CAPITOLO 2
LA PROSPETTIVA NARRATIVA
2 .1
Significato di narrazione
La narrazione ha assunto sempre più valore all’interno della prospettiva ermeneutico-interpretativa, che si è andata affermando a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, e che ha portato in primo piano il concetto di “significato” nella psicologia cognitiva. In particolare come abbiamo visto, la narrazione è diventata il punto centrale della rinnovata visione della psicologia in Bruner (1986, 1990, 2002), secondo il quale noi usiamo la forma del racconto per spiegare gli eventi della vita quotidiana. La capacità di narrare è considerata da questo autore una dimensione fondamentale del pensiero umano, un modello mentale che permette di organizzare la realtà in una realtà interpretata. Secondo Bruner la narrazione nasce dal bisogno umano di comprendere e spiegare il mondo mediante un processo interpretativo che coinvolge gli uomini nella realtà, nel momento stesso in cui la raccontano. Il racconto si intreccia con la cultura, diventandone parte integrante. In questo modo ha luogo il processo basilare di scambio di significati, che permette agli
uomini di far parte della collettività, condividendo il sistema simbolico culturale. Quando Bruner (2002) afferma che «i racconti sono la moneta corrente di una cultura» (ivi, p. 17) intende dire che la vita collettiva è possibile grazie alla capacità umana di organizzare e comunicare l’esperienza in forma narrativa. All’interno di questa concezione, la narrazione è vista come l’espressione della propria visione della realtà, del proprio punto di vista, delle proprie credenze e delle proprie intenzioni, che diventano interpretabili. La convenzionalizzazione della narrativa converte l’esperienza individuale in un’esperienza collettiva. Narrare racconti è fondamentale per le interazioni sociali. Secondo Bruner la narrativa è un’arte popolare, che ha a che fare con le credenze comuni che riguardano la natura delle persone e del loro mondo.
La capacità narrativa è sorta circa un milione di anni fa, quando gli ominidi ebbero un aumento delle dimensioni cerebrali che fece emergere in loro la mimesi, cioè una forma di intelligenza che li mise in grado di imitare eventi del presente o del passato; ciò con vantaggi per la trasmissione di cultura. Successivamente si sviluppò in loro il linguaggio, che ha tre caratteristiche strutturali: la referenza a distanza, l’arbitrarietà della referenza e la grammatica dei casi. Queste tre caratteristiche permettono di parlare di cose che non sono presenti, senza rievocare le loro forme
o dimensioni, e di contrassegnare il corso dell’azione umana. Le narrazioni primitive servivano per contraddistinguere occasioni speciali; e in queste occasioni le storie venivano raccontate dai narratori di storie. Da questo momento il mondo sociale degli ominidi e il loro Sé è profondamente cambiato.
La narrazione ha la capacità di modellare l’esperienza quotidiana, e la finzione letteraria serve a dare senso alle cose: infatti, con essa collochiamo eventi, oggetti e persone in un mondo narrativo, cioè in un mondo che è sottoposto alle norme vincolanti delle convenzioni letterarie. Nella concezione di Bruner
la narrativa, anche quella di fantasia, dà forma a cose del mondo reale e spesso conferisce loro addirittura un titolo alla realtà. Questo processo di “costruzione della realtà” è così rapido e automatico che spesso non ce ne accorgiamo (ivi, pag. 9).
Bruner afferma che la funzione del racconto è quella di aiutare a trovare i problemi e di fornire modelli del mondo. La condivisione di storie comuni crea una comunità d’interpretazione, e questo è un momento importante per la coesione culturale. Il racconto, proprio in quanto metafora, simboleggia il mondo al di là delle cose particolari alle quali si riferisce direttamente. Il potere della metafora dà al racconto la spinta per modellare il mondo e le menti che provano a dargli i suoi significati. Le lingue naturali
inoltre possiedono la grammatica del senso comune (o grammatica dei casi), che coglie con facilità le distinzioni narrative essenziali. Perciò, la grammatica dei casi facilita la narrativa.
Le storie, dunque, rappresentano lo strumento fondamentale per caratterizzare le azioni umane e per stabilizzare l’esperienza. Il modello narrativo costituisce un principio interpretativo e organizzativo di tutte le manifestazioni della condotta umana, poiché è usato dagli uomini per costruire la loro immagine del mondo, nel quale agiscono con delle intenzioni. Allora, come afferma Bruner (2002)
la narrativa, pur essendo un evidente piacere, è una cosa seria. Nel bene e nel male, è il nostro strumento preferito, forse addirittura obbligato, per parlare delle aspirazioni umane e delle loro vicissitudini, le nostre e quelle degli altri. Le nostre storie non solo raccontano, ma impongono a ciò che sperimentiamo una struttura e una realtà irresistibile; addirittura un atteggiamento filosofico (ivi, pag. 101).
L’interesse verso il collegamento esistente tra la vita e la narrazione continua, come abbiamo visto, nei lavori di Sarbin e Gergen.
Sarbin (1986) afferma che la narrativa è un principio organizzativo che fornisce un significato agli eventi della vita e
mette insieme i fatti mondani con le creazioni fantastiche; nella narrativa il tempo e lo spazio sono incorporati. La narrativa ammette l’inclusione delle ragioni degli attori per spiegare i loro atti, così come ammette le cause degli avvenimenti. Inoltre, secondo Sarbin, si ricorre alla narrativa poiché gli esseri umani hanno l’esigenza di strutturare il flusso dell’esperienza. Il principio narrativo facilita la sopravvivenza in un mondo di significati: le persone tentano di dare senso al mondo con abilità linguistiche, organizzando gli eventi in una formulazione immaginaria più o meno coerente. Dunque, gli esseri umani usano le narrazioni per dare significato a fatti senza significato. Sarbin, inoltre, parla dell’universalità dell’uso delle storie, e si riferisce in particolare a speciali tipi di storie, i miti, che cercano di rispondere a problemi cosmologici ricorrenti.
Secondo Gergen e Gergen (1986) l’ingrediente più importante della narrazione è la sua capacità di strutturare gli eventi in modo che possano mostrare collegamento e coerenza, e un senso di movimento o direzione attraverso il tempo. Per riuscire a essere una narrativa il resoconto deve per prima cosa stabilire uno scopo o una meta. Con la creazione di uno scopo, una narrativa di successo deve poi selezionare e ordinare gli eventi in modo che lo scopo sia rappresentato più o meno probabile. Inoltre, secondo i due studiosi, uno degli aspetti più fenomenologicamente salienti
della forma narrativa è la sua capacità di creare sentimenti del dramma o emozioni; questo aspetto si chiama “impegno drammatico” (dramatic engagement).
2.2 Il discorso narrativo
Bruner (1986) ha studiato gli atti linguistici che appartengono al discorso narrativo, e a tale proposito egli si è riferito alla teoria di Wolfgang Iser (1978) secondo il quale il lettore recepisce la narrativa componendola. Nella teoria di Iser esistono due aspetti strutturali del testo:
Aspetto verbale: ha la funzione di guidare la reazione del lettore, per non renderla arbitraria.
Aspetto affettivo: è un aspetto che è espresso dal linguaggio testuale.
Secondo Iser i testi narrativi sono indeterminati per natura, per cui non forniscono dei significati a priori, ma solo loro rappresentazioni. Fornendo solo la “rappresentazione del significato”, i testi coinvolgono il lettore a partecipare, insieme a essi, alla ricerca dei possibili significati. Come spiega Bruner (1986) a proposito della teoria di Iser,
al centro della narrazione letteraria, intesa come atto linguistico, sta proprio questo: un racconto orale o un testo che mira ad innescare e a guidare una ricerca di significati all’interno di uno spettro di significati possibili (ivi, pag. 32).
Allora, il discorso narrativo dovrà avere la capacità di stimolare l’immaginazione nel lettore, e dovrà permettergli di scrivere il proprio “testo virtuale”.
Secondo Bruner, per ottenere il processo di coinvolgimento di cui parla Iser, il discorso narrativo deve avere tre caratteristiche fondamentali:
PRESENZA DI SPUNTI ALLA PRESUPPOSIZIONE: rappresenta la necessità, all’interno del testo, dell’esistenza di significati impliciti che conducano alla costruzione di significati. Il linguaggio offre spunti alle presupposizioni che lasciano intendere più di quello che dicono, e consentono all’interprete di andare al di là del testo.
SOGGETTIVIZZAZIONE: la rappresentazione della realtà deve avvenire attraverso il filtro della coscienza dei personaggi. Questa caratteristica richiede che si debba verificare una sintonizzazione affettiva da parte del lettore nei confronti dei personaggi.
PLURALITÀ DI PROSPETTIVE: c’è la necessità di assumere una visione più ampia della realtà, di vedere il mondo da una molteplicità di prospettive. Questa caratteristica porta a una riflessione sul mondo che è in grado di ‘produrre verità’.
Queste tre caratteristiche insieme costituiscono la “coniugazione della realtà al congiuntivo”, che secondo Bruner significa entrare nel regno della possibilità umana:
il modo congiuntivo, perciò, indica che abbiamo a che fare con delle possibilità umane, anziché con stabili certezze. Un atto linguistico narrativo, sia esso “concluso” o “in corso”, produce un mondo al congiuntivo (ivi, pag. 34).
Le trasformazioni congiuntivizzanti proprie del linguaggio della narrazione mettono in risalto gli stati soggettivi e intenzionali, e le possibilità alternative. Perciò, la letteratura non è una descrizione fedele della realtà, ma, secondo Bruner (2002) «esplora le situazioni umane attraverso il prisma dell’immaginazione» (ivi, p. 11), aprendo a una molteplicità di prospettive sull’interpretazione del mondo. Dunque, secondo Bruner (1990) la narrazione «rappresenta una perenne garanzia, per l’umanità, di poter “andare oltre” rispetto alle versioni usuali della realtà» (ivi, p. 64), e «spesso è proprio la letteratura a fornire le linee strutturali secondo cui è organizzata la “vita reale”» (ivi, p. 62).
La caratteristica della “congiuntività” è affiancata a quella della “relatività”, data sia dal fatto che ogni persona possiede varie
prospettive e attribuisce diversi significati a una narrazione, sia dal fatto che esistono vari contesti di incontro tra le persone. Il concetto di coniugazione della realtà al congiuntivo in Bruner unisce tematiche sia psicologiche che linguistiche: per quanto riguarda le tematiche psicologiche c’è il riferimento alla fenomenologia (dato che la realtà passa nella narrazione attraverso la coscienza), mentre per quanto concerne le tematiche linguistiche, c’è il riferimento alla linguistica di Oxford (in particolare all’efficacia pragmatica dell’espressione linguistica che esercita potere nella comunicazione interpersonale).
Secondo Bruner ci sono vari espedienti con cui il linguaggio traduce il testo al congiuntivo. Secondo questi espedienti, le proposizioni assertive semplici possono essere congiuntivizzate (cioè rese descrittive di un processo psicologico contingente) attraverso le sei trasformazioni semplici di Todorov (che ricordiamo essere: modalità, intenzione, risultato, modo, aspetto, status), mentre le trasformazioni complesse collocano l’azione sullo sfondo della coscienza, aggiungendovi un’attività mentale: apparenza, conoscenza, supposizione, descrizione, soggettivizzazione, atteggiamento.
Inoltre, ogni storia deve rispettare delle semplici regole: deve essere un episodio completo, possedere una struttura temporale, deve essere degno di essere ricordato, e l’ordine che la storia dà al
mondo deve avere un carattere concreto, provvisorio e aperto a revisioni.
In ultima analisi, per Bruner (2002) il principale strumento del discorso narrativo è il linguaggio verbale, che esplora le situazioni umane attraverso l’immaginazione, trasportandoci nel regno del possibile. Infatti, il compito del discorso narrativo è quello di ridare stranezza al familiare, congiuntivizzare la realtà: cioè, pur partendo dal familiare, il discorso narrativo ha lo scopo di superarlo per andare nel mondo della possibilità. La narrativa, in tutte le sue forme, è una dialettica del consolidato e del possibile, tra ciò che si attende e ciò che è stato.
Alcuni studiosi di teoria letteraria, tra cui Propp e Chatman, sostengono invece una posizione diversa da quella di Bruner, avanzando l’ipotesi che il racconto abbia una struttura rigidamente vincolante.
Come abbiamo visto, Propp (1928) ha considerato il testo narrativo come un oggetto avente una struttura costante, scomponibile e ricomponibile. Egli ha individuato nelle fiabe degli “invarianti funzionali”, cioè degli elementi che rimangono costanti, che si succedono secondo un modello sempre identico. Come afferma Propp: «per funzione intendiamo l’operato di un personaggio determinato dal punto di vista del suo significato per lo svolgimento della vicenda» (ivi, pag. 27). Dunque, nelle fiabe
popolari ciò che definisce il personaggio è il contenuto del racconto, e il personaggio non occupa il posto principale, essendo solo una “funzione” di un rigido intreccio. Propp ha individuato in tutto sette funzioni principali dei personaggi, e trentuno funzioni degli eventi. Accanto a queste funzioni vengono, inoltre, evidenziate altre quattro categorie fondamentali per la comprensione del funzionamento della fiaba, che sono gli elementi di raccordo, le motivazioni, le forme di apparizione e gli elementi accessori.
Lo studioso di teoria letteraria Chatman (1980-81) condivide con i narratologi e gli strutturalisti la concezione che vede la narrazione come una struttura profonda indipendente dal suo medium. La narrazione è un tipo di organizzazione del testo, uno schema che ha bisogno di essere attualizzato in forme diverse (come la forma orale o scritta ecc); dunque una stessa storia, secondo gli strutturalisti, può esistere in molti modi diversi. In altre parole, le narrazioni sono realizzazioni particolari e particolarmente riuscite di una struttura. Una proprietà saliente della narrazione, inoltre, è la strutturazione dualistica del tempo: in tutte le narrazioni si combina una “storia” e un “discorso”, che sono due aspetti indipendenti. La storia è la sequenza temporale degli eventi (il contenuto), mentre il discorso è il tempo della presentazione degli eventi (il significato del contenuto). Dunque,
secondo questi teorici, le narrazioni sono concepite come strutture decontestualizzate.
Barbara Herrnstein-Smith (1980-81) si oppone agli strutturalisti e ai narratologi, e osserva che il loro modello dualistico di narrazione rivela molte falle logiche e limitazioni metodologiche. La teorica allora propone una concezione alternativa di discorso narrativo che permette di costruire un modello di narrazione più ricco e coerente, che ci permette di esplorare meglio le sue connessioni con il comportamento umano e la cultura. Se nel modello dualistico dei narratologi la narrazione è vista come una “struttura”, nel modello di Barbara Herrnstein-Smith essa è vista come un “atto”. La studiosa infatti parla di narrazione come di «atti verbali che consistono nel fatto che qualcuno parla con qualcun altro a proposito di qualcosa che è accaduto» (ivi, p. 228). Questa concezione allora rende esplicita la relazione esistente tra il discorso narrativo e il comportamento sociale in generale. Concepire la narrazione come parte di transazioni sociali, ci incoraggia a esplorare suoi aspetti che altrimenti rimarrebbero oscuri nella concezione della narrazione come struttura dei narratologi.
Anche Bruner (1986) discorda dalle posizioni degli strutturalisti, e afferma che:
Nello stabilire quali debbano essere le caratteristiche di un testo perché lo si possa considerare una narrazione […] è opportuno ricorrere a schemi che siano il meno possibile rigidi e costringenti. E quello che mi sembra più convincente e maneggevole resta quello da cui siamo partiti: la narrazione si occupa delle vicissitudini delle intenzioni umane (ivi, pagg. 22-23).
Tuttavia, nonostante la discordanza, soffermandosi sulle caratteristiche del racconto, l’autore riprende la distinzione, data dai formalisti, tra due aspetti della narrazione fortemente intrecciati fra loro:
Fabula1: è il contenuto di una narrazione. Come afferma Bruner
la fabula rappresenta «la materia prima del racconto, gli eventi da travasare nel racconto stesso» (ivi, pag. 25). La fabula è l’insieme delle situazioni e degli eventi narrati nella loro successione logico-cronologica e rappresenta l’unione e l’interazione di tre elementi di base: la situazione, i personaggi e la consapevolezza della situazione che li caratterizza. La fabula è collocata secondo un livello paradigmatico2 e verticale.
1
Nella definizione data nel Dizionario di narratologia di G. Prince (1987) è l’ «insieme delle situazioni e degli eventi narrati nella loro successione cronologica; nella terminologia dei formalisti russi, materiale fondamentale della STORIA» (ivi, p. 48).
2
L’asse paradigmatico del linguaggio è verticale, è trasversale alla catena del discorso e fa riferimento ai membri del paradigma che potrebbero essere usati in un determinato punto della catena. Invece, l’asse
Sjuzet3: è l’intreccio di una narrazione. Secondo Bruner il sjuzet
rappresenta «la storia vera e propria, costruita legando insieme gli eventi. L’intreccio rappresenta il modo e l’ordine in cui il lettore diviene consapevole di ciò che è accaduto» (Ibidem). Il sjuzet è l’insieme delle situazioni e degli eventi narrati nell’ordine in cui vengono presentati al destinatario; dunque, gli elementi nel sjuzet sono disposti secondo criteri di interesse e leggibilità. L’intreccio è costituito dagli aspetti contestuali e comunicativi della narrazione, e in esso si manifesta una prospettiva relazionale, in cui il lettore interpreta il testo e contribuisce alla sua costruzione. Il sjuzet è collocato secondo un livello sintagmatico e orizzontale.
L’oscillazione tra fabula e sjuzet si trova nel fatto che nella lettura di una storia si possono attuare due approcci diversi, per cui la storia può essere intesa come fabula o come sjuzet. Questi due approcci, comunque, dovrebbero coesistere sempre.
Brooks (1984) usa il termine plot (trama) poiché ha la capacità di
tagliare trasversalmente la distinzione fabula/intreccio, nel senso che parlando di trama teniamo conto sia delle vicende del
3
Da Prince (1987) «nella terminologia dei formalisti russi, l’insieme delle situazioni e degli eventi narrati nell’ordine in cui vengono presentati al destinatario (in contrapposizione a FABULA); la disposizione degli
racconto sia dell’ordine in cui vengono presentate. Anzi, la trama potrebbe essere vista come una forma di attività interpretativa sollecitata e messa in moto dalla distinzione stessa tra intreccio e fabula, e dal modo in cui li contrapponiamo o li utilizziamo uno contro l’altro (ivi, p. 14).
Le trame (plot) servono per ordinare i significati e per articolare l’esperienza. La trama è l’obiettivo di ogni progetto letterario, e secondo Brooks «è quel che dà forma al racconto e gli conferisce una certa spinta propulsiva, dirigendolo verso un possibile significato» (ivi, pag. VII).
Brooks parla del modo in cui vengono strutturate le trame, della dinamica della narrativa, e di ciò che ci spinge a cercare un significato in una trama. La trama, secondo l’autore, è la base costante su cui si organizza il racconto e lo rende comprensibile, finito in se stesso e dotato di intenzionalità; la trama è la forza dinamica che plasma il discorso narrativo. Le trame ordinano, sono intenzionali, tendono verso uno scopo e sono mosse da spinte propulsive. Il concetto di trama sviluppato da Brooks è un’operazione strutturale formata dai significati sviluppati attraverso una successione cronologica. Come afferma Brooks «il plot è la logica e la dinamica della narrativa, e la narrativa stessa è una forma di comprensione e di chiarificazione» (ivi, pag. 11). Inoltre, le trame assumono un grande valore poiché rendono le
storie in grado di essere un oggetto di scambio e di transazione. In ultima analisi, la trama è il risultato sia del nostro rifiuto verso l’insignificante scorrere del tempo, sia del nostro bisogno di attribuire un senso alla vita e al mondo.
Secondo Brooks, però, alla base di tutto c’è il desiderio, che rappresenta il motore del racconto, e la narrazione è la forza propulsiva del desiderio che anima la trama:
i racconti, del resto, parlano di desiderio […] e al tempo stesso lo suscitano e vi ricorrono come a una forza propulsiva e dinamica di produzione di significati (ivi, pag. 41).
Anche Amsterdam e Bruner (2000) si soffermano sul concetto di trama, e affermano che all’interno di una storia deve essere presente una trama avente un inizio, un punto di mezzo e una fine. Più specificamente, la trama deve presentare uno stato iniziale fondato su eventi canonici che poi viene distrutto da un problema. Poi, devono essere presenti dei tentativi di risolvere il problema da parte di personaggi, seguiti da un ristabilimento o creazione di un nuovo equilibrio. Infine, deve essere presente la conclusione della storia che, attraverso una “coda”, porta «l’“allora” e il “là” del racconto che è stato raccontato nel “qui” e “ora” del raccontare» (ivi, pag. 114).
2.3 Due tipi di pensiero
La svolta ermeneutica compiuta da Bruner nel 1986 con l’opera La mente a più dimensioni, lo ha portato ad ipotizzare una concezione bilaterale della mente umana. Infatti, lo studioso concepisce l’esistenza di due tipi di pensiero: il pensiero paradigmatico o logico-scientifico, e il pensiero sintagmatico o narrativo, e li definisce «due tipi naturali di pensiero» (ivi, pag. 3). Questi due tipi di funzionamento cognitivo rappresentano due diversi modi di relazionarsi al mondo, di ordinare e costruire la realtà, due diverse modalità di pensare. Come dice Bruner,
questi due modi di pensare, pur essendo complementari, sono irriducibili l’uno all’altro. Qualsiasi tentativo di ricondurli l’uno all’altro o di ignorare l’uno a vantaggio dell’altro produce inevitabilmente l’effetto di farci perdere di vista la ricchezza e la varietà del pensiero. Ognuno di questi tipi di pensiero, inoltre, possiede principi operativi propri e propri criteri di validità. Altrettanto radicalmente diverse sono le loro procedure di verifica (ivi, pag. 15).
Secondo Bruner, si tratta, in realtà, di un vero e proprio dualismo.
Come abbiamo visto, secondo la psicologia culturale di Bruner (1986, 1990, 2002) il comportamento delle persone non si può spiegare soltanto in base a un’analisi di tipo logico-paradigmatico, ma va spiegato anche all’interno di una visione ermeneutica, che permetta di dare senso agli eventi del mondo e agli atteggiamenti propri e altrui, attraverso il ricorso a stati intenzionali, desideri, credenze e sentimenti.
2.3.1 PENSIERO PARADIGMATICO
Secondo la definizione che fornisce Bruner (1986)
il pensiero paradigmatico o logico-scientifico persegue l’ideale di un sistema descrittivo ed esplicativo formale e matematico. Esso ricorre alla categorizzazione o concettualizzazione, nonché alle operazioni mediante le quali le categorie si costituiscono, vengono elevate a simboli, idealizzate e poste in relazione tra loro in modo da costituire un sistema.[…] Il pensiero logico-scientifico si occupa delle cause di ordine generale e del modo per individuarle, e si serve di procedure atte ad assicurare la verificabilità referenziale e a saggiare la verità empirica. […] Il pensiero paradigmatico è guidato da ipotesi basate su principi (ivi, pag. 17).
Dunque, il pensiero paradigmatico è tipico del ragionamento scientifico, e usa processi logici e categoriali, procedure formali e argomentazioni dimostrative. Esso cerca le condizioni universali di verità: un’argomentazione ben costruita deve essere vera e verificabile. Secondo Bruner il pensiero paradigmatico della scienza si manifesta nella capacità di «cogliere possibili relazioni formali prima ancora di saperle dimostrare formalmente» (ivi, pag. 18). Inoltre, esso usa un tipo di linguaggio regolato dai principi di non contraddizione e di coerenza. Questo tipo di pensiero opera una costruzione scientifica della realtà. Il pensiero paradigmatico è indicativo, ed è diretto alla verifica delle proposizioni su come sono le cose. Esso segue un orientamento verticale: il soggetto, cioè, mette in relazione l’individuale con il generale seguendo un processo verticale di subordinazione. Esso è nomotetico e paradigmatico, cioè ricerca e costruisce leggi; concerne proposizioni libere dal contesto, e usa criteri di verificabilità referenziali ed empirici, che si basano sulla falsificabilità per stabilire una corretta e disambiguata spiegazione dei fenomeni. Inoltre, esso è estensionale, poiché si fonda su proposizioni generali che hanno un’ampia estensione e applicabilità. Un’altra caratteristica del pensiero paradigmatico è il procedimento di
analisi del testo che va dall’ “alto verso il basso” (usato dagli psicologi della letteratura).
2.3.2 PENSIERO NARRATIVO
Bruner (1986) afferma che
il pensiero narrativo si occupa delle intenzioni e delle azioni proprie dell’uomo o a lui affini, nonché delle vicissitudini e dei risultati che ne contrassegnano il corso. Il suo intento è quello di calare i propri prodigi atemporali entro le particolarità dell’esperienza e di situare l’esperienza nel tempo e nello spazio (ivi, pag. 18).
Questa modalità di pensiero è tipica del ragionamento quotidiano, ed è applicata principalmente al mondo sociale. Oggetto del pensiero narrativo sono i fatti e le vicissitudini umane, e in particolare l’azione umana intenzionale. Secondo Bruner l’intenzionalità è irriducibile e primitiva, ed è un sistema categoriale con cui viene organizzata l’esperienza. Il pensiero narrativo interpreta i fatti umani mettendoli in relazione e costruendo storie sensibili al contesto, che si basano
sull’intenzionalità e sulla soggettività dei protagonisti. Dunque, le storie che questo tipo di pensiero crea rappresentano un modello interpretativo delle azioni umane. Inoltre, il linguaggio del racconto è ambiguo e indeterminato, e perciò si limita a innescare delle rappresentazioni. Da questa caratteristica si vede allora che il pensiero narrativo è coniugato al congiuntivo, cioè è diretto a sapere come le cose potrebbero essere o essere state. Infatti, il pensiero narrativo ha il compito di svolgere la creazione narrativa della realtà, con il fine di capire la realtà simbolica. La creazione narrativa della realtà non è sottoposta all’obbligo di dimostrazione formale, ma risponde al criterio della verosimiglianza.
Il pensiero narrativo è sintagmatico, cioè ha un asse del linguaggio orizzontale che concerne le varie possibilità sintattiche che servono per unire fra loro le parole o le frasi. Esso è intensionale, nel senso che produce una narrazione raccogliendo tutte le informazioni disponibili sul soggetto, al fine di ricomporre tutta la ricchezza del singolo caso. In questo senso, il pensiero narrativo segue un orientamento orizzontale ed è ideografico, cioè ricerca aspetti relativi al caso singolo.
Proprio del pensiero narrativo è il procedimento di analisi del testo (usato dagli psicologi della letteratura) che va dal basso verso l’alto.
Inoltre, il pensiero narrativo si muove contemporaneamente su quello che Bruner (1986) e Feldman (1990) hanno chiamato “doppio scenario”:
Lo scenario dell’azione: è formato dagli elementi che
compongono l’azione stessa. Secondo Propp (1928) lo scenario dell’azione è una sequenza di eventi modellata temporalmente raccontata in terza persona, con minime informazioni riguardanti gli stati psicologici dei protagonisti. In tale scenario non c’è alcun riferimento a come le cose sono percepite, sentite, intese o immaginate. Dunque, nello scenario dell’azione le cose accadono o non accadono, e non c’è riferimento a come esse sono percepite dal soggetto.
lo scenario della coscienza: considera i sentimenti e i
pensieri dei personaggi e del narratore. Lo scenario della coscienza è concentrato sulla descrizione di come il mondo è percepito o sentito dai vari personaggi, ognuno dalla loro prospettiva. Nelle storie caratterizzate dallo scenario della coscienza il linguaggio è marcato da un forte uso di verbi mentali. Infatti, l’obiettivo di queste storie è di esplorare la natura delle prospettive mentali dei personaggi, invece di riportare fedelmente gli eventi. Addirittura, alcune forme di
questo tipo di narrazione sono completamente dedicate alla rappresentazione dello scenario della coscienza, con l’assenza dello scenario dell’azione. Le narrazioni che hanno uno scenario di coscienza, a causa del fatto che hanno a che fare con eventi mentali, richiedono dei processi di interpretazione che sanno trattare con l’intenzionalità e le sue vicissitudini. Senza dubbio i processi cognitivi che usiamo per interpretare l’intenzionalità umana nelle storie è correlata ai processi che usiamo per comprendere l’intenzionalità umana nella vita, anche se queste due procedure per l’interpretazione dell’intenzionalità differiscono nella nozione di significato.
Molta della moderna narrativa usa entrambi gli scenari, mettendoli in un’ambigua relazione; il lettore ha il compito di interpretare entrambi i lati di questo doppio scenario.
Il doppio scenario è retto dai cinque principi della drammaticità – azione, personaggi, scopo, ambiente, mezzi – teorizzati da Burke (1945). La logica del pensiero narrativo è meno formalizzata, ma più adatta a trattare azioni umane di quella del pensiero paradigmatico, grazie sia all’esistenza di soggetti svincolati da schemi di risposta, sia alla presenza di contesti sociali non definibili. Come ricorda Paolicchi (1994) all’interno di questo tipo di logica i soggetti
cercano attivamente i significati, li producono in relazione alla loro esigenza di dare un senso al mondo che li circonda e che ha dimensioni affettive estetiche, etiche, politiche, religiose, semplicemente non traducibili e non veicolabili attraverso il pensiero paradigmatico, computazionale (ivi, p. 110).
Inoltre, una peculiarità del pensiero narrativo è quella di essere dialettico, cioè rivolto ai passaggi e ai cambiamenti nel modo di comprendere il mondo: esso tratta le opposizioni come continuamente soggette a nuove possibili negazioni e opposizioni.
Il pensiero narrativo e quello paradigmatico sono entrambi presenti nell’individuo e funzionano insieme interagendo tra loro, anche se possono essere diversamente attivati a seconda del contesto. Entrambi i pensieri possono usare gli strumenti propri del tipo di pensiero opposto, senza comunque trasformarsi in esso. Come spiega Bruner (1986), queste due modalità cognitive sono distinte e irriducibili l’una all’altra, ma complementari:
scienza e umanesimo […] possono avere un’origine comune, ma nell’elaborare la propria costruzione del mondo divergono e si specializzano in virtù della diversità degli scopi che perseguono (ivi, pag. 63).
Bruner infatti afferma che molte teorie scientifiche prendono forma da brevi narrazioni o da metafore: qui avviene un processo di conversione che elimina dalle narrazioni i toni di drammaticità, trasformandole in ipotesi verificabili, che sono le vere ipotesi scientifiche. Il pensiero paradigmatico alla base della scienza è orientato verso l’esterno, verso la costruzione di un mondo immutabile ed estraneo alle vicissitudini umane, mentre il pensiero narrativo alla base dell’umanesimo è orientato verso l’interno, poiché si occupa della comprensione del mondo che si trasforma sotto l’influsso dell’atteggiamento dell’uomo, e il suo obiettivo è la creazione di ipotesi verosimili, cioè «centrate su un’esperienza possibile» (ivi, pag. 66).
Come afferma Bruner (1996) «il processo del fare scienza è narrativo. Consiste nel produrre ipotesi sulla natura, nel verificarle, correggerle e rimettere ordine nelle idee» (ivi, pag. 140).
2.4 Caratteristiche della narrazione
Abbiamo visto che Bruner attribuisce al pensiero narrativo un ruolo fondamentale, dato dalla sua funzione di attribuzione e costruzione di un ordine significativo nel mondo e nelle esperienze. Infatti, Bruner (1990) afferma che noi organizziamo la nostra esperienza e i ricordi principalmente sotto forma di narrazione, che è una forma convenzionale trasmessa culturalmente. La tendenza a organizzare in modo narrativo il mondo sta alla base di quel tipo di adattamento umano che consiste nel creare un universo di significati che vengono scambiati; come ricorda Paolicchi (1994)
il pensiero narrativo struttura infatti i rapporti umani, sostiene le scelte e giustifica le azioni a livello individuale e collettivo, e consente di fornire alle nuove generazioni un’enorme quantità di conoscenze accumulate e pronte per l’uso non meno necessarie delle conoscenze relative agli strumenti materiali e alle tecniche del loro impiego (ivi, p. 109).
Bruner ha cercato di delineare le principali caratteristiche della narrazione che costituiscono i modi in cui i racconti danno forma alla realtà. Queste caratteristiche hanno subito
un’evoluzione nel corso della produzione letteraria dell’autore; la diversità riguarda sia il numero, sia la precisa definizione.
Nel 1986 Bruner aveva elencato tre caratteristiche dei testi narrativi:
1. Una narrazione può essere reale o immaginaria 2. Appartenenza a un genere
3. Coniugazione della realtà al congiuntivo
Nel 1990 Bruner modifica queste caratteristiche e ne aggiunge altre:
1. Sequenzialità
2. La caratteristica secondo cui la narrazione può essere reale o immaginaria diventa “indifferenza ai fatti” o “opacità referenziale”
3. Sensibilità verso il canonico o ciò che viola la canonicità nelle interazioni umane
4. Intenzionalità
5. Composizione pentadica e incertezza 6. Doppio scenario
7. La caratteristica della coniugazione della realtà al congiuntivo diventa “congiuntivizzazione”, e viene affiancata alle
caratteristiche della negoziabilità e della prospettiva della voce narrante
8. Strutturazione dell’esperienza
9. Particolarità e concretezza, sensibilità al contesto 10.Appartenenza a un genere
Si può notare che già in quest’opera del 1990 sono state sviluppate, seppur in forma embrionale, le idee fondamentali circa tali caratteristiche, anche se è presente una certa confusione tra forme narrative del pensiero e modo narrativo del discorso. In queste proprietà Bruner conferisce particolare risalto al ruolo degli eventi e degli stati d’animo del soggetto che interpreta la narrazione.
Nel saggio del 1991 le caratteristiche della narrazione vengono modificate ancora. Se si cerca una corrispondenza con le precedenti si vede che alcune caratteristiche scompaiono, mentre altre vengono aggiunte o ridefinite.
1. La sequenzialità diventa “diacronicità narrativa”
2. L’opacità referenziale viene rinominata “referenzialità” 3. La sensibilità verso il canonico o ciò che viola la
4. L’intenzionalità diventa “necessario riferimento a stati intenzionali”
5. La composizione pentadica e incertezza vengono accorpate nella “normatività”
6. Il doppio scenario diventa “componibilità ermeneutica” 7. Sensibilità al contesto e negoziabilità vengono unite
insieme in un unico punto
8. La strutturazione dell’esperienza viene rinominata “accumulazione narrativa”
9. Particolarità e concretezza diviene “particolarità”
10.La caratteristica dell’appartenenza a un genere rimane la stessa
Da queste caratteristiche del 1991 è scomparso il carattere, presente nel 1990, della prospettiva della voce narrante (forse assorbito da altre categorie); così accade anche alla proprietà della congiuntivizzazione, forse contenuta nella caratteristica dell’incertezza. Inoltre, risultano problematiche anche le caratteristiche della diacronicità, dell’intenzionalità, della referenzialità in riferimento al problema della verità storica e narrativa. Circa queste proprietà sembra che Bruner rischi di confondere fra prospettiva del soggetto e prospettiva della
narrazione, e tra ordine lineare degli eventi e sequenzialità della narrazione.
Nell’opera del 1996 Bruner ridefinisce ancora le proprietà della narrazione:
1. La diacronicità viene modificata in “struttura di tempo significativo”
2. La particolarità viene accorpata con l’appartenenza a un genere, e insieme diventano “particolarità generica” 3. Il necessario riferimento a stati intenzionali diventa “le
azioni hanno delle ragioni”
4. La referenzialità diviene “ambiguità di referenza”
5. La componibilità ermeneutica diventa “composizione ermeneutica”
6. La canonicità e violazione è modificata in “canonicità implicita”
7. La normatività viene denominata “centralità della crisi” 8. La caratteristica unica della sensibilità al contesto e
negoziabilità diviene “negoziabilità inerente”
9. L’accumulazione narrativa si trasforma in “capacità di espansione storica della narrativa”
Nel processo di descrizione di queste caratteristiche Bruner ha evidenziato lo stretto legame che c’è tra narrazione come
“pensiero” e narrazione come “discorso”: «ciascuno dà forma all’altro, proprio come il pensiero diventa inestricabile dal linguaggio che lo esprime e che in seguito lo plasma» (ivi, pag. 147). In ultima analisi, le dieci fondamentali proprietà della narrazione4 risultano essere:
1. DIACRONICITA’ O SEQUENZIALITA’: secondo Bruner (1990) «una narrazione è composta da una particolare sequenza di eventi, stati mentali, avvenimenti che coinvolgono gli esseri umani come personaggi o come attori» (ivi, p. 55). Il senso di queste componenti emerge dalla loro ubicazione all’interno della trama. Dunque, per comprendere una narrazione si deve capire la trama in relazione con le sue componenti, e si deve estrarre la trama dalla successione degli eventi. Inoltre, «la sequenza delle frasi […] è ciò che determina la configurazione o trama generale. Questa particolare sequenzialità è indispensabile perché un racconto sia significativo e perché la mente si organizzi in modo da coglierne il significato» (ibidem).
Dunque, come dice Bruner (1991) «il racconto è un’esposizione di eventi che ricorrono nel tempo e ha per sua natura una durata» (ivi, p. 22).
2. PARTICOLARITA’ E CONCRETEZZA: secondo Bruner «i racconti assumono come propri riferimenti estensivi degli avvenimenti particolari» (ibidem), ossia, la narrazione si occupa di questioni specifiche riguardanti le persone; i racconti trattano di avvenimenti che riguardano le problematiche umane, e le persone sono i soggetti delle narrazioni.
3. INTENZIONALITA’: nella narrazione ci deve essere un necessario riferimento agli stati intenzionali delle persone. Infatti, Bruner (1996) dice che
quello che fanno le persone nelle narrazioni non avviene mai per caso, né è strettamente determinato da leggi di causa ed effetto; è motivato da convinzioni, desideri, teorie, valori o da altri “stati intenzionali”. […] La narrativa va alla ricerca degli stati intenzionali che stanno “dietro” alle azioni: la narrativa cerca ragioni, non cause (ivi, pagg. 151- 152).
Inoltre, secondo Bruner (1991) «gli stati intenzionali non determinano mai completamente il corso degli eventi […] per cui i resoconti narrativi non possono darci spiegazioni causali. Quello che essi ci danno è, invece, un fondamento per interpretare» (ivi, p. 23).
4. COMPONIBILITA’ ERMENEUTICA: i fatti che vengono raccontati nelle narrazioni devono essere messi in rapporto al contesto di cui fanno parte. Un testo narrativo è realizzato quando parti e tutto vivono insieme; dunque nel racconto ci deve essere un’interdipendenza parti-tutto, che secondo Bruner costituisce «la proprietà definitoria di quello che viene chiamato “circolo ermeneutico”» (ivi, p. 24). Il significato di una narrazione è costruito tramite personali processi interpretativi, cioè il significato sta nel punto di vista di chi interpreta, che è influenzato dal sistema simbolico-culturale di appartenenza. Come afferma Bruner (1996),
siccome i significati delle parti di una storia sono “funzioni” della storia nel suo complesso, ma la storia nel suo complesso dipende per poter prendere forma dall’esistenza di appropriate parti costitutive, l’interpretazione della storia sembra inevitabilmente ermeneutica. Le parti di una storia e la storia nel suo insieme devono per così dire poter convivere. […] L’obiettivo dell’analisi ermeneutica è di fornire una spiegazione convincente e non contraddittoria del significato di una storia, una lettura coerente con i particolari che la costituiscono (ivi, pag. 152).
Dunque, la comprensione di una storia è ermeneutica, poiché ogni narrazione non è soggetta a un’unica interpretazione, ma a molte, e il suo significato varia in base al punto di vista di colui che attribuisce senso al racconto.
5. OPACITA’ REFERENZIALE (O REFERENZIALITA’): Secondo Bruner (1991) «nella narrativa […] il realismo va inteso come una convenzione letteraria più che come questione di corretta referenza» (ivi, p. 29). Questo concetto significa che nella narrazione il valore della realtà esterna e delle persone specifiche sono sospesi; ciò che viene valutato è la coerenza della storia che determina la sua verosimiglianza, e non il suo rispecchiare la realtà. Come dice Bruner (1996),
la narrativa crea o costruisce la sua referenza, la “realtà” che addita, rendendola ambigua. […] Le interpretazioni narrative elaborano la “referenza” trasformandola in “senso” al punto che la prima diventa solo un modo attraverso cui quest’ultimo si esprime (ivi, pag. 155).
6. APPARTENENZA A UN GENERE: sebbene sia particolare e concreta, ogni narrazione può appartenere a un genere letterario specifico. Secondo Bruner (1991) «i generi sono bensì modi
approssimativi ma convenzionali di rappresentare le vicende umane, ma sono anche modi di raccontare che ci predispongono a usare la nostra mente e la nostra sensibilità in un senso particolare» (ivi, p. 31). Dunque, i generi fanno da guida per l’uso della mente e forniscono gli schemi per orientarsi nel “circolo ermeneutico”: come dice Bruner (1996) i generi sono modi «di dare senso a un testo. […] Qualsiasi storia, qualsiasi realtà narrativa può essere “letta” in vari modi, può essere trasportata in qualsiasi genere» (ivi, pag. 150). Il genere è un modo convenzionale di rappresentare le vicende umane ed è un modo di raccontare che plasma il nostro modo di pensare; dunque il genere ci fornisce una guida per usare la mente, poiché l’uso della mente è guidato dall’uso del linguaggio. Inoltre, esistono due dimensioni di genere: una che riguarda la “fabula”(che ricordiamo essere lo schema fondamentale della narrazione, il corso degli eventi ordinati temporalmente), e una che riguarda il “sjuzet”(che, come abbiamo visto, è la storia come di fatto viene raccontata, cioè con le sue dislocazioni temporali).
7. COMPOSIZIONE PENTADICA (O NORMATIVITA’): come abbiamo visto, secondo Burke (1945) un racconto deve essere costituito da personaggi che agiscono secondo scopi in un ambiente servendosi di alcuni strumenti. La composizione pentadica riguarda
l’organizzazione di questi cinque elementi: essi costituiscono la norma se sono in equilibrio tra loro, e costituiscono l’eccezionalità se sono in disequilibrio. Secondo Bruner (1991) «poiché la sua “raccontabilità” come forma di discorso poggia sulla violazione di un’aspettativa convenzionale, la narrativa è necessariamente normativa. Una violazione presuppone una norma» (ivi, p. 32).
8. CANONICITA’ E VIOLAZIONE: secondo Bruner (1990) «un’altra caratteristica essenziale della narrazione […] è la sua specifica capacità di stabilire legami tra l’eccezionale e l’ordinario» (ivi, p. 57). Bruner spiega il concetto di canonicità affermando che “ordinario” è quello che una cultura ammette come scontato riguardo al comportamento delle persone. Quindi, ogni cultura deve possedere sia un insieme di norme, sia un insieme di procedure interpretative che siano in grado di assegnare dei significati alle violazioni di tali norme, secondo determinati canoni di credenze. Allora «i racconti acquisiscono i loro significati in quanto spiegano in forma comprensibile le deviazioni dall’usuale» (ivi, p. 58). Dunque, per essere chiamato testo narrativo secondo Bruner (1991) «occorre che oggetto del racconto stesso diventi il modo in cui un copione canonico implicito è stato calpestato, violato o deviato» (ivi, p. 27).
9. SENSIBILITA’ AL CONTESTO, INCERTEZZA E
NEGOZIABILITA’: sensibilità al contesto significa che esiste una
dipendenza della narrazione dal punto di vista del narratore, ossia in una narrazione si deve tener conto delle intenzioni del narratore, in base comunque alle nostre conoscenze di sfondo. Come afferma Bruner (1991) «è proprio questa sensibilità al contesto a far sì che nella vita di ogni giorno il discorso narrativo sia uno strumento di negoziazione culturale così vitale» (ivi, p. 34). Per quanto riguarda la caratteristica dell’incertezza, Bruner (1990) sostiene che la narrazione si svolge secondo un livello di realtà incerto, poiché il linguaggio è metaforico e “congiuntivo”. Esso infatti esprime la possibilità, cioè ciò che potrebbe accadere. «Per fare un buon racconto, sembrerebbe che lo si debba rendere un po’ incerto, in qualche modo aperto a varianti di lettura, alquanto soggetto alle divagazioni degli stati intenzionali, indeterminato» (ivi, p. 63).
Infine, le due precedenti proprietà sono legate tra loro dalla caratteristica della negoziabilità, poiché proprio a causa del fatto che la narrazione parte dal punto di vista del narratore ed è espressa in modo congiuntivo, essa permette la negoziazione culturale.
10. ACCUMULAZIONE NARRATIVA: è la tendenza umana ad accumulare i discorsi per non dimenticarli, e per farli diventare parte di una tradizione culturale. L’accumulazione narrativa crea la “cultura”, “storia”, “tradizione”. Dunque a creare una cultura è la capacità collettiva di accumulare storie. Per Bruner (1990) «la forma tipica di strutturazione dell’esperienza (e del nostro ricordo di essa) è narrativa e […] ciò che non viene strutturato in forma narrativa non viene ricordato» (ivi, p. 65). Secondo Bruner l’accumulazione narrativa è connessa sia alla tendenza umana a produrre “connessioni per contemporaneità” (la credenza in un collegamento tra cose che accadono nello stesso tempo e negli stessi contesti), sia al sentimento umano di appartenenza a una cultura (il senso della propria continuità deriva dal fatto di raccontarsi in relazione a una storia sociale condivisa). Dunque «la strutturazione è sociale, finalizzata alla condivisione del ricordo nell’ambito di una cultura» (ibidem). In definitiva secondo Bruner (1991) le nostre narrazioni
dipendono dalla nostra collocazione all’interno di una continuità assicurataci da una storia sociale costruita e condivisa in cui noi poniamo noi stessi e la nostra continuità individuale. È il senso di appartenenza a questo passato canonico a consentirci di mettere a punto i nostri racconti di
deviazione, pur nel permanere della nostra complicità con il canone (ivi, p. 37).
In queste caratteristiche emerge l’importanza che Bruner conferisce all’intenzionalità e al tempo nella narrazione. Il tempo svolge un ruolo fondamentale nella riflessione bruneriana, poiché riceve un significato sia dal narratore sia dal protagonista della storia, diventando come dice Ricoeur (1983) un “tempo umano”. Al tempo, poi, è legata l’intenzionalità, che rappresenta l’origine delle azioni umane, pur non determinandole mai totalmente.
Da queste proprietà, inoltre, si può vedere come la narrativa arrivi ad organizzare la struttura dell’esperienza umana, secondo un meccanismo in cui, come afferma Bruner, la vita finisce per imitare l’arte e viceversa. Secondo Bruner (1996) infatti «anche l’esperienza delle cose umane finisce per assumere la forma delle narrazioni che usiamo per parlarne» (ivi, pag. 147).
Come evidenzia Paolicchi (1994) le caratteristiche specifiche del pensiero narrativo mostrano il fatto che esso può unire ciò che è contrapposto, può creare un’unità di percezioni, sentimenti e pensieri, e può «gettare un ponte tra l’orizzonte più vasto dell’universo di significati e la particolarità assoluta e irripetibile della singola storia» (ivi, pag. 115).
2.5 Teorie schematiche sul pensiero narrativo
Sutton Smith (1986) ha evidenziato come gli psicologi che hanno studiato la fabula e il sjuzet non li abbiano riconosciuti nello stesso modo, per cui lo studio delle storie ha avuto due tipi di approcci:
–
Approccio testuale: il testo è considerato scomponibile eanalizzabile come una struttura grammaticale. Secondo questa impostazione l’obiettivo è conoscere la relazione tra la grammatica del testo e la grammatica mentale, cioè come viene assimilata la struttura grammaticale del testo da parte del soggetto.
–
Approccio contestuale: secondo questo approccio l’obiettivo èstudiare il contesto in cui le storie vengono create. Il contesto è formato dalla situazione relazionale in cui le storie si costruiscono.
L’approccio testuale ha portato la psicologia a mettere in risalto gli aspetti cognitivi che intervengono nella costruzione e comprensione delle narrazioni, permettendo di analizzare la grammatica mentale del soggetto, e arrivando così a capire che il
pensiero narrativo, nel suo funzionamento, può ricorrere all’uso di schemi e copioni.
2.5.1 Lo schema di storia
Secondo Mancuso (1986) lo studio delle conoscenze schematiche ha portato a comprendere che il soggetto possiede una grammatica interna della storia. Questa grammatica è il prodotto della crescita mentale, e cambia con lo sviluppo delle capacità simboliche, degli schemi mentali, dei concetti di causa e di tempo. La grammatica mentale che permette di capire il testo narrativo è uno schema mentale della storia. Mancuso propone l’ipotesi che la narrativa sia una struttura di assimilazione: l’input testuale fornito da risorse scritte o parlate è assimilato in una grammatica narrativa già acquisita, cioè in una rappresentazione interna di una struttura di grammatica narrativa. Secondo gli studiosi le persone acquisiscono rappresentazioni interne organizzate che riflettono i costituenti delle grammatiche. L’espressione di questa legge schematica diventa esplicita quando una persona sviluppa aspettative su un testo; queste aspettative guidano la persona nel recupero dell’informazione richiesta per fare inferenze e decisioni sul flusso degli input. Inoltre, le strategie cognitive che si
manifestano con l’uso di uno schema narrativo coerente facilitano l’immagazzinamento della memoria a lungo termine, e il conseguente recupero del contenuto semantico del testo.
Inoltre, secondo Mancuso il concetto di storia è acquisito presto nella vita. Già a due anni il bambino è in grado di capire l’idea di storia. Questa acquisizione avviene così: una varietà di concezioni, in particolare quelle che concernono la causalità, si sviluppano prima e formano la base dello sviluppo della struttura della storia. La struttura della storia si sviluppa epigeneticamente fuori da queste strutture di base, le cui prime manifestazioni possono essere osservate in un bambino di circa nove mesi.
Ogni storia ha una struttura invariante di base (o grammatica) formata da una situazione iniziale introduttiva, seguita da alcuni eventi che provocano la reazione psicologica del protagonista, il quale tenta di raggiungere uno scopo. Questo tentativo produce un risultato che porta alla fine dell’episodio. Secondo Mandler (1984) lo schema di storia è articolato sia in modo orizzontale, poiché esiste una regola che ordina in sequenza le singole unità, sia in senso verticale e gerarchico, poiché le unità possono essere ordinate in livelli sovraordinati che li comprendono.
Mandler ha messo in luce che lo schema di storia è un sistema di aspettative sul funzionamento delle storie. Queste aspettative,
elaborate in base alle regolarità che il soggetto ha scoperto, consentono di prevedere le fasi di una sequenza di eventi e il loro modo di connessione5.
Da tutto ciò è evidente che lo schema di storia è focalizzato sull’elaborazione della sintassi della narrazione, e comporta il concetto di “problema”. Dato che questo schema è strutturato in modo molto astratto, esso trascura il contenuto di un racconto. Perciò si è verificata la necessità di usare un tipo di conoscenza schematica che analizzi il livello semantico, e si è dovuto ricorrere agli schemi di evento, di scena, al copione e al piano.
2.5.2 Schema di evento, schema di scena, copione e piano
Negli anni Settanta si è verificata una ripresa, da parte di vari autori, del concetto di schema, che è stato applicato alla grammatica dei racconti.
Come afferma Smorti (1994)
5
Per valutare in un soggetto la presenza dello schema di storia si ricorre al metodo del ricordo di una storia. Questo metodo può consistere nel far leggere a un soggetto una storia incompleta e fargli riempire gli spazi vuoti; se il soggetto li riempie, significa che possiede uno schema mentale di storia. Il metodo può anche consistere nel far continuare al soggetto la concatenazione delle unità di una storia; in questo caso il soggetto possiede uno schema mentale se dimostra di seguire un suo modello ideale di storia che può non corrispondere alla storia reale. Inoltre, lo schema per comprendere la storia non è lo stesso per
gli schemi di evento, di scena e i copioni sono rappresentazioni, sistemi di aspettative in parte fisse e in parte modificabili circa gli eventi e le situazioni. Consentono un notevole risparmio di risorse cognitive e al tempo stesso permettono di catturare le caratteristiche essenziali dell’esperienza (ivi, pag. 58).
In questi anni è nato anche il concetto di script, teorizzato per la prima volta da Schank e Abelson (1977). Lo script è un particolare schema di evento che si interessa di situazioni nelle quali le azioni umane sono collegate in sequenze finalizzate. Più specificamente lo script è un copione di situazioni convenzionali in cui una sequenza di azioni, compiute da soggetti con ruoli prestabiliti, si svolge in funzione di uno scopo, all’interno di un contesto spazio-temporale e in un ordine prevedibile. Dunque, lo script è una situazione abituale che i membri di una cultura si rappresentano in maniera stereotipata. I copioni organizzano anche i racconti sulle violazioni della canonicità che rappresentano l’occasione della narrazione. Inoltre, durante lo sviluppo infantile la formazione degli script avviene con la mediazione della trasmissione sociale.
Per quanto riguarda il concetto di schema di evento, secondo Mandler (1984) esso è inerente sia al contenuto degli eventi sia alla
loro organizzazione. Questo schema organizza delle conoscenze collegate tra loro tramite una rete di informazioni contestuali e relazionali. Lo schema ha una struttura sia verticale che orizzontale: le relazioni orizzontali sono temporali, mentre le relazioni verticali sono di tipo partitivo. In questo tipo di schema gli elementi sono le azioni, mentre le relazioni sono costituite dall’organizzazione temporale. Questo schema consente di elaborare delle aspettative sugli eventi e di verificare che siano adeguate rispetto alla realtà.
Lo schema di scena, invece, è una struttura che organizza le relazioni degli elementi all’interno di uno spazio. In questo schema gli elementi sono costituiti dagli oggetti, mentre l’organizzazione è rappresentata dalla disposizione degli oggetti nello spazio. Lo schema di scena ha un’organizzazione gerarchica. Inoltre, gli schemi di evento e quello di scena sono strettamente interconnessi.
Sia il copione che lo schema di evento hanno una certa convenzionalità culturalmente determinata, poiché comportano la ripetizione dell’esperienza e la conoscenza degli strumenti culturali.
Tuttavia, gli schemi di evento, gli schemi di scena, i copioni e i piani, pur essendo concetti specifici e concreti, non sono in grado di spiegare ciò che è inatteso e discrepante.
Come ha notato Smorti (1994) il problema della discrepanza è stato affrontato in due tipi di modi:
1. RICERCA DELLA NOVITÀ: «Il rapporto tra grado di discrepanza dello stimolo dallo schema e la sua modificabilità non è lineare» (ivi, pag. 61); cioè, tramite il confronto con le discrepanze trovate nella realtà, lo schema si trasforma e diventa più complesso. Questa soluzione sottolinea l’uso di un tipo di processo cognitivo che va “dal basso verso l’alto”, che consiste nel ricercare l’insolito e il nuovo. In questo caso viene rispettato il principio di fedeltà alla realtà.
2. FUNZIONE REGOLATRICE DELLO SCHEMA: «Il rapporto tra congruenza e codificabilità è sostanzialmente lineare» (ivi, pag. 62). In questa seconda soluzione lo schema guida verso la ricerca della coerenza, nel rispetto del noto e dell’usuale. Qui si attua un processo cognitivo che va “dall’alto verso il basso”, che modifica la realtà riducendola a ciò che è conforme alle attese. La realtà viene trasformata in rapporto alle caratteristiche dello schema. In questo caso viene seguito il principio dell’economia, dove le conoscenze precedenti ordinano quelle attuali.
Le teorie schematiche, a causa di molte loro caratteristiche, si avvicinano al funzionamento del pensiero narrativo; tuttavia, lasciano irrisolto il problema della discrepanza, e cioè il problema di come affrontare un’analisi di ciò che non è convenzionale.
2.6 Funzionamento del pensiero narrativo
Abbiamo visto che si può parlare di narrazioni anche quando cerchiamo di dare un significato alle vicende a cui partecipiamo, poiché queste vicende vengono da noi registrate e interpretate in forma linguistica come storie; come ricorda Smorti (2003) «le storie non sono solo quelle che vengono raccontate o lette, ma sono anche quelle che vengono prodotte durante l’interazione sociale, quando cerchiamo di attribuire significato agli eventi nel momento in cui essi accadono» (ivi, pag. 204).
Secondo l’autore si possono suddividere le storie in quattro tipi diversi:
1 .
Storie del primo tipo: queste sono storie che non presentanoalcun tipo di problema. Esse sono poco interessanti e presentano un andamento coerente, in cui attore, scopo, azione, strumento e situazione sono in equilibrio. Inoltre queste storie sono autoevidenti se vengono create in un adeguato contesto, e autoesplicative poiché presentano assenza di ogni ambiguità nel loro significato culturalmente determinato. Tali storie possono diventare un problema se vengono raccontate in un contesto non adeguato.
2 .
Storie del secondo tipo: queste sono storie con un problema euna deviazione dalla norma, in cui sono presenti delle soluzioni possibili, in grado di riequilibrare la situazione. Dunque questo tipo di storie rappresenta «l’articolazione tra uno scopo, un ostacolo e uno o più tentativi di risoluzione. [Esse presentano] un imprevisto che fa uscire fuori dai binari consolidati il corso “normale” degli eventi» (ivi, pag. 207). Secondo Amsterdam e Bruner (2000), per fornire un tentativo di soluzione al problema, queste storie possono stabilire dei legami con gli script: l’oscillazione tra specificità e genericità permette il raggruppamento di questo tipo di storie in categorie, che a loro volta conducono alla creazione di generi (o script), cioè dei modi convenzionali di unire scopo, ostacolo e soluzione. Così quando il problema ha assunto la forma di uno script, esso diviene un evento canonico e non presenta più alcun carattere di imprevisto.
Inoltre, secondo i due autori, esistono due tipi di soluzioni ad un problema presente in queste storie: la soluzione “conservativa”, che riporta la situazione a una condizione simile a quella iniziale, e la soluzione “trasformativa”, che consente alla storia di risolversi sviluppando un nuovo stato. In ogni caso, le soluzioni portano a trasformare le storie del secondo tipo in storie del primo tipo.
3 .
Storie del terzo tipo: queste sono storie incongruenti, cioèhanno un problema, ma non presentano una soluzione; dunque, non hanno un significato coerente. Questo tipo di storie sono costruite in modo che il lettore/ascoltatore trovi la propria soluzione.
4 .
Storie del quarto tipo: queste si chiamano storie-ipotesi cheservono per interpretare e risolvere la vicenda discrepante delle storie del terzo tipo. Questo quarto tipo di storie sono costruite trasformando le storie del terzo tipo in storie del primo o del secondo tipo. Dunque, viene creata una nuova storia coerente, in cui l’incongruenza è risolta o scomparsa. Questo processo di trasformazione e risoluzione può avvenire mediante l’impiego, da parte del lettore/ascoltatore, di storie che conosce già, oppure della propria immaginazione. Secondo Bruner (1990) il pensiero narrativo rende possibile l’unione di ciò che si conosce di una situazione (i fatti) insieme a congetture rilevanti (immaginazione); dunque, il pensiero narrativo permette l’unione dei fatti reali con l’immaginazione. Comunque sia, queste storie hanno bisogno dell’utilizzo di uno strumento euristico.
2.6.1 La discrepanza e il pensiero narrativo
Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, le teorie schematiche hanno lasciato aperto e irrisolto il problema della discrepanza.
Abbiamo visto anche come il pensiero narrativo serva per attribuire significati agli eventi umani, come guidi l’azione e il comportamento sociale, poiché la creazione di storie risponde al bisogno fondamentale di mettere ordine nelle vicende umane.
Secondo Bruner (1990) il pensiero narrativo non analizza solo il conosciuto, sul quale già disponiamo di schemi di storie consolidati, ma interpreta anche ciò che viola le aspettative. Infatti, il pensiero narrativo si occupa principalmente di analizzare e interpretare la discrepanza. Gli schemi e i copioni presuppongono una certa canonicità degli eventi, ma è proprio nel dare un significato alla violazione della canonicità che la narrazione trova il suo scopo. Il procedimento di eliminazione delle discrepanze viene attuato attraverso l’organizzazione degli elementi che costituiscono quello che abbiamo visto essere il “doppio scenario” (Bruner, 1990; Fleisher Feldman et al., 1990) in un tutto dotato di significato. Dunque, per comprendere la realtà esterna e il mondo interno del soggetto, il pensiero narrativo deve dar loro una forma,