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3. Opzioni di recupero dei fanghi

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3. Opzioni di recupero dei fanghi

3.1 Premessa

In questo capitolo vengono descritte le principali tecniche possibili di recupero dei fanghi di depurazione di acque reflue. Tali soluzioni che mirano al recupero del rifiuto fango sono quelle già elencate al paragrafo 1.3.2 (Inquadramento nel D. Lgs. 03/04/2006 n. 152) delle quali è realizzato anche un inquadramento normativo nei paragrafi compresi dal 1.3.3 al 1.3.6.

La descrizione di ognuna delle possibili opzioni di recupero verte prevalentemente su aspetti tecnici e, quando disponibili e di provata affidabilità, sono dati alcuni numeri indicativi sul ricorso alla tecnica di recupero in esame. Inoltre, in alcuni casi, sono riportate delle stime sui costi che comportano tali tecniche.

Infine, si è ritenuto opportuno inserire il paragrafo 3.4.1 che tratta della combustione in generale con anche alcuni specifici riferimenti al caso dei fanghi: è di ausilio per una più chiara comprensione di quei processi di recupero basati appunto sulla combustione.

3.2 Riutilizzo agronomico

In questo paragrafo sono inizialmente esaminati alcuni articoli di letteratura in merito alla presenza di metalli pesanti e sostanze derivate da farmaci e prodotti per la cura e l’igiene personale . Successivamente sono descritti i trattamenti subiti dal fango di depurazione di acque reflue che ad oggi sono più frequentemente adottati ai fini del riutilizzo in agricoltura. Sono inoltre disponibili alcune stime sul riutilizzo dei fanghi in questo ambito ed i costi che comporta. Si discute quindi della situazione attuale che dipende dal D. Lgs. 99/92 che costituisce l’odierna base normativa in materia di riutilizzo dei fanghi in agricoltura. È però importante ribadire quanto già espresso al paragrafo 1.3.3 in merito al documento bozza redatto per la predisposizione della nuova direttiva comunitaria (CEE 2000, Working document on sludge, 3rd draft). Tale proposta potrà infatti sconvolgere l’attuale sistema di riutilizzo in agricoltura dei fanghi, principalmente a causa dell’introduzione della precisa classificazione dei trattamenti che devono subire i fanghi, dei nuovi limiti sui metalli pesanti nei suoli (in particolare quelli con pH < 7) e infine per i limiti su alcuni composti organici non previsti dall’attuale normativa nazionale.

Si fa notare che è necessaria una regolamentazione del riutilizzo dei fanghi in agricoltura, poiché esso può rappresentare un rischio indiretto per la salute della popolazione, a causa della possibile migrazione di inquinanti nelle falde o della loro accumulazione nelle piante (Wilson et al., 1996; Oleszczuk and Baran, 2005). Questo problema è particolarmente sentito andando a considerare in particolare i metalli pesanti e le sostanze derivanti da farmaci e cosmetici.

In letteratura sono riportati una grande quantità di studi sperimentali effettuati al fine di valutare la mobilità potenziale dei metalli in traccia dai fanghi, l’evoluzione

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delle forme chimiche assunte dai metalli pesanti durante i trattamenti e la frazione biodisponibile di metalli estraibili ed eventualmente recuperabili. Esiste un elevato numero di schemi di estrazione sia semplici che sequenziali, tuttavia, anche se alcuni sono ampiamente utilizzati, nessuno è stato accettato senza riserve dalla comunità scientifica. Da ciò risulta che spesso i risultati degli studi non sono comparabili, poiché presentano variazioni significative che dipendono dalla procedura di estrazione adottata (Viera et al., 1992). In particolare l’estrazione chimica dei metalli può essere effettuata mediante acidi inorganici (solforico, cloridrico, nitrico), acidi organici (citrico e ossalico), agenti chelanti (acido etilendiamminicotetracetico o acido nitrilotriacetico) o reagenti inorganici (cloruro di ferro) (Del Mundo Dacera e Babel, 2008). E’ stata studiata ad esempio da Del Mundo Dacera e Babel (2008) la potenzialità di estrazione dell’acido citrico prodotto dalla fermentazione di scarti di ananas con A. Niger nell’estrazione di Cr, Cu, Pb, Ni, Zn da fanghi precedentemente sottoposti a digestione anaerobica. I risultati dello studio mostrano che l’efficienza di rimozione varia in funzione di pH, tempo di contatto e forma chimica del metallo nel fango: per un pH di circa 4 e un tempo di contatto di 11 giorni la rimozione di Cr e Zn è risultata circa totale, quella di Ni pari intorno al 94%, inoltre studi di speciazione chimica rivelano che i metalli predominanti in fase scambiabile ed ossidabile (es. Zn) esibiscono maggiore lisciviabilità. Lo studio di Antoniadis (2008) interessa proprio la lisciviabilità dello zinco. Otto tipi di suolo a diverso contenuto di argilla e di sostanze organiche sono stati utilizzati in una serie di prove sperimentali di percolazione, allo scopo di individuare le proprietà del suolo che influenzano la percolazione dello zinco. Da un’analisi di regressione è stato trovato che l’eluizione dello zinco diminuisce all’aumentare del contenuto di ossidi di ferro nel terreno, probabilmente a causa dell’adsorbimento dello zinco su di essi, mentre aumenta all’aumentare del contenuto di argilla. Alvaretz et. al. (2002) hanno invece analizzato l’estrazione sequenziale di Al, Cd, Co, Cu, Cr, Fe, Mn, Hg, Mo, Ni, Pb, Ti, Zn da campioni di fango di cinque diversi impianti a fanghi attivi municipali. Da questo lavoro è stato ricavato che in relazione ai possibili effetti tossici la presenza di Cd, Co, Mo, Ni e Ti è meno critica rispetto a quella di Cr, Cu e Pb; questi ultimi sono spesso presenti nei fanghi in alte concentrazioni e la loro elevata tossicità elementare richiede uno studio rigoroso per predire ogni possibile effetto dannoso sui processi biologici nei trattamenti dei fanghi, nel loro riuso o smaltimento finale.

Negli ultimi anni il crescente utilizzo e produzione di farmaci e di prodotti per la cura e l’igiene personale ha determinato un aumento della quantità di reflui contenenti prodotti chimici. Considerando l’incremento dell’utilizzo di fanghi in agricoltura, nel 2002 il Consiglio Nazionale di Ricerca USA (NCR) ha redatto un rapporto sui fanghi di depurazione (Biosolids Applied to Land: Advancing Standards and Practices) nel quale i farmaci ed i prodotti per la cura personale (PPCPs – pharmaceuticals and personal care products) erano esplicitamente indicati come composti da ricercare nei fanghi, dato che essi rappresentavano un gruppo di contaminanti precedentemente mai presi in considerazione e non sottoposti a regolamentazione. Negli anni ‘80 e ‘90 l’attenzione era infatti rivolta principalmente verso contaminanti quali patogeni, composti inorganici (metalli), idrocarburi

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policiclici aromatici, policlorodibenzodiossine e policlorodibenzofurani. A seguito però dei recenti progressi in campo di analisi ambientali è stata determinata una grande quantità di prodotti farmaceutici nei reflui acquosi e nelle acque superficiali, che ha portato i ricercatori a supporre la presenza di queste sostanze anche nei fanghi di depurazione (Lepp e Stevens, 2006), come effettivamente risulta da vari studi e come è possibile vedere nella Tabella 3.1.

(continua)

Tabella 3.1. Prodotti farmaceutici e prodotti destinati alla cura personale rintracciati nei fanghi di depurazione (Lepp e Stevens, 2006)

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I PPCPs adsorbiti sui fanghi potrebbero essere biodisponibili al momento del riutilizzo dei fanghi in agricoltura: una importante questione ancora da risolvere è la determinazione del loro impatto ambientale e dei possibili rischi per la salute della popolazione. Fra le possibili vie di contatto con la popolazione figurano il consumo di vegetali cresciuti in aree trattate e quello di carne e latte di animali che pascolano nelle medesime aree, il consumo di acqua derivante da fonti contaminate, ecc., così come illustrato in Figura 3.1.

Prima di esaminare i trattamenti subiti dal fango, conviene premettere che il D. Lgs. 99/92 stabilisce che possono essere utilizzati in agricoltura anche i fanghi derivanti dai processi di depurazione degli impianti che trattano le acque reflue, ma non specifica o delimita la tipologia dei trattamenti depurativi di provenienza. In tal senso si esprimono però i regolamenti di alcune regioni che restringono la possibilità di utilizzo ai fanghi biologici con estensione ai fanghi primari sottoposti a stabilizzazione biologica (i fanghi primari generalmente contengono notevoli quantità di inquinanti). In sostanza si può dire che il fango di supero di partenza può essere costituito da fango biologico secondario, miscelato eventualmente a fango primario e a fango terziario, incluso relativi additivi chimici purché le caratteristiche finali siano compatibili e conformi al D. Lgs. 99/92.

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Figura 3.1. Applicazione in agricoltura del fanghi di depurazione (Lepp e Stevens, 2006)

I fanghi, notoriamente, subiscono già all’interno degli impianti di depurazione specifici trattamenti essenzialmente finalizzati alla riduzione della frazione di solidi volatili (stabilizzazione), nonché dell’umidità e quindi del volume finale (ispessimento e disidratazione). Questi trattamenti possono avere effetti sulle caratteristiche dei fanghi anche in relazione a parametri qualitativi importanti ai fini dell’impiego in agricoltura. A seconda quindi dei tipi e dell’intensità dei trattamenti a cui sono sottoposti i fanghi nell’ambito dell’impianto di depurazione, è possibile che i fanghi stessi siano già resi idonei al riutilizzo in agricoltura. Se questo non accade, per il loro riutilizzo in agricoltura i fanghi sono inviati verso piattaforme specializzate, ovvero impianti di trattamento autorizzati a ricevere, trattare ed utilizzare i fanghi per conto terzi; il fango in uscita deve ovviamente rispondere a tutti i requisiti di legge.

La scelta fra il trattare rendendo idonei i fanghi già all’interno dell’impianto di depurazione e il conferirlo a piattaforme specializzate, comporta attente valutazioni economiche, gestionali, di affidabilità e continuità (ovviamente eventuali intoppi creerebbero notevoli inconvenienti) difficili da generalizzare e che vanno studiate caso per caso.

Si considerano ora i trattamenti effettuati all’interno degli impianti di depurazione. I trattamenti convenzionali consistono in:

 ispessimento statico;

 stabilizzazione anaerobica o aerobica;

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Sono trattamenti finalizzati a ridurre la quantità di fango prodotto, sia come secco totale che come volume. Il secco incide infatti sulla superficie di terreno necessaria (si ricorda che l’art. 3 del D. Lgs. 99/92 pone il limite di 15 tonnellate di sostanza secca per ettaro in tre anni), mentre il volume incide notevolmente sui costi di trasporto. A parte l’ispessimento che solitamente viene effettuato, l’adozione dei trattamenti successivi di stabilizzazione e di disidratazione è parte integrante delle valutazioni da svolgere nella scelta fra il voler rendere idonei i fanghi già all’interno dell’impianto di depurazione oppure conferirli a piattaforme specializzate. L’ispessimento (v. paragrafo 2.3.1 per maggiori approfondimenti) è un trattamento meccanico deputato esclusivamente alla separazione dell’acqua dal fango non operando quindi alcuna trasformazione qualitativa: si ottengono generalmente concentrazioni di secco variabili tra il 3% e il 6%.

La stabilizzazione biologica dei fanghi, o digestione, (v. paragrafo 2.3.2 per maggiori approfondimenti) può avvenire attraverso processi anaerobici e aerobici. In questi casi, le modificazioni indotte sulla matrice organica del fango hanno conseguenze apprezzabili ai fini del riutilizzo, come per altro è negli obiettivi della normativa vigente. La sostanza organica viene parzialmente degradata: si passa infatti da un contenuto di solidi volatili (SV) pari al 70-75% dei solidi totali (ST) ad un rapporto SV/ST pari al 50-60%. L’eliminazione di sostanza organica non è in genere tale da compromettere la disponibilità minima di carbonio organico richiesta dalla norma (pari al 20% espresso come carbonio organico totale), tuttavia per taluni fanghi una buona stabilizzazione combinata con una successiva disidratazione spinta mediante l’utilizzo di reagenti chimici (es. calce e cloruro ferrico) può comportare problemi in tal senso. I metalli pesanti sono soggetti a fenomeni che si possono manifestare in modo diverso a seconda del tipo di trattamento (aerobico o anaerobico) e, più in generale, delle condizioni al contorno (caratteristiche qualitative dei fanghi, pH, temperatura, potenziale redox, speciazione iniziale dei metalli). In generale si può parlare di risolubilizzazione (a pH acido), complessazione (ad opera di NH4+, organici derivanti dalla trasformazione della sostanza volatile, ecc.), precipitazione (es. come solfuri o come idrossidi e carbonati) e adsorbimento (sulle particelle di fango). Nel fango fresco l’azoto è presente essenzialmente in forma organica: in seguito ad un lungo processo di mineralizzazione, il fango rilascia composti assimilabili da parte delle piante. Nel fango digerito anaerobicamente, invece, l’azoto è in forma ammoniacale (70%) e quindi molto velocemente assorbibile dalle piante. Tuttavia, dato che il processo di digestione dei fanghi comporta ammonificazione, vi è la perdita dell’azoto contenuto insieme all’acqua nella successiva fase (eventuale) di disidratazione. Si osserva infine, che l’azoto organico presente nei fanghi è meno mobile rispetto a quello contenuto nei fertilizzanti in commercio e comporta quindi meno rischi in termini di inquinamento dell’acqua di falda. Il fosforo risulta presente nella quasi totalità in forma insolubile poiché legato a composti del ferro, alluminio, calcio e magnesio, già abbondanti nei liquami, cui si aggiungono i reattivi a base di Fe e Al utilizzati sia per la rimozione chimica del fosforo dai liquami sia per il condizionamento dei fanghi. Nei fanghi sono presenti microrganismi di vario tipo. I trattamenti di stabilizzazione biologica sono in grado di ridurre

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significativamente il grado di contaminazione microbiologica di un fango; per il rispetto dei limiti di legge sono però in genere ulteriormente richiesti trattamenti di igienizzazione o l’essiccamento termico.

La disidratazione meccanica (v. paragrafo 2.3.1 per maggiori approfondimenti) ha come obiettivo la drastica riduzione di umidità che passa dal 92-95% del fango ispessito-digerito, al 60-80% del fango disidratato. Nondimeno, oltre a questo effetto primario, si possono verificare altre conseguenze dovute al fatto che la disidratazione avviene previo condizionamento con calce (o altri reattivi flocculanti). Qualora si utilizzino dosaggi significativi di calce (es. nei trattamenti di filtropressatura) si potrebbero verificare le seguenti condizioni (con grado differente a seconda delle condizioni specifiche):

 effetto di diluizione dei metalli pesanti per incremento della sostanza secca;  effetto di concentrazione dei metalli pesanti per precipitazione.

Inoltre va considerato il già citato possibile effetto di riduzione del contenuto organico. Infine, come già precedentemente detto trattando il fosforo, si deve osservare che elevate presenze di Fe e Al, unitamente a fanghi ricchi di calce con pH intorno al valore di 10, agiscono da sequestranti del fosforo, riducendone la disponibilità per il terreno.

Nel caso in cui si voglia rendere idonei i fanghi al riutilizzo in agricoltura all’interno dell’impianto di depurazione, vi è da constatare che non sempre coi trattamenti convenzionali sopra analizzati si raggiungono i requisiti richiesti dalla normativa (art 2 del D. Lgs. 99/92) che impone ai trattamenti (biologico, termico, chimico o ad altro opportuno procedimento) di ridurre in maniera rilevante il potere fermentescibile dei fanghi e gli inconvenienti sanitari derivanti dalla loro utilizzazione (quanto questa imposizione sia piuttosto generica, già è stato sottolineato al paragrafo 1.3.3). Come anticipato nel parlare della stabilizzazione biologica, spesso si rendono quindi necessari altri trattamenti di igienizzazione o l’essiccamento termico. Il più comune intervento di igienizzazione effettuato negli impianti di depurazione è quello con la calce idrata o con ossido di calcio: di tale soluzione se ne parla diffusamente nel seguito di questo paragrafo nell’esaminare le piattaforme specializzate.

L’essiccamento termico dei fanghi (v. paragrafo 2.3.1 per maggiori approfondimenti), trattamento non comune presso gli impianti di depurazione (negli impianti pubblici italiani la presenza di questa tecnologia non supera l’ordine di alcune decine di applicazioni, anche se oggi appare in forte crescita), è utilizzato solo dove ne sussista la convenienza tecnico-economica. Ai fini del riutilizzo in agricoltura consente vantaggi connessi alla igienizzazione del fango e al miglioramento della sua manipolabilità (il prodotto si presenta con un contenuto di secco di circa il 90%) in vista soprattutto dello stoccaggio.

Con l’essiccamento è stato introdotta la questione dello stoccaggio che riveste un’importante ruolo nel processo di riutilizzo dei fanghi in agricoltura, sia nel caso di fanghi idonei già all’interno dell’impianto di depurazione, sia nel caso in cui i fanghi vengano inviati verso una piattaforma specializzata. Anche in quest’ultima situazione infatti, possono essere stipulati accordi fra il gestore dell’impianto di

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depurazione e il gestore della piattaforma specializzata che prevedano una certa capacità di stoccaggio all’interno dell’impianto di depurazione. Indipendentemente da quale caso determini la presenza dello stoccaggio negli impianti di depurazione, la sua funzione è principalmente quella di polmone per far fronte alle possibilità temporali di smaltimento. Lo stoccaggio comporta svariate problematiche, quali ad esempio il sistema di immissione ed estrazione dei fanghi, il dilavamento da acque meteoriche, la formazione di cattivi odori con talvolta conseguente necessità di semplice copertura, talvolta di chiusura ed aspirazione e trattamento dell’aria Il problema odori è particolarmente rilevante in quanto le esalazioni maleodoranti disturbano e possono creare problemi sia al personale addetto che alla popolazione residente nelle vicinanze dell’impianto.

Si passa ora alle piattaforme specializzate nel trattare i fanghi per conto di terzi e renderli idonei al riutilizzo in agricoltura.

Gli impianti di trattamento esterni a quello di produzione devono essere autorizzati a ricevere, trattare ed utilizzare in agricoltura i fanghi per conto terzi. Il fango in uscita deve ovviamente rispondere a tutti i requisiti di legge, mentre sui fanghi in entrata tali requisiti possono anche non essere soddisfatti in quanto è previsto che il fango venga successivamente trattato.

Le operazioni svolte presso le piattaforme sono finalizzate innanzitutto ad una corretta ricezione, controllo, miscelazione ed omogeneizzazione delle caratteristiche. Successivamente si procede, se necessario, al trattamento per rendere i fanghi conformi alle prescrizioni dell’autorizzazione e quindi allo stoccaggio finale che precede lo spandimento sui terreni.

I trattamenti attualmente utilizzati nelle piattaforme comportano solitamente e indicativamente le seguenti fasi:

 caratterizzazione e classificazione dei fanghi;

 ricezione dei fanghi suddivisi in categorie a seconda della umidità e talvolta

della provenienza;

 miscelazione al fine di ottenere il grado di secco desiderato per il

proseguimento delle operazioni. Si può infatti aver bisogno di un fango denso ma ancora pompabile (concentrazione di secco fino al 10%) o di un fango palabile (movimentabile con pala meccanica, concentrazione di secco maggiore del 15%);

 aggiunta di calce idrata, ossido di calcio o soluzioni ammoniacali;  stoccaggio finale prima dello smaltimento.

Il trattamento specifico con calce idrata o ossido di calcio, detto condizionamento, risulta essere quello generalmente applicato praticamente in tutti gli impianti che operano in conto terzi. Il condizionamento consiste nella miscelazione dei fanghi in entrata seguita dalla igienizzazione con calce idrata o con ossido di calcio. L’alcalinizzazione esplica infatti una azione di stabilizzazione ed igienizzazione, con inibizione della attività metabolica batterica e abbattimento della carica microbica fecale potenzialmente patogena a livelli rientranti nei limiti di legge. Tale trattamento viene solitamente effettuato miscelando la polvere con il fango

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disidratato (la parte tecnologicamente più delicata del processo è il sistema di dosaggio calce e il miscelatore calce - fango). I dosaggi di riferimento possono variare dal 15% al 25% di calce rispetto alla sostanza secca del fango, comunque il quantitativo necessario deve essere determinato sperimentalmente dipendendo dalla natura del fango, dal tempo e dalle modalità di stoccaggio e, infine, dalla valutazione della velocità di riduzione del pH nel tempo che intercorre tra igienizzazione e spandimento sul suolo.

Riguardo al trattamento con calce, si ricorda che il pH sensibilmente alcalino che si raggiunge in fase di dosaggio (oltre 12) comporta lo sviluppo di parte dei composti ammoniacali presenti nell’acqua del fango, con conseguente produzione di cattivi odori che talvolta provocano serie problematiche gestionali e di sicurezza sia nella fase di dosaggio che in quelle successive di stoccaggio e movimentazione. Tale problema non si pone se viene trattato fango che non contiene composti ammoniacali, il che si verifica generalmente solo quando si tratta il fango fresco. Contrariamente a quanto porterebbe a concludere il problema appena evidenziato, in alcuni casi è adottata la tecnica di aggiungere una soluzione ammoniacale assieme alla calce: in tal modo si controlla la concentrazione di secco finale (la soluzione ammoniacale è comunque un composto basico) al fine di consentire la movimentazione del fango con pompe e lo spandimento con autobotte ed interramento diretto. In tali casi, essendo il pH alcalino e concentrazioni di ammoniaca disciolta di un certo rilievo, devono essere presenti idonei impianti di aspirazione ed abbattimento delle emissioni provenienti dalle zone di trattamento e di stoccaggio.

A conclusione di questo paragrafo, si riportano in Tabella 3.2 i dati acquisiti dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare e trasmessi alla Commissione Europea, in adempimento degli obblighi derivanti dall’attuazione della direttiva 86/278/CEE.

A livello nazionale e per gli anni in esame, il riutilizzo dei fanghi di depurazione di acque reflue in agricoltura è effettuato per il 32-33% di quelli prodotti (su base secca).

Infine, si riporta una stima dei costi di riutilizzo in agricoltura dei fanghi di depurazione svolta per la Regione Lombardia (Collivignarelli et al., 2004).

Nel caso in cui sia il gestore dell’impianto di depurazione a rendere idonei i fanghi al riutilizzo, le componenti del costo (sono riferite ad una tonnellata di fango tal quale) sono sinteticamente composte dalle seguenti voci:

 costi per le fasi di caricamento, trasporto (ipotesi di distanze limitate),

distribuzione, aratura, operazioni solitamente effettuate tramite trasportatori autorizzati in conto terzi: valutazione indicativa media di 15 €/t;

 costi amministrativi per la gestione operativa dei rapporti con agricoltori,

analisi periodiche fanghi e terreni, adempimenti normativi: valutazione media indicativa di 4-6 €/t;

 costi per i trattamenti interni supplementari (specifici per l’utilizzo dei fanghi

in agricoltura) includendo il costo dei prodotti chimici, l’energia, la quota di ammortamento degli impianti aggiuntivi (essenzialmente igienizzazione e

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Tabella 3.2. Dati acquisiti dal Ministero dell'ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare per gli anni 2001, 2002 e 2003.

stoccaggio): valutazione media indicativa, per impianti di una certa potenzialità, di 3 €/t.

Il costo complessivo medio risulta essere di circa 22-24 €/t di fango tal quale. Nel caso di implementazione di un sistema di certificazione ambientale (EMAS, ISO 14001), i conseguenti impegni ed oneri determinano un incremento del costo fino a raggiungere i 30-35 €/t. Tale costo, come si può vedere, è limitato e la sua motivazione è nella sinergia che si riesce ad ottenere tra configurazione e gestione dell’impianto di depurazione che produce il fango e l’attività di riutilizzo dei fanghi gestita in proprio. Si deve però anche notare come fra le voci di costo manchi quella relativa ai trattamenti convenzionali descritti all’inizio del paragrafo, in particolare la disidratazione e la stabilizzazione: sono voci di costo importanti nel caso in cui l’impianto di depurazione non sia provvisto di questi trattamenti, situazione non infrequente nel caso della stabilizzazione in piccoli impianti.

I prezzi di mercato di un’attività di riutilizzo che preveda l’invio dei fanghi ad una piattaforma specializzata, oscillano, comprensivi anche del trasporto, da 45 a 60 €/t di fango tal quale. Detti prezzi tengono conto, oltre che del costo dovuto ai trattamenti veri e propri applicati al fango, del costo gestionale e di ammortamento di una struttura industriale realizzata appositamente per tale scopo. L’attività può essere tecnologicamente complessa in quanto i fanghi provengono da più

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produttori e le eventuali operazioni di trattamento possono presentare problematiche gestionali diversificate.

Infine, nella componente costi non è in qualche caso da trascurare il compenso richiesto dagli agricoltori per mettere a disposizione i terreni.

3.3 Compostaggio

Si evidenziano i principali concetti che stanno alla base del processo di compostaggio da cui si traggono alcuni specifici riferimenti per l’utilizzo dei fanghi di depurazione di acque reflue.

Il compostaggio è un processo biologico aerobico attraverso il quale la sostanza organica subisce un’evoluzione sia in termini quantitativi (variazione del peso totale di ogni singola frazione della sostanza organica) che qualitativi (modificazione della struttura molecolare delle frazioni organiche). Il risultato di questa evoluzione è un prodotto ricco di composti umificati detto compost.

Gli organismi che attuano il processo di compostaggio sono molto numerosi e sono già presenti naturalmente nel materiale organico. Essi, attraverso la propria attività metabolica, mineralizzano la componente più facilmente degradabile del substrato producendo acqua, calore, CO2 e molecole complesse (composti umificati).

Il processo di compostaggio viene comunemente suddiviso in due fasi: la prima in ordine temprale, detta “fase attiva” o “fermentazione accelerata”, caratterizzata da una degradazione molto intensa, e la seconda, detta “fase di maturazione” o “fase di cura”, caratterizzata da un processo più lento e dalla formazione di sostanze umiche. La Tabella 3.3 riassume le caratteristiche delle due fasi di processo.

Tabella 3.3. Caratteristiche delle fasi del compostaggio.

Fase attiva Fase di maturazione

Processo

degradazione della sostanza organica più biodegradabile (zuccheri,aminoacidi)

degradazione delle molecole meno biodegradabili (lignina)

Sviluppo microbico rapida microrganismi crescita dei presenza di selezionate specie microbiche Consumo ossigeno alto consumo di ossigeno basso consumo di ossigeno Temperatura

alta temperatura (50-60 °C), se

non controllata può

raggiungere 75-80 °C

bassa temperatura :

inizialmente 35-40 °C, poi temperatura ambiente

Prodotti del processo

acqua, anidride carbonica e alcuni metaboliti fitotossici di odore sgradevole (polifenoli, ammoniaca, ammine)

acqua, anidride carbonica e sintesi di molecole complesse (composti umificati)

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Tra i parametri più importanti che influenzano il processo di compostaggio si annoverano i seguenti:

 porosità del substrato;  presenza di ossigeno;  umidità;

 temperatura;

 equilibrata presenza di nutrienti;  pH.

In assenza di ossigeno non si instaurerebbero le trasformazioni ossidative che garantiscono la stabilizzazione del materiale e insorgerebbero processi putrefattivi e maleodoranti. Un’adeguata presenza di ossigeno e una porosità sufficiente a garantire il rifornimento dello stesso sono fattori indispensabili per una corretta evoluzione del processo di compostaggio. L’umidità deve essere sufficiente alle attività microbiche, ma non deve essere eccessiva in quanto, occupando i pori del substrato, ostacolerebbe la circolazione dell’ossigeno. L’attività di degradazione biologica del substrato produce energia sottoforma di calore che tende ad accumularsi nella massa solida producendo un innalzamento della temperatura soprattutto durante la fase attiva). La temperatura deve essere sufficientemente alta per garantire l’igienizzazione del materiale (>55 °C), ma non deve superare i 65-70 °C che rappresenta il limite superiore oltre il quale l’attività della biomassa viene irrimediabilmente compromessa dall’insorgere di fenomeni di sterilizzazione. Per caratterizzare la presenza di nutrienti viene utilizzato il rapporto fra carbonio e azoto (C/N). Il carbonio presente nel substrato viene utilizzato dalla biomassa sia come materiale per sintetizzare nuova biomassa che come fonte di energia per i processi biologici. Anche l’azoto è necessario per garantire la riproduzione e lo sviluppo dei microrganismi. Mediamente gli organismi utilizzano 30 atomi di carbonio per 1 di azoto per cui il rapporto ottimale C/N all’inizio del processo di compostaggio dovrebbe essere vicino a 30. Una carenza di azoto provoca un rallentamento dei processi biologici, mentre un’eccessiva presenza rispetto al carbonio da trasformare libera l’azoto essenzialmente sotto forma di ammoniaca con notevoli problemi di odore e tossicità per l’ambiente esterno. La Tabella 3.4 illustra i valori accettabili e quelli ottimali per la miscela da avviare al processo.

Tabella 3.4. Valori idonei e ottimali di alcuni parametri riguardanti la miscela per il processo di compostaggio (*: valori riferiti alla massa totale).

C/N Umidità [%]* pH Densità [Kg/m3]

Valori idonei 20-40 40-65 5,5-9 < 650

Valori consigliati 25-30 50-60 6,5-8,5 < 650

In generale i materiali che possono essere destinati al compostaggio vengono classificati in funzione della provenienza così come riportato nel seguente elenco:

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 scarti vegetali (manutenzione del verde pubblico e privato, materiale legnoso

come cassettame, pallet e materiale proveniente dalla decorticazione del legno);

 scarti organici umidi derivanti da attività produttive, commerciali e di

servizio (essenzialmente provenienti da ristoranti, mercati ortofrutticoli, mense, ecc.);

 frazione organica umida proveniente dalle utenze domestiche (composta

prevalentemente dagli scarti umidi di cucine; se proveniente da raccolta differenziata è un materiale molto pregiato per il compostaggio ed è detto FORSU);

 fanghi derivanti dagli impianti di trattamento biologico di reflui urbani e di

industrie agroalimentari;

 biomasse di origine zootecnica.

Le caratteristiche e la qualità del compost finale sono strettamente legate alle caratteristiche della materia prima impiegata. Per questo motivo è necessario prestare la massima cura nel selezionare la matrice destinata al compostaggio (in relazione, in particolare, alla presenza di metalli pesanti e inerti che possano svalutare il prodotto finale). Le matrici sopra elencate sono eterogenee sia da un punto di vista fisico (diversa pezzatura, consistenza, densità, ecc.) che chimico (rapporto C/N, ecc.): questo fatto determina la necessità di omogeneizzare la miscela iniziale da sottoporre a compostaggio al fine di creare le condizioni migliori per il processo. La Tabella 3.5 riepiloga le caratteristiche di ogni matrice e suggerisce le percentuali in peso da assegnare ad ognuna nella composizione della miscela iniziale.

Tabella 3.5. Valori indicativi di alcuni parametri fondamentali e della percentuale raccomandata (rispetto alla massa totale avviata la processo) di ogni tipo di matrice compostabile (*: valori riferiti alla massa totale).

Matrici C/N Umidità [%]* Densità

apparente [t/m3] Percentuale raccomandata Scarti vegetali 65 40-50 0,4 30-35 Scarti organici umidi e FORSU 25 > 65 0,45 40-45 Fanghi biologici e agroindustriali 8 80 0,9 20-25 Biomasse di origine zootecnica 8 80 0,9 < 10

La Tabella 3.5 mostra come i fanghi di depurazione possano essere utilizzati per il processo di compostaggio. Infatti, presentando un rapporto C/N basso e un’umidità alta, sono complementari agli scarti vegetali che, viceversa, presentano un rapporto C/N alto e bassa umidità. Va comunque sottolineato che la

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percentuale in peso che può essere utilizzata è pari a circa 1/4 della massa totale avviata al compostaggio: ciò significa che per produrre compost con anche i fanghi di depurazione, è necessario utilizzare un impianto di compostaggio che tratta una quantità di rifiuti pari a circa 4 volte la quantità di fango. E’ stato inoltre effettuato da Oleszczuk (2008) uno studio sull’influenza del compostaggio sulla fitotossicità dei fanghi di depurazione in relazione alle proprietà fisico-chimiche ed ai contenuti di metalli pesanti e di idrocarburi policiclici aromatici degli stessi. E’ stata confrontata la fitotossicità di quattro diversi tipi di fanghi di depurazione civile con quella del compost derivante dalla miscelazione dei quattro per 76 giorni di compostaggio. Mentre per due tipi di fango era stata notata l’inibizione totale della germinazione di semi, è risultato che il compostaggio dei fanghi limita l’influenza negativa per la maggior parte dei parametri di fitotossicità.

Segue adesso un’ essenziale descrizione di un tipico impianto di compostaggio:

 fase di ricevimento e di stoccaggio: il materiale in arrivo, dopo la relativa

pesatura viene stoccato in modo differenziato. Infatti è necessario evitare contatti prematuri fra gli scarti e, così facendo, è possibile eseguire i relativi controlli e garantire la rintracciabilità del rifiuto. I fanghi di depurazione sono confinati in zone chiuse;

 fase di triturazione e miscelazione: viene ridotta la pezzatura del materiale in

modo da aumentarne la superficie disponibile per l’azione biologica (importante soprattutto per i residui ligneo-cellulosici), mentre nella fase di miscelazione i rifiuti vengono amalgamati nelle giuste proporzioni così come indicato in Tabella 3.5;

 trattamento biologico: è costituito da una fase attiva e una di fermentazione

le cui peculiarità sono riportate in Tabella 3.3. La fase attiva può esser effettuata con sistemi dinamici o con sistemi statici. I primi sono caratterizzati da meccanismi di movimentazione della biomassa, mentre i secondi prevedono il riposo posizionale della biomassa. La fase di maturazione non richiede invece particolari tecnologie ed è realizzata generalmente con cumuli più grandi di quella attiva;

 fase di post-trattamento di raffinazione: questa sezione dell’impianto tratta il

compost che ha raggiunto la fase di maturazione desiderata e serve a dare omogeneità granulometrica, eliminare eventuali residui grossolani di materiale plastico e inerti (si possono utilizzare classificatori e vagli). Eventualmente, possono essere anche previste macchine per andare incontro ad alcune specifiche esigenze, ad esempio trasformando il compost in polvere in compost pellettizzato.

Si forniscono alcuni dati che danno un’idea della diffusione dell’attività di compostaggio sul territorio nazionale.

La potenzialità autorizzata di compostaggio di matrici selezionate (compost di qualità) in Italia, secondo i dati relativi al 2006 riportati nel Rapporto Rifiuti 2007 (APAT, 2007), è pari a 5.901.214 t/anno, il rifiuto effettivamente trattato ammonta a 3.185.597 t/anno di cui 536.166 t/anno sono fanghi (per fanghi sono qui intesi

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anche altri tipi oltre a quelli di depurazione di acque reflue). Il settore del compostaggio è un settore in espansione: il quantitativo complessivo di rifiuti trattati è infatti aumentato di circa il 6% rispetto a quello registrato nel 2005, mentre nel 2005 era cresciuto del 12,9% rispetto al 2004. Gli impianti operativi nell’anno 2006 risultano essere 237 (22 impianti attivi in più rispetto all’anno 2005), escludendo gli impianti di piccola taglia, che trattano quantitativi inferiori a 1000 tonnellate annue, il numero scende a 180.

Infine, si conclude riportando la tariffa in ingresso agli impianti di compostaggio per i fanghi di depurazione di acque reflue che orientativamente è di 45-65 €/t di fango tal quale (Centemero, 2006).

3.4 Trattamenti termici di combustione

3.4.1 La combustione dei rifiuti: potere calorifico e impatto ambientale

Dovendo discutere della combustione dei fanghi di depurazione in diversi tipi di impianti, è utile esaminare preventivamente alcuni aspetti del processo di combustione dei rifiuti di validità generale, in particolare il potere calorifico e l’impatto ambientale.

La combustione dei rifiuti determina la completa ossidazione della loro frazione organica in condizioni di alta temperatura (maggiore di 850° C) ed eccesso di ossigeno. I prodotti finali sono pertanto costituiti da frazioni gassose ossidate (CO2 e H2O come componenti principali) e da un residuo solido di natura prettamente inorganica (ossidi di metalli vari contenuti nei rifiuti, silice, carbonati e sali vari). La reazione è nel suo complesso esotermica. Nella realtà le trasformazioni chimiche seguono un percorso assai più complesso, con diversi passaggi intermedi. Si prevede, infatti, che ad una fase iniziale di essiccamento del rifiuto (evaporazione dell’acqua contenuta) e suo riscaldamento alla temperatura di combustione, seguano delle trasformazioni pirolitiche (rottura delle molecole organiche più complesse fino a produrre molecole più semplici allo stato di gas o liquido a seconda della temperatura operativa e con residuo solido) con trasformazione della sostanza organica in vari composti allo stato ridotto sia volatili che solidi. Sia l’essiccamento che le trasformazioni pirolitiche sono endotermiche. Si hanno infine trasformazioni ossidative sia in fase gas che in fase solida, fino al risultato finale del conseguimento di prodotti ossidati in fase sia solida che gassosa, salvo quote modestissime di incombusti (in particolare CO, monossido di carbonio, in fase gas e carbonio in fase solida).

Un fattore molto importante nella definizione della combustione è il potere calorifico del rifiuto. Si ricorda che il potere calorifico di un combustibile è la quantità di calore liberata dalla combustione di 1 Kg, a pressione costante di 1 bar, con i reagenti (combustibile e comburente) a 25° C ed i prodotti residui della combustione sempre a 25° C. Si distingue inoltre tra PCS (potere calorifico superiore) e PCI (potere calorifico inferiore). Il PCS presuppone che l’acqua contenuta nel rifiuto, con in aggiunta l’acqua che si forma dalle reazioni di combustione, sia tutta considerata allo stato liquido. Viceversa, il PCI presuppone

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Figura 3.2. Potere calorifico dei fanghi di depurazione in funzione dell'umidità e per tre diversi contenuti di sostanza organica (Anastasi e Piacenti, 2007).

che l’acqua al termine della combustione sia tutta considerata allo stato di vapore. Chiaramente il PCI è più rappresentativo delle situazioni reali di combustione e per tale ragione si fa generalmente riferimento ad esso nei bilanci termici (nel seguito per potere calorifico si intenderà implicitamente quello inferiore).

Il potere calorifico dei fanghi dipende essenzialmente dall’umidità e dal contenuto di sostanza organica: una maggiore umidità determina ovviamente una diminuzione del potere calorifico, mentre un maggior contenuto di sostanza organica un innalzamento del potere calorifico. Si ha infatti che nella prima fase della reazione di combustione avviene l’evaporazione dell’acqua (fase di essiccamento) che richiede quindi calore, mentre nella fase successiva di combustione la frazione organica è completamente ossidata contribuendo dunque alla produzione di calore. Nella Figura 3.2 è mostrato un grafico da cui si ricava il potere calorifico del fango in funzione dei due fattori anzidetti (Anastasi e Piacenti, 2007) nell’ipotesi che la sostanza organica abbia un potere calorifico specifico di 5000 Kcal/Kg SV.

Il grafico di Figura 3.2 è stato ricavato analizzando fanghi provenienti dall’ATO 2 della Regione Lazio (comprende Roma), ma i valori che riporta possono essere estesi ai fanghi di depurazione di acque reflue di qualsiasi altro ATO. Come si nota, indipendentemente dal contenuto di sostanza organica, quando l’umidità tende all’80%, il potere calorifico dei fanghi assume valori molto bassi fino ad annullarsi per un valore dell’umidità approssimativamente di l’84%. Si hanno quindi indicativamente tre possibili situazioni nel caso in cui i fanghi siano inseriti in un forno per la combustione :

 umidità < 84%: la combustione dei fanghi da un contributo positivo al

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 umidità = 84%: la combustione dei fanghi da un contributo nullo al flusso

termico;

 umidità > 84%: la combustione dei fanghi da un contributo negativo al

flusso termico.

In ognuno dei successivi paragrafi che si occupano dei trattamenti termici è affrontata la questione dell’umidità dei fanghi (quindi del loro eventuale essiccamento) da introdurre in processi di combustione, considerando questo parametro come principale indice del potere calorifico.

L’ultimo argomento trattato in questo paragrafo è relativo agli inquinanti associati alla combustione dei rifiuti presenti nelle emissioni dei fumi in atmosfera e ai residui solidi (scorie e polveri). Non si dirà delle tecnologie preposte alla rimozione degli inquinanti dalle emissioni in atmosfera.

Le emissioni inquinanti in atmosfera possono, attualmente, essere considerate divise in due categorie:

 macroinquinanti: si trovano nei fumi in concentrazioni misurabili nell’ordine

di mg/Nm3 e sono polveri, HCl (acido cloridrico), SO

x (ossidi di azoto, per lo più SO2, anidride solforosa e SO3, anidride solforica), NOx (ossidi di azoto principalmente NO, monossido di azoto e NO2, biossido di azoto), HF (acido fluoridrico), CO (monossido di carbonio) e TOC (carbonio organico totale), quest’ultime due dovute a reazioni ossidative incomplete;

 microinquinanti: si trovano nei fumi in modeste concentrazioni, dell’ordine

dei µg/Nm3 (microgrammi/Nm3) o anche ng/Nm3 (nanogrammi/Nm3). Si citano in particolare i microinquinanti organici alogenati, tra cui le diossine (PCDD - PoliCloroDibenzoDiossine e PCDF - PolicloroDibenzoFurani), PCB (PoliCloroBifenili), IPA (Idrocarburi Policiclici Aromatici) e, tra i microinquinanti inorganici, i metalli pesanti (As, Cd, Cr, Cu, Pb, Hg, Ni, Zn).

Alcune informazioni in merito al caso dei fanghi. Fra i macroinquinanti è opportuno segnalare che, nonostante l’elevato contenuto di azoto (il contenuto totale di azoto nel fango essiccato, principalmente sotto forma di nitrati e ammoniaca, può raggiungere livelli pari al 8% in riferimento al peso secco), si è comunque osservato che la combustione dei fanghi è caratterizzata da basse emissioni di NOx con un rapporto di conversione da azoto a NOx inferiore al 5%. Passando ai microinquinanti organici, il contenuto di diossine e furani in un fango di depurazione non trattato può variare tra qualche unità e qualche centinaio di ng/kg di fango secco. La combustione dei fanghi comporta livelli di emissioni di diossine e furani più basse rispetto a quello che si registra nei termovalorizzatori di rifiuti urbani. Tale dato è da ricondurre all’elevato rapporto zolfo cloro (S/Cl) nei fanghi che è 7 –10 volte più alto di quello associato ai rifiuti urbani. La presenza di un alto contenuto di zolfo inibisce la formazione di diossine e furani. Essendo il cloro organico presente nei fanghi di depurazione solo in concentrazioni modeste, il problema relativo alle emissioni di diossine e furani è ridotto rispetto a quanto accade nei processi di trattamento dei rifiuti urbani. Infine, la presenza di metalli

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pesanti (microinquinanti inorganici) nei fanghi è da ricondurre principalmente alle attività industriali. Varie prove sono state realizzate a livello di laboratorio al fine di diminuire i metalli pesanti nel fango, usando soluzioni acide (in particolare HCl, HNO3, acido nitrico e H2SO4, acido solforico) nelle quali i metalli pesanti si dissolvono. Comunque su larga scala il principale metodo disponibile per diminuire i metalli pesanti nel fango sta nella loro riduzione alla fonte. I metalli non sono distrutti dai processi di combustione,ma sono sia raccolti nei residui del processo sia emessi in atmosfera. Nella Tabella 3.6 è proposto un esempio indicativo della percentuali di metalli pesanti nei gas emessi.

Tabella 3.6. Esempio indicativo della percentuale di metalli emessa in aria.

Metalli pesanti

As Cd Cr Cu Pb Hg Ni

Concentrazione media nel fango [g/t di fango] 5,6 5,3 240 950 188 4,6 64

Percentuale di metalli emessa in aria [%] 95 98 10 11 42 96 10

I residui solidi sono composti da scorie e polveri (ceneri volanti): le prime sono rimosse sul fondo della camera di combustione, mentre le polveri sono principalmente recuperate tramite sistemi di depurazione dei fumi emessi (sono dette ceneri volanti proprio perché data la loro leggerezza sono trascinate via dai gas della combustione). Nel caso dei fanghi vi è una notevole produzione di ceneri volanti che può portare ad elevate concentrazioni di ceneri nei gas uscenti. Tali particelle possono diventare a seguito di fenomeni di assorbimento, adsorbimento o condensazione ricettori di sostanze e gas presenti nei fumi di combustione. Il particolato può essere quindi composto da inerti, ossidi metallici o da un condensato di sostanze organiche parzialmente incombuste, anche policicliche (IPA) e tende inoltre ad adsorbire metalli come ad esempio il rame, il mercurio, l’arsenico, il cadmio, il cromo ed il piombo che sono tossici. La produzione di scorie, anch’essa contenente vari composti inquinanti, è minore rispetto a quella dovuta alla combustione di rifiuti urbani (secondo Urbini, 1999, per rifiuti urbani il totale di scorie più poveri rappresenta il 22-30% in peso del rifiuto grezzo, di cui l’80% sono scorie e il 20% polveri).

3.4.2 Combustione dei soli fanghi di depurazione

La tecnologia di incenerimento è stata molto migliorata negli ultimi anni in termini di ingegneria di processo, efficienza energetica e compattezza d’impianto. Le tecniche attualmente disponibili per il trattamento mediante termoconversione dei fanghi risultati dal trattamento delle acque di rifiuto prevedono l'uso dei seguenti tipi di forno:

 forni a tamburo rotante (Figura 3.3);  forni a piani multipli (Figura 3.4);

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Figura 3.3. Impianto di termodistruzione a tamburo rotante (Lombardi e Corti, 2007)

Le varie tecniche si distinguono fra loro a seconda dei campi di temperatura di esercizio, dei tempi di permanenza e in base ai sistemi di alimentazione.

In Figura 3.3 gli elementi numerati da 1 a 6 sono adibiti alla ricezione e alla immissione nel forno (elemento 7) dei rifiuti. Gli elementi successivi al forno rotante sono chiaramente i dispositivi per il trattamento dei fumi e la raccolta dei residui da combustione. I forni rotanti sono reattori cilindrici, rivestiti internamente da materiale refrattario, dotati di opportuna pendenza per favorire il movimento del materiale (la temperatura a cui operano è compresa, nel caso di rifiuti non pericolosi, fra 850 e 1050 °C).

L’impiego di tali forni si basa su esperienze consolidate, è infatti una tipologia largamente utilizzata in molti Paesi per il trattamento dei rifiuti industriali e dei fanghi, così come di rifiuti ospedalieri, rifiuti solidi urbani quali o preselezionati e CDR (combustibile da rifiuti).

Il forno a piani multipli (Figura 3.4) è costituito da un corpo cilindrico verticale in acciaio nel quale sono installati con disposizione assiale una serie di piani orizzontali (tutto il corpo è internamente rivestito da materiale refrattario). I rifiuti vengono introdotti da un orifizio posto in sommità del forno finendo quindi sul primo piano superiore. Su ogni piano sono lentamente sospinti da bracci rotanti con moto a spirale alternativamente verso l’interno e verso l’esterno. Il forno presenta tre zone operative: nei piani superiori avviene l’essiccazione, in quelli intermedi la combustione delle materie organiche (temperatura di circa 900 °C) e in basso la zona di raffreddamento delle ceneri. Tale tipo di forno trova applicazione in diversi settori industriali e può trattare fanghi con anche un elevato contenuto di acqua (Lombardi e Corti, 2007).

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Figura 3.4. Sezione schematica di un forno a piani multipli (Urbini, 1999)

Figura 3.5. Forno a letto fluido circolante (Lombardi e Conti, 2007)

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In linea di principio, nei forni a letto fluido (Figure 3.5 e 3.6) il materiale da termodistruggere viene mantenuto in sospensione (fluidificato), attraverso uno strato di materiale solido a granulometria fine, da una corrente d’aria in controcorrente. Quest’aria di fluidificazione serve contemporaneamente come aria di combustione. A seconda della velocità dell’aria si generano diverse condizioni di processo (letto fisso, bollente, turbolento, circolante e trasportato pneumaticamente): nel caso dei fanghi trovano applicazione i processi a letto fluido circolante (Figura 3.5) e a letto bollente (Figura 3.6). Nel caso del primo processo, a causa dell’alta velocità di fluidizzazione le frazioni solide vengono trasportate in alto dai fumi e recuperate in una sezione di recupero (ciclone) per la ricircolazione; nel caso del letto bollente solo le particelle più fini vengono trasportate dai gas data la minore velocità di fluidizzazione. Le temperature di esercizio sono comprese nel range di 850-950°C.

Negli ultimi anni la combustione a letto fluido ha riscontrato sempre maggior interesse, soprattutto per la possibilità di bruciare anche combustibili con basso potere calorifico, per il rendimento di combustione elevato, per le sostanze nocive che possono venir fissate alle ceneri (senza dover ricorrere in alcuni casi ad installazioni addizionali come impianti di desolforazione dei fumi) e infine per i contenuti notevolmente bassi di furani e diossine nei fumi. I moderni inceneritori a letto fluido risultano più attrattivi sia in termini di costi di investimento che di esercizio rispetto agli inceneritori convenzionali (Minimi et al., 1997).

I rendimenti di processo e la scelta delle tecnologie sono fortemente influenzati dallo stato fisico del fango, dalla sua composizione chimica e dalle sue proprietà termodinamiche, perciò è necessario identificare e classificare i diversi tipi di fango sulla base di appropriati criteri. Le caratteristiche del fango condizionano, oltre che la scelta del reattore, anche quella del sistema di controllo delle emissioni gassose. Alcuni fra i più importanti fattori da considerare per determinare l'idoneità o meno di un determinato tipo di reattore per la termoconversione sono:

Figura 3.6. Forno a letto bollente (Lombardi e Corti, 2007)

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 il contenuto d'acqua;

 i potenziali inquinanti presenti negli effluenti;  il contenuto di inerti;

 il potere calorifico e le richieste di combustibili ausiliari;  la forma fisica;

 la corrosività.

I vantaggi dell’incenerimento dei fanghi possono essere così elencati:

 ampia riduzione del volume dei fanghi; ricerche hanno determinato che il

volume finale dei fanghi dopo incenerimento è di circa il 10% di quello dopo disidratazione meccanica;

 distruzione termica dei composti tossici organici (Khiari et al., 2004);  recupero del contenuto energetico del fango;

 minimizzazione della generazione di odori.

Tuttavia l’incenerimento non costituisce un metodo completo di smaltimento, poiché circa il 30% dei solidi rimane nelle ceneri (Malerius e Werther, 2003), che possono presentasi sotto forma di polveri o granulati o possono essere formate semplicemente da prodotti degassificati, oppure da prodotti ceramizzati e/o vetrificati. Si deve quindi tenere conto della destinazione cui saranno indirizzate le ceneri e le scorie prodotte dalla reazione di combustione. In certi casi esse sono considerate materiale altamente tossico a causa del contenuto di metalli pesanti. Lo stato specifico in cui le ceneri si presentano in uscita dal trattamento di incenerimento influisce sul livello di inertizzazione termica del prodotto, ma anche sulla qualità delle emissioni gassose prodotte e quindi sull’impostazione dei sistemi di trattamento dei gas di combustione. Il principale imbarazzo dell’impiego massiccio dell’incenerimento è il pubblico consenso in relazione alle possibili emissioni inquinanti. Tuttavia l’introduzione di nuove tecnologie di controllo delle emissioni gassose è in grado di minimizzarne gli effetti negativi.

Per quanto riguarda il recupero energetico dalla combustione dei fanghi, o dà luogo alla sola produzione di calore (raffreddamento dei fumi di combustione in una caldaia con produzione di vapore) o alla sola produzione di energia elettrica (il vapore prodotto in caldaia alimenta una turbina a gas) oppure a entrambe le produzioni.

Concludendo, dallo studio di Lombardi e Corti (2007), che prende in esame i possibili trattamenti termici e recuperi energetici dei fanghi dei fanghi di depurazione, risulta essere non sostenibile né energeticamente né economicamente la combustione dei soli fanghi di depurazione in impianti dedicati; si riesce invece a contenere i costi nel caso in cui il trattamento dei fumi sia integrato con quello di un termovalorizzatore (a seconda dello schema di integrazione). A integrazione della questione economica, si riporta una stima effettuata da Collivignarelli et al. (2004) secondo cui, se si vuole determinare il costo di un impianto di combustione di fanghi è necessario considerare:

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 i costi per il trasporto del fango all’impianto;  i costi dei sistemi di immagazzinamento;  i costi della camera di combustione;

 i costi connessi ai trattamenti di depurazione dei fumi e ai sistemi di

trattamento dei residui del processo;

 i costi di gestione, ovvero relativi al personale, ai consumi interni (costituiti

ad esempio dai prodotti utilizzati come reagenti, dall’elettricità…) e alle tasse. Vista la variabilità dei fattori che entrano in gioco nella definizione dei costi di un sistema di trattamento termico diventa difficile assegnare a questi un valore generale. Una stima dei costi di incenerimento dei fanghi dice che questi sono superiori a 220 Euro a tonnellata di materiale secco (il dato è riferito al 2004) escluse le tasse (variabili in funzione della localizzazione dell’impianto). Tale valore comprende i costi di investimento, l’up-grading dei sistemi esistenti, i costi di gestione e il deposito dei residui in discarica. Tali costi fanno riferimento ad unità in grado di trattare da 2.000 a 5.000 tonnellate di materiale secco all’anno ovvero, considerando la linea acque che sta a monte, impianti che ricevono i fanghi da 200.000 - 800.000 abitanti equivalenti. Gli investimenti crescono per impianti comprensivi di pre-essiccamento e aventi sistemi di pulizia dei gas complessi.

3.4.3 Co-combustione con i rifiuti urbani

La co-combustione con i rifiuti solidi urbani ha come obiettivo principale la riduzione dei costi di incenerimento dei soli fanghi di depurazione. Il processo può infatti generare un’energia termica sufficiente per essiccare il fango, sostenendo il processo senza l’ausilio di altri combustibili (per le modalità di recupero energetico dalla combustione dei rifiuti vale quanto detto a proposito della sola combustione dei fanghi). Inoltre vi è la possibilità di utilizzare impianti già esistenti. Come già detto nel precedente paragrafo, è difficile effettuare una stima dei costi derivanti dalla combustione dei fanghi, comunque una stima degli stessi dice che il costo per la combustione dei fanghi all’interno di termovalorizzatori per rifiuti urbani, non inclusivo del trasporto dei fanghi e delle tasse, ma comprensivo del deprezzamento dell’impianto (legata alla questione dell’essiccamento sotto discussa), del trattamento dei residui, ecc., è di circa 170 – 250 Euro per tonnellata di fango secco, a seconda delle dimensioni dell’impianto e della sua localizzazione (tasse escluse).

I vantaggi legati alla co-combustione dei fanghi insieme ai rifiuti solidi urbani sono sostanzialmente riassumibili in quattro punti (Werther e Ogada, 1999):

 recupero di calore dalla combustione dei rifiuti urbani per pre-essiccamento

del fango;

 sfruttamento di impianti esistenti per incenerimento degli RSU;

 utilizzo di impianti dotati di sistemi sicuri per il controllo delle emissioni

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 nessun peggioramento delle emissioni sia gassose che solide rispetto a quelle

prodotte con RSU.

La statistica mostra però che la percentuale di rifiuti inceneriti è ancora bassa in molti Paesi; solo in Danimarca, Giappone, Svezia e Svizzera più del 50 % dei rifiuti viene incenerito.

Riguardo l’essiccamento dei fanghi, è importante sottolineare, come già detto al paragrafo 3.4.1, come ciò avvenga con il calore prodotto dalla combustione degli altri rifiuti determinando quindi la riduzione del flusso termico e quindi una minor produzione di energia del termovalorizzatore. E’ questa la causa del deprezzamento dell’impianto di termovalorizzazione. Vi sono comunque situazione in cui accade l’esatto opposto, ovvero la combustione dei fanghi ha un effetto positivo sull’esercizio del termovalorizzatore. E’ il caso ad esempio dell’impianto di termovalorizzazione riportato nello studio di Guereschi e Fertonani (2007). Nonostante il continuo aumento delle raccolte differenziate, i rifiuti che giungono a questo impianto di termovalorizzazione, sito a Cremona, hanno aumentato nel tempo il loro potere calorifico e quindi il flusso termico nel forno determinandone una sostanziale limitazione nell’impiego poiché progettato e realizzato con un grado di adiabaticità piuttosto elevato. Per ovviare a questa situazione, sono quindi inceneriti anche i fanghi di depurazione con un’umidità tale da ridurre il flusso termico (indicativamente > dell’84%).

Le tecnologie disponibili per la co-combustione dei fanghi con i rifiuti urbani sono le seguenti (Lombardi e Corti, 2007):

 forni a tamburo rotante;  forni a letto fluido;  forni a griglia mobile.

I primi due tipi di forno sono già stati esaminati al precedente paragrafo inerente alla combustione dei soli fanghi di depurazione. Il forno a griglia mobile è un tipo di forni particolarmente utilizzato per i rifiuti urbani. Tali forni sono dotati di una camera di combustione (temperatura di esercizio compresa fra 850-1050°C), rivestita in materiale refrattario, alla cui base è posta una griglia che ha la funzione di supportare e movimentare i rifiuti da termodistruggere dalla zona di ingresso fino a quella di uscita delle scorie. Per tale funzione la griglia è dotata di elementi mobili. Il conferimento del fango in questi forni deve avvenire con un alimentazione separata dagli altri rifiuti ed è immesso in direzione opposta ai gas combusti (vengono quindi inseriti dall’alto). Gli inerti contenuti nel fango, che non partecipano alla reazione di combustione, sono in parte raccolti sotto la griglia, e in parte raccolti come polveri dai trattamenti successivi di abbattimento del particolato. Il processo è applicabile a fanghi con un contenuto di solidi sospesi compreso tra il 10% e il 30% e permette di trattare una portata di fanghi massima pari al 40% rispetto ai rifiuti immessi sulla griglia.

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3.4.4 Produzione di cemento

In questo paragrafo si fa riferimento al possibile utilizzo dei fanghi essiccati come combustibile per la produzione di calore nei forni di produzione del cemento. Tra i molti fattori che devono essere valutati in sede di un possibile smaltimento dei fanghi nei cementifici, se ne possono evidenziare quattro (Ragazzi et al., 2006):

 il fango può presentare un elevato contenuto di P2O5 (pentossido di

fosforo); un contenuto medio indicativo per il composto nei fanghi è ad esempio pari al 4,1 %. Questo valore può portare ad una limitazione nel quantitativo massimo di sostituzione del combustibile tradizionale con il fango. Come regolamentato, per la produzione di clinker, il contenuto di P2O5 non deve superare lo 0,5%, poiché, ad elevate concentrazioni di tale composto chimico, viene influenzata la conversione di C2S (sigla del silicato bicalcico) a C3S (sigla del silicato tricalcico), riducendo, così, il contenuto di C3S nel clinker. Da quanto esposto si evince che, da un’analisi di questo singolo parametro, la percentuale massima di sostituzione dovrà essere circa pari a 0,1 ÷ 0,15 kg di fango per kg di clinker prodotto;

 il contenuto di cloro nella miscela grezza (miscela di materiali con cui è

prodotto il clinker, principalmente calcari e argille) dovrebbe essere inferiore di 0,015%; per valori più elevati il ciclo del cloro all’interno del tamburo nella produzione del cemento, può causare pesanti problemi per la stabilità delle operazioni. Assumendo come rapporto miscela grezza / clinker il valore 1,54, ipotizzando che la miscela grezza non contenga cloro e che il contenuto medio di cloro nel fango sia 0,13%, la percentuale di sostituzione limite del combustibile tradizionale con i fanghi è pari a 0,178 kg fango per kg di clinker prodotto;

 il contenuto totale di azoto nel fango essiccato, principalmente sotto forma

di nitrati e ammoniaca, può raggiungere livelli pari al 8% (riferimento al peso secco), in altre parole un quantitativo tale che non possa far escludere significative emissioni di NOx dalla combustione del fango. Bilanci relativi a questo inquinante, presente non solo nel fango, ma anche nei combustibili tradizionali, condotto in alcuni cementifici, ha dimostrato che solo parzialmente esso viene convertito in ossidi. In questo senso è importante determinare se, con l’inserimento di un combustibile ausiliario, come può essere considerato il fango da depurazione, vi sono delle variazioni qualitative e quantitative dei composti dell’azoto prodotti. Esperimenti condotti con una miscela di carbone polverizzato e fango, hanno dimostrato che più alta è la percentuale di sostituzione, più elevate sono le emissioni di NOx in eguali condizioni di eccesso d’aria. Altre prove hanno evidenziato, inoltre, come anche la modalità di iniezione dei due combustibili porta a significative diversificazioni nel campo della produzione di tali inquinanti. In ogni caso, la formazione di NOx è intimamente legata all’evoluzione dell’azoto dalla fase solida a quella gassosa; per tale motivazione è

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importante mettere in evidenza se una frazione significativa dell’azoto nel fango è sotto forma di ammoniaca e se ha un’elevata tendenza alla volatilità;

 dimensioni delle particelle di fango essiccato: per la produzione di clinker è

determinante non solo la dimensione della particella di fango (2-10 mm), ma anche la forma delle stesse. Sostanzialmente risulta essere migliore il fango costituito da particelle allungate e piatte; particelle “cubiche” e “sferiche” presentano una combustione più difficile.

Complessivamente, tenendo in considerazione tutti i fattori esposti, il valore limitante per l’uso dei fanghi nei cementifici è rappresentato dal valore imposto dal P2O5 (0,1 ÷ 0,15 kg di fango per kg di clinker prodotto). Da un’analisi di un’altra serie di fattori quali le cinetiche di combustione, la forma delle particelle, la qualità del clinker ed aerodinamicità della fiamma, si può considerare un valore massimo di iniezione di fango per la produzione di clinker pari a 0,04÷0,05 kg di fango per kg di clinker prodotto, con riferimento a fango granulato con un valore massimo di umidità pari al 10%, ovvero essiccato termicamente (Greco, 2006). Questo valore è confermato da Kääntee et al. (2004) che suggeriscono la massima alimentazione di fanghi di depurazione non deve essere superiore al 5% della capacità di produzione di clinker di un cementificio. Di conseguenza per un forno di cementificio in grado di bruciare 2000 t/d di combustibile possono essere utilizzati un massimo di 100 t/d di fanghi.

Come già anticipato, i fanghi devono essere preventivamente essiccati con il tenore di secco molto alto, almeno dell’80%. Questo perché con contenuti d’acqua maggiori, la temperatura del forno scenderebbe sotto il limite minimo per la creazione del clinker e quindi potrebbero insorgere problemi di qualità del prodotto.

3.4.5 Produzione di asfalto

Per la combustione di fanghi essiccati nell’ambito della produzione di asfalto si utilizzano bruciatori multi-funzionali adatti al funzionamento sia con combustibile solido che liquido o gassoso. Per questo scopo il fango essiccato granulato dovrà essere ridotto a polvere tramite l’impiego di mulini. In base ad esperienze pratiche sono necessari circa 22,5 kg di fango granulato (con un tenore di secco del 95%) per tonnellata di asfalto caldo per riscaldare il tamburo di essiccamento, oltre a 0,6 kg di combustibile convenzionale al bruciatore di supporto. Usando gasolio si ha un consumo di 6,4 kg/t di asfalto per il riscaldamento del tamburo; considerando pertanto una produzione di 1.000 t/anno di asfalto si ottiene:

 consumo di fango granulato: circa 2.250 t (corrispondenti a 83.000 m3 di

fango tal quale con un umidità del 97-98%);

 risparmio in gasolio: circa 580 t.

L’accensione e l’innesco della reazione di combustione si effettua con combustibile ausiliario (gasolio, olio combustibile o metano) in ragione del 10% della copertura calorica totale erogata. Questa fiamma di supporto (modulata indirettamente) evita

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lo spegnimento della fiamma principale in caso di irregolare alimentazione, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo.

Quanto fin’ora esposto mostra il recupero del fango solo come combustibile (codice R1), ma, in realtà, come specificato al paragrafo 1.3.2, nell’ambito delle produzione dell’asfalto si ha anche l’utilizzazione dei rifiuti ottenuti dal processo stesso (codice R11). Infatti, una caratteristica qualificante per la combustione di fanghi negli impianti di produzione di asfalto, è rappresentata dal fatto che non vi sono residui della combustione (cenere e scorie) che debbano essere inviati in discarica o comunque che debbano essere sottoposti ad ulteriori fasi di trattamento. I residui della combustione ammontano a circa il 50% del fango essiccato. Parte di questo materiale viene direttamente recuperato nell’asfalto. La maggior parte viene invece separata nell’ambito del sistema di depolverazione e quindi stoccata in silo con la parte fine delle polveri minerali e quindi successivamente reimmessa nella miscela per l’asfalto.

3.4.6 Produzione di laterizi

In letteratura sono riportate diverse esperienze (Werther e Ogada, 1999) di utilizzo dei fanghi di depurazione per la produzione di laterizi. Il processo si svolge secondo le seguenti fasi principali (Sorlini, 2007) :

 miscelazione del fango con argilla (in percentuale variabile tra il 5 e il 30%);  essiccazione in forno;

 cottura in forno a 800 °C (con recupero di calore dovuto alla combustione

della frazione organica del fango);

 cottura in forni a 960 °C (con l’utilizzo di un combustibile ausiliario).

Al primo punto si può apprezzare il recupero di materia da fanghi di depurazione (codici R4 e R5), mentre, specialmente al terzo punto, il recupero del fango (la frazione organica) come combustibile (codice R1).

I mattoni ottenuti utilizzando argilla miscelata a fango presentano, secondo quanto riportato in letteratura, caratteristiche fisico meccaniche conformi ai laterizi tradizionali.

3.4.7 Inertizzazione termica/ceramizzazione

Il processo si basa sulla proprietà che ha l’argilla, miscelata con calcari e/o caoliti particolari, di creare, ad alta temperatura, una struttura reticolare, capace di bloccare la migrazione di metalli pesanti eventualmente presenti. Questo ha consentito di condurre una sperimentazione su fanghi di risulta contenenti metalli pesanti. L’alto contenuto organico di questi fanghi è favorevole per la produzione di materiali espansi granulati artificiali da utilizzare quali inerti da costruzione. Il processo si svolge secondo le seguenti fasi principali:

 miscelazione del fango con argilla e calcare e/o caolino in rapporto 1-1/1-3

Figura

Tabella 3.1. Prodotti farmaceutici e prodotti destinati alla cura personale rintracciati  nei fanghi di depurazione (Lepp e Stevens, 2006)
Figura 3.1. Applicazione in agricoltura del fanghi di depurazione (Lepp e Stevens,  2006)
Tabella 3.2. Dati acquisiti dal Ministero dell'ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare per  gli anni 2001, 2002 e 2003
Tabella 3.3. Caratteristiche delle fasi del compostaggio.
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Riferimenti

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