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Si trattava di un rapporto di fatto, res facti, ma con significative conseguenze giuridiche.

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CAPITOLO I

I.1. IL MATRIMONIUM

L’istituzione nella quale il pater familias esercitava i suoi poteri si basava sull’unione tra uomo e donna riconosciuta come legittima dall’ordinamento.

Il matrimonium romano si concretizzava nella seria, pubblicamente nota e durevole, unione tra individui liberi di sesso diverso.

Si trattava di un rapporto di fatto, res facti, ma con significative conseguenze giuridiche.

La natura del matrimonio romano era differente da quella odierna:

oggi, il matrimonio, per il diritto civile, è un negozio giuridico complesso, mentre per il diritto canonico costituisce, allo stesso tempo, un sacramento e un contratto.

A Roma il matrimonio era, naturalmente, di grande importanza sociale e anche religiosa, originariamente connotato da riti di vario genere.

Due erano gli elementi essenziali e costitutivi del rapporto matrimoniale: l’unione si concretizzava, dal punto di vista materiale, in una coabitazione corrispondente ai costumi sociali, mentre, dal punto di vista spirituale, c’era bisogno di una reciproca intenzione di vivere insieme come marito e moglie, la cosiddetta affectio maritalis.

Presupposti del giusto matrimonio, iustae nuptiae, ovvero del matrimonio corrispondente alle regole dell’ordinamento e atto, quindi, a creare il rapporto di adgnatio

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tra padre e figli, furono considerati lo status libertatis

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e lo ius connubi, in mancanza del quale non si produce la discendenza legittima dei figli dal padre.

1 L'adgnatio (letteralmente nascere vicino) è un istituto del diritto romano. Il termine sta ad indicare il rapporto di parentela tra due persone discendenti da un pater familias comune. Importanti effetti erano ricollegati all'adgnatio: in particolare in caso di successione mortis causa, in mancanza di designazione testamentaria veniva chiamato a succedere il cd. adgnatus proximus, al quale spettava anche la tutela.

2 Tra schiavi vi era il contubernium (contubernio) e non il matrimonio, esso non produceva effetti propriamente giuridici, ma ebbe, tuttavia qualche riflesso nel campo del diritto, soprattutto in periodo postclassico, come espressione del ius

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Necessari erano anche i presupposti di fatto: l’idoneità fisica, l’età pubere, la sanità mentale.

Accanto alla monogamia, i principi che reggevano il matrimonio romano erano la consensualità e l’esogamia. Erano esclusi i matrimoni tra cognati sino al sesto grado e tra affini.

I.2. IL MATRIMONIO CUM MANU E SINE MANU

I primi studi sul matrimonio romano cominciano alla fine del XIX secolo. Prima di allora non se ne rinvengono, in quanto il matrimonio, a partire dal Concilio di Trento, era una materia trattata più dagli studiosi di diritto canonico, c.d. canonisti, piuttosto che dai giuristi, materia, quindi, per storici dell’antichità.

La prima grossa opera che uscì sull’argomento fu quella di Brini, nel 1886, dal titolo “Matrimonio e divorzio nel diritto Romano”.

La teoria dominante presso gli studiosi di antichità classiche e di diritto privato romano distingueva due tipi di matrimonio romano: il matrimonio cum manu e il matrimonio sine manu.

Il matrimonio cum manu, ritenuto il più antico ed il vero matrimonio romano, sarebbe consistito nel passaggio della donna dalla propria famiglia a quella del marito, ove assumeva la posizione di filia familias sottoponendosi alla patria potestas

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del marito, se costui era pater familias, o del di lui padre, se il marito era filius familias.

Tale passaggio si sarebbe effettuato attraverso una delle tre forme di conventio in manum, ritenute cerimonie nuziali produttive della manus sulla donna.

naturale: in particolare, la parentela naturale che deriva dal contubernio è di impedimento al matrimonio come la parentela civile.

3 La patria potestas era intesa come il potere, genericamente illimitato, che il pater familias esercitava sui membri della propria famiglia: essi non erano solamente i figli, ma anche tutti i discendenti in linea maschile; le discendenti femmine rimanevano nella potestà del pater fintantoché non si sposavano, entrando perciò nella famiglia, e quindi in potere, del pater della famiglia a cui apparteneva il marito;

erano in potestà del pater anche le donne sposate attraverso un apposito rituale, tipico del diritto arcaico, la conventio in manum.

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Di queste tre forme, la confarreatio è generalmente ritenuta un’antica forma religiosa riservata ai patrizi; la coemptio una forma civile prescelta dai plebei; infine, l’usus, con il quale la donna si assoggettava alla manus maritale dopo un anno di ininterrotta convivenza nella casa del marito, la forma più recente.

Il matrimonio sine manu o “matrimonio libero”, sorto in un’epoca discussa, sarebbe stato privo di qualsiasi forma stabilita: non avrebbe comportato l’assoggettamento alla manus maritale della donna, la quale avrebbe conservato il suo status familiae, continuando ad essere sui iuris

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, se già lo era, o rimanendo in potestà del proprio pater familias e in seno alla propria famiglia di origine, se alieni iuris.

Tale matrimonio sarebbe andato diffondendosi sempre più, cosicché, nella tarda epoca repubblicana, sarebbe prevalso sul matrimonio cum manu che, diventato rarissimo in età classica, scomparve in età successiva

5

.

Questa teoria dei due tipi di matrimonio, sebbene fosse stata accolta dalla stragrande maggioranza degli studiosi, radicandosi nella dottrina, venne anche ben presto criticata.

Edoardo Volterra, in una lunghissima attività scientifica protrattasi per cinquanta/sessanta anni, sostenne fortemente la distinzione netta tra il matrimonio e la conventio in manum, confortando tale ipotesi con valide argomentazioni in numerosi scritti

6

.

4 Sui iuris è una frase latina che letteralmente significa del proprio diritto. Di solito si pronuncia sui juris nell'uso civile per indicare competenze legali, la capacità di condurre i propri affari. La parola "autonomo" è derivata dalla parola greca che corrisponde al latino sui iuris.

5 C. FAYER, La familia romana. Aspetti giuridici ed antiquari. Sponsalia matrimonio dote 2, L'ERMA di BRETSCHNEIDER, Roma 2005, pp. 185-186.

6 E. VOLTERRA, Corso di diritto romano. Il diritto di famiglia, Pisa 1931-1932;

Diritto romano e diritti orientali, Bologna 1937, p. 112 nt. 1; La conception du mariage d’après les juristes romains, Padova 1940, pp. 2 ss. (=Scritti giuridici 2, pp.

4 ss.); Diritto di famiglia anno accademico 1945-1946, Bologna 1946, pp. 18 ss.;

Ancora sulla manus e sul matrimonio, in Studi in onore di S. Solazzi, Napoli 1948, pp. 675 ss. (=Scritti giuridici 2, pp. 83 ss.); Quelques observations sur le mariage des filii familias, in Revue internationale des droits de l’antiquitué 1 (1948), pp. 213 ss.

(=Scritti giuridici 2, pp. 97 ss.); Nuove osservazioni sulla “conventio in manum”, in Atti del Congresso internazionale di diritto romano e di storia del diritto (Verona 27.28.29 settembre 1948), 3 Milano 1951, pp. 27 ss. (=Scritti giuridici 2, pp. 199

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Secondo questo orientamento, favorevolmente accolto dalla dottrina, sarebbe creazione degli studiosi moderni la previsione di due diverse tipologie di matrimonio; invece, matrimonio e conventio in manum sarebbero stati due istituti distinti e separati, poggianti su atti giuridici diversi e con effetti giuridici diversi e di conseguenza con due diverse condizioni giuridiche della donna sposata, quella della semplice uxor e quella della uxor in manu mariti.

In altre parole, non esistevano due tipi di matrimonio: esisteva il matrimonio per i giuristi romani e nel matrimonio poteva esserci o non esserci la manus.

A sostegno di questa dottrina abbiamo diversi argomenti, come, ad esempio, il fatto che presso gli autori antichi non si rinviene mai la distinzione fra matrimonium cum manu e matrimonium sine manu;

solo Quintiliano inst. Or. 5, 10, 62 parla di duae formae matrimonium, ma il retore sta parafrasando il passo di Cicerone Topica ad Trebatium 14:

Si ita Fabiae pecunia legata est a viro, si ei viro materfamilias esset, si ea in manum non conveneat, nihil debetur. Genus enim est uxor; eius duae formae: una matrum familias (eae sunt, quae in manum convenerunt), altera earum, quae tantum modo uxores habentur. Qua in parte cum fuerit Fabia, legatum ei non videtur

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.

ss.); La conception du mariage à Rome, in RIDA. 3° s., 2 (1955), pp. 365 ss.; s.v.

Conventio in manum, in Novissimo Digesto Italiano 4 (1959), pp. 800 s.; Lezioni di diritto romano. Il matrimonio romano, Roma 1961, pp. 89 ss.; Nuove ricerche sulla

“conventio in manum”, in Memorie Lincei, Classe scienze morali, 8° s. 12 (1966), pp. 251 ss. (=Scritti giuridici 3, pp. 3 ss.); s.v. Famiglia (diritto romano), in Enciclopedia del Diritto 16 (1967), pp. 723 ss. (=Scritti giuridici 3, pp. 133 ss.); La

“conventio in manum” e il matrimonio romano, in Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche 95 (1968), pp. 205 ss. (=Scritti giuridici 3, pp. 155 ss.); s.v. Matrimonio (diritto romano), in EdD. 25 (1975), pp. 755 ss. (=Scritti giuridici 3, pp. 252 ss.).

7 “Se una somma è stata lasciata per testamento a Fabia da parte di suo marito, a condizione che ella sia nei suoi confronti madre di famiglia, se lei non aveva compiuto la conventio in manum, nulla le è dovuto. Il genere, infatti, è moglie legittima; se ne distinguono due specie: una quella delle madri di famiglia (sono le donne che hanno compiuto la conventio in manum), l’altra quella delle donne che sono considerate semplicemente mogli legittime. Nella quale specie trovandosi Fabia, il legato non le spetta. BOEZIO, commentando il passo di CICERONE Top.

14, scrive: Uxoris species sunt duae, una materfamilias, altera usu: sed communi generis nomine uxores vocantur; anche BOEZIO riconosce due uxoris species: una la

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Cicerone, esaminando il caso di un legato disposto a favore di una certa Fabia a condizione che ella fosse mater familias nei confronti del marito, afferma che vi erano duae formae di uxores: le matres familias, ossia le donne che avevano contratto matrimonio e compiuto la conventio in manum sottoponendosi alla manus maritale, e le donne che avevano solo contratto matrimonio ed erano soltanto mogli.

Appartenendo Fabia al secondo tipo di uxor, il legato non le spettava.

Per Cicerone, quindi, esistevano, non due differenti tipi di matrmionio, cum e sine manu, ma duae formae dell’unico genere uxor, ossia due differenti condizioni giuridiche della donna sposata.

Quintiliano, male interpretando l’espressione duae formae di uxores, usa l’inesatta espressione duae formae matrimonium

8

, sulla quale si sarebbero basati gli studiosi per sostenere che i Romani distinguevano due forme giuridiche di matrimonio, dando ad esse il nome di matrimonio cum manu e matrimonio sine manu.

Rispecchia il concetto giuridico romano espresso da Cicerone anche Gellio che, nel dare la definizione di mater familias quale uxor in manu, con la frase “quoniam non in matrimonium tantum, sed in familiam quoque mariti et in sui heredis locum venisset” afferma in modo chiarissimo la distinzione fra matrimonio e conventio in manum e le differenti conseguenze giuridiche dei due istituti

9

.

mater familias, l’altra “usu”; è evidente che la presenza del termine “usu”, nel punto in esame, è dovuta ad un errore della produzione del testo, cfr. in questo senso U.

BARTOCCI, Le species nuptiarum nell’esperienza romana arcaica. Relazioni matrimoniali e sistemi di potere nella testimonianza delle fonti, Roma 1999, p. 76;

l’usus non indica infatti una species uxoris, ma, secondo BOEZIO, uno dei modi con cui uxor habebatur, che subito dopo vengono elencati: Tribus enim modis uxor habebatur: usu, farreo, coemptione.

8 QUINT. inst. or. 5, 10, 62:… at si quis, cum legatum sit ei quae viro materfamilias esset, neget deberi ei, quae in manum non convenerit, specie, quoniam duae formae sint matrimoniorum (… invece se uno neghi che quanto è stato lasciato per testamento a colei che fosse madre di famiglia nei confronti del marito sia dovuto a colei, che non abbia compiuto la conventio in manum, (ricorrerebbe) alla specie, poiché le forme del matrimonio sono due).

9 GELLIO 18, 6, 9: “… matrem autem familias appellatam esse eam solam, quae in mariti manu mancipioque aut in eius, in cuius maritus manu mancipioque esset, quoniam non in matrimonium tantum, sed in familiam quoque mariti et in sui heredis locum venisset” (… e madre di famiglia viene chiamata solo colei che si trova in manu mancipioque del quale si trova il marito, poiché non solo ha contratto

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Gaio, come annota il Volterra

10

, nelle sue Istituzioni non accenna mai all’esistenza di due tipi diversi di matrimonio, ma distingue, quali istituti assolutamente diversi, il matrimonio e la conventio in manum:

tratta del matrimonio nei §§ 55-95 del primo libro, senza mai far allusione alcuna alla confarreatio, alla coemptio e all’usus.

Espone queste tre forme nei successivi §§ 108-123 e riconosce in esse forme attraverso cui un tempo si compiva la conventio in manum, il cui effetto non era la costituzione del vincolo matrimoniale, ma appunto l’acquisizione della manus.

Sempre secondo Volterra, Gaio distingue nettamente l’istituto del matrimonio da quello della conventio in manum sia cronologicamente, sia riguardo agli effetti giuridici; si è fatto però notare che la mancata connessione espositiva fra matrimonio e conventio in manum in Gaio non è di per sé indicativa di una netta distinzione fra i due istituti anche per l’età più antica.

Il fatto che matrimonio e conventio in manum abbiano diverse collocazioni nelle Istituzioni gaiane sarebbe dovuto al metodo di esposizione della materia; Gaio infatti tratta del matrimonio e della conventio in manum a proposito delle personae alieno iuri subiectae

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. Si noti, inoltre, che Gaio non fa nemmeno una vera esposizione del matrimonio, ma si limita a considerare gli elementi necessari perché vi siano le iustae nuptiae.

matrimonio, ma è anche entrata a far parte della famiglia del marito ed ha occupato la posizione di erede propria).

10 E. VOLTERRA, La conception du mariage, cit., p. 12 (=Scritti giuridici 2, p. 14);

E. VOLTERRA, Lezioni di diritto romano. Il matrimonio romano (anno accademico 1960-1961), Roma 1961, p. 99; E. VOLTERRA, s.v. Matrimonio (diritto romano), cit., p. 762 (=Scritti giuridici 3, p. 259).

11 La locuzione latina ellittica alieni iuris veniva utilizzata tecnicamente dai giuristi romani in luogo della più completa alieni iuris subiectae per indicare le persone che erano soggette al potere di qualcuno. Gaio descrive la differenza tra le due espressioni antitetiche sui iuris e alieni iuris in questi termini: Gai. 1, 48 «Sequitur de iure personarum alia divisio. Nam quaedam personae sui iuris sunt, quaedam alieno iuri sunt subiectare» (“Segue un'ulteriore distinzione sulla condizione giuridica delle persone. Infatti, alcune persone sono sui iuris, altre sono soggette ad un potere giuridico altrui). Le conseguenze giuridiche per gli alieni iuris erano particolarmente svantaggiose. Ad essi infatti non spettava alcun diritto nel campo dello ius privatum.

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Nel diritto romano, per due individui puberi di diverso sesso, ossia pubes l'uomo e viripotens la donna, oltre alla volontà di costituire un rapporto coniugale ed al possesso della capacità naturale, è indispensabile, perché si possa avere un matrimonio legittimo, il possesso reciproco del conubium, cioè di quello stato giuridico personale che l'ordinamento pretende sussista perché si possa parlare di iustae nuptiae, dalle quali fa derivare effetti diversi da quelli del matrimonio non legittimo, come, ad esempio, dar luogo alla patria potestà.

L’opinione che la conventio in manum e il matrimonio fossero due istituti diversi e indipendenti fra loro è seguita in dottrina per il periodo medio repubblicano e classico.

Per il periodo arcaico, per lo meno fino all’epoca delle XII Tavole

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, è invece teoria dominante che non potesse esistere matrimonio senza manus e di conseguenza o si afferma che non si possa parlare di distinzione fra matrimonio e conventio in manum, in quanto attraverso le forme della conventio si effettuavano contemporaneamente sia il matrimonio che l’acquisizione della manus sulla uxor, oppure si ritiene che, originariamente, al matrimonio si accompagnasse di regola la conventio in manum, che comportava l’assoggettamento della donna alla manus maritale; si parla pertanto o di “inscindibilità” fra matrimonio e conventio in manum, considerati un tutt’uno, o di loro “contemporaneità”.

Fino a quale epoca abbia dominato la concezione che non vi potesse essere matrimonio senza l’assoggettamento della donna alla manus maritale non si ritiene possibile precisarlo sulla base delle notizie a noi giunte; comunque si collega il sorgere del cosiddetto matrimonio sine manu o “libero” all’istituto del trinoctium, da Gaio attribuito alle XII

12 Le leggi delle XII tavole (duodecim tabulae; duodecim tabularum leges) sono un corpo di leggi compilato nel 551-450 a.C. dai decemviri legibus scribundis, contenenti regole di diritto privato e pubblico. Rappresentano una tra le prime codificazioni scritte del diritto romano e si considerano le più antiche mores e lex regia.

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Tavole, che avrebbero offerto alla donna la possibilità di impedire l’attuarsi della conventio in manum, e quindi il suo assoggettamento alla manus maritale, pur mantenendo gli effetti del matrimonio

13

. Gaio 1, 137-137a: “Le donne cessano di trovarsi nella condizione di soggetti in manu attraverso la mancipatio e divengono sui iuris ove per effetto di quella mancipatio abbiano usufruito di manumissione.

La figlia, anche adottiva, non può peraltro costringere in alcun modo il padre a emanciparla; la moglie, viceversa, può a ciò obbligare il marito mediante il ripudio, venendosi in tal modo a trovare in condizione analoga a quella che sarebbe propria di lei ove mai gli fosse stata moglie”.

La manus del marito cessa se la donna ripudia il marito. Se così stanno le cose, il rapporto tra potestas e manus è abbastanza dubbio, perché la situazione potestativa può venir meno per emancipazione, ma non può venire meno per scelta di colei che si trova in posizione subordinata.

Quindi la manus è una situazione a sé, che con la potestas non ha a che vedere in senso stretto.

Ciò che sappiamo per certo è che è sempre il marito ad avere la manus sulla moglie e Gaio lo dice chiaramente: “Passiamo ore ad occuparci delle persone in manu. Trattasi di una situazione di diritto specifica dei cittadini romani. Peraltro possono trovarsi sottoposti a potestà individui di sesso sia maschile che femminile, mentre le donne soltanto, sono suscettibili di passare nello stato di soggetti in manu in tre modi: per usus, per confarreatio, per coemptio”

14

.

I.3. LE FORME DELLA CONVENTIO IN MANUM Gaio 1, 110

Olim itaque tribus modis in manum conveniebant: usu, farreo, coemptione

13 C. FAYER, La familia romana, cit., pp. 196 ss.

14 GAIO 1, 108-110.

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Apprendiamo da Gaio che la conventio in manum, mediante la quale le donne si assoggettavano alla manus maritale, si compiva per uso, per confarreazione e per coemzione.

Lo stesso ordine dato da Gaio figura in molte altre testimonianze

15

, ma la successione storica delle forme della convenzio in manum seguita comunemente in dottrina è confarreatio, coemptio, usus

16

.

I.3.1. CONFARREATIO

Le nozze confarreate erano un qualcosa di molto raro nell’età storica avanzata: erano le nozze primitive, quelle caratterizzate da una cerimonia di carattere sacro nella quale si aveva un momento, e da ciò deriva il nome, in cui i due sposi insieme mangiavano un pane di farro.

La confarreatio era riservata esclusivamente ai patrizi e richiedeva la presenza del Pontifex Maximus, del Flamen Dialis

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e di dieci

15 ARNOB. adv. nat. 4, 20: Uxores enim dii habent… usu, farre, coemptione genialis leculi sacramenta condicunt?; SERV. georg. 1, 31: Tribus enim modis apud veteres nuptiae fiebant: usu… farre… coemptione; BOETH. ad Cic. Top. 14: Tribus enim modis uxor habebatur: usu farreo coemptione. Sulla base di queste testimonianze A. WATSON, Usu farre(o) coemptione, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 29 (1963), p. 337, avanza l’ipotesi che l’ordine usu farre(o) coemptione derivi da una matrice comune, che potrebbe essere una disposizione sull’acquisto della manus contenuta nelle XII Tavole, in cui forse ricorreva l’espressione usu farre(o) coemptione; per il E. VOLTERRA, Nuove ricerche sulla

“conventio in manum”, cit., p. 283 nt. 64 (=Scritti 3, p. 35 nt. 64), l’ipotesi è verosimile, ma gli argomenti addotti per dimostrarla sembrerebbero alquanto deboli.

16 Scrive B. BIONDO, “Farreo coemptione usu”, in Sodalitas. Scritti in onore di A.

Guarino, 3 Napoli, 1984 p. 1303 “La successione storica “farreo, coemptione, usu” è sostenuta largamente in dottrina, quanto meno sul piano di una più ordinata esposizione dei modi della conventio in manum”.

17 Il Flamine Diale era il sacerdote dell'antica Roma preposto al culto di Giove Capitolino. Era l'unico tra i sacerdoti che poteva presenziare nel Senato con il diritto alla sedia curule ed alla toga pretesta. Presenziava al rito della confarreatio ed egli stesso doveva essere sposato con questo rito. Il flamine diale doveva portare sempre un copricapo di cuoio bianco dalla strana foggia, l'apex o albogalerus. In cima all'apex era fissato un ramoscello di ulivo dalla cui base si dipartiva un filo di lana.

La sua persona, inviolabile, era permanentemente circonfusa di sacralità, tanto che al suo passaggio doveva cessare ogni attività lavorativa ed essere rispettato il silenzio per non disturbare il suo costante contatto con Giove di cui era la “statua vivente”.

Durante le epiclesi, e comunque ogni qual volta pronunciava il nome di Giove, doveva sempre alzare le braccia al cielo. Rivestiva una particolare importanza e sacralità in quanto personificazione vivente di Giove, di cui celebrava i riti, godeva di grandi onori, ma, proprio per la sua funzione, era sottoposto a molteplici limitazioni e divieti oltre che a specifici obblighi. Aulo Gellio fa un elenco dettagliato delle limitazioni a cui il flamine diale e la moglie, la flaminica diale, erano sottoposti.

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testimoni nati da matrimoni celebrati con lo stesso rito; richiedeva, inoltre, molte altre formalità, motivo per il quale fu sostituito in età successiva da altre forme di riti nuziali.

Per l'occasione, infatti, doveva essere sacrificata una pecora, la cui pelle, pellis lanata, sarebbe stata impiegata per coprire il sedile su cui gli sposi sedevano durante la cerimonia.

La sposa doveva indossare un velo rosso, flammaeum, che le copriva il capo e doveva compiere, insieme al marito, tre giri rituali attorno all'altare, percorrendo il tragitto verso destra, motivo per il quale questo rito era detto dexteratio.

L'unione delle mani degli sposi, dexterarum iunctio, era un gesto tramite il quale questi manifestavano il proprio consenso.

La cerimonia si concludeva con la pronuncia della formula rituale “ubi tu Gaius ego Gaia

18

” che probabilmente segnava il passaggio della moglie nella famiglia del marito, anche se quest'ipotesi è oggetto di dibattito poiché Gaius è un praenomen

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e non un nome familiare.

I.3.2. COEMPTIO

La coemptio

20

era un’altra tipo di rito nuziale che permetteva allo sposo di acquisire la manus sulla moglie.

Analizzando l'etimologia del termine, si scopre che coemptio deriva da cum, "con" ed emptio, "acquisto, compera", e quindi significa letteralmente "con vendita". Questo ha portato gli studiosi a ritenere che originariamente la coemptio fosse una forma di matrimonio per compera, ed in effetti il rito consisteva in un adattamento della

18“Dove tu Gaio, anche io Gaia”.

19 Il prenome è il nome individuale, il nome gentilizio identifica la gens di appartenenza, il cognome indica la famiglia alla quale il soggetto appartiene. Negli scritti il prenome era generalmente ridotto all’iniziale, poiché i prenomi romani si erano ben presto ridotti ad un numero alquanto limitato: Marcus, Gaius, Titus, Publius, Lucius. Questa forma di nome “proprio”, eccetto che per le relazioni familiari e confidenziali, era di poca importanza e raramente usata da sola.

20 La coemptio divenne col tempo il rito nuziale più diffuso tra quelli che permettevano di acquisire la manus. Ad esso ricorrevano soprattutto i plebei, poiché la confarreatio era loro preclusa, ma col tempo anche i patrizi abbandonarono la confarreatio, che era eccessivamente formale, per adottare la coemptio.

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mancipatio, un negozio tramite il quale si potevano acquistare le cose di maggiore importanza, le cosiddette res mancipi.

A tal proposito nel II secolo d.C. Gaio scrive:

“Coemptione vero in manum conveniunt per mancipationem, id est per quandam imaginariam venditionem”

21

.

Dalla frase di Gaio risulta come, in realtà, la mancipatio fosse, al tempo in cui l’autore scriveva, una vendita fittizia, come accadeva, ad esempio, per l'emancipatio.

Nel rito era mancipio dans ("colui che dà per mancipatio") il padre della donna o la donna stessa se sui iuris e mancipio accipiens ("colui che riceve per mancipatio") il marito o, se era alieni iuris, il suo pater familias.

I.3.3. USUS

Gaio 1, 111: “Passava nella situazione di soggetto in manu mediante usus, colei che permaneva in matrimonio ininterrottamente per la durata di un anno; si verificava, in un certo senso, una per così dire

“usucapione”, per effetto del possesso continuo protrattosi per un anno essa entrava a far parte della famiglia del marito ed acquisiva la condizione di figlia.

Pertanto nella legge delle XII Tavole era previsto che, se una donna non intendeva passare in tal modo nella condizione di soggetto in manu del marito, doveva assentarsi dalla casa coniugale per tre giorni ogni anno e, per questa via, interrompere annualmente il protrarsi dell’usus.

Ma tutta questa normativa, in parte, è stata abrogata dalle leggi, in parte, è venuta meno per desuetudine”.

Oggi molti affermano che questo testo sia inaffidabile, perché non è concepibile che un testo normativo come le XII tavole ponga la regola e nello stesso tempo ponga l’eccezione.

21 GAIO 1, 113, "In realtà con la coemptio si passa sotto la potestà del marito tramite mancipatio, cioè una vendita fittizia".

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La corrente opposta ritiene, però, assurda questa visione poiché le XII tavole non hanno introdotto l’usus, ma hanno stabilito che se la donna convive ininterrottamente un anno è in manu del marito; se non vuole che questo avvenga, deve interrompere l’usucapio, allontanandosi per tre giorni.

Evidentemente le XII tavole recepiscono il matrimonio gentilizio, che prevede la manus per usus. Però, siccome il mondo plebeo non vuole questo tipo di matrimonio, viene prevista la scappatoia: si interrompe la c.d. usucapione.

Nel mondo gentilizio se la moglie lasciava l’ercto non cito

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per andare in un altro ercto non cito, perdeva uno status famigliare per acquistarne un altro, e dunque problemi non ce n’erano.

I plebei, invece, che avevano patrimoni in beni immobili o in denaro, per maritare una donna in manu dovevano anticiparle la quota di eredità che le sarebbe potuta spettare un giorno, ma se poi la donna moriva o se l’unione si fosse rotta, la famiglia avrebbe fatto un grosso esborso senza avere la possibilità di recuperarlo.

Si aggiunge, inoltre, che il matrimonio cum manu era estraneo alla mentalità plebea che non era cresciuta nelle scritture tribali.

Secondo l’interpretazione dottrinale pressoché univoca, Gaio avrebbe voluto dire che la donna che rimaneva nupta, maritata, per un anno intero nella casa coniugale, cadeva in manum del marito, “veniva usucapita” per annuo possesso.

22 Antichissimo istituto del diritto quiritario: rappresentava la più antica forma di contitolarità di situazioni giuridiche oggettive. L’espressione indicava, infatti, la situazione di comproprietà in cui venivano a trovarsi più fratelli alla morte del comune pater familias; il patrimonio familiare ereditato non veniva diviso, ma gestito in comune da filii, “attuando una sorta di società universale” (consortium fràtrum suòrum). In tal caso il diritto di ciascuno dei consòrtes non si considerava come corrispondente ad una frazione ideale dei beni paterni, bensì come una contitolarità solidale sul patrimonio; tutti erano proprietari del tutto.

Il consortium, attraverso una speciale legis actio poteva essere anche posto in essere convenzionalmente tra coloro che avessero voluto porre in comune un complesso patrimoniale: in tal caso si parlava di consortium ad exemplum fratrum suorum.

Decaduto in età repubblicana, l’istituto fu sostituito da un nuovo istituto, detto comunione o condominio (commùnio).

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Sostanzialmente l’orientamento prevalente in dottrina, fa rientrare la donna fra i possibili oggetti di usucapio e la nupta sottoposta all’usus è ritenuta una res

23

.

In realtà è stato detto che ciò non deve far credere che la donna venisse concepita alla stregua di una res: non si trattava che di una mera apparenza, derivante “dalla circostanza che l’antico diritto, non conoscendo il possesso dei diritti e la loro usucapione, non poteva arrivare all’acquisto della manus se non attraverso la finzione materialistica del possesso della donna… la realtà era l’acquisto della potestà su una soggetta libera”

24

.

L’usus, di cui parla Gaio 1, 111, che ha gli stessi requisiti ritenuti fondamentali per l’usucapione arcaica, ossia usus e tempus

25

, è equiparato all’usucapione arcaica e come l’usucapio serviva a sanare i vizi di una mancipatio invalida o la sua mancanza, così l’usus maritale sarebbe stato concepito come un caso particolare di usucapio, destinato a sanare i vizi di forma della coemptio o anche della confarreatio o a sopperire alla mancanza di questi due negozi

26

.

Quindi, sempre secondo il racconto di Gaio 1, 111, se la donna voleva evitare che dopo l’anno di matrimonio si attuasse la conventio in manum per usus, poteva ricorrere all’istituto del trinoctium, consistente nell’allontanarsi per tre notti dalla casa del marito

27

.

23 Il fatto che il tempus, il termine cioè dell’usus, fosse di due anni per i fundi e le aedes, ossia per le cose immobili, e di un anno per tutte le altre cose, le ceterae res, in base alla legge delle XII Tavole, CIC. Top. 23; pro Caec. 54; GAI. 2, 42-45; D.

50, 16, 21, 1 ha portato diversi autori ad affermare che la donna era considerata una res e ovviamente una res mobilis.

24 C. LONGO, Lezioni di diritto romano (diritto di famiglia), Milano 1930-1931 p.

48.

25 L’esercizio di fatto della proprietà e il decorso del tempo.

26 C. FAYER, La familia romana, cit., pp. 272-273.

27 Generalmente si sostiene in dottrina che il trinoctium potesse realizzarsi in qualsiasi periodo dell’anno e che le tre notti di assenza della nupta dalla casa maritale dovessero essere consecutive.

(14)

I.4. ORIGINE DELLA DOTE

Alla base del regime del matrimonio romano fu la regola che gli onera matrimonii

28

dovessero essere sopportati dal marito.

Il principio, nato quando era costume che la donna passasse nella manus del marito, si mantenne anche dopo la diffusione del matrimonio sine manu.

Per agevolare il marito nella sopportazione di tali oneri, sorse, fin da epoca molto risalente, l’uso di attribuirgli un capitale, la dos, che entrasse a far parte del patrimonio suo o del suo pater familias.

Il termine dos, etimologicamente connesso con do e donum, indicava, appunto, il bene o l’insieme di beni che, in occasione del matrimonio, la donna, se sui iuris, o il pater familias che l’aveva in potestà o anche un estraneo al gruppo famigliare di lei, destinava al marito o all’avente potestà su di lui.

I.4.1. BABILONIA

Anche nei più antichi testi a disposizione, come ad esempio il Codice di Hammurabi

29

dell'antica Babilonia, la dote è descritta come una consuetudine già esistente.

Le figlie normalmente non ereditavano nulla dal padre, in compenso con il matrimonio ricevevano una dote dai genitori, che offriva loro una sicurezza proporzionale a quanto la famiglia poteva permettersi.

28 Gli oneri matrimoniali derivanti dal matrimonium romano.

29 Fu scoperto dall’archeologo francese Jacques de Morgan nell’inverno 1901-1902 fra le rovine della città di Susa. Si conoscono altre raccolte di leggi promulgate da re sumerici e accadici, ma non sono così ampie ed organiche. Venne stilato durante il regno del re babilonese Hammurabi (o Hammurapi), che regnò dal 1792 a.C. al 1750 a.C., secondo la cronologia media. Le disposizioni di legge contenute nel codice sono precedute da un prologo nel quale il sovrano si presenta come rispettoso della divinità, distruttore degli empi e portatore di pace e di giustizia. Ma la novità del codice di Hammurabi non è tanto legislativa, la sua importanza nella storia è sulla politica. Questa raccolta di 282 leggi fu scolpita in caratteri cuneiformi su di una stele raffigurante alle sommità il re in piedi, in atteggiamento di venerazione di fronte a Samas, dio solare della giustizia, maestosamente seduto sul trono. Attualmente si trova a Parigi, nel Museo del Louvre. Una copia si trova al Pergamonmuseum a Berlino, in Germania.

(15)

A Babilonia erano in uso sia la dote che il prezzo della sposa, tuttavia quest'ultimo era quasi sempre compreso nella dote

30

. In caso di divorzio senza ragione, l'uomo doveva restituire la dote alla moglie così come il prezzo della sposa andava restituito al marito.

La restituzione della dote poteva essere evitata se il divorzio rientrava in uno dei casi previsti dalla legge

31

.

La dote era amministrata dal marito come parte del patrimonio di famiglia; egli però non ne poteva disporre liberamente e legalmente la dote doveva essere mantenuta separata in quanto ci si aspettava fosse dedicata alla moglie e ai figli.

La moglie aveva diritto alla sua dote alla morte del marito. In caso di morte della moglie senza figli, la sua dote ritornava alla famiglia di origine, al padre se ancora vivo, altrimenti ai fratelli, mentre in presenza di figli, andava divisa equamente tra loro ma non tra eventuali altri figli del marito da parte di altre donne

32

.

I.4.2. GRECIA ANTICA

Nella Grecia antica la costituzione di dote non era obbligatoria ai fini della validità del matrimonio, poteva essere contestuale o successiva alla éngye (promessa solenne di matrimonio), poteva o meno essere accompagnata dalla materiale consegna, prima del matrimonio, di tutti o parte dei beni. Seguiva una valutazione al fine di determinare preventivamente quanto il marito avrebbe dovuto restituire in caso di scioglimento del matrimonio, per morte della donna o per divorzio.

30 JAMES C. THOMPSON, Women in Babylonia Under the Hammurabi Law Code, luglio 2010.

31 The Code of Hammurabi, traduzione di Robert Harper (1923).

32 JAMES C. THOMPSON, Women in Babylonia Under the Hammurabi Law Code, cit.

(16)

La dote, sempre nell’antica Grecia, poteva essere dote “diretta”, se costituita da beni della famiglia della sposa, o “indiretta”, se proveniente da regali fatti alla sposa in occasione del matrimonio.

L'ammontare della dote dipendeva dalla generosità del padre o del fratello e, in generale, dipendeva da vari fattori: la ricchezza di colui che forniva la dote; il numero di fratelli e sorelle; le convenzioni in uso nel gruppo sociale al quale apparteneva la famiglia, sia per quanto riguardava i beni dati al momento delle nozze, che per quanto riguardava una eventuale eredità che, in alcuni contesti, era sostituita in tutto o in parte dalla dote. Oltre al corredo la dote poteva consistere in denaro e persino in schiavi, indice questo di grande ricchezza del padre della sposa.

La dote era vincolata: né il padre, né il tutore, né il marito o la donna stessa potevano disporne legalmente poiché garantiva la sopravvivenza della moglie anche nel caso di divorzio o vedovanza

33

.

I.4.3. DIRITTO ROMANO

La dote è istituto antichissimo, benché non esclusivo della società romana, fu in seno a questa che subì l'evoluzione più larga e profonda:

regolato dapprima dal costume, cominciò a interessare il diritto all'epoca in cui, cresciuto fortemente il numero dei divorzi, apparve ingiusto lucro quello che il marito faceva trattenendo presso di sé la dote della moglie ripudiata. Attraverso un'elaborazione profonda, se ne foggiò un istituto veramente caratteristico, prettamente iuris civilis, d'interesse pubblico.

La dote, per la sua destinazione stessa, ad sustinenda onera matrimonii

34

, presuppone il matrimonio: se il matrimonio non è valido,

33 U. E. PAOLI, Diritto attico, s.v. Famiglia in Novissimo Digesto Italiano, 1961, VII, pp. 38 ss.

34 “Per sostenere i pesi del matrimonio”: l’espressione si usava in riferimento appunto all’istituto della dote, oggi abrogato. La stessa espressione, attualmente, si

(17)

essa stessa è nulla; se viene costituita prima del matrimonio, soltanto nel giorno in cui questo viene concluso, prende vita.

Ogni sorta di elemento patrimoniale poteva essere costituito in dote, e obbligati moralmente a questa costituzione erano, oltre alla donna che andava sposa, i suoi congiunti.

In epoca più tarda, probabilmente sotto Giustiniano, che impresse un'orma profonda all'evoluzione finale dell'istituto così da essere chiamato legislator uxoris, quell'obbligo, da morale, fu convertito in giuridico (dos necessaria).

Si distinsero tre specie di doti: dos profecticia, costituita a patre vel parente; dos adventicia, costituita da un extraneus; dos recepticia, costituita pure da terza persona, ma col patto della restituzione in proprio favore in caso di scioglimento del matrimonio.

Tre erano i modi di costituzione della dote: la dotis datio, l'effettiva trasmissione dei beni; la dotis promissio, l'obbligazione dotale conclusa per mezzo di una comune stipulazione; la dotis dictio, la promessa obbligatoria propria della dote.

Dal giorno del matrimonio, la dote passava in proprietà del marito e si confondeva col patrimonio di questo.

Così almeno nel diritto classico.

Ma in epoca più tarda, dopo avere oscillato alquanto, il principio perdette molto della sua rigidità, pur senza cedere completamente il campo al diverso principio che si andava intanto affermando, secondo cui il diritto del marito sulla dote non poteva essere che un usufrutto legale. E rende bene questo curioso contrasto fra la realtà della vita e il rigore tenace della logica giuridica, quel passo contraddittorio accolto nel Digesto:

trova nella nostra legislazione negli artt. 143 e 148 c.c. che sanciscono il principio secondo il quale entrambi i coniugi devono concorrere, con una parte delle loro disponibilità, a sostenere i pesi del matrimonio, vale a dire che sia sul marito sia sulla moglie incombe l’onere di provvedere, in proporzione al patrimonio e/o reddito di ciascuno di essi, al soddisfacimento dei bisogni della famiglia.

(18)

TRIFONIN. 23, 3, 75

“Quamvis in bonis mariti dos sit, mulieris tamen est”

Ad ogni modo, fin dalla lex Iulia de adulteriis, la libertà del marito nel godimento e nell'amministrazione della dote, subì restrizioni e divieti.

In caso di scioglimento del matrimonio, all'epoca più antica, la dote era irripetibile; ma ciò - come si è detto - parve ingiusto quando il numero dei divorzi crebbe.

Si cercò di rimediarvi dapprima per via di cautiones rei uxoriae, con le quali il costituente si faceva promettere la restituzione della dote in caso di divorzio: ne nasceva in suo favore un'actio ex stipulatu.

Verso la fine dell'età repubblicana nacque in favore della donna una vera e propria azione dotale, l'actio rei uxoriae, indipendente da qualsiasi convenzione e con carattere di buona fede.

Giustiniano, concludendo questa evoluzione nell’anno 530, abolì l'actio rei uxoriae, e concesse alla donna e ai suoi eredi unicamente un'actio ex stipulatu, anch’essa col carattere di buona fede.

I.5. LE FUNZIONI ORIGINARIE DELLA DOTE

L’uso di trasmettere alcuni beni con il matrimonio è sancito nel diritto romano con lo scopo duplice di indennizzare la donna che uscendo dalla famiglia di origine perdeva il diritto all’eredità paterna e di contribuire alle spese del matrimonio.

Il costituire la dote per la donna in vista delle sue nozze era un uso molto diffuso, in particolare nei ceti abbienti era la regola, in quanto la dote rivestì sempre un’accentuata rilevanza sociale: era un dovere morale profondamente sentito

35

fornire una dote alle proprie figlie o sorelle, perché maritare una donna senza dote non era solo segno di

35 Tale rimase per lungo tempo prima di divenire un vero e proprio obbligo giuridico.

(19)

estrema miseria

36

, ma anche motivo di disonore, in quanto l’unione poteva essere considerata un concubinato; lo attesta chiaramente Plauto Trin. 688 ss., quando fa dire a Lesbonicus che, in assenza del padre, aveva sperperato in malo modo tutto il suo patrimonio e non di meno voleva dare una dote alla sorella, richiesta in moglie da Lysiteles anche senza dote:

Nolo ego mihi te tam prospicere qui meam egestatem leves, / sed ut inops infamis ne sim, ne mi hanc famam differant, / me germanam meam sororem in concubinatum tibi, / si sine dote <dem>, dedisse magi’ quam in matrimonium

37

;

e quando afferma:

Flagitium quidem hercle fiet, nisi dos dabitur virgini

38

.

Persino una dote troppo ricca comportava seri rischi che gli antichi non esitavano a mettere in risalto, deplorando la superbia, lo spirito di insubordinazione, la mania del lusso, le smodate pretese che tale dote suscitava nelle donne e che fa loro dire con arroganza ai mariti:

Equidem dotem ad te adtuli / maiorem multo quam tibi erat pecunia. / Enim mihi quidem aequum est purpuram atque aurum dari, / ancillas,

36 Da VARRO r.r. 3, 16, 2: nam cum pauper cum duobus fratibus et duabus sororibus essem relictus, quarum alteram sine dote dedi Lucullo…, apprendiamo che Appio Claudio Pulcro, che alla morte del padre si era ritrovato povero con due fratelli e due sorelle, a causa di tale povertà aveva dato una sorella in sposa a L. Licinio Lucullo senza dote. CICERONE pro Quinct. 98: … cum illum in paternis bonis dominari videret, ipse filiae nubili dotem conficere non posset…, ci presenta Publio Quinzio, il cui patrimonio era stato sequestrato, nell’impossibilità di mettere insieme la dote per la figlia in età da marito.

37 “Non voglio che ti dia tanto da fare per sollevarmi dalla povertà, ma piuttosto preferisco che ti preoccupi perché io, oltre che mal messo, non diventi anche malfamato; non vorrei che, se io ti dessi mia sorella senza dote, facessero circolare la diceria che te l’ho data in concubinato e non in matrimonio”.

38 PLAUTO Trin. 612. Era quindi ritenuta cosa vergognosa non costituire la dote ad una fanciulla, e a tale proposito scrive il BONFANTE, Corso di diritto romano. 1.

Diritto di famiglia, Roma 1923, rist. a cura di G. BONFANTE e G. GRIFO’, Milano 1963, p. 389: “Sin dal buon tempo antico che una fanciulla non fosse dotata era caso in Roma né frequente né decente. Segno di estrema miseria ed abiezione appare il maritare le figlie e le sorelle senza dote”.

(20)

mulos, muliones, pedisequos, / salutigerulos pueros, vehicla qui vehar

39

.

Gli uomini che si sposavano allettati dalla dote, inevitabilmente si rendevano schiavi delle proprie mogli, come se fossero prigionieri in mano al nemico

40

.

Anche Gerolamo era di questo avviso, secondo lui “se mantenere una moglie povera era difficile, tollerarne una ricca era una tortura”

41

. Una ricca dote poteva dimostrarsi pericolosa per la stessa donna, poiché poteva suscitare nel marito desideri omicidi, così da liberarsi della moglie, senza perdere la dote.

Giovenale parla di mortifera dos, di una dote cioè che poteva essere causa di morte violenta per la uxor dotata

42

.

Dionigi di Alicarnarso 2, 10, 2 menziona una legge romulea, secondo cui i clienti dovevano fornire la dote alle figlie dei patrizi in vista del loro matrimonio, qualora i padri si fossero trovati in ristrettezze economiche.

Valerio Massimo 4, 4, 10 narra che, nel corso della seconda guerra punica, il console Publio Cornelio Scipione, che si trovava in Spagna, chiese al Senato di poter tornare in patria per costituire la dote alla figlia che era già in età da marito, dote che, senza la sua presenza, non poteva predisporsi.

Il Senato allora, pur di non perdere un così valente generale, si assunse il compito di dotare la fanciulla e, pattuita la somma su consiglio della moglie e dei parenti di Scipione, la prelevò dall’erario pubblico. La dote che il senato fornì alla figlia di Scipione ammontava a 40.000

39 PLAUTO Aul. 498 ss.: “Ti ho portato una dote assai più grande del tuo patrimonio, quindi è giusto che abbia vesti di porpora, gioielli d’oro, ancelle, muli, cocchieri, servi accompagnatori, schiavetti al seguito e carrozze per la paseggiata”.

40 CAEC. Plocium 142 (RIBBEK, com., p. 69 ss.) e in GELLIO 2, 23, 10.

41 HIERON. adv. Iovin. 1, 47 (P.L. 23, 289): Pauperem alere, difficile este; divitem ferre, tormentum.

42 IUV. 14, 200 ss.: Elatam iam crede nurum, si limina vestra / mortifera cum dote subit. Quibus illa premetur / per somnum digitis! (Tua nuora pensala già sepolta, se varca la soglia della vostra casa con una dote mortale. Da quali dita sarà strangolata nel sonno!).

(21)

assi, cifra da ritenersi molto alta, dato che un’altra fanciulla, Tucia, figlia di Cesone, sembrò aver ricevuto una maxima dos, avendo portato al marito 10.000 assi, e una certa Megullia, la cui dote ammontava a 50.000 assi, fu soprannominata Dotata

43

.

E’ innegabile che i vistosi patrimoni recati in dote alle donne costituivano un potente incentivo al matrimonio e nella vita quotidiana di Roma di ogni epoca non rimase ignota la figura del cacciatore di dote, pronto a passar sopra a difetti fisici ed anche all’onore della donna.

Plauto non esita ad affermare che, secondo il modo di pensare degli uomini del tempo, anche una donna con una cattiva reputazione, ma con una buona dote, in un modo o nell’altro si sarebbe sposata, perché la dote cancellava ogni magagna

44

.

Marziale 1, 10 cita il caso di un certo Gemello che si da un gran da fare per sposare Maronilla, non perché sia bella, tutt’altro, foedis nil est, ma perché tussit, ha una malattia ai polmoni, e Gemello spera in una sua rapida morte che lo lascerebbe erede.

E’ evidente come l'esistenza di una dote agevolasse le nozze e, pertanto, essendo da sempre il favorire le nozze uno degli scopi della politica, la dote era considerata d’interesse pubblico.

E’ il cosiddetto favor dotis che fa dire a Paolo

45

“in ambiguis pro dotibus respondere melius est”, ossia nelle controversie sulla restituzione delle doti è sempre meglio rispondere a favore di esse, e che gli fa affermare che è nell’interesse stesso dello Stato che la dote sia conservata integralmente in modo che la fanciulla, raggiunta l’età legale, possa sposarsi

46

.

43 VAL. MAX. 4, 4, 10.

44 PLAUTO, Persa 385 ss.: Non tu nunc hominum mores vides, / quoiiu’ modi hic cum mala fama facile nubitur? / dum dos sit, nullum vitium vitio vortitur (Non vedi i costumi che si vanno diffondendo oggi? E com’è facile sposarsi anche con una cattiva reputazione appiccicata addosso? Purché ci sia la dote, nessuna macchia è più considerata una macchia).

45 PAUL. D. 23, 3, 70 (=50, 17, 85 pr.).

46 PAUL. D. 42, 5, 18: “Interest enim rei publicae et hanc solidum consequi, ut aetate permittente nubere possit”.

(22)

Paolo D. 23, 3, 56, 1 affermando “ibi dos esse debet, ubi onera matrimonii sunt”, attesta la connessione della dote con il matrimonio e con gli onera ad esso inerenti, connessione che emerge anche da quei testi che dichiarano nulla la dote se il matrimonio è nullo

47

o è putativo

48

e fissano la sua esistenza al momento dell’inizio del matrimonio

49

.

Altra funzione che una parte della dottrina attribuisce alla dote sarebbe quella di compensare le aspettative di successione della donna alieni iuris, quando al matrimonio si accompagnava la conventio in manum;

infatti la filia familias, per il fatto che, compiendo la conventio in manum, usciva dalla propria familia per entrare a far parte della familia del marito, perdeva ogni aspettativa di successione rispetto al suo originario gruppo agnatizio; la dote è vista, quindi, come un’anticipata successione, specie quando i beni dotali provenivano dal pater che aveva in potestà la donna.

Dunque “si diffuse anche il costume che la donna sui iuris, la quale in forza della conventio in manum perdeva ogni aspettativa di successione in ordine alla famiglia onde si staccava, fosse accompagnata nella nuova famiglia da una certa massa di beni, che da una parte la indennizzasse di quella perduta aspettativa e dall’altro rappresentasse un contributo di lei e dei suoi alle spese della vita coniugale. A questi ben si diede il nome di dote (dos). Nata così nel matrimonio cum manu, la dote passò in quello sine manu, con lo scopo di aiutare il

47 ULP. D. 23, 3, 3: Dotis appellatio non refertur ad ea matrimonia, quae consistere non possunt: neque enim dos sine matrimonio esse potest. Ubicumque igitur matrimonii nomen non est, nec dos est (L’appellativo di dote non si riferisce a quei matrimoni che non possono sussistere: giacché non vi può essere dote, senza matrimonio. Laddove non vi è matrimonio dunque non vi è neppure dote).

48 PROC. D. 23, 3, 67 fa il caso di una ancilla quae nupsit dotisque nomine pecuniam viro tradidit, sive sciat se ancillam esse sive ignoret, non poteri team pecuniam viri faceret…; si tratta di un matrimonio putativo, per cui la somma di denaro data al marito a titolo di dote rimaneva in proprietà di colui cui apparteneva quando fu fatta la traditio.

49 TRYPH. D. 23, 3, 76: … quia, nisi matrimonii oneribus serviat, dos nulla est.

(23)

marito a sostenere i pesi del matrimonio (ad onera matrimonii ferenda)”

50

.

La suddetta tesi è stata condivisa, almeno nelle sue linee fondamentali, da diversi studiosi

51

, ma è stata anche contestata dai sostenitori della natura politica dell’antica hereditas, secondo i quali nell’epoca decemvirale le donne non sarebbero state titolari della capacità successoria, in quanto non sarebbero divenute sui iuris alla morte del pater familias, ma sarebbero rimaste oggetto di una potestas

52

ad analogo titolo dei filii familias.

Esclude che la dote abbia avuto la funzione di anticipata successione, la corrente dottrinale che sostiene, in epoca arcaica, che la dote debba considerarsi una donazione fatta dalla donna o dal suo pater familias al marito o all’avente potestà su di lui, di cui il marito o il suo pater familias diventava proprietario, confondendola nel proprio patrimonio e disponendone con assoluto potere

53

.

50 V. ARANGIO-RUIZ, Istituzioni di diritto romano, Napoli 1947 (1° ed. 1921), p.

453; l’A., che ammette l’esistenza a Roma, in un’epoca molto risalente, della compera della donna a scopo di matrimonio mediante la coemptio, vendita reale all’inizio, fa nascere la dote, conferita alla uxor in manu dal pater familias che l’aveva in potestà come un’anticipata successione, quando la coemptio cessò di essere una vendita reale della donna e si ridusse ad una vendita immaginaria.

51 Secondo A. VON BECHMANN, Das Römische Dotalrecht, I, Erlangen 1863, pp.

41 ss.; 106 ss., questa funzione sarebbe stata una delle diverse funzioni che egli attribuisce alla dote: “La dos era un istituto che doveva compiere i più differenti scopi, e la opinione che ne tiene di mira soltanto uno, la concessione di un contributo al sostegno dei pesi matrimoniali, è assolutamente limitata e infeconda. La dos era il mezzo, che rendeva possibile alla donna un matrimonio convenevole, che apprestava alla mater familias una posizione degna ed uguale nella casa coniugale: essa era, quando derivava dal padre, patrimonium filiae, la parte del patrimonio paterno anticipata alla figliuola: essa era finalmente l’organo per il quale veniva procurata ai figli una parte del patrimonio paterno (da G. PETRONI, La funzione della dote romana, Napoli 1897). Condividono la tesi della funzione di anticipata successione svolta dalla dote ad es. G. BRINI, Matrimonio e divorzio nel diritto romano. Parte prima, Bologna 1886 p. 71; S. SOLAZZI, La restituzione della dote nel diritto romano, Città di Castello 1899, pp. 4 ss.; pp. 122 ss.; F. GIRARD, Manuel élémentaire de droit romain, Paris 1913, p. 1008. Più di recente J. IGLESIAS, Derecho romano. Instituciones de derecho privado, Barcelona 1972, p. 568; M.

TALAMANCA, Istituzioni di diritto romano, Milano 1990, p. 145; M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano, Firenze 1994, p. 233.

52 Poteva essere la potestas dell’erede-tutore, la manus del marito o tutela degli agnati e subordinatamente dei gentili.

53 Sostenitore che la dote arcaica fosse “un dono della fidanzata o del suo pater familias, a nome di lei, in occasione di matrimonio cum manu, al marito o al suo

(24)

Queste sono alcune delle ipotesi sulla natura e sulle funzioni originarie attribuite alla dote che, prima di diventare un istituto giuridico, era nata e si era diffusa come prassi sociale.

I.6. TIPOLOGIE DI DOTE

Gli antichi distinguevano tre tipi di dote, dos profecticia, adventicia e recepticia, in relazione alla persona che la costituiva.

Ulpiano D. 23, 3, 5

Profecticia dos est, quae a patre vel parente profecta est de bonis vel facto eius

Secondo Ulpiano profettizia era denominata la dote costituita dal titolare della patria potestà sulla donna che poteva essere il padre naturale, se sui iuris

54

o un ascendente paterno

55

, e più tardi anche quella costituita dal padre della donna uscita dalla sua potestà.

L’attributo profecticia stava ad indicare che la dote “proveniva” dal patrimonio familiare, de boni eius, o era dovuta all’azione del padre, de facto eius.

Tituli ex corpore Ulpiani 6, 3

Dos aut profecticia dicitur, id est quam pater mulieris dedit, aut adventicia, id est ea quae a quovis alio data est

Quando la dote non era costituita dal pater della donna, ma da qualsiasi altro – espressione indicante un terzo, un extraneus, cioè

pater familias” è M. LAURIA, La dote romana, in Atti delle R. Accademia di Scienze morali e politiche di Napoli 58 (1937), estr. Napoli 1938, p. 19.

54 Giuliano qualifica come profettizia anche la dote costituita dal padre adottivo:

ULP. D. 23, 3, 5, 13: Iulianus libro nono decimo digestorum adoptivum quoque patrem, si ipse dotem dedit, habere eius repetitionem (Giuliano nel diciannovesimo libro del digesto dice che anche il padre adottivo può richiedere la dote, se egli stesso la diede).

55 In dottrina si ritiene in genere che ogni ascendente paterno della donna che l’aveva in potestà poteva costituire la dos profecticia in suo favore.

(25)

qualsiasi persona che non fosse il pater mulieris, quindi la madre, un fratello, un parente della madre, la donna stessa se sui iuris o un estraneo nel vero senso della parola – la dote era detta adventicia, in quanto non proveniva dal patrimonio familiare, ma “veniva dal di fuori”

56

.

Repecticia era detta, infine, la dote quando l’estraneo in senso lato, che l’aveva costituita, ne pattuiva la restituzione a suo favore in caso di scioglimento del matrimonio.

La distinzione dei tre tipi di dote aveva notevole importanza pratica, quando, una volta sciolto il matrimonio, il marito aveva l’obbligo di restituirla.

Non tutti gli studiosi però ritengono classica la distinzione di dos profecticia e dos adventicia, sostenendo che il diritto classico avrebbe distinto solamente fra dos profecticia e dos che non lo era, senza contrapporle una diversa specificazione

57

.

Il diritto giustinianeo accoglie la tripartizione dos profecticia, adventicia, recepticia, ma sembra considerata dos profecticia solo quella costituita dal pater familias della donna; infatti, in due costituzioni di Giustiniano, il padre che non ha in potestà la figlia è annoverato fra gli extranei

58

.

Una costituzione di Alessandro Severo del 225 è accolta in

56 In D. 23, 3, 5, 9, il problema esaminato da Ulpiano è quello di stabilire quando una dos sia profecticia, ossia quando vi sia un proficisci de bonis, e quando no, un problema di notevole rilievo pratico, come sottolinea G.G. ARCHI, Dote e dotazione nel diritto romano, in Studi in memoria di E. Albertario, 2 Milano 1953, p. 259 nt. 1 (=Scritti giuridici 2, p. 110 nt. 65). I testi di Giustiniano che menzionano la dos adventicia sono solo due: Cod. Iust. 6, 20, 4, una costituzione di Gordiano del 239, e Cod. Iust. 5, 13, 1, 1b, una costituzione di Giustiniano del 530.

57 Così E. ALBERTARIO, Dos profecticia e dos adventicia, in Studia et documenta historiae et iuris 1 (1935), pp. 283 ss., secondo cui l’espressione dos adventicia per indicare la dote non costituita dal pater figurerebbe in testi postclassici o alterati.

Contra M. LAURIA, Matrimonio. Dote in diritto romano, Napoli 1952, p. 112; G.

LONGO, Diritto romano. Diritto di famiglia, Roma 1953, p. 198, che ritengono non convincenti gli argomenti adottati dall’Albertario.

58 Cod. Iust. 5, 13, 1, 13c; 5, 12, 31, 3.

(26)

Cod. Iust. 5, 18, 4

Dos a patre profecta, si in matrimonio decesserit mulier filia familias, ad patrem redire debet

Qui si afferma che la dote proveniente dal padre deve ritornare al padre, se la donna, che è in potestà del padre, muore in costanza di matrimonio; il requisito di filia familias della mulier è ritenuto interpolato

59

.

Giustiniano, quindi, considera profecticia solo la dote costituita dal pater familias della donna, restringendo così il carattere di dote profettizia, esteso in età classica anche alla dote costituita dal padre adottivo e dal padre dell’emancipata.

Tale restrizione non deve essere intesa come un’attribuzione alla patria potestà nel diritto giustinianeo di una portata che essa non aveva già più nel diritto classico, ma come avente lo scopo di evitare così il lucro del marito come la riversibilità paterna, e il doppio requisito, patria potestà e ascendenza, riduce questa in limiti angusti

60

.

I.7. LE FORME DI COSTITUZIONE DELLA DOTE

Tre erano anche le forme per la costituzione della dote, come attesta Ulpiano.

Tituli ex corpore Ulpiani 6, 1 Dos aut dicitur aut promittur

Delle tre forme, dotis datio, dotis dictio, dotis promissio, è opinione oggi autorevolmente sostenuta e diffusa che la dotis dictio sia la più antica e sia stata per lungo tempo l’unico modo di costituzione di dote:

un negozio formale, creato ed usato soltanto per la creazione della

59 P. BONFANTE, Corso di diritto romano. 1. Diritto di famiglia, Roma, 1923, rist.

a cura di G. BONFANTE e G. GRIFO’, Milano, 1963, p. 416; G. LONGO, Diritto romano. Diritto di famiglia, cit., p. 199.

60 P. BONFANTE, Corso di diritto romano. 1. Diritto di famiglia, cit., pp. 416 ss.

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dote, che si concretava in una dichiarazione solenne, che il costituente la dote faceva, di destinare a questo scopo determinati beni, che divenivano, quindi, beni dotali.

La dotis dictio si compiva verbis, uno loquente e nulla praecedente interrogatione, era cioè solo il costituente la dote a parlare, per cui si è posto in dottrina il problema se la dotis dictio fosse un negozio unilaterale o bilaterale; prevalente è l’opinione che ne afferma il carattere contrattuale, poiché all’atto dovevano essere presenti sia chi costituiva la dote, sia il futuro creditore - il fidanzato

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, il marito o i rispettivi pater familias - che, se anche non rispondeva all’offerta del costituente, doveva ad ogni modo essere consenziente; a tale proposito si discute se fosse richiesta l’accettazione espressa del fidanzato o del marito o se bastasse il tacito assenso.

In Tituli ex corpore Ulpiani 6, 2 si ha l’elenco tassativo delle persone legittimate a dotem dicere: il padre, o l’ascendente paterno, che aveva in potestà la donna; la donna stessa che si sposava, se sui iuris e con l’auctoritas dei tutori

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; il debitore della donna, se agiva con la sua autorizzazione. Da Gaio risulta che nessun altro potesse dotem dicere.

Gaio, epit. 2, 9, 3

Hae tantum tre personae nulla interrogatione praecedente possunt dictione dotis legitime obligari

63

Passo che corrisponde a Gaio 3, 95a

Alius autem obligari eo modo non potest

Pertanto, non potevano dotem dicere la filia familias; i parenti in linea maschile che non avevano la potestà sulla donna e quindi il padre che

61 La dotis dictio era infatti spesso contemporanea agli sponsali.

62 Prestavano l’auctoritas alla donna sui iuris i tutori legittimi.

63 “Soltanto queste tre persone possono legittimamente essere obbligate dalla dichiarazione di dote senza alcuna interrogazione precedente”.

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