi rischio significativo di effetti nocivi per la salute umana.

Nel caso di danno al terreno si devono adottare le misure necessarie per garantire, come minimo, che gli agenti contaminanti pertinenti siano eliminati, controllati, circoscritti o diminuiti in modo che il terreno contaminato, tenuto conto del suo uso attuale o approvato per il futuro al momento del danno, non presenti più un rischio significativo di causare effetti nocivi per la salute umana.

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La presenza di rischi è valutata mediante procedure di valutazione del rischio che tengono conto della caratteristica e della funzione del suolo, del tipo e della concentrazione delle sostanze, dei preparati, degli organismi o microrganismi nocivi, dei relativi rischi e della possibilità di dispersione degli stessi. L’utilizzo è calcolato sulla base delle normative sull'assetto territoriale o di eventuali altre normative pertinenti vigenti quando si è verificato il danno; se l'uso del terreno viene modificato, si devono adottare tutte le misure necessarie per evitare di causare effetti nocivi per la salute umana. In mancanza di normative sull'assetto territoriale o di altre normative pertinenti, l'uso dell'area specifica del terreno è determinato, tenuto conto dello sviluppo previsto, dalla natura dell'area in cui si è verificato il danno. Va presa in considerazione un'opzione di ripristino naturale, ossia un'opzione senza interventi umani diretti nel processo di ripristino.

Ciò detto, da un altro punto di vista, si allargano i profili di responsabilità contabile con l’entrata in vigore del d.lgs. 3.4.2006 n. 152, art. 313, comma 6, secondo cui “nel caso di danno provocato da soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti, il ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, anziché ingiungere il pagamento del risarcimento per equivalente patrimoniale, invia rapporto all'Ufficio di Procura regionale presso la Sezione giurisdizionale della Corte dei conti competente per territorio”.

Sul punto, la sentenza n. 1830/2008 della Corte dei Conti, Sez. Sardegna, ha affermato che "tale norma ha introdotto un chiaro discrimine nella giurisdizione in materia di danno ambientale, appartenente in via generale al giudice ordinario, salvo i casi in cui tale danno sia “provocato da soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti”, nel qual caso il Ministero non può agire autonomamente, ma deve limitarsi ad inviare “rapporto all'Ufficio di Procura regionale, per l’azione di competenza dinanzi alla Sezione giurisdizionale della stessa Corte”[67].

Al contrario, la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con sentenza n. 11229/2014, ha sbrigativamente statuito, in poche righe, che “il danno ambientale è effettivamente tipologia di danno sottratto alla giurisdizione contabile dalla normativa applicabile ratione temporis (cfr. l'art. 18, comma 2, n. 349/1986) e, successivamente (cfr. gli artt. 313, comma 6 e 318 d.lgs. 152/2006), assoggettato a presupposti di procedibilità, che ne escludono la cognizione diretta da parte della Corte dei conti (cfr. Cass. 14846/11, 10733/98 e 7677/92)”.

8. Transazioni in materia di bonifica e danno ambientale dei siti di interesse nazionale (SIN)

Il Ministero della Transizione ecologica può predisporre contratti con cui chiudere in via transattiva, con imprese pubbliche e private, i contenziosi relativi ad azioni risarcitorie per danni ambientali. La stipula del contratto comporta l’abbandono dei procedimenti contenzioni pendenti e preclusione di ogni ulteriore azione relativa a oneri di bonifica, di ripristino ambientale e di risarcimento danni. In caso di inadempimento da parte del soggetto privato aderente, il Ministero potrà dichiarare risolto il contratto di

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transazione, trattenendo le eventuali somme già corrisposte in acconto dei maggiori importi dovuti a titolo di oneri di ripristino dovuti.

Nel dettaglio, l’articolo 306 bis del D.lgs. n. 152/2006 prevede che i soggetti interessati da procedure di bonifica e di riparazione del danno ambientale, anche ai sensi dell’articolo 18 della legge n. 349/86, presso un SIN possono formulare una proposta transattiva[68] al Ministero della Transizione ecologica, in cui si definiscono gli interventi di riparazione primaria, complementare e compensativa, inclusa una liquidazione economica del danno ove le misure complementari e compensative non sono individuabili con criteri “risorsa-risorsa” e “servizio-servizio”.

Si avvia, sulla proposta transattiva, una procedura istruttoria condotta dal “Ministero dell’ambiente”

attraverso una conferenza di servizi a cui partecipano la regione e gli enti locali interessati[69] previa acquisizione dei pareri dell’ISPRA, dell’ISS e dell’Avvocatura generale dello Stato. L’approvazione avviene attraverso un decreto ministeriale sottoposto al controllo della Corte dei Conti.

9. Questioni aperte e alcuni casi in tema di danno ambientale.

Il danno ambientale previsto dalla parte sesta del D.lgs. n. 152/2006 rappresenta un danno fonte di responsabilità civile e di obblighi di riparazione verso lo Stato.

Esistono alcune fattispecie che presentato punti di collegamento con il danno ambientale. È necessario evitare le sovrapposizioni con tali fattispecie e utilizzare le relative interazioni, ad esempio, tra la bonifica dei siti contaminati (parte quarta del D.lgs. n. 152/2006), gli ecoreati di inquinamento e disastro ambientale (art. 452 bis e 452 quaterp.) e la procedura estintiva dei reati ambientali (parte sesta-bis del D.lgs. n. 152/2006).

La bonifica dei siti contaminati prevede interventi diretti a rispettare concentrazioni soglia di sostanze inquinanti nei suoli e nelle acque sotterranee o diretti alla messa in sicurezza del sito, di emergenza, permanente o operativa, e si sviluppa attraverso una procedura amministrativa gestita dagli enti territoriali e, in caso di SIN (Siti di Interesse Nazionale), dallo Stato.

In particolare, si verificano sovrapposizioni e interazioni se il danno al terreno corrisponde alla contaminazione oggetto di bonifica, se il danno alle acque corrisponde solo in parte alla contaminazione oggetto di bonifica, se il danno a specie, habitat e aree protette non è considerato in sede di bonifica.

La bonifica raggiunge le stesse finalità della riparazione del danno al terreno e può raggiungere, in parte, le finalità della riparazione del danno ai corpi idrici sotterranei.

La messa in sicurezza di emergenza può consentire di raggiungere le stesse finalità delle misure di prevenzione del danno al terreno e alle acque sotterranee e, più in generale, di confinare le fonti di

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inquinamento che possono avere effetti su tutte le risorse naturali rilevanti ai sensi della parte sesta del D.lgs. n. 152/2006.

Il D.lgs. n. 152/2006, come modificato nel 2013, prevede che gli interventi di ripristino del suolo e gli interventi di riparazione delle acque sotterranee, da effettuare a titolo di danno ambientale, “restano disciplinati dal titolo V della parte quarta del Dlgs 152/2006”, ex 298 bis.

Da tale norma si desume che, se è in atto una procedura di bonifica dei suoli o delle acque sotterranee, gli interventi di ripristino del suolo e gli interventi di riparazione delle acque sotterranee devono essere realizzati nell’ambito della procedura di bonifica.

La norma non precisa tuttavia se, per tali fattispecie, l’azione di danno ambientale possa essere direttamente attivata quando la procedura di bonifica dei suoli e delle acque sotterranee si blocca e non ha esito[70] e come si coordinano le procedure di bonifica relative a tali fattispecie con le procedure relative alla riparazione di ulteriori danni ambientali prodotti dallo stesso evento dannoso.

La Corte di Giustizia europea ha emesso una serie di sentenze in cui si verifica la compatibilità della normativa italiana sul danno ambientale e sulla bonifica con la direttiva 2004/35[71], affermando che la direttiva 2004/35 non richiede che l’autorità dimostri il dolo o la colpa del soggetto a cui sono imposte misure di prevenzione o riparazione se il danno o la minaccia di danno sono causati dalle attività professionali elencate dalla direttiva stessa; la direttiva 2004/35 richiede invece che l’autorità dimostri sempre il rapporto causale (rapporto causa/effetto) esistente tra l’attività di tale soggetto e il danno ambientale o la minaccia di danno. La direttiva 2004/35 è compatibile con una norma nazionale che colleghi la dimostrazione del rapporto causale ad una serie di indizi plausibili, come la vicinanza tra l’impianto di un soggetto e l’inquinamento accertato, la corrispondenza tra sostanze inquinanti accertate e sostanze usate da tale soggetto nella sua attività. Inoltre, la direttiva 2004/35 è compatibile con una norma nazionale che non consente all’autorità di imporre l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di un sito contaminato in assenza di dimostrazione del rapporto causale tra la sua attività e la contaminazione.

Il reato di inquinamento, ex articolo 452 bisp., punisce chi “abusivamente cagiona una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili: delle acque o dell'aria, o di porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo; di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna”.

Il reato di disastro ambientale, ex articolo 452 quater p., punisce fattispecie più gravi come “l'alterazione irreversibile dell'equilibrio di un ecosistema; l'alterazione dell'equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali, …”.

Si prevede, come per il danno ambientale, una soglia minima costituita dai requisiti di significatività e misurabilità e sono considerate anche risorse non associate al danno ambientale: aria, flora e fauna non aventi speciale tutela, acque non soggette alla direttiva 2000/60, assetto territoriale e così via.

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