• Non ci sono risultati.

IN RICORDO DI ROSARIO LIVATINO

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2022

Condividi "IN RICORDO DI ROSARIO LIVATINO"

Copied!
9
0
0

Testo completo

(1)

IN RICORDO DI ROSARIO LIVATINO

Voi mi scuserete – e in primo luogo me ne scuserà l’autore – se io non farò una recensione del libro di Toni Mira. Oltre tutto è un libro che credo non abbia bisogno di recensioni. Si tratta infatti di una accurata, diligentissima raccolta, compiuta con precisione giornalistica, di una serie di testimonianze sulla vita e sulla morte di Rosario Livatino, proposte da persone che gli sono state particolarmente vicine (dai genitori ai colleghi, dagli insegnamenti ai sacerdoti che ne hanno accompagnato la formazione), testimonianze tanto convergenti che talora si sovrappongono con cadenza quasi letterale, a dimostrazione di un giudizio corale sull’uomo, che ha finito per implicare – come è ricordato in un documento del processo canonico di beatificazione che Mira ha pubblicato – persino uno dei suoi assassini.

Qui vorrei invece limitare la mia riflessione, nei pochi minuti che mi sono riservati, ai due scritti di Livatino che l’autore ha saggiamente pubblicato in calce al volume, l’uno relativo ad un intervento svolto, nell’aprile del 1984, al Rotary di Canicattì, sul

“ruolo del giudice nella società che cambia”, l’altro riferito ad una conferenza, svolta due anni dopo, sempre a Canicattì, sul rapporto tra “fede e diritto”.

Consapevole del fatto che il contributo dei personaggi più significativi va colto, non in una sua astratta e statica oggettività, ma quale stimolo fermento lievito per quel progresso della storia del quale ciascuno di noi, ne abbia o meno coscienza, è inevitabilmente parte, vorrei svolgere qualche breve riflessione su

(2)

quale possa essere oggi il ruolo del giudice nella società e su come possa essere inteso il rapporto tra diritto e fede, grato dell’occasione che qui mi viene offerta di riprendere, sia pure in punta di penna, temi che mi sono stati e mi sono cari.

Per queste riflessioni prenderò le mosse proprio dalle parole di Livatino, nella consapevolezza tuttavia che esse vanno storicizzate perché su di esse grava il peso dei quasi quarant’anni trascorsi da quando furono pronunciate. Cogliere l’attualità di un pensiero non significa infatti applicarne passivamente le cadenze ad un momento del tempo che non è il suo, ma semmai sforzarsi di capirne l’autentico significato per intendere quali stimoli o suggerimenti l’autore è ancora capace di darci nelle diverse contingenze del nostro tempo.

Può essere innanzitutto significativo segnalare che, proprio all’inizio dello scritto sul rapporto tra il magistrato e la società, Livatino proponga un’affermazione che era certamente per i suoi tempi non consueta, quando dice che lo stesso tema che egli intende affrontare non avrebbe senso se si partisse dal postulato che il giudice è un “semplice riflesso della legge che è chiamato ad applicare”, con la conseguenza che “se questa cambia, anch’egli dovrebbe cambiare; se questa rimane immutata, anch’egli dovrebbe mantenersi uguale a se stesso, quali che siano le metamorfosi della società che lo avvolge”. E’ chiaro che una presa di distanza di questo tipo dal formalismo allora inoperante non era per quei tempi affatto consueta, anzi si collocava nella linea di una coraggiosa avanguardia.

In un suo recentissimo libro – formalmente dedicato al diritto

(3)

civile, ma le cui motivazioni di fondo possono agevolmente estendersi anche al territorio del diritto penale – Paolo Grossi si interroga sul passaggio della riflessione giuridica del moderno al postmoderno, sul modo di porsi cioè del giurista (sia esso teorico o pratico) nel momento in cui prende atto che l’oggetto della sua analisi non è più una scienza teorica, che assume a punto di riferimento della sua analisi un definitivo quadro normativo, ma piuttosto una scienza pratica, riferita quindi all’articolato svolgersi di una prassi sempre mutevole e nella quale lo stesso interprete è inevitabilmente implicato, con la conseguenza di essere all’un tempo soggetto ed oggetto del suo procedimento applicativo.

Certamente, se fosse consentito riferire la riflessione di Livatino al tempo presente, potremmo tranquillamente dire che essa non si collocherebbe nel buco nero di quel nichilismo giuridico che oggi costituisce la raffinata epigone del positivismo.

I quattro territori sui quali Livatino articola la sua riflessione sono tutti suscettibili di puntuali applicazioni ad oggi. Lo è certamente il tema del rapporto con il mondo dell’economia e del lavoro. Venuta meno la stagione dei c.d. “pretori d’assalto”, sarebbe ridicolo oggi pensare che il giudice possa compiere una preventiva scelta di campo collocandosi aprioristicamente dalla parte di uno dei due contendenti. Il problema semmai oggi si specificherebbe domandandosi in che modo il principio di uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 cpv. della Costituzione possa trovare attuazione nell’esercizio della giurisdizione. Se infatti è compito della Repubblica “rimuovere gli ostacoli di fatto” che impediscono l’“effettiva eguaglianza” di tutti i cittadini, è evidente

(4)

che il compito deve investire tutte le articolazioni istituzionali della Repubblica, e quindi anche la funzione di chi è chiamato ad amministrare giustizia. Trentacinque anni fa i tempi non erano ancora maturi per porsi un interrogativo di questo tipo, ma il fatto stesso che Livatino imposti il rapporto tra giudice e società escludendo che il primo debba essere semplice riflesso di un testo scritto, lascia intendere quali preziosi suggerimenti la sua testimonianza possa fornire alle nostre riflessioni di oggi.

Analogamente si dica del tema dei rapporti del magistrato con la sfera della politica. Non è questa evidentemente la sede (nè io ne avrei lo spazio) per affrontare un problema di questo spessore. Chi ha letto tuttavia lo scritto di Livatino intende benissimo la sua modernità proprio in una stagione come la nostra, in cui l’atteggiamento disinvolto di alcuni giudici, che hanno ritenuto intercambiabile il loro ruolo con quello del politico, ha certamente nociuto ad una corretta immagine di entrambe le funzioni. Che un magistrato debba avere anche una sensibilità politica, nessun contesto sociale essendo interpretabile se depurato da questa prospettiva, non significa che egli debba collocarsi in paratie partitiche, che oggi sono prevalentemente vissute come un modo di intendere la realtà alla luce di apriorismi ideologici o, peggio, di convenienze di parte.

Quanto poi al tema della credibilità del magistrato esso appare di una esemplare cristallina attualità, proprio in una stagione come la nostra in cui la superficialità di alcuni ha finito per riflettersi sulla stessa credibilità di organi costituzionali come il C.S.M.

L’ultimo profilo del quale Livatino si occupa è quello della

(5)

responsabilità del magistrato. Lo faceva in un momento in cui una martellante campagna di stampa pensava di poter risolvere in questa chiave l’auspicato condizionamento della giurisdizione. Mi ha fatto piacere leggere le accorate parole con le quali “il giudice giusto” denuncia i pericoli di un tale atteggiamento. Lo faceva più o meno a cavallo dello stesso torno di tempo in cui io venivo chiamato a svolgere in Senato la funzione di relatore della legge sulla responsabilità civile dei magistrati e mi battevo per paralizzare il tentativo (a quel tempo tenacemente portato innanzi da alcune forze politiche) di poter in qualche modo condizionare l’autonomia e la libertà del procedimento interpretativo.

Può essere significativo constatare che Livatino conclude la sua conferenza assumendo il diritto come “riferimento unitario della convivenza collettiva”, con ciò anticipando quel che Grossi ed altri oggi lucidamente affermano. Il diritto non è un sistema di regole che si impone al contesto sociale, i cui componenti non possono quindi che accoglierlo – come di recente ha ancora una volta ribadito Natalino Irti – secondo il paradigma dell’obbedienza, ma è appunto un riflesso della società e quindi ciascuno di noi ne è non suddito, ma artefice.

Il tema nel quale tuttavia la riflessione di Livatino tocca le corde più delicate e sensibili del suo pensiero è quello del rapporto tra fede e diritto, un tema che meriterebbe un approfondimento autonomo dopo gli spunti che, qualche anno fa, ci furono offerti, proprio per iniziativa dell’Associazione Bachelet, da Enzo Bianchi.

Se tuttavia qui si intende – come io penso – impostare un colloquio con chi non c’è più per cogliere la persistenza di un

(6)

insegnamento e di una testimonianza, credo che il tema del rapporto tra fede e diritto sia oggi uno dei temi sui quali è necessario misurarsi, se è vero che noi viviamo in una stagione come quella contemporanea alla disperata ricerca di un ancoraggio di fede e all’un tempo assetata di giustizia.

Sorvolo quindi su quella parte della riflessione di Livatino che riguarda le forme giuridiche dei documenti della cristianità o la rilevanza del codice di diritto canonico per occuparmi invece del nesso di fondo tra i due profili che si incentra sulla convinzione che Cristo stesso ha inteso reagire contro gli eccessi del formalismo legalistico chiarendo che è il sabato che deve essere finalizzato all’uomo, non il contrario.

In un passaggio cruciale della sua riflessione Livatino parla della fede come “istanza verificatrice dell’attività ‘laica’ di applicazione delle norme”, con una intuizione precorritrice che addirittura anticipa recenti affermazioni di papa Francesco. Al di là degli esempi, legati all’attualità del suo tempo (dall’eutanasia all’obiezione di coscienza), io credo che il discorso meriti di essere portato innanzi. E non ad uso esclusivo dei credenti come il riferimento alla laicità lascia intendere. Nel momento cioè in cui (come accade nell’enciclica Fides et ratio) si riconosce che fede e ragione non sono qualificabili nei termini di una irriducibile antitesi e laddove al contempo si ammette – come la nostra Corte costituzionale ormai sistematicamente fa – che il principio di ragionevolezza necessariamente connota ogni profilo applicativo del diritto, abbiamo colto, nel segno del logos, il punto di contatto fra due profili che sono stati a lungo intesi quali paradigmi

(7)

irriducibili ad una prospettiva comune. Se cioè si riconduce il diritto a storia, il credente non può dimenticare che la storia è anche lo strumento essenziale del disegno redentivo. E si tratta quindi semplicemente di leggerla questa storia nella sua autenticità, senza alcuna pretesa di imporle una valutazione condizionata da dogmi.

E’ stato di recente sostenuto da un noto teologo (Theobald) che la verità della fede si incarna, e dunque diventa realtà, in uno stile di vita e di incontro che la fa apparire vera; dove la testimonianza della coerenza del credente e l’apertura a coglierne l’autenticità da parte del non credente destinatario collaborano insieme e ne fanno emergere il senso, la positività. Che – come dimostrano le testimonianze raccolte nel libro di Mira – è proprio quello che ha fatto Rosario Livatino.

Vi è cioè una dimensione comunitaria della fede che non va mai dimenticata e che coglie il punto di contatto con l’esperienza del diritto.

Non a caso il Concilio Vaticano II ha parlato di sensus fidei, che appartiene al popolo di Dio, inteso appunto come collettività viva, ed ha affermato (suscitando addirittura scandalo in alcuni

“dottori della legge”) che esso è infallibile nella percezione della fede (in credendo). Comunque lo si voglia intendere, si tratta quasi di un “istinto interiore”, frutto dell’adesione alla fede (certamente non definibile secondo parametri logici), che permette di percepire i “segni dei tempi”, e cioè la presenza dell’azione di Dio nei processi storici. L’autenticità della fede cioè va colta non nella astrattezza di una dottrina immutabile, ma nella concretezza di un processo storico all’interno del quale si realizza il dialogo tra

(8)

l’uomo e Dio.

Analogamente, a mio giudizio, deve dirsi dell’esperienza del diritto, che non va colto – come a lungo si è ritenuto – nella rigidità di dogmi consegnati a sistemi normativi, ma nel radicamento in indici che (pur non definibili come appunto accade per il principio di ragionevolezza) si riconducono a principi di valore, istanze di giustizia, profili condivisi (non subíti) dalla comunità di riferimento.

In questa chiave – io credo – è possibile superare non solo quella che continua ad essere ritenuta la tensione dialettica tra diritto e giustizia, ma anche l’apparente irriducibilità del rapporto tra diritto e fede, nella consapevolezza che l’uomo di fede partecipa alla vita della sua città e non può quindi sottrarsi ai doveri che questo comporta. Il senso autentico delle parole “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” sta appunto nel riconoscere che non esistono due ordini, ma che tutto si compone nell’integralità dell’uomo.

Questo mi sembra sia l’insegnamento più autentico che ci viene dalla testimonianza di Rosario Livatino, il quale è morto da beato ma anche da autentico cittadino e ha dimostrato, come giudice, che si può, nell’esemplarità di un unico atto, rendere giustizia e all’un tempo manifestare la presenza di Dio nel mondo.

Dicendo quel che vi ho detto ho cercato, con i miei limiti, di far parlare ancora chi non c’è più, così esprimendo con autenticità l’attualità di una presenza. Vi prego di scusarmi se non ci sono riuscito, ma era questo l’unico modo che mi era concesso di depositare il mio piccolo fiore, non artificiale né appassito, sulla

(9)

tomba di uno degli autentici eroi del nostro tempo.

Riferimenti

Documenti correlati

In tale circostanza don Elio tenne l’omelia e il ricordo delle sue parole di allora suona sempre attuale a distanza di 31 anni: “C’è questa compagnia di Gesù orante che

Ne sono un esempio insuperato le opere di Charles Dickens, intrise nella dialettica tra la forma del diritto e la sostanza della giustizia o, come in Honoré de Balzac, è

Presidente della Camera Penale di Bologna “ Franco Bricola”.. Vice Presidente del Consiglio delle Camere

La sentenza menziona tutti coloro che hanno partecipato alla vicenda processuale, ma le azioni dei vari personaggi (imputati, vittima, testimoni, periti, etc.) vengono

L’incontro è aperto alla partecipazione di docenti universitari, avvocati, studiosi e operatori

Il volume contiene oltre 30 temi svolti di diritto civile, penale e amministrativo per offrire ai candidati al concorso per magistrato ordinario un metodo affidabile per affrontare

Guida alla redazione del parere motivato di diritto civile - I criteri di valutazione dell’elaborato scritto all’esame di avvocato, la costruzione del parere

L'Amministrazione, in risposta all'interrogazione presentata in data 05/09/2019 dal Consigliere Moretto Vincenzo, ed altri, prog. 759, ha fatto pervenire il 27/09/2019 le