• Non ci sono risultati.

349/2011 Il postcoloniale in Italia

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "349/2011 Il postcoloniale in Italia"

Copied!
32
0
0

Testo completo

(1)

Il postcoloniale in Italia

Premessa

Birgit Wagner La questione sarda. La sfida dell’alterità

Marta Verginella Antislavismo, razzismo di frontiera?

Chiara Brambilla Geografie italo-libiche Gianluca Gabrielli Razze e colonie nella scuola

italiana

Appendice di materiali

Carmelo Marabello Nell’India di laggiù.

O dell’attitudine etnografica di alcuni film e cineasti italiani

Annamaria Rivera Razzismo postcoloniale o razzismo tout court? Riflessione sui casi italiano e francese

Giovanni Leghissa Il luogo disciplinare della postcolonia

INTERVENTI

Hans-Dieter Bahr Gioia dei sensi e gusto.

Sull’estetica del finito

349

gennaio marzo 2011

3

10 30 50 69 90

103

128 144

170

(2)

rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti

redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Graziella Berto, Deborah Borca (editing, [email protected]),

Silvana Borutti, Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Rocco De Biasi, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Anna Maria Morazzoni (coordinamento,

tel. 02 70102683), Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto

direzione: via Melzo 9, 20129 Milano

collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, G. Dorfles, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, M. Serres, G.C. Spivak, M. Trevi, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. i✏ek

per proposte di pubblicazione: [email protected]

Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).

il Saggiatore S.p.A.

Via Melzo 9, 20129 Milano www.saggiatore.it uff icio stampa: [email protected]

abbonamento 2011: Italia € 60,00, estero € 76,00 L’Editore ha affidato a Picomax s.r.l. la gestione degli abbonamenti della rivista “aut aut”.

L’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e la possibilità di richiedere gratuitamente la rettifica o la cancellazione scrivendo a: Picomax s.r.l.

responsabile dati, Via Borghetto 1, 20122 Milano (ai sensi della L. 675/96).

servizio abbonamenti e fascicoli arretrati:

Picomax s.r.l., Via Borghetto 1, 20122 Milano telefono: 02 77428040 fax: 02 76340836

e-mail: [email protected] www.picomax.it

Registrazione del Tribunale di Milano n. 2232 in data 13.1.1951 Proprietà: Francesca Romana Paci

Stampa: Lego S.p.A., Lavis ( TN )

Spedizione in abbonamento postale 45% art. 1, comma 1, decreto legge 353/03 convertito in legge 46/04 – Filiale di Milano.

Finito di stampare nel marzo 2011

(3)

Premessa

S arebbe bello vivere in un paese in cui il sen- so della comune appartenenza si radica su un sano patriottismo costituzionale. In un simile paese, non il sangue e il suolo dominano l’immaginario di coloro che sentono se stessi come parte della medesima nazione, bensì un insieme di valori condivisi, radicati in un tessuto cultu- rale fatto di tradizioni comuni, di carattere non unicamente lin- guistico o religioso (tanto più che il vincolo offerto dalle tradi- zioni linguistiche e religiose gioca spesso lo stesso ruolo a suo tempo giocato dalla mitologia del sangue e del suolo). Tali valo- ri, inoltre, rimandano non solo ai principi universali che li so- stengono, ma anche alle lotte compiute nel passato per la loro affermazione. Senza tale connessione a un passato condiviso, il richiamo a valori comuni rischierebbe infatti di rimanere astrat- to e freddo. In tal modo, nel parlare di patriottismo costituzio- nale non si intende solo riferirsi alla possibilità che il patriotti- smo tradizionalmente inteso si liberi da ogni tratto chiuso ed escludente, indissolubilmente legato a un’idea di nazione facil- mente manipolabile per legittimare forme violente e guerrafon- daie di nazionalismo. Né si vuole condire con salsa comunitari- sta una tradizione repubblicana che, a guardarla bene, sembra avere per lo più incontrato i favori di pochi palati fini. Di carat- tere progressivo, il patriottismo costituzionale evoca la possibi- lità che il patto democratico, chiamato a tenere unita la nazione, si radichi nel riconoscimento del fatto che la Carta costituziona-

aut aut, 349, 2011, 3-9 3

(4)

le, oltre ad assolvere la funzione di guidare il legislatore nel re- digere e prescrivere le regole della convivenza civile, incarni an- che la sedimentazione di quelle imprese collettive, articolatesi nel tempo, le quali avevano di mira l’edificazione di una società decente.

In Italia sembra però essere vano anche solo nutrire la speranza che una qualche sorta di patriottismo costituzionale possa mai in- fiammare gli animi dei cittadini. Pensiamo all’Italia repubblicana:

una volta congedata la Carta costituzionale, divisioni profonde hanno subito separato coloro che avevano combattuto insieme per liberare il paese dal fascismo; ma già nel corso del XIX secolo, i fau- tori del processo unitario non sono mai riusciti davvero a metter- si d’accordo su come fare l’Italia e gli italiani. E a guardarle bene, tutte queste sembrano essere divisioni in realtà ancora più anti- che, tanto ricordano quelle narrate nelle opere di Machiavelli e Guicciardini. Per farla breve, un luogo comune, simbolicamente persuasivo, articolabile sia sul piano delle emozioni che su quello delle scelte razionali, sembra non sia stato ancora trovato per di- re, nominare e narrare un’italianità aperta, democratica, rispetto- sa delle differenze – differenze che rispecchiano modalità diverse di sentirsi italiani e di abitare l’Italia (compresa ovviamente la mo- dalità di chi abita in Italia avendo altrove la propria patria e la pro- pria famiglia).

A voler essere ottimisti – ed è bene esserlo, tanto più che un pessimismo ostentato per partito preso porta poco lontano – si po- trebbe dire che c’è bisogno di intraprendere un colossale lavoro pedagogico mirante a rendere appetibile il patriottismo costitu- zionale. Come sapevano i più lungimiranti e accorti tra i nostri Pa- dri della patria, italiani non si nasce, ma si diventa. Parimenti, non si nasce amanti delle regole della civile convivenza. Non è escluso – anzi, è probabile – che un contributo non irrilevante in tal sen- so possa venir offerto dalla capacità di dirigere verso noi stessi uno sguardo postcoloniale.

Questo sguardo, beninteso, è già lì: ogni giorno moltissimi ita-

liani di origine straniera e un numero ancora maggiore di stranie-

ri ospiti del nostro paese ci guardano con uno sguardo che viene

(5)

da fuori, da un altrove che è l’altrove della periferia. Questa peri- feria, è bene dirlo subito, non è solo l’ex colonia. Sarebbe miope e riduttivo affermare – come spesso si fa, peraltro – che in Italia sia poco sensato porre la questione postcoloniale perché gli stra- nieri presenti nel nostro paese e provenienti dalle nostre ex colo- nie costituiscono solo una esigua minoranza degli immigrati. La questione postcoloniale, infatti, non riguarda solo il modo in cui il “centro” viene vissuto e narrato da chi proviene da quella “pe- riferia” che è l’ex colonia.

Certo, il pensiero postcoloniale di matrice anglosassone ha ini- zialmente trovato il proprio punto di partenza nel fatto che uno specifico regime discorsivo (che andava dalla letteratura al cine- ma, passando per varie forme di produzione culturale pop) espri- meva la voce, multiforme e coloured, di comunità migranti prove- nienti dalle ex colonie. Tuttavia, si è ben presto sviluppata e af- fermata una riflessione sulla postcolonia che non focalizza la pro- pria attenzione unicamente su quei fenomeni di riappropriazione dello spazio culturale e identitario che esprimono i bisogni e le aspettative di coloro che, provenendo dalla periferia, sono sog- getti a varie forme di esclusione in quanto immigrati dalle ex co- lonie. In altre parole, il “post” a cui la nozione di postcolonia fa riferimento ha cessato di concepire l’intreccio tra la cultura delle periferie e quella delle metropoli solo come un effetto dei rapporti pregressi tra metropoli colonizzatrice e periferie colonizzate. Al- meno dal momento in cui il processo di globalizzazione ha spin- to un numero considerevole di individui a lasciare le periferie di tutti gli ex imperi per spingersi in quegli spazi a suo tempo per- cepiti come il “centro”, si sono trasformate le coordinate entro cui si articola il discorso identitario nella sua interezza, cosicché nes- suna delle caratteristiche proprie di quest’ultimo può prescinde- re da ciò che è stato il passato coloniale e imperialista, sia che a considerare le conseguenze di questo passato siano i figli dei co- lonizzati, sia che a farlo siano i figli dei colonizzatori.

A ciò si aggiunge un’ulteriore osservazione, di notevole rilievo teorico, compiuta tanto dai cultori dei Postcolonial Studies, quan- to da tutti coloro che, a vario titolo e con varie competenze, oggi

5

(6)

La questione sarda. La sfida dell’alterità

BIRGIT WAGNER

Alla memoria di

G ior g io B ara tt a, s ardo d ’ ado z io n e

N el suo noto saggio L’importanza di Gram- sci per lo studio della razza e dell’etnicità Stuart Hall informa i lettori (presumi- bilmente anglosassoni e quindi ignari della formazione dello sta- to unitario italiano): “Gramsci era nato in Sardegna nel 1891. La Sardegna si trovava allora in una relazione di tipo ‘coloniale’ con il resto dell’Italia”. 1 Ma è vera quest’affermazione? E ammesso che sia vera, che cosa significano le virgolette aggiunte all’agget- tivo coloniale?

La questione delle cosiddette colonie interne come l’Irlanda o la Bosnia asburgica e del razzismo esercitato dai grandi centri eu- ropei verso le periferie è una questione spinosa ed è stata in pas- sato oggetto di usi e abusi. 2 Per quanto riguarda l’Italia, essa è sta- ta sollevata per la Sardegna, “la terza Irlanda” secondo le parole attribuite a Cavour. 3 Nella storiografia italiana attuale però l’inte- resse per il colonialismo, focalizzato sulle colonie africane, e la sto- riografia della Sardegna corrono su strade separate. Il coloniali- smo italiano, per quanto relativamente tardivo, si presta certo me- glio al paragone con quello francese o britannico, benché con mol-

1. S. Hall, P oli t i ch e del q u o t idia n o. C u l tu re, ide nt i t à e s e ns o c om un e , a cura di G. Leghissa, il Saggiatore, Milano 2006, p. 148.

2. Per una discussione critica, cfr. W. Müller-Funk, B. Wagner, Di sku r s e de s P o stk olo - n iale n i n Eu ropa , in W. Müller-Funk, B. Wagner (a cura di), E i g e n e un d a n dere Fremde. “P o st - k olo n iale ” Ko nf li kt e im e u ropäi sch e n Ko nt ex t, Turia + Kant, Wien 2005, pp. 9-27.

3. Nel febbraio 1860 un giornale londinese riferì che Cavour avrebbe detto che l’Italia

aveva “tre Irlande”: la Savoia, Genova e la Sardegna. Cfr. F. Cheratzu, “Premessa”, in F. Che-

ratzu (a cura di), “ La t er z a I rla n da ” . G li sc ri tt i su lla S arde gn a di Carlo Ca tt a n eo e G i us eppe

Ma zz i n i , Condaghes, Cagliari 1995, p. 15.

(7)

ti distinguo. Oggi una delle sue caratteristiche più specifiche si in- dividua nella brusca perdita dell’impero coloniale coincidente con il crollo del regime fascista, perdita sentita come una vergogna che ha dato origine a una lunga fase di parziale amnesia collettiva, va- le a dire di silenzio istituzionale minato da memorie individuali. 4 È soltanto a partire dagli anni ottanta e novanta del Novecento che le scienze umane italiane, soprattutto la storiografia, hanno ef- fettuato un lavoro assiduo e accurato in merito. 5 Per quanto ne sappia, questi studi non hanno però correlato il tema del colonia- lismo italiano in Africa alla “questione sarda”.

Da parte sarda, lo statuto legale e amministrativo della Sarde- gna dalla fine del periodo giudicale fino al momento dell’unità d’I- talia è stato ampiamente discusso e documentato e ha dato luogo a varie opere ormai di riferimento. 6 In queste, il colonialismo ester- no non va certamente trascurato, ma è legato alle imprese colonia- li spagnole, all’organizzazione dell’impero coloniale spagnolo e al posto che la Sardegna occupava all’interno di questo vasto appa- rato statale e amministrativo. Se si considera l’anno 1890 – anno in cui l’Eritrea è dichiarata colonia – l’inizio ufficiale del colonialismo italiano, è ovvio che la Sardegna faccia già costituzionalmente par- te dello stato unitario, benché si trovi in una situazione “ultraperi- ferica” riguardo al resto del paese. L’idea di avvicinare la situazio- ne sarda di allora a quella delle colonie africane – idea che non sem- bra interessare la storiografia – spunta invece in alcune opere let- terarie recenti di autori sardi, soprattutto in romanzi di Sergio At- zeni e di Marcello Fois. 7 Tornerò più avanti sulla dimensione “post - coloniale” di gran parte della nuova narrativa sarda.

4. Molto informativo a proposito: J. Andall, D. Duncan (a cura di), It alia n Colo n iali s m.

Le g a cy a n d Memor y, Lang, Oxford-New York 2005.

5. Ricordiamo i lavori di Angelo Del Boca, Giorgio Rochat, Giampaolo Calchi Novati, Nicola Labanca; in ambito internazionale, cfr. anche R. Ben-Ghiat, M. Fuller (a cura di), It a - lia n Colo n iali s m , Palgrave Macmillan, New York 2005.

6. Cfr. L. Berlinguer, A. Mattone (a cura di), St oria d ’It alia. Le re g io n i dall ’Un i t à a o gg i.

La S arde gn a , Einaudi, Torino 1998; M. Guidetti (a cura di), St oria dei S ardi e della S arde gn a , Jaca Book, Milano 1989, 3 voll.

7. Cfr. Sergio Atzeni, Apolo g o del g i u di c e ba n di t o (Sellerio, Palermo 1986); Marcello Fois, L ’ al t ro mo n do (Frassinelli, Milano 2002) e Memoria del vu o t o (Einaudi, Torino 2006). Apolo g o del g i u di c e ba n di t o , un romanzo storico ambientato nel Quattrocento, affronta la tematica in modo allegorico; i romanzi di Fois evocano direttamente il passato coloniale in Africa.

11

(8)

Mi propongo qui di sollevare tre questioni. In che senso e con quali tappe storiche è legittimo parlare di una condizione colo- niale – o semicoloniale, come preferisco dire – del passato sardo?

I sardi sono stati vittime di azioni e discorsi razzisti, e in quale fa- se storica si manifesta il fenomeno? Infine, possiamo individuare una coscienza di tipo postcoloniale nella cultura sarda attuale? Mi pare che solo nell’articolazione congiunta delle tre questioni si pos- sa giungere a un quadro completo del tema. 8 La scottante attua- lità di questo tema è da cercare nel fatto che gli italiani “conti- nentali” hanno spesso percepito nella presenza dei sardi e della lo- ro cultura un fenomeno di profonda alterità (e in parte lo fanno tuttora). Trattandosi di un processo di costruzioni reciproche, mu- tatis mutandis questo vale anche per i sardi: si percepiscono dif- ferenti e rivendicano il diritto all’alterità. In altre parole, la Sar- degna costituisce una sfida alla capacità nazionale – politica e uma- na – di vivere e di gestire le differenze.

1. Un passato semicoloniale

Cominciamo con un rapido riassunto della storia dell’isola per di- scutere il suo possibile collegamento con il colonialismo europeo.

A prescindere dal periodo giudicale nel Medioevo, periodo di in- dipendenza politica, 9 la Sardegna è stata, fin dalla sua “scoperta”

da parte dei popoli navigatori antichi, oggetto di varie forme di dominazione straniera. In questa sede, interessa innanzitutto la rottura che costituisce nel Quattrocento l’incorporazione dell’i- sola prima nel regno aragonese, poi in quello spagnolo. Nel Re- gnum Sardiniae, parte del crescente impero spagnolo, assumono il comando i viceré e i grandi inquisitori 10 mandati dalla corona spagnola: senza eccezione nobili della penisola iberica. L’ammini-

8. Riprendo qui in parte le analisi svolte nella mia monografia S ardi n ie n Ins el im Dialo g . T ex t e , Di sku r s e , Filme , Francke, Tübingen 2008.

9. Il periodo giudicale è ancora oggi oggetto di costruzioni di un mito particolarmente sardo; cfr. a proposito i romanzi di Sergio Atzeni (P a ss a v amo su lla t erra le gg eri , Mondadori, Milano 1996) e di Giulio Angioni (I l mare i nt or n o , Sellerio, Palermo 2003).

10. In Sardegna – come in Sicilia – operava la temutissima inquisizione spagnola, non quella romana che vigeva nella penisola italiana, anche nelle parti governate dalla Spagna.

Cfr. A. Prosperi, T rib un ali della c o sc ie nz a. In q u i s i t ori, c o nf e ss ori, mi ss io n ari , Einaudi, Torino

1996, p. 60.

(9)

Antislavismo, razzismo di frontiera?

MARTA VERGINELLA

L’ antislavismo italiano ha assunto sembian- ze tipiche del razzismo o si è trattato piut- tosto di un atteggiamento derivante dal fenomeno nazionalistico, caratterizzato da pregiudizi antichi e in parte legati al rapporto tradizionale tra le città italofone del- l’alto Adriatico e la campagna slava? Per capirlo bisogna analiz- zare gli elementi costitutivi della politica antislava, prima pro- pagata dagli ambienti liberal-nazionali giuliani e in seguito so- stenuta e realizzata dal fascismo di frontiera, promotore sin dal- la sua ascesa al potere di una italianizzazione forzata delle po- polazioni slovene e croate residenti nell’ex Litorale austriaco, ter- ritorio annesso al Regno d’Italia dopo la fine della Prima guerra mondiale con il nome di Venezia Giulia. In quest’area multiet- nica e multilingue convissero dal Medioevo in poi sotto lo scet- tro degli Asburgo le popolazioni di lingua italiana, slovena, croa- ta e tedesca. I flebili moti rivoluzionari del Quarantotto e le pri- me rivendicazioni nazionali delle principali etnie residenti sul territorio non modificarono in sostanza il rapporto interetnico.

A innescare forti competizioni tra le rappresentanze politiche degli opposti schieramenti nazionali fu invece l’articolo 9 delle leggi fondamentali del 1867 che riconobbe a ogni etnia dell’Im- pero asburgico il diritto d’uso pubblico della propria lingua ne- gli uffici e nelle scuole. Il permesso di introdurre accanto al te- desco, lingua ufficiale dell’Impero, e all’italiano, lingua parlata principalmente nelle città del Litorale austriaco, anche lo slove-

30 aut aut, 349, 2011, 30-49

(10)

1. Sul suo rapporto con il mondo slavo: J. Pirjevec, N i cc olò T omma s eo. T ra It alia e S la - v ia , Marsilio, Venezia 1977; N. Tommaseo, Sc ri tt i edi t i e i n edi t i su lla Dalma z ia e su i popoli s la v i , a cura di R. Ciampini, vol.

I

, Sansoni, Firenze 1943.

2. E.J. Hobsbawm, T. Ranger (a cura di), L ’ i nv e nz io n e della t radi z io n e (1983), Einaudi, Torino 1987.

3. M. Augé, Le s s e ns de s a ut re s, Fayard, Paris 1994.

no o il croato, lingue minoritarie nei centri urbani, ma predomi- nanti nei distretti rurali, innescò battaglie politiche interessate a mantenere, o viceversa a mutare, il primato nazionale nella sfe- ra pubblica.

I pochi intellettuali che nell’età dei lumi e ai primi dell’Otto- cento erano convinti assertori della convivenza tra italiani e sla- vi, come per esempio il filologo di origine dalmata Nicolò Tom- maseo, 1 furono qualche decennio più tardi del tutto isolati, su- perati dagli eventi e dalle idee che propagavano identità nazio- nalmente univoche e programmi che promettevano società na- zionalmente omogenee. Nella periferia meridionale dell’Impero asburgico il passato storico divenne il campo di misurazione del- la continuità storica della singola etnia e terreno di dimostrazione dell’altrui usurpazione e infiltrazione. I miti fondativi servirono a rimodellare il passato nazionale 2 e con essi i promotori dei movi- menti nazionali affermavano la continuità della propria nazione dall’antichità in poi. L’invenzione della tradizione nazionale avve- niva nell’area alto-adriatica nei modi e nei tempi tipici del conte- sto mitteleuropeo: l’obiettivo degli attori nazionali era compatta- re le proprie comunità per renderle meno instabili e delineare confini meno porosi. 3 Per rinsaldare le proprie file nazionali in un contesto in cui l’appartenenza non era mai scontata, anzi necessi- tava di una continua conferma, l’altro veniva trasformato in una fonte inesauribile di disagio, diventava l’onnipresente nemico, poi- ché era proprio l’altro a rendere incerta l’identità nazionale della propria comunità, a complicare il rapporto con il potere centrale e a rendere insicuri lo stesso futuro dell’intera area di confine non- ché la sua appartenenza statuale.

Nonostante la similitudine dei discorsi argomentativi propo-

sti dai singoli schieramenti nazionali, presenti nell’area alto-adria-

tica, la costante polemica con lo schieramento concorrente e la

(11)

tendenza assai comune di stereotipizzare l’altro, non vanno sot- tovalutate alcune differenze di fondo tra i vari attori nazionali: in- nanzitutto i rapporti di forza che si stabilirono nella sfera pub- blica tra maggioranza e minoranza, tra chi riusciva a interagire con il centro politico, Vienna, e chi invece rimaneva relegato a un’azione locale o regionale. In questo contesto lascerò da parte l’analisi dell’anti-italianità slovena e croata, 4 per soffermarmi più estesamente invece sull’atteggiamento antislavo storicamente ra- dicato in quel modello di dominio veneto dell’area adriatica, for- temente caratterizzato da un rapporto coloniale della classe do- minante veneta con le terre istriano-dalmate, contaminato però anche dalla modernità e dall’età illuminista, ovvero da quelle idee che dalla fine del Settecento in poi dettavano nuovi modelli com- portamentali, tra cui anche il bisogno di classificare società e uo- mini. Per i ceti istruiti della società giuliana e dalmata di lingua italiana che ritenevano di far parte dell’Occidente, le popolazio- ni slave diventarono civiltà inferiori, provenienti come tutti i po- poli barbari dall’Oriente e perciò poste al gradino più basso del- le civiltà. 5

La visione dello slavo come uomo vicino allo stato di natura, non corrotto dalla civiltà, il buon selvaggio, non fu però adottata soltanto da qualche singolo pensatore illuminista o viaggiatore, co- me Alberto Fortis. 6 In forma di pregiudizio si diffuse dall’alto ver- so il basso soprattutto nella società cittadina istriano-dalmata, pe- netrando persino negli ambienti di recente immigrazione slava, fi- no a diventare un elemento caratterizzante dell’immaginario col-

4. Anche il ricompattamento della popolazione croata e slovena, sin dalla seconda metà dell’Ottocento, si svolse all’insegna del richiamo delle radici slave e del tentativo di ergere una barriera etnica invalicabile, in grado di difendere dall’impurità culturale. La domanda di sicurezza e di preservazione congegnò l’altro anche nel contesto slavo; l’italiano divenne in questo caso l’inesauribile fonte di dissanguamento etnico (cfr. M. Verginella, Radi c i dei c o nf li tt i n a z io n ali n ell ’ area al t o - adria t i c a , in

AA

.

VV

., Dall ’ impero a ust ro -ung ari c o alle f oibe. Co n- f li tt i n ell ’ area al t o - adria t i c a , Bollati Boringhieri, Torino 2009, pp. 11-18). Sui parallelismi tra nazionalismo italiano e sloveno-croato, cfr. R. Wörsdörfer, I l c o nf i n e orie nt ale. It alia e Jug o - s la v ia dal 1915 al 1955 (2004), il Mulino, Bologna 2009.

5. L. Wolff, V e n e z ia e g li s la v i. La sc oper t a della Dalma z ia n ell ’ e t à dell ’ ill u mi n i s mo (2001), Il Veltro Editore, Roma 2006.

6. Alberto Fortis, naturalista e scrittore padovano, pubblicò nel 1774 Via gg io i n Dalma - z ia , che riscosse molto successo in Italia e in altre parti d’Europa.

32

(12)

Geografie italo-libiche

CHIARA BRAMBILLA

1. Studi postcoloniali, migrazioni e dis-locazioni di frontiera

Il tempo postcoloniale è quello in cui, contemporaneamente, l’esperienza coloniale appare consegnata al passato e, proprio per le modalità con cui il suo “superamento” si è realizzato, si installa al centro dell’esperienza sociale contemporanea [...]. Il confinamento, la vera cifra “epistemica” del progetto di sfruttamento coloniale dell’Occidente, e la resistenza con- tro di esso cessano di organizzare una cartografia capace di distinguere in modo univoco la metropoli dalle colonie, fran- tumandosi e ricomponendosi di continuo su scala globale. 1 Le parole di Sandro Mezzadra chiariscono il significato che si in- tende attribuire al termine postcoloniale in questo scritto, con ri- ferimento all’analisi delle geografie relazionali tra Italia e Libia. L’e- sperienza coloniale italiana in Libia, attraverso le modalità stesse con cui si sta consegnando al passato, risulta essere centrale, in- fatti, nell’esperienza sociale contemporanea espressa dalle rela- zioni tra i due paesi. In particolare, le vicende coloniali italiane in Libia e le loro rappresentazioni contemporanee giocano un ruolo rilevante ai fini della comprensione delle esperienze migratorie e

1. S. Mezzadra, La c o n di z io n e po stc olo n iale. St oria e poli t i c a n el pre s e nt e g lobale , ombre

corte, Verona 2008, p. 25.

(13)

di mobilità umana che abitano l’attuale spazio di relazione euro- africano e “popolano” il Mediterraneo.

Tra i temi al centro dell’attenzione degli studi postcoloniali, le migrazioni occupano uno spazio significativo di riflessione. Di fron- te alle sempre nuove forme di mobilità umana contemporanee, l’a- nalisi così come la critica postcoloniale ci offrono, attraverso una sorta di decentramento dello sguardo storico, l’opportunità di rin- novare e adeguare il nostro modo di guardare ai fenomeni della modernità e ai loro sviluppi. Come sostiene Seyla Benhabib, infat- ti, siamo navigatori che viaggiano in un territorio sconosciuto con l’ausilio di mappe ormai vecchie, disegnate in un altro tempo e al fine di rispondere a bisogni diversi da quelli attuali. 2 Gli studi post- coloniali forniscono una lente con la quale giungere a una miglio- re comprensione delle linee peculiari di questo territorio scono- sciuto, mostrando le incongruenze normative tra le norme che re- golano i diritti umani internazionali, in particolare per ciò che ri- guarda i “diritti degli altri” – immigrati, rifugiati, richiedenti asilo – e le asserzioni di sovranità territoriale. Ne emerge l’urgenza di un rinnovamento concettuale: sovranità, territorio, stato-nazione e cit- tadinanza non sembrano essere più adeguati per descrivere la realtà socio-politica degli scenari mobili contemporanei. Le migrazioni mettono in discussione la vecchia trilogia stato/nazione/territorio, rompendo la coincidenza tra “uomo” e “cittadino”, tra “natività”

e “nazionalità” e chiamando in causa l’idea originale di sovranità moderna. Queste considerazioni recano altresì al centro della ri- flessione i percorsi di definizione e ridefinizione dell’ambito com- plesso, nel quale si creano e si situano le relazioni tra le grandi li- nee tematiche della cittadinanza, della mobilità e del territorio. I processi di globalizzazione e i processi migratori determinano uno sconvolgimento dei presupposti di lettura e comprensione che ave- vamo ereditato dalla modernità e sui quali si sono fondate e, per certi versi, continuano a fondarsi la geografia politica, economica, culturale e l’antropologia, in particolare quella politica.

2. Cfr. S. Benhabib, I diri tt i de g li al t ri. St ra n ieri, re s ide nt i, c i tt adi n i (2004), Raffaello Cor- tina, Milano 2006.

51

(14)

3. Si vedano in particolare: W. Mignolo, Lo c al H i st orie s / G lobal De s i gns: Colo n iali ty , Su- bal t er n K n owled g e s , a n d B order Th i nk i ng, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 2000;

S. Sassen, T erri t orio, a ut ori t à, diri tt i. A ss embla gg i dal Medioe v o all ’ e t à g lobale (2006), Bruno Mondadori, Milano 2008; E. Rigo, Eu ropa di c o nf i n e. T ra sf orma z io n i della c i tt adi n a nz a n el - l ’Un io n e allar g a t a , Meltemi, Roma 2007; S. Mezzadra, La c o n di z io n e po stc olo n iale , cit.; C.

Brambilla, P er un a ri f le ss io n e su lle/dalle f ro nt iere. P er c or s i t eori c i e l ’ e s empio di un a f ro nt ie - ra i n A f ri c a , “Studi culturali”, 2, 2009, pp. 197-215.

4. Frantz Fanon ci ha raccontato della narrativa uni-vocale, lineare e basata su relazioni oppositive, a partire dalla quale si organizzavano lo spazio, il tempo e l’esperienza delle co- lonie. Cfr. F. Fanon, P elle n era, ma sch ere bia nch e (1952), Tropea, Milano 1996; Id., I da nn a - t i della t erra (1961), Edizioni di Comunità, Torino 2000. Il filosofo Peter Sloterdijk ha argo- mentato come l’omogeneità dello spazio, del tempo e dell’esperienza che ha dominato la W el t- g e sch i cht e sia messa in discussione dai processi di globalizzazione e dalla mobilità umana con- temporanea. Tali processi evidenziano il superamento di ogni “semplificazione geometrica”, come evidenzia in ambito geografico e, con particolare riguardo alla “critica della ragione cartografica”, Franco Farinelli. Cfr. P. Sloterdijk, L ’u l t ima sf era. B re v e st oria f ilo s o f i c a della g lobali zz a z io n e (2001), Carocci, Roma 2002; F. Farinelli, G eo g ra f ia. Un’ i nt rod uz io n e ai mo - delli del mo n do , Einaudi, Torino 2003; Id., La c ri s i della ra g io n e c ar t o g ra f i c a , Einaudi, Tori- no 2009.

A tale riguardo, vi è un concetto che, come dimostrano diver-

si autori su più fronti disciplinari, funge da chiave di lettura pri-

vilegiata sia dal punto di vista analitico sia da quello metodologi-

co: si tratta del concetto di frontiera, che indissolubilmente si le-

ga, nelle sue diverse declinazioni, all’analisi postcoloniale. 3 Que-

st’ultima propone, infatti, una dis-locazione dello sguardo dal-

la/nella frontiera, ponendo al centro dell’attenzione una storia glo-

bale fatta di una pluralità di luoghi e di esperienze, incrocio, in-

somma, di una molteplicità di sguardi. Si destabilizza e decentra

ogni narrativa che si voglia unica e fondata su codici binari (cen-

tro/periferia, interno/esterno, dentro/fuori), mentre si affermano

narrative ibride, che si incrociano in uno spazio che è quello del-

la frontiera. 4 Nella frontiera è possibile superare l’epistemologia

statocentrica che ha dominato la riflessione della geografia mo-

derna, assumendo consapevolezza della nostra necessità contem-

poranea di far riferimento a narrative alternative, portatrici di rap-

presentazioni differenti dello spazio e delle identità sociali, non

necessariamente fondate sull’idea di fissità territoriale che ha con-

sentito l’originarsi, in epoca moderna, di ciò che il geografo John

Agnew ha definito “trappole territoriali”, riprendendo la rifles-

sione abbozzata da Max Weber nelle ultime pagine dell’Etica pro-

(15)

aut aut, 349, 2011, 69-89 69

Razze e colonie nella scuola italiana

GIANLUCA GABRIELLI

1. Il colonialismo italiano

Rispetto al colonialismo di grandi potenze come Inghilterra e Fran- cia, quello italiano ha avuto una storia certamente breve e un’e- stensione territoriale ristretta. Iniziato tardi, negli anni ottanta del- l’Ottocento, si è sviluppato con difficoltà sia per le scarse risorse che aveva a disposizione, sia per le forti resistenze opposte dalle potenze aggredite e dalle stesse popolazioni (Dogali, Adua) che ne hanno rallentato la crescita. Ripreso alla vigilia del primo con- flitto mondiale con la conquista della Libia (completata solo nel primo decennio dell’epoca fascista), ha avuto il suo culmine con la conquista dell’Etiopia e la proclamazione dell’Impero nel 1936, per sgretolarsi rapidamente nel corso della Seconda guerra mon- diale. L’espansionismo coloniale italiano raggiunge quindi la mas- sima estensione quando le altre potenze coloniali stavano già pen- sando a come diminuire il coinvolgimento diretto e ha subìto la propria dissoluzione prima che la decolonizzazione investisse le grandi potenze come problema storico concreto.

Ciò però non significa che la storia del colonialismo italiano ab-

bia avuto un’importanza trascurabile. Questo vale sia ovviamen-

te in relazione alle popolazioni che hanno dovuto subirne la vio-

lenza, sia in riferimento alla popolazione italiana, al percorso di

nation-building cui ha concorso, alla crescita di una cultura dell’i-

dentità nazionale che si è nutrita anche di sentimenti di superio-

rità, timori e attrazioni verso l’alterità rappresentata proprio dal-

le popolazioni delle colonie. Le pratiche reali e simboliche di do-

(16)

minio sulle colonie e sulle popolazioni colonizzate hanno cioè co- stituito il materiale per la costruzione di stereotipi dell’alterità ca- richi di espliciti o impliciti giudizi di disvalore che hanno contri- buito alla definizione dell’identità dell’italiano e che allo stesso tempo hanno rappresentato una delle direttrici principali di svi- luppo del razzismo nazionale.

Angelo Del Boca nel volume L’Africa nella coscienza degli ita- liani ricorda che in una famiglia su dieci sono presenti oggetti o ricordi provenienti dall’esperienza delle colonie. 1 Aggiungiamo che in alcuni momenti della storia nazionale l’Africa è stata dav- vero sulla bocca di tutti, dalle due grandi sconfitte di Dogali e di Adua alle due campagne, vissute da gran parte della comunità na- zionale come completamente vittoriose, di Libia ed Etiopia. In questi periodi, con tonalità e contenuti diversi, il discorso sul co- lonialismo e sull’“altro” ha costituito un elemento fondamentale della costruzione dell’identità nazionale e dell’immagine di sé de- gli italiani. Un discorso unilaterale e spesso menzognero, senza un accenno ai crimini, alle resistenze, agli insuccessi della conquista, pieno di retorica e invenzione. Un discorso comunque grande- mente efficace.

Per il modo peculiare in cui l’esperienza si è conclusa, dopo la Seconda guerra mondiale il discorso pubblico italiano sulle colo- nie è entrato nel silenzio e nell’oblio. Si è smesso di parlare di co- lonie proprio quando un dibattito serio sarebbe stato fondamen- tale per articolare un discorso autocritico sulle scelte del passato.

La memoria ufficiale è stata affidata a ex funzionari nostalgici e il silenzio imbarazzato o la riproposizione di vecchi stereotipi han- no dominato il campo, aprendo la strada all’irrigidimento del- l’immagine del “bravo italiano” ereditata dagli anni della propa- ganda e mai messa profondamente in discussione. 2

Due aspetti della storia del colonialismo italiano si dimostrano di grande importanza per la nostra analisi: la violenza e il razzi- smo. La dimensione della violenza coloniale è stata all’epoca sot-

1. Cfr. A. Del Boca, L ’ A f ri c a n ella c o sc ie nz a de g li i t alia n i. Mi t i, memorie, errori e sc o nf i t- t e , Laterza, Roma-Bari 1992.

2. Cfr. Id., It alia n i, bra v a g e nt e ? Un mi t o d u ro a morire , Neri Pozza, Vicenza 2005.

(17)

71

taciuta dai protagonisti per evidenti ragioni di opportunità; que- sta reticenza si è poi protratta fino a tempi recentissimi e, nono- stante l’evidenza documentaria, le resistenze anche istituzionali a prendere atto del passato sono state enormi. Basti pensare alla que- stione dell’uso delle bombe a gas, prima, durante e dopo la guer- ra fascista contro l’Etiopia. La lotta di Del Boca per far ricono- scere pubblicamente tale verità storica è durata almeno trent’an- ni, durante i quali gran parte dell’accademia, delle istituzioni e del- la pubblicistica di potere ha negato pervicacemente, e quindi ri- badito nell’opinione pubblica, l’idea di un colonialismo buono e rispettoso dell’altro.

Relativamente agli elementi di razzismo dispiegatisi durante tut- ta la storia delle colonie, per quanto essi siano inscindibili dai cri- mini, è necessario fare un discorso a parte. Nella storia coloniale nazionale si è dispiegato dapprima un razzismo sociale come di- spositivo reale e simbolico che ribadiva quasi “naturalmente” il dominio italiano; dal 1936, invece, è stato varato un razzismo di tipo diverso, di Stato, istituzionale, segregazionista e propagan- dato come cifra significativa della colonizzazione fascista. Proprio per questa caratteristica, perché dapprima considerato quasi “na- turale” e poi addirittura vantato come elemento di civilizzazione fascista, il razzismo ha un’importanza paragonabile a quella dei crimini, ma ha avuto una fenomenologia pubblica opposta, non dissimulato come i gas o i campi di concentramento libici, bensì descritto, codificato e – dopo il 1937 – esaltato consapevolmente.

Anche in questo caso gli studi, pur prodotti in ritardo, soprattut- to negli ultimi vent’anni, non hanno mai trovato canali di comu- nicazione sufficienti per poter uscire dalla ristretta cerchia degli addetti ai lavori e produrre un dibattito che potesse divenire pa- trimonio condiviso dell’opinione pubblica.

Riguardo al periodo coloniale disponiamo ormai di numerosi

approfondimenti sull’immaginario e sulla propaganda. Essi han-

no permesso agli studiosi di analizzare nel dettaglio i modi in cui

lo stereotipo dell’Africa e dell’africano, insieme all’immagine di sé

dell’italiano, si sono declinati sulle pagine dei quotidiani, nella pub-

blicistica in generale, nella memorialistica e nell’immaginario tout

(18)

Appendice di materiali

a cura di GIANLUCA GABRIELLI

1. Negra (razza)

NEGRA (razza – ). Razza umana che costituisce la gran mag- gioranza della popolazione dell’Africa. Caratteristiche princi- pali: colore bruno scuro della pelle; peli scarsi; muscolatura scarsa, specialmente nelle gambe; cranio voluminoso e alto, con osso frontale sporgente; ossa facciali prominenti; denti for- ti e compatti; ossa nasali appiattite (naso camuso); facilità estre- ma alla menzogna, avidità, scarso rispetto della vita umana.

Fonte: G. Vaccaro (a cura di), Enciclopedia illustrata dei ragazzi, Curcio, Roma 1949.

Una descrizione delle caratteristiche fisiche della “razza negra”,

erede della tradizione positivistica ottocentesca, è seguita dall’e-

lenco delle caratteristiche immorali. Colpisce particolarmente leg-

gere in un’enciclopedia per ragazzi del 1949 frasi che sembrano

tratte direttamente da “La difesa della razza”. La volgarizzazione

dell’immagine “scientifica” dell’africano non viene messa in di-

scussione dalla perdita delle colonie.

(19)

91

2. Foto antropologiche (Giannitrapani)

Fonte: L. Giannitrapani, Il libro di storia e geografia per la quinta classe elementare, Marzocco, Fi- renze 1946.

La potenza comunicativa delle fotografie è enorme. In passato lo sguar-

do antropologico sulle popolazioni non europee si basava sulla ri-

produzione di ritratti decontestualizzanti, busti ripresi di fronte e di

profilo in cui l’intento oggettivante tendeva a rappresentare gli uo-

(20)

mini e le donne come tipi razziali, veri e propri esemplari zoologici.

L’antropologo si poneva in relazione verticale con l’individuo ogget- to della sua indagine esasperando la distanza che lo divideva da lui.

La tavola qui riprodotta è tratta da un sussidiario del 1946. Per raffigurare la “negra dell’alto Nilo” viene scelta una foto triste- mente famosa, quella della donna scilluk di Lidio Cipriani che, po- chi anni prima, fu utilizzata per comporre il logo della rivista “La difesa della razza” a rappresentare l’umanità sottomessa e discri- minata delle colonie fasciste.

3. Foto antropologiche (Pizzetti, Valle)

Fonte: G. Pizzetti, T. Valle, Geografia e geologia per le scuole medie superiori, Dante Alighieri, Mi-

lano 1970

11

, p. 255.

(21)

aut aut, 349, 2011, 103-127 103

Nell’India di laggiù. O dell’attitudine etnografica di alcuni film

e cineasti italiani

CARMELO MARABELLO La t ra s mi ss io n e di cu l tu re della s opra vv i v e nz a del re st o, n o n a vv ie n e all ’ i nt er n o dell ’ ordi n a t o musée imaginaire delle cu l tu re n a z io n ali, c o n le loro a s pira z io n i alla c o nt i nu i t à t ra un pa ss a t o a ut e nt i c o e un pre s e nt e a nc ora i n v i t a. [ ... ] La cu l tu ra i nt e s a c ome st ra t e g ia di s opra vv i v e nz a è t ra nsn a z io n ale, è i n c o nt i nu o mo v ime nt o t rad utt i v o.

H.K. Bhabha

O ggetto di questo testo è una lettura di al- cuni film indiani di autori italiani, di al- cuni viaggi per immagini intrapresi da- gli anni cinquanta nell’india di laggiù, in quegli stessi anni in cui Ernesto de Martino, nelle sue cosiddette spedizioni, attraversa- va il Sud italiano per riscoprire e analizzare le indie di quaggiù.

Viaggi e film, o appunti di film, tra documentario e finzioni nar-

rative, buone o meno buone finzioni, finzioni vere, per ripren-

dere una felice osservazione di James Clifford a proposito delle

buone etnografie, che segnano geograficamente e politicamente

il cinema italiano, la sua ricerca di un altrove autentico o esteti-

co, sulla traccia del neorealismo rapidamente consumato nel do-

poguerra, e da cui autori diversi, di generazioni lontane, diver-

samente si distaccano rielaborandolo. Film che diversamente si

prestano a una lettura postcoloniale dell’immaginario italiano,

del mondo immaginato da Rossellini, Pasolini, Antonioni, Rosi,

dei mondi che l’India offre alle diverse pratiche di indagine spet-

tacolare, alle diverse aspettative. Se l’India di Rossellini appare

come una sorta di premonizione filmica della argumentative In-

dia di Amartya Sen, le tracce pasoliniane in forma di appunti per

un film da fare, Appunti per un film sull’India (1967), come già

nei resoconti del suo viaggio nel subcontinente indiano del 1961,

segnano piuttosto un percorso panmeridionalista, un viaggio let-

tura alla ricerca estetica ed etica dei Sud del mondo come luoghi

(22)

1. G. Trento, P a s oli n i e l ’ A f ri c a. L ’ A f ri c a di P a s oli n i , Mimesis, Milano 2010.

2. L. Caminati, O rie nt ali s mo ere t i c o , Bruno Mondadori, Milano 2007.

del riscatto subalterno e della critica della modernizzazione oc- cidentale sia nella variante democratica che marxista, nei termi- ni di Giovanna Trento nel suo recente volume su L’africa di Pa- solini, 1 esito in fondo di un orientalismo eretico, per riprendere il titolo di un altro bel testo dedicato a Pasolini e al cinema del Terzo mondo da Luca Caminati. 2

L’india di laggiù diviene insomma l’esercizio cinematografico di un’apertura al mondo nel segno di una politica del mutamento – Rossellini – piuttosto che di una teoria del mitico nel moderno, una teoria delle sopravvivenze come scaturigine di una resistenza – Pasolini – o ancora, per Antonioni, la traccia di un’epifania ri- tuale e spaziale di un mondo altro letto nella grammatica archi- tettonica della formalità cinematografica, come accade in Kumbha Mela, il cortometraggio girato nel 1977.

Diversa invece l’attitudine quasi etnografica che traspare da The Boatman, film italiano e apolide di Gianfranco Rosi, del 1997, per- corso di ricerca la cui origine e il cui senso si configurano già nel segno e nella cifra dell’esperienza postcoloniale, esito di un gio- vane autore al suo primo film, di passaporto italiano, ma nato in Etiopia, vissuto in Turchia, di formazione poi italiana e statuni- tense, parzialmente in debito con le memorie indiane rossellinia- ne, lontano di fatto, per metodo e approccio, dal segno pasolinia- no che invece può sembrare, a una prima lettura, il più prossimo.

Nell’india di laggiù, un diverso altrove si determina, si presenta co-

me luogo e indice, materia di immagini e relazioni, di progetti di

conoscenza spettacolare. Tuttavia, alle indie di quaggiù, epigrafe e

motto, moto di ricerca di De Martino, bisogna riferirsi, non per

un gioco di specchi, né per una sorta di chiasmo storico critico, in

nome di una genealogia, di una ricostruzione genealogica e ar-

cheologica del cinema italiano, sulla traccia dell’alterità spaziale e

culturale di esso. La geografia delle rotte rosselliniane e pasoli-

niane, ma anche del documentarismo di Lizzani e Antonioni, è

certamente passibile di una lettura postcoloniale, ma è innanzi-

(23)

105

tutto il luogo di un’archeologia, il dispositivo spettacolare e cul- turale da indagare come eredità e conseguenza di alcune pratiche neorealiste, come traiettoria di discontinuità verso un immagina- rio-mondo, verso altre indie da confrontare e immaginare, nel sen- so di farne immagini. Per accostare l’india di laggiù è utile ritor- nare alle indie di quaggiù oggetto di pratica e visione neorealista, definirne il quadro teorico, filmologico piuttosto che filmografi- co, rimandando evidentemente a Rossellini e Visconti innanzitut- to, a La terra trema e Stromboli terra di Dio, come emergenza e co- genza qui semplicemente richiamata. Nel tentativo di ricostruire una genealogia dell’altrove italiano del dopoguerra.

1. Genealogie neorealiste

Se davvero, come ha scritto Walter Benjamin, l’indice storico, con-

tenuto nelle immagini del passato, mostra che esse giungeranno a

leggibilità solo in un determinato momento della nostra storia, la

natura stessa della contemporaneità, l’idea di presenza come di

presente, si ritrovano da sempre ingaggiati e contesi nello spazio

occasionale o tempestivo dell’esperienza, nelle storie di sguardi in-

carnati e molteplici. Di geografie situate della ricezione e dell’a-

scolto. Di occhi e obiettivi storici di cui si fa resoconto e interro-

gazione. Situati dinanzi alle immagini, e nelle forme da queste as-

sunte, data la loro ormai secolare e secolarizzata riproducibilità,

accostiamo la forma dell’immagine interrogata alla storia della sua

produzione, alla tradizione della sua ricezione, alla suscettibilità

di nuove domande, all’esitazione di altre leggibilità. Come archi-

vi paradossali di indici e luoghi, i film sembrano documentare e

incarnare l’aforisma benjaminiano: nella drammaturgia di tempi

e segni, nella presenza e potenza di documenti e corpi, i film ras-

segnano e tradiscono un ordito di tracce, un ordine di equivalen-

ze, lo schema di un prodotto e il trascorso di un evento. L’oriz-

zonte di un tempo – tempo reale – che assume la forma filmica di

uno spazio memorabilmente tale, effettualmente reperibile nelle

sue trasformazioni in quanto differenza: differenziale di un dato

che il fotogramma o la sequenza dimostrano mostrando. Nella sce-

na dell’archivio, nel dispositivo concettuale, gli oggetti film si pre-

(24)

Razzismo postcoloniale o razzismo tout court? Riflessione

sui casi italiano e francese

ANNAMARIA RIVERA

1. La novità relativa della critica postcoloniale

Gli studi postcoloniali hanno il merito di aver rilanciato e ravvi- vato – anche in Francia e in Italia, sebbene in questi paesi più tar- divamente – il dibattito sulle radici coloniali del razzismo con- temporaneo e della discriminazione verso migranti e minoranze, col valorizzare l’analisi dell’articolazione fra “razza”, genere e clas- se sociale e quindi col mostrare in qual modo etnocentrismo e raz- zismo attuali, eredi delle strutture coloniali, si combinino con al- tri processi di categorizzazione gerarchica e di dominio. Va loro riconosciuto anche di aver posto l’accento sulla dimensione al tem- po stesso materiale e discorsiva del dominio coloniale e sui suoi ef- fetti nel presente, non solo in termini politici, ma anche relativi al- le categorie del sapere e alle rappresentazioni dell’alterità, com- prese quelle colte e/o accademiche.

Tuttavia, la ripresa di questo dibattito non avviene nel vuoto assoluto, come invece sembrano credere certi seguaci recenti del- la critica postcoloniale. I quali arrivano a sostenere, per esempio, che le scienze sociali francesi avrebbero taciuto per lungo tempo sulla “questione razziale” e, quanto agli storici (senza fare distin- zioni), essi sarebbero stati riluttanti “a integrare il passato colo- niale nell’interpretazione della storia contemporanea”. 1 Che il co-

Questo articolo riprende argomentazioni contenute in una mia opera recente: Le s déri v e s de l ’u- n i v er s ali s me. Ethn o c e nt ri s me e t i s lamop h obie e n Fra nc e e t e n It alie , La Découverte, Paris 2010.

1. D. Fassin, E. Fassin, Á l ’ ombre de s éme ut e s, in D. Fassin, E. Fassin (a cura di), De la

q u e st io n s o c iale à la q u e st io n ra c iale ?, La Découverte, Paris 2006, p. 10 (si noti il titolo del-

l’opera, per quanto dubitativo).

(25)

129

lonialismo quale fenomeno-chiave del presente e paradigma per comprendere le relazioni fra maggioranza e minoranze “di origi- ne immigrata” nelle “metropoli” sia una scoperta della corrente postcoloniale è cosa alquanto dubbia: se in Italia i pochi storici del colonialismo nostrano sono stati per lungo tempo emarginati o ignorati, per non parlare della risonanza insufficiente che hanno avuto studi e ricerche sul razzismo contemporaneo, la Francia ha sempre avuto una piccola schiera di avanguardia di studiosi mol- to “ascoltati” – storici, ma anche antropologi, sociologi, politolo- gi, filosofi… – che ha analizzato in profondità non solo il colo- nialismo francese, ma anche i rapporti fra colonizzazione, immi- grazione e razzismo attuali. 2 Limitandoci agli autori francofoni, possiamo ricordare, fra gli altri, Althabe, Balandier, Balibar, Cé- saire, Coquery-Vidrovitch, Fanon, Gallissot, Memmi, Noiriel, Sayad, Senghor. Per non parlare di Sartre: al confronto con la sua prefazione ai Dannati della terra di Fanon, scrive icasticamente Jean-François Bayart, “Gayatri Spivak fait un peu figure de de- moiselle d’honneur!”. 3

Ma basterebbe considerare l’importanza della nozione di “si- tuazione coloniale” proposta da George Balandier in un famoso articolo del 1951 4 o l’insistenza con la quale Étienne Balibar ha sottolineato la centralità del retaggio coloniale nel sistema di rela- zioni sociali, economiche, ideologiche con gli immigrati e i loro di- scendenti, “la persistance des méthodes et des habitudes admini- stratives acquises au contact de ‘l’indigénat’”, 5 l’influenza del si- stema coloniale negli schemi di conoscenza e di categorizzazione degli “altri”.

2. Gérard Noiriel contesta l’affermazione secondo la quale in Francia la storia coloniale sarebbe sempre stata un tabù, come tende ad affermare qualche autore postcoloniale, e ag- giunge che “prétendre que les rapports entre immigration et colonisation n’ont jamais été étudiés est tout simplement risible”, se è vero, fra l’altro, che la popolazione immigrata più studiata è stata quella algerina. Cfr. G. Noiriel, I mmi g ra t io n , a nt i s émi t i s me e t ra c i s me e n Fra n- c e (

XIX

e -

XX

e s iè c le). Di sc o u r s p u bli cs , hu milia t io ns pri v ée s, Fayard, Paris 2007, pp. 680-681.

3. J.-F. Bayart, Le s é tu de s po stc olo n iale s . Un c ar n a v al a c adémiq u e , Karthala, Paris 2010, p. 21.

4. G. Balandier, La s i tu a t io n c olo n iale : appro ch e th éoriq u e , “Cahiers internationaux de so- ciologie”, 11, 1951, pp. 47-79.

5. É. Balibar, Le droi t de c i t é o u l ’ apar th eid ?, in É. Balibar, M. Chemillier-Gendreau, J.

Costa-Lascoux, E. Terray, S a ns- papier s: l ’ ar ch aï s me f a t al , La Découverte, Paris 1999.

(26)

Ora, come hanno contribuito a dimostrare questi studiosi non

“postcoloniali”, è indubbio che vi siano, in Francia soprattutto, forme specifiche di discriminazione, disprezzo o rifiuto verso gli immigrati originari dei paesi colonizzati e perfino verso i loro di- scendenti, che hanno fondamento in istituzioni, pratiche, discor- si e rappresentazioni elaborati nel contesto degli imperi coloniali.

Lo dimostra, per riprendere un esempio ben noto, la stessa rispo- sta istituzionale data alla lunga ed estesa rivolta “delle banlieues”

dell’autunno del 2005: basta dire che per imporre lo stato di emer- genza e il coprifuoco si fece ricorso a una legge del 1955 risalente alla guerra d’Algeria. Conviene ribadirlo, anche per prendere net- tamente le distanze dalle tendenze, sempre più rumorose negli an- ni più recenti, che, in Francia, mirano a minimizzare o a riabilita- re il passato coloniale; 6 e che in Italia, ben più radicate e persi- stenti, lo hanno sempre occultato o assolto dietro il mito degli “ita- liani, brava gente”.

Insomma, mi sembra doveroso riconoscere i meriti di coloro che, soprattutto nell’Esagono, non hanno mai smesso di analizza- re la persistenza delle radici coloniali nelle relazioni fra la mag- gioranza e le minoranze, onde evitare di ricadere in quella retori- ca della rivelazione alla quale mi sembra indulgano alcuni autori postcoloniali, sicuri di essere portatori di paradigmi assolutamen- te inediti e innovativi, in realtà mutuati tardivamente da ambien- ti universitari anglofoni.

2. L’antiziganismo, un razzismo specifico e duraturo Con questo non voglio affatto negare, ripeto, l’influenza degli sche- mi e delle strutture coloniali nei processi di inferiorizzazione, di- scriminazione, razzizzazione che hanno per oggetto i discendenti dei colonizzati: coloro che, pur essendo cittadini francesi, in Fran- cia sono etichettati come “immigrati di seconda o terza genera- zione”, una definizione corrente che rivela come la loro naziona-

6. Fra le tante, si veda l’opera di Daniel Lefeuvre, P o u r e n f i n ir a v e c la repe nt a nc e c olo -

n iale (Flammarion, Paris 2006), che ha ottenuto dei consensi, ma ha anche suscitato vivaci

polemiche.

(27)

144

Il luogo disciplinare della postcolonia

GIOVANNI LEGHISSA

1. La governamentalità neoliberale, ovvero l’ubiquità della postcolonia

Interrogare la postcolonia significa avvicinarsi a un luogo discor- sivo, molteplice e variegato, e di conseguenza abbastanza sfug- gente, che attraversa istituzioni, pratiche di potere, meccanismi di esclusione e di inclusione, confini, corpi legislativi, norme, for- mazioni dell’immaginario collettivo, tradizioni, scambi di linguaggi e di idee, saperi e discipline, linguaggi dell’arte e della letteratura, dialoghi tra soggetti nel mondo della rete. La postcolonia si situa in tutti quei luoghi in cui le rappresentazioni collettive delle iden- tità incrociano i vissuti quotidiani e i rapporti di potere che li in- nervano e permettono ai soggetti di occupare una specifica posi- zione entro il gioco dello scambio sociale.

Di volta in volta, è chiaro, sarà possibile isolare solo un mo- mento specifico di tali molteplici incroci. A seconda delle proprie competenze disciplinari, si riuscirà a descrivere, con un minimo di completezza e con quel rigore che è richiesto da ogni prassi ac- cademica, solamente una porzione definita, locale, della rete di di- scorsi in cui i soggetti sono catturati quando si confrontano gli uni con gli altri in quanto abitatori di un mondo che si presenta divi- so in due. Precisamente verso questa divisione, che è discorsiva prima di essere fattuale, si dirige lo sguardo postcoloniale: da una parte, vi è la metropoli, il centro, la sorgente di significati conte- stabili ma al tempo stesso necessari per definire l’umano; dall’al- tra, si pone la periferia, il margine, l’altrove, geografico e mentale

144 aut aut, 349, 2011, 144-168

(28)

assieme, spesso assimilato a un’inferiorità bisognosa di emenda- zione. Descrivere quella piccola porzione sarà il solo modo per dar conto della più vasta rete: quest’ultima è imprendibile, non si la- scia cogliere da nessun colpo d’occhio, perché essa si confonde or- mai con quella totalità inesauribile dei flussi di merci, individui e informazioni che, con una parola tanto abusata quanto inevitabi- le, chiamiamo globalizzazione.

Che non si possa parlare della postcolonia senza toccare il te- ma della globalizzazione economica è ormai un dato che possia- mo dare per acquisito. 1 Tra le ragioni che stanno alla base di que- sto stato di cose ne esplicito una soltanto – ma, vista la comples- sità che la caratterizza, mi pare comunque sufficiente. Si tratta di ciò che definirei come la pervasività delle pratiche di governo neo- liberali – il plurale qui è d’obbligo, essendo il progetto politico neoliberale caratterizzato da un’estrema duttilità. È un progetto che si lascia scorgere, da un lato, nel modo in cui le agenzie di go- verno, siano esse organizzazioni, istituzioni o amministrazioni, 2 si prendono cura delle vite individuali a partire dall’assunto secon- do cui queste ultime sono una risorsa misurabile, calcolabile e ge- stibile seguendo criteri desunti dalla razionalità economica. Dal- l’altro, il progetto neoliberale emerge nel modo in cui si gestisco- no gli spazi del dentro e del fuori in riferimento alla costruzione delle comunità politiche (da intendersi nel senso più lato possibi- le, ovvero come comunità di individui ai quali possono essere ascrit- ti dei diritti). Tali spazi possono estendersi quanto i confini di uno stato, oppure quanto lo spazio abitato da un gruppo anche pic- colo di individui, accomunati per esempio da un’attività lavorati- va o da una qualche forma di appartenenza; ciò che conta, in tut- ti i casi, è la possibilità di gestire le vie di accesso a questa spazia- lità in modo da rendere poco visibile, o addirittura in modo da oc- cultare, la politicità delle negoziazioni necessarie per stabilire chi entra e chi esce, sostituendo a essa criteri di natura economica –

1. Cfr. S. Mezzadra, La c o n di z io n e po stc olo n iale. St oria e poli t i c a n el pre s e nt e g lobale , om- bre corte, Verona 2008.

2. Sulla distinzione tra amministrazioni, istituzioni e organizzazioni, si veda L. Boltanski,

De la c ri t iq u e. P ré c i s de s o c iolo g ie de l ’ éma nc ipa t io n, Gallimard, Paris 2009.

(29)

146

laddove l’economico in questione non rimanda tanto alla logica del mercato o a quella del profitto, quanto a quella di un’efficien- za che permette di rendere in ogni momento perspicui i rapporti procedurali che legano i mezzi a disposizione ai fini perseguiti du- rante uno specifico corso di azioni. 3

Inversamente, coloro che analizzano il progetto neoliberale non possono non interrogarsi sul luogo della postcolonia, in quanto quest’ultimo ormai coincide con lo stesso ecumene globale. Nes- suna forma di dominio può oggi prescindere dagli antichi legami che univano i centri alle loro periferie coloniali: questi legami ser- vono da base sia per la formazione delle élite attualmente al pote- re, al tempo stesso simili e dissimili da quelle dell’età coloniale, 4 sia per la costruzione e il mantenimento di quei flussi di merci e di manodopera dalla periferia ai centri (e viceversa) che la nuova classe capitalista transnazionale gestisce a proprio beneficio. 5 Ma, più in profondità, nessuna gestione governamentale degli assem- blaggi globali potrà ormai essere altro che contaminazione tra quel- la temporalità fissa e immobile, del tutto simile a un eterno pre- sente, che coincide con il flusso delle transazioni economiche, e quelle temporalità multiple, variamente dislocate, che ritmano i flussi dell’esperienza soggettiva, la quale rimanda inevitabilmente a forme di vita che resistono, in vario modo e con varia intensità, alla riduzione del vitale all’economico. 6 Guardare all’ecumene glo- bale da una prospettiva postcoloniale significa allora articolare,

3. Sugli “spazi di eccezione” che la governamentalità neoliberale costruisce a proprio vantaggio, sono fondamentali le analisi compiute in A. Ong, Liberali s m a s E x c ep t io n . M ut a - t io ns i n Ci t i z e nsh ip a n d S o v erei gnty, Duke University Press, Durham (N.C.)-London 2006.

4. In merito, si veda l’analisi, che qui assume un valore esemplare, compiuta sul caso co- stituito dall’Africa subsahariana in J.-F. Bayart, L ’Ét a t e n A f riq u e : la poli t iq u e d u v e nt re , Fayard, Paris 1990.

5. Che oggi, in riferimento alla gestione del progetto politico neoliberale, si possa torna- re a parlare di classe, lo si mostra bene in L. Sklair, Th e T ra nsn a t io n al Capi t ali st Cla ss, Blackwell, Oxford 2001.

6. Vi è un’eccezione al riguardo: il vissuto dei t rader s, di coloro che lavorano per così di-

re “dentro” la macchina che produce e riproduce i mercati finanziari, è totalmente immerso

nell’eterno presente dei flussi che attraversano il mercato delle transazioni finanziarie; su ciò,

cfr. C. Zaloom, Th e di sc ipli n e o f s pe cu la t or s, in A. Ong, S.J. Collier (a cura di), G lobal A s-

s embla g e s: T e chn olo gy , P oli t i cs , a n d Eth i cs a s A nth ropolo g i c al P roblem s, Blackwell, Oxford-

Malden (Mass.) 2005, pp. 253-269.

(30)

Gioia dei sensi e gusto. Sull’estetica del finito

HANS-DIETER BAHR

1. Ci sono espressioni il cui uso si coglie solo al loro scomparire.

Spesso si crede di potere ancora comprenderne il significato pri- mitivo, ma ecco che esso si sottrae. “Gioia dei sensi” è un’espres- sione di questo tipo. Sulla via dell’oblio si trova quel suono che un tempo combatteva contro ogni costrizione a forme di vita asceti- che. Alcune morali religiose hanno voluto vedere in ogni tipo di sensibilità una “voluttà carnale” lasciva e dissoluta, e hanno per- ciò esortato a sopprimere tali peccaminose brame con penitenze e flagellazioni, astinenza, quaresime e duro lavoro, onde guada- gnarsi una beatitudine post mortem. Oggi e nel nostro contesto, in cui si parla al contrario di “ebbrezza consumistica e società del di- vertimento” come irrinunciabili fattori di propulsione economi- ca, la gioia dei sensi sembra essere inghiottita dalla sua stessa vit- toria contro le forme del puritanesimo. Non si è forse abbassata a commercio di piaceri che galleggiano sulla superficie di angosce esistenziali, noia e orrore, piuttosto che essere il grido dell’affer- mazione della vita? Nessuna morale pone più confini a tali piace- ri, tutt’al più lo fanno il tempo lavorativo e le condizioni patri- moniali. E dove ancora si fa appello alla moderazione o alla ri- nuncia, si sente il dovere di giustificare questa richiesta mediante il riferimento alla salute e all’igiene sociale.

Ma come starebbero le cose se proprio questo sfrenato consu-

mo di beni fosse solo un segno del fatto che una società, nel mez-

zo dei suoi piaceri, è diventata incapace di una gioia dei sensi? Non

sarebbe una tardiva e raffinata vittoria degli “ideali ascetici” (Nietz-

(31)

171

sche) dietro la maschera del loro contrario? Questo infaticabile consumo non è forse il sintomo di una profonda spossatezza, di un godere narcotizzato, di una diffusa dipendenza dal godimento che non trova più soddisfazione, che non educa alcun gusto e non ha più la forza di darsi una forma? Senz’altro oggi si parla inces- santemente di “gusto”, ma non per combattere quanto di conti- nuo l’offende. Dove le costrizioni della morale si ritirano, un nu- mero imprecisato di arbitrarie confessioni del gusto assumono la funzione di regolare inclusione ed esclusione sociali.

2. Col termine “godimento” si può intendere il modo in cui si ap-

prende qualcosa nel sentimento e nel giudizio, lo si possiede e se

ne fa uso. Godiamo perciò non solo del piacere di cibi, bevande,

odori, contatti, paesaggi, di ritmi e suoni o movimenti, del piace-

re di pensieri, ricordi, fantasie. Possiamo godere anche di quanto

ci è offerto, come amore, rispetto, onore; di ciò che ci è concesso,

come considerazione, fama, giustizia, pace, potere; di ciò che ci si

procura da sé, come patrimonio, successi, vittorie, educazione, fe-

de o anche quanto si è donato ad altri o è stato loro sottratto at-

traverso distruzione e orrori. Da quanti e quali disparati motivi ta-

li gioie possono essere determinate! Anche ai piaceri spirituali

giungiamo solo mediante la nostra sensibilità corporea. E ognuno

di questi godimenti non è caratterizzato solo da differenze di qua-

lità, durata e intensità o dalla relazione ad altri beni o mali, ma pre-

cisamente dalle diverse modalità della loro finitezza. Sotto la spin-

ta del desiderio sembra che il godimento sia in sé infinito, e che

sia interrotto sempre solamente da qualcos’altro, sia esso suffi-

cienza e sazietà, sonno, sfinitezza, dolori o preoccupazioni, oppu-

re distrazioni o abitudini. Ma ogni godimento è strutturato piut-

tosto secondo un’intrinseca misura di sviluppo, mediante la qua-

le esso può in principio diventare unico, sempre nuovo, simile o

del tutto diverso. Nel sogno del piacere ininterrotto si manifesta

invece un’idea di eterna beatitudine, che tuttavia non può mai

giungere a rappresentazione, proprio come condizione per poter

continuare ad avere effetto. Certo questo sogno può sviluppare la

forza di far aumentare il godimento fino a che esso non si frantu-

(32)

ma nella smisuratezza e nella dipendenza mai soddisfatta. Ma co- me fu possibile che proprio un tale sogno di suprema e ininter- rotta gioia dei sensi si sia potuto rivolgere dolorosamente contro questa stessa gioia? Perché, all’improvviso, la fugacità di una fe- licità, che per Nietzsche si manifesta perfino nel lesto zampetta- re di una lucertola, sembra far crollare il valore del godimento vi- tale?

La modernità, tuttavia, cominciò proprio affermando il con- trario, ossia svalutando gli ideali ascetici, o comunque la virtù del lavoro e delle rinunce, in nome di un diritto a piaceri permanen- ti, che ora vengono invece offerti ovunque, consumati e rigettati senza posa, senza limiti persino nella marea di immagini e voci dei media. Come ha potuto quest’economia dell’inondamento orga- nizzarsi in un modo tale che ogni sottrazione di piaceri scatena i sintomi di una crisi d’astinenza, mentre la loro perpetua identica ripetizione non sembra condurre alla saturazione, alla noia, al fa- stidio e al disgusto? Perché non vale più quello che Shakespeare fa dichiarare al principe Enrico: “Se tutti i giorni dell’anno si fa- cesse festa, il gioco diventerebbe tanto molesto quanto il lavoro”? 1 Non si rivela qui un regno di morti delle passate gioie dei sensi, che il più completo esaudirsi della fortuna non riteneva un tempo garantite nella loro pretesa d’eternità, ma esperiva nella loro ra- rità, nel loro volare alto, nella loro differita fugacità?

3. Nella storia del pensiero occidentale, perlomeno in quella se- gnata dal platonismo, dallo stoicismo e dal cristianesimo, le gioie dei sensi sono state sospettate quasi sempre di non poter essere

“innocenti”. I maestri della morale le hanno sempre viste stretta- mente connesse all’attaccamento a vizi di origine pulsionale. Esse non solo parevano mostrare ogni volta una tendenza a una pec- caminosa smisuratezza, ma nel loro essere plebee e ancor più nel loro eccesso di raffinatezza ed eccezionalità distraevano dalla su- periore beatitudine dei godimenti religiosi e metafisici. Sembra che le gioie dei sensi siano di per sé affette da qualcosa di immo-

1. W. Shakespeare, En ri c o

IV

, 1, 2.

Riferimenti

Documenti correlati

Documentato appare lo sfruttamento collettivo delle terre della campanea ad opera degli abitanti dei villaggi, dei castelli e delle curtes posti ai margini della zona;

Multiplex ligation-dependent probe amplification (MLPA) enhances molecular diagnosis of Diamond-Blackfan anemia due to RPS19 deficiency.. Campagnoli MF, Garelli E, Quarello P,

Nel mondo contemporaneo il razzismo si è concentrato e rivolto in modo particolare alla figura dello straniero migrante, prendendo quindi in causa un numero crescente di uomini e

L'autore smonta i messaggi della propaganda colonialista che affa- scinarono generazioni di italiani, mostra i pochi reali vantaggi tratti dall'Italia dai suoi possedi- menti

Mentre come conseguenza della rivoluzione della plastica e con la diffusione a larga scala del metallo e della cera- mica industriale, si impongono contenitori fabbricati, come già

Questi sono i quattro obiettivi che si prefigge l’associazione al momento della sua costituzione: sicuramente sono scopi importanti, ma allo stesso tempo anche molto

The average radon concentration in the Niedz´wiedzia Cave from July 1995 to December 1996 (from 222 measurements of average monthly radon concentrations) amounted to 1.22 kBq/m 3..

L’inserimento degli operatori di supporto nell’organizzazione delle attività presuppone un’attenta analisi dell’organizzazione e degli obiettivi che questa deve perseguire