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Michel de Montaigne: curiositas rinascimentale, cannibales e ossessione dell’antico.

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Michel de Montaigne: curiositas rinascimentale, cannibales e ossessione dell’antico.

“Ov’è ‘l valore, ov’è l’antica gloria?/ U son or quelle genti? Oimè son cenere/

De la qual grida ogni famosa istoria”.

Jacopo Sannazaro, Arcadia, vv. 100-103.

Nel suo Argumento, riassuntivo dei contenuti della Brevísima relación, Las Casas ricorda come el maravilloso descubrimiento delle Indie abbia messo in ombra molti altri eventi.

La scoperta di nuove terre abitate non modifica solo la geografia del mondo, ma spinge anche gli europei a riconsiderare l’immagine del loro universo.

Attonito stupore e meraviglia si impadroniscono dei viaggiatori, che testimoniano la presenza di uccelli variopinti e strane creature dall’aspetto umano, mentre una mentalità, in gran parte ancora medievale, cerca di ricondurre le informazioni raccolte all’interno di un modello aristotelico.

Il desiderio di esplorare e conoscere altri territori, il bisogno di afferrare l’alterità che sfugge, la fame di gloria e di conquista muovono gli animi nelle spedizioni d’oltreoceano.

Si crea quindi un forte nesso tra spazio e curiosità.

Il senso del meraviglioso e la curiosità, che il Rinascimento deriva dal medioevo, saranno amplificati in maniera esponenziale grazie all’aprirsi della frontiera americana.

“La prima fase della «scoperta» coglie la singolarità. (…)

Il mondo del Rinascimento non si accontenta di aprire gli occhi perché si faccia la luce.

Anzi, le sue stesse origini medievali lo hanno abituato alla singolarità.

Emerge da una familiarità con il «meraviglioso» ed è dal bisogno di prolungare questa coesistenza, quasi fosse una sua forza, che lentamente prenderà coesistenza della sua attività propria, la «curiosità».

[…] Con naturalezza la curiosità cerca nell’apparizione di «paesi incogniti» il meraviglioso (…).

La sua materia è il mostro (…).

Il mostro è il diverso dell’universo medievale, ad un tempo la sua distrazione e la prova che tutte le creature appartengono all’unità della creazione.

Nulla, quindi, di sorprendente se intorno al 1597 il padre Richeome si aggira ancora, con compiacimento e certezza, in mezzo ad un bestiario di mostri marini”.

1

La novità si scontra con il bisogno di stabilità e certezze e con la necessità di inserire, in un piano preordinato, un mondo complesso e articolato, difficile da studiare e comprendere.

La caccia al mostro, allo strano, all’esotico, riempie pagine di relazioni di viaggio e diari di bordo, alimentando una curiosità vorace e nervosa, che trova la sua più completa espressione nell’accumulo compulsivo di oggetti, piccoli manufatti e preziosità, destinate in gran parte ad arricchire collezioni private e raccolte di rarità.

Alphonse Dupront osserva che, grazie alla catalogazione, gli europei del XVI secolo possono appropriarsi definitivamente di ciò che è inconsueto e bizzarro, stabilendo, a partire dalla

1

Alphonse Dupront, Espace et Humanisme, Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance, t. VIII, 1946, (trad.it di

Gigliola Fragnito, Spazio e umanesimo. L’invenzione del Nuovo Mondo, Venezia, Marsilio, 1993, pp. 36-37).

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propria visione occidentale, una gerarchia di valore, riaffermando così il loro potere e la supremazia della loro cultura:

“La curiosità per un certo periodo definirà la pratica del nuovo. (…)

Il Cinquecento, del resto, calato nel vivo della vita e delle cose, scrive poco e riflette ancor meno intorno a quella stilizzazione astratta che chiamiamo «curiosità»: per esso esistono soprattutto «cose curiose».

La curiosità è nelle cose quanto e più che nell’uomo che cerca. […]

Il termine, tuttavia, ha acquistato un diverso significato: preserva la curiosità nella cosa in sé, ma in essa la racchiude, secondo il capriccio dell’uomo che cataloga ed etichetta.

Le cose hanno trovato il loro padrone. […]

Queste curiosità a portata di mano sono a discrezione dell’uomo, vengono catalogate secondo l’importanza che egli vi annette - vi saranno gradazioni del «curioso, del più e del meno curioso – presto verranno vigorosamente setacciate fino a trattare solo le «cose degne di essere notate»”.

2

Tuttavia, la curiosità rinascimentale non è solo spasmodico accumulo di chincaglieria e prodotti ricercati, che soddisfino il gusto e l’orgoglio di principi, nobili e ricchi mecenati.

Lo studio e la ricerca si accompagnano al crescente interesse per le Indie e per l’Oriente, per le notizie riportate da viaggiatori e missionari.

Dupront nota infatti la corrispondenza tra il termine “curioso” e il latino cinquecentesco

“studiosus”, che riporta alla mente un approfondimento serio e rigoroso, poiché curiosità significa anche riflessione ed erudizione.

Alle soglie del Seicento, comincia a farsi strada l’idea che le Indie costituiscano un mondo radicalmente diverso rispetto a quello occidentale e a quello orientale finora conosciuto.

Gliozzi infatti ricorda che “solo nell’ultimo ventennio del Cinquecento la novità del Nuovo Mondo, prima percepita sporadicamente, viene a costituirsi sotto il profilo definito di un problema concettuale. Il Nuovo Mondo è un mondo davvero nuovo, e come tale va compreso e spiegato”.

3

Le sue specificità non possono essere ignorate, ma gli antichi i paradigmi che cercavano di imbrigliare le Indie in un contesto storico-geografico già prescritto, deformando i confini della mappa biblica del mondo, costituiscono ancora una valida cornice onnicomprensiva.

Come nota Marcel Bataillon, la scoperta dell’America “non fece scomparire e neppure scolorire la vecchia immagine del mondo di Aristotele e di Tolomeo.

Questa scoperta, se così possiamo dire, dilatò la terra”.

4

2

Ibid., pp. 39 – 41.

3

G. Gliozzi, “Il «Nuovo Mondo» nella cultura europea del Seicento”, Differenze e uguaglianza nella cultura

europea moderna. Scritti 1966 – 1991, Napoli, Vivarium, 1993, p. 162.

4

Marcel Bataillon, “Novo mundo e fim do mundo”, Revista de Historia, 18, 1954, p. 344. Traduzione dal

portoghese mia. Corsivo mio.

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Il continente americano è troppo grande, troppo diverso, troppo nuovo per poter trovare una comoda collocazione nelle ormai obsolete carte di navigazione, che rispecchiano una visione fortemente eurocentrica dell’universo.

Lo stesso Ruggiero Romano insiste nel sottolineare l’importanza del concetto di novità:

“Nuovo, del resto, è una parola chiave. Il Nuovo Mondo è tale non solo perché è stato recentemente scoperto, ma anche perché è lui stesso intrinsecamente nuovo.

Nuovo, perché è «enfant», «nu» (…). Un mondo fanciullo, dunque, e, proprio, per questo, nuovo”.

5

Si avverte la necessità di affrontare da una diversa prospettiva la questione americana, riconsiderando spazi, uomini e cose, anche e soprattutto alla luce delle mutate esigenze europee e delle mire espansionistiche delle grandi potenze che intendono concorrere all’avventura d’oltreoceano.

6

La consapevolezza dell’incontro di due realtà antitetiche si articola perfettamente nelle riflessioni americane di Michel de Montaigne, che, nei suoi Essais, coglie non solo il carattere di novità delle Americhe, ma anche la profonda incompatibilità di mondi così lontani ed estranei:

“Il nostro mondo ne ha appena trovato un altro (…) non meno grande, pieno e membruto di lui, e tuttavia così ingenuo e fanciullo che gli si insegna ancora il suo abbiccì; non sono cinquant’anni che non conosceva né lettere, né pesi, né misure, né vesti, né grani, né vigne.

Era ancora tutto nudo nel grembo della sua nutrice e non viveva che dei mezzi di lei”.

7

L’umanista francese descrive un mondo ingenuo, i cui abitanti, semplici e dipendenti dalla natura, sono stati brutalmente colonizzati, abusati e oppressi da uomini senza scrupoli, che, forti della propria superiorità tecnica e militare, non hanno esitato a depredare, torturare e uccidere, pur di arricchirsi. E la trasmissione del morbo europeo produce conseguenze devastanti:

“Temo molto che avremo assai affrettato il suo declino e la sua rovina col nostro contagio, e che gli avremo venduto a ben caro prezzo le nostre opinioni e le nostre arti.

5

Ruggiero Romano, Préface, Michel de Montaigne, De America, Paris, Utz, 1991, pp. 11-12. Traduzione dal francese mia.

6

Sarebbe la prospettiva di un intenso e ricco scambio commerciale con le Americhe a determinare un cambio di prospettiva: la mentalità del sacar e irse, tipica soprattutto della prima fase della conquista, o quella dello sfruttamento massiccio e invasivo delle risorse minerarie, attuata successivamente, sarà sostituita dalla più moderata e civile pratica del commercio.

Grazie all’apertura e alla mappatura delle rotte d’oltreoceano, gli Stati europei in ascesa cominciano a valutare i vantaggi economici della scoperta: le Indie non saranno solo una risorsa da consumare, ma diventeranno un ben più utile partner commerciale. (Su questo punto si veda G. Gliozzi, “Il «Nuovo Mondo» nella cultura europea del Seicento”, Differenze e uguaglianza nella cultura europea moderna. Scritti 1966 – 1991, op. cit., p. 161 e sgg.).

7

Montaigne, Des coches, Essais, (1588), (trad.it di Fausta Garavini, Saggi, libro III, Milano, Adelphi, 1992, pp.

1209-1210. Corsivo mio).

(4)

Era un mondo fanciullo; eppure noi non l’abbiamo fustigato e sottomesso alla nostra disciplina con la superiorità del nostro valore e delle nostre forze naturali, né lo abbiamo sedotto con la nostra magnanimità”.

8

Gli europei hanno avuto la meglio sugli indios non certo grazie alle loro virtù, ma sfruttando la menzogna, l’inganno e la violenza.

9

Il vecchio Mondo ha distrutto il Nuovo, snaturandolo e innestando le radici di una società viziata, corrotta e ingiusta:

“Con la tubercolosi e la sifilide, l’Europa moderna ha esportato la sua profonda malattia, il contagio delle sue perversioni. (…) La «corruzione» della conquista ha macchiato per sempre il Nuovo e il vecchio Mondo.

Ha distrutto i valori e la cultura dell’America indiana.

E, di ritorno, ha imbarbarito ancora di più l’Europa, plasmata dalla romanità e dal cristianesimo.

Nei Saggi, al paradiso perduto della dolce e vigorosa America brasiliana, allo svanito splendore dell’America azteca e inca, si oppongono inevitabilmente le brutture della civilizzazione europea, la vile forza delle sue armi e la sua ipocrisia. (…)

Montaigne non condanna solo la potenza spagnola, ma la società europea nel suo complesso.

E prende le parti dei vinti”.

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L’immagine stereotipata e vaga dell’indio nudo, rozzo e illetterato, privo delle tecniche minime dell’agricoltura, senza legge né dio, propagandata dalla letteratura di viaggio e abilmente sfruttata dai sostenitori della superiorità culturale europea, sarà adesso recuperata da Montaigne per veicolare valori positivi e costruire idillici scenari di una felicità ormai irrimediabilmente compromessa e perduta.

Comincia a prendere forma l’idea di una ritrovata età dell’oro, in cui gli uomini vivono in armonia tra loro, paghi dei doni della terra, senza leggi né comunità organizzate:

“Ora mi sembra (…) che in quel popolo non vi sia nulla di barbaro e di selvaggio, (…) se non che ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo.

Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa.

Essi sono selvaggi allo stesso modo che noi chiamiamo selvatici i frutti che la natura ha prodotto da sé nel suo naturale sviluppo (…).

[…] Tutti i nostri sforzi non possono arrivare nemmeno a riprodurre il nido del più piccolo uccellino, la sua tessitura, la sua bellezza e l’utilità del suo uso, e nemmeno la tela del miserabile ragno.

Tutte le cose, dice Platone, sono prodotte dalla natura, o dal caso, o dall’arte; le più grandi e le più belle, dall’una o dall’altra delle due prime cause; le più piccole e imperfette, dall’ultima.

8

Montaigne, Des coches, Essais, (1588), (trad.it di Fausta Garavini, Saggi, libro III, Milano, Adelphi, 1992, p.

1210. Corsivo mio).

9

Lo stesso Bataillon riflette sul tema dell’inganno con cui gli europei si sono fatti strada nelle Indie, terrorizzando gli indios con i loro potenti eserciti e con armi sconosciute: “La conquista è stata un insuccesso perché gli

Europei, lungi dall’apportare alla giovinezza del continente americano, ciò che avevano di meglio, vi hanno introdotto i peggiori frutti della loro corruzione decadente. Invece di educare e offrire esempi (…) i nuovi arrivati hanno sottomesso questi popoli innocenti e coraggiosi attraverso il tradimento e la violenza, abusando della superiorità e del prestigio quasi soprannaturale che assicuravano loro i cavalli, le lame d’acciaio, le armi da fuoco”. [MARCEL BATAILLON, “Montaigne et les conquérants de l’or”, Studi francesi, 9, 1959, pp. 357-358.

Traduzione dal francese mia].

10

Gérald Nakam, Les Essais de Montaigne, miroir et proces de leur temps. Temoignage historique et création

littéraire, Publications de la Sorbonne, Paris, 1984, p. 332. Traduzione dal francese mia.

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Quei popoli dunque mi sembrano barbari in quanto sono stati in scarsa misura modellati dallo spirito umano, e sono ancora molto vicini alla loro semplicità originaria.

Li governano sempre le leggi naturali, non ancora troppo imbastardite dalle nostre; ma con tale purezza, che talvolta mi dispiace che non se ne sia avuta nozione prima, quando c’erano uomini che avrebbero saputo giudicarne meglio di noi”.

11

Montaigne insiste nel sottolineare la vicinanza delle popolazioni amerindie alla natura.

Gli abitanti del Nuovo Mondo sono simili ai frutti selvatici, che crescono spontaneamente e liberamente nelle foreste. La loro condotta è disciplinata dalle leggi naturali: ignorano il diritto e le leggi positive, perché non ne hanno bisogno. Essi sono perfettamente in grado di condurre una vita felice e responsabile, godendo di ciò che è presente nell’ ambiente che li circonda, senza invidia, avidità o risentimento.

La “naifveté originelle” e la “pureté” degli indigeni americani è talmente preziosa che dovrebbe essere protetta ed esaltata, non certo svilita e umiliata dalla volgare e distruttiva fame di conquista degli europei.

Nakam, analizzando Des Cannibales, dal punto di vista linguistico, individua alcuni nuclei tematici di grande rilievo, che costituiscono gli assi intorno ai quali si costruirà il vocabolario dell’alterità, a partire dal Rinascimento:

“Tre serie di parole servono d’appoggio al testo e gli conferiscono una forte unità poetica.

Una serie più importante e brutale, con «barbare», «barbarie», «barbaresque», leggermente modulata con «sauvage» (…).

In contrasto, la seconda voce del testo è tenera e riposa sui termini «pur», «nu», «simple», «naturel».

La terza voce, di nuovo in contrasto, è molto violenta.

Essa prosegue con le parole «altérer», «abâtadir», «corrompre», «corruption» e termina con la crudele

«ruyne»”.

12

Il filosofo francese si rammarica che queste straordinarie qualità non siano riconosciute e che gli antichi, tra i quali si trovavano uomini di specchiata moralità, non abbiano potuto incontrare questi popoli:

“Mi dispiace che Licurgo e Platone non ne abbiano avuto conoscenza; perché mi sembra che quello che noi vediamo per esperienza in quei popoli oltrepassi non solo tutte le descrizioni con cui la poesia ha abbellito l’età dell’oro, e tutte le sue immagini atte a raffigurare una felice condizione umana, ma anche la concezione e il desiderio medesimo della filosofia.

Essi non poterono immaginare un’ingenuità tanto pura e semplice quale noi vediamo; né poterono immaginare che la nostra società potesse mantenersi con così pochi artifici e legami umani.

È un popolo, direi a Platone, nel quale non esiste nessuna sorta di traffici; nessuna conoscenza delle lettere; nessuna scienza dei numeri; nessun nome di magistrato, né di gerarchia politica; nessuna usanza di servitù, di ricchezza o di povertà; nessun contratto; (…).

Le parole stesse che significano menzogna, tradimento, perdono, non si sono mai udite.

Quanto lontana da questa perfezione egli troverebbe la repubblica che ha immaginato: «viri a diis recentes»”.

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11

Michel de Montaigne, Des cannibales, Essais, (1580), (trad.it di Fausta Garavini, Dei cannibali, Saggi, libro I, XXXI, Milano, Adelphi, 1992, pp. 272-273. Corsivo mio).

12

Gérald Nakam, Les Essais de Montaigne, miroir et proces de leur temps. Temoignage historique et création

littéraire, Publications de la Sorbonne, Paris, 1984, p. 346. Traduzione dal francese mia.

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Secondo Montaigne, gli antichi avrebbero dato degli amerindi un’immagine ben diversa da quella costruita dagli esploratori e conquistatori spagnoli.

E questo perché ancora apprezzavano virtù e onestà e raccomandavano una vita semplice, lontana da falsità, vizio e smodate passioni.

Neppure lo stato platonico potrebbe uguagliare la serena perfezione delle società amerindie.

Infatti, Platone teorizza un’organizzazione politica, molto rigida e regolata al suo interno, basata su una società saggia, virtuosa e giusta, orientata secondo natura (κατὰ φύσιν), in cui ogni membro contribuisce con il suo lavoro al bene della comunità, cooperando in armonia con gli altri, in base alle proprie capacità e inclinazioni.

Questo modello, per funzionare, abbisogna di una sincronia di intenti e di una struttura molto complessa e articolata.

Le comunità amerindie, invece, fioriscono spontaneamente, senza alcun bisogno di apparati e funzionari. Pur non conoscendo leggi, giudici, arti o tecniche sono ordinate e felici.

L’assenza di leggi e di giudici, infatti, caratterizza la loro socialità; la vita scorre pacificamente, senza contese né rivalità. Come nota Gérald Nakam,

“Gli Americani dei Saggi del 1580 sono gli unici popoli moderni del libro, che coniugano la felicità e l’autenticità, due caratteristiche che, per Montaigne, sono tutt’uno.

Essi si pongono in netto contrasto con gli Europei”.

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Ils n’ont peu imaginer une nayfveté si pure et simple: neppure gli antichi avrebbero creduto alla reale esistenza di gente così innocente e pura, che si gloria solo del proprio valore in guerra e della fedeltà delle proprie donne.

La dimensione ideale dell’age doré trova la sua corrispondenza vera e concreta nel Nuovo Mondo, dove gli uomini, figli rispettosi di una natura benigna e prodiga, conducono una vita sobria e modesta.

È possibile dunque vivere senza artifici e senza inganni: gli abitanti delle Indie ne sono la prova:

“Quei popoli che abbiamo or ora scoperto, così abbondantemente forniti di cibo e di bevanda naturale, senza preoccupazioni e senza fatica, ci hanno insegnato che il pane non è il nostro solo alimento, e che, senza agricoltura, la nostra madre natura ci aveva forniti a sufficienza di tutto ciò che ci abbisognava;

anzi, come è verosimile, con maggiore abbondanza e ricchezza di quanto faccia ora che vi abbiamo introdotto la nostra arte (…) giacché l’eccesso e la sregolatezza del nostro appetito superano tutto ciò che cerchiamo di inventare per saziarlo”.

15

13

Michel de Montaigne, Des cannibales, Essais, (1580), (trad.it di Fausta Garavini, Dei cannibali, Saggi, libro I, XXXI, Milano, Adelphi, 1992, pp. 273-274.).

14

Gérald Nakam, Les Essais de Montaigne, miroir et proces de leur temps. Temoignage historique et création

littéraire, Publications de la Sorbonne, Paris, 1984, p. 343. Traduzione dal francese mia.

15

Michel de Montaigne, Apologie de Raymond Sebond, Essais, (1580), (trad.it di Fausta Garavini, Apologia di

Raymond Sebond, Saggi, libro II, XII, Milano, Adelphi, 1992, pp. 591-592).

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La natura aveva già predisposto tutto il necessario per l’uomo e per gli animali: cibo, acqua e terre fertili e favorevoli per l’insediamento.

Ma l’artificio umano, ingenerando la passione per il superfluo, ha creato più bisogni e bramosie di quanti ne possa soddisfare, provocando scontento e miseria.

Il goust corrompu e la vanità hanno contribuito a sviluppare una catena di necessità materiali inesauribile e sempre crescente.

Gli indios, invece, si accontentano di ciò che la natura ha provveduto a fornire loro.

“E sono ancora nella felice situazione di desiderare solo quel tanto che le loro necessità naturali richiedono; tutto quello che va al di là è superfluo per loro”.

16

Montaigne difende l’estraneità dei popoli amerindi nei confronti della smania di ricchezze, della ricerca del lusso e di altri vizi loro sconosciuti, esaltando le ordinate e pacifiche comunità, che, anche “senza magistrato e senza leggi”

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, sono perfettamente capaci di governarsi.

Infatti,

“Come la vita si rende più piacevole con la semplicità, così si rende anche più innocente e migliore (…).

«I semplici», dice San Paolo «e gli ignoranti si innalzano e conquistano il cielo: e noi, con tutto il nostro sapere, sprofondiamo negli abissi infernali»”.

18

Del resto, anche Pietro Martire d’Anghiera, nel suo De Orbe Novo, aveva sostenuto che i popoli caraibici vivessero in un’età dell’oro, addirittura ben più lieti degli uomini incontrati da Enea nel Lazio:

“Sono convinto che i nostri abitanti dell’isola di Hispaniola siano più felici di quelli, a patto che assorbano la fede, poiché, nudi, senza fardelli, senza misura e infine senza il mortale denaro, vivendo in un’età dell’oro, conducono la vita paghi della natura, senza leggi, senza giudici cavillosi, senza libri, preoccupati assai poco del futuro”.

19

16

Montaigne, Des cannibales, Essais, (1580), (trad.it di Fausta Garavini, Dei cannibali, Saggi, libro I, XXXI, Milano, Adelphi, 1992, p. 279). Qui Montaigne sembra rievocare il poeta latino Lucrezio, che sente

particolarmente vicino e familiare: “Ciò che il sole e la pioggia donavano e la terra creava/ come offerta spontanea, bastava a placare quei petti./Per lo più ristoravano le membra tra le querce cariche di ghiande; e quei frutti che ancora tu vedi/ d’inverno divenire maturi/ le purpuree corbezzole/ allora la terra li produceva abbondanti e più grossi”. [LUCREZIO, De rerum natura, V, vv. 937-942, (trad.it di Luca Canali, La natura delle cose, in I

testi della letteratura latina 2, Torino, Einaudi, 1999, p. 101)].

L’influenza degli autori classici, testimoniata dalla presenza delle numerose citazioni all’interno degli Essais, è fondamentale e determinante nel pensiero del filosofo francese e nella cultura rinascimentale.

17

Montaigne, Apologie de Raymond Sebond, Essais, (1580), (trad.it di Fausta Garavini, Apologia di Raymond Sebond, Saggi, libro II, XII, Milano, Adelphi, 1992, p. 649 ).

18

Montaigne, Apologie de Raymond Sebond, Essais, (1580), (trad.it di Fausta Garavini, Apologia di Raymond Sebond, Saggi, libro II, XII, Milano, Adelphi, 1992, p. 649 ).

19

Pietro Martire d’Anghiera, De Orbe Novo, Decade I, (1530), Paris, Guillaume Auvray, 1587, p. 18. Cit. in

Stelio Cro, “Classical Antiquity, America and the Myth of the Noble savage”, The Classical Tradition and the

Americas: European Images of the Americas and the Classical Tradition, vol. I, (ed. by Wolfgang Haase and

Meyer Reinhold, Berlin-New York, Walter de Gruyter, 1994, p. 395). Traduzione dal latino mia.

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Sostenere che la vita nelle Americhe sia stata pacifica e innocente, prima dell’arrivo dei conquistadores, è, per certi aspetti, una semplificazione, volta ad esaltare un modello antitetico rispetto alla società occidentale, violenta e prevaricatrice.

Numerose, infatti, sono le fonti che testimoniano le inimicizie e gli scontri tra le diverse tribù che abitavano territori vicini.

Ma, il tema di una vita felice, in un mondo semplice e innocente, rivolge la polemica contro un’Europa dilaniata da conflitti, paure e guerre di religone.

Il mito dell’aurea aetas rivive nelle Americhe e nei suoi abitanti, che, lontani da corruzione e inganni, non conoscono la mortifera pecunia né tantomeno i cavilloses iudices.

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Il Rinascimento sarà particolarmente legato a questo tema, anche in virtù della riscoperta dei classici e dell’importanza che essi rivestono all’interno del suo tessuto culturale.

Autori come Lucrezio, Quintiliano, Cicerone e Valerio Flacco erano stati rinvenuti negli archivi e nelle vecchie biblioteche di abbazie e piccole città europee.

Gli umanisti ricostruiscono e recuperano filologicamente testi e manoscritti, ripristinandone

“l’antico abito e l’antica dignità, l’antica bellezza e la perfetta salute”.

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Il Rinascimento vive dello spirito della classicità: scrittori, poeti e studiosi si nutrono della luce del passato e quest’ultimo rifulge nelle loro opere, diffondendosi nelle corti e nei circoli di cultura europei.

“Gli antichi (…) sono infatti depositari di quella verità e bellezza ideali, tipiche del mondo classico, che si erano perdute nei secoli del Medio Evo; sono i maestri a cui attingere il sapere e con i quali intessere un dialogo quotidiano”.

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Sérgio Buarque de Holanda ricorda quanta influenza abbia il mito classico sull’immagine del continente americano e come Pietro Martire continui a sostenerlo anche quando comincia ad affacciarsi lo spettro del cannibalismo caraibico.

Lo storico italiano, infatti, propone le sue teorie sull’età dell’oro nel secondo libro della prima Decade, preparato tra il 1493 e il 1494, “quando le notizie ancora fresche della scoperta e le speranze a cui davano luogo

permettevano questa visione immacolata. Ma, nello stesso libro terzo, che sarà pubblicato solo nel 1500, epoca in cui già sono ben note le crudeltà e la ferocia dei cannibali antillani, si riafferma, con enfasi ancora maggiore, questo seducente quadro dell’aurea aetas”. [SÉRGIO BUARQUE DE HOLANDA, Visão do Paraíso. Os motivos

edénicos no descobrimento e colonização do Brasil, São Paulo, Publifolha, 2000, p. 228. Traduzione dal

portoghese mia].

Il bisogno di identificare mito classico e realtà americana è talmente forte e radicato da resistere anche di fronte ai racconti delle violenze e della bestialità antropofaga dei popoli indigeni.

20

Il miraggio dell’età dell’oro e del paradiso terrestre si avverte con particolare urgenza proprio nel periodo rinascimentale. I viaggiatori avevano a lungo fantasticato, prima di giungere nelle Indie. “Ma nessuna regione poteva competere con l’America, come luogo del paradiso terrestre o al meno come segmento del mondo più dotato delle virtù del paradiso. Sebbene il continente sembrasse divorare esploratori e coloni con allarmante regolarità, le relazioni provenienti dal Nuovo Mondo rimanevano fortemente paradisiache, fino a che gli inglesi non rimasero impelagati nell’affare di costruire colonie. In seguito, la terra opponeva resistenza allo sfruttamento e i popoli nativi rendevano difficile la vita ai potenziali colonizzatori”. [BERNARD W. SHEEHAN, Savagism

and Civility. Indians and Englishmen in Colonial Virginia, Cambridge-New York-Melbourne, Cambridge

University Press, 1980, p. 10. Traduzione dall’inglese mia].

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Poggio Bracciolini, Epistole, III, 15.12.1416, (trad.it di Eugenio Garin, Poggio fiorentino segretario apostolico

saluta il suo Guarino veronese, in Prosatori latini del Quattrocento, Milano-Napoli, Ricciardi, 1952, p. 243).

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Il glorioso passato della Grecia e di Roma è vissuto come presente e come fonte insesauribile di conoscenza e perfezione.

La contemporaneità dell’antico si manifesta nell’imitazione dei modelli e dello stile classico, attraverso la rielaborazione di temi e argomenti ispirati alla tradizione.

Il mito dell’età dell’oro passa al Rinascimento grazie soprattutto gli scrittori latini, riferimento saldo e imprescindibile per gli umanisti europei.

I topoi dell’antichità classica, che da Esiodo arrivano alla tarda latinità, sono ora ricalcati sulla sagoma del Nuovo Mondo: la semplicità, l’innocenza e la purezza degli indios sono associate alla beatitudine dell’età di Crono o Saturno, quando la terra produceva i suoi frutti in abbondanza senza bisogno di alcun intervento umano, le sorgenti e i fiumi offrivano le loro dolci acque per placare la sete, il miele traboccava dalle cavità degli alberi e gli uomini non si odiavano l’un l’altro, ma gioivano della vita comune.

Virgilio riprende il comune adagio che vede la primissima età dell’uomo florida e prospera, seppur priva di arti e produttivo ingegno:

“Prima di Giove non v’erano agricoltori a lavorare la terra, e neanche si poteva segnare i confini dei campi e spartirli;

tutti gli acquisti erano in comune, la terra da sé donava, senza richiesta, con grande liberalità, tutti i prodotti”.

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Orazio vagheggia le Isole Felici, remote ed estranee a guerre civili e violenza, nelle cui terre crescono bionde messi e abbondano vino e miele, mentre gli armenti pascolano sicuri e liberi:

“Raggiungiamo i beati campi e le Isole Felici, ove il suolo non arato produce ogni anno il frumento e non potata fiorisce sempre la vite,

e mai ingannevoli germogliano i rami dell’olivo e il bruno fico adorna il proprio albero,

dai cavi lecci stilla miele, dagli alti monti l’acqua zampilla lieve con mormorante fluire.

Ivi le giovani capre vengono spontanee alla secchia, il gregge amico riporta gli uberi colmi,

né di sera gli orsi grugniscono introno all’ovile, né la terra nel profondo è rigonfia di vipere.

Nessun contagio laggiù nuoce agli armenti, né la rovente violenza degli astri riarde il gregge.

(…) Quando Giove volse l’età dell’oro in quella peggiore del bronzo, riservò quei lidi a gente pia,

poi l’età bronzea indurì nei tempi del ferro, dai quali,

io profetizzo, ai buoni è concesso un favorevole scampo!”.

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22

Giuseppe Zaccaria, La riscoperta dei classici, in G. Baldi, S. Giusso, M. Razetti, G. Zaccaria, Dal testo alla

storia, dalla storia al testo, Umanesimo, Rinascimento, Età della Controriforma, vol. B,Torino, Paravia, 1998, p.

46.

23

Virgilio, Georgica, I, 125-128, (trad.it di Luca Canali, Georgiche, in I testi della letteratura latina 2, op.cit., p.

339).

(10)

Tibullo celebra le gioie delle campagna, rustico angulus di serenità e di quiete, rimpiangendo la moderata e pacifica età di Saturno:

“Com’era bella la vita sotto il regno di Saturno, prima che la terra fosse solcata da lunghe vie!

(…)

In quel tempo il possente toro non si sottometteva al giogo, il cavallo non mordeva il freno con bocca domata;

le dimore non avevano porte, non v’erano pietre

piantate in terra per delimitare il terreno con sicuri confini.

Le querce davano spontaneamente miele, e allo stesso modo

le pecore offrivano gli uberi colmi di latte a quegli uomini spensierati.

Non v’erano eserciti, né ira, né guerre: il fabbro

non aveva ancora appreso la crudele arte di forgiare spade”.

25

Neppure Ovidio è insensibile al fascino del mito, di cui sceglie di offrire la sua versione nelle Metamorfosi, recuperando il topos delle campagne ubertose e felici, dove non esiste proprietà privata né violenza:

“Fiorì per prima l’età dell’oro; e da sé, senza leggi, senza nessuno a difenderle, osservava giustizia e lealtà.

Ignoti le pene e il terrore: a nessuno accadeva di leggere minacce incise nel bronzo né a gente implorante di tremare di fronte a un giudice; senza nessuno a difenderla stava al sicuro.

(…) Non c’erano ancora, a recingere le città, profondi fossati, non esisteva la tromba di bronzo diritto, né il corno di bronzo ricurvo, né gli elmi e le spade; senza bisogno di eserciti, tranquilli vivevano i popoli tempi beati di pace.

Anche la libera terra, dal rastrello inviolata e tuttora non offesa dal vomere, scelse di dare da sola di tutto;

e appagati dai cibi prodotti senza forzarla, coglievano frutti d’arbusti, corniole, sulle montagne le fragole, appese a spinosi roveti le more, le ghiande

cadute dall’albero vasto di Giove.

La primavera era eterna: sfioravano placidi zefiri, col loro tiepido soffio, fiori nati, ma mai seminati.

Senz’essere arata, in breve tempo la terra si ricopriva di messi;

24

Orazio, Epodon liber, XVI, 41-62; 63-66, (trad.it di Luca Canali, Odi. Epodi, Milano, Mondadori, Classici latini e greci, 2004, pp. 414-417). Anche Luciano, nella sua Storia vera, ricorda terre lontane e amene, e, facendosi beffa del mito, presenta l’isola di formaggio, dominata dal tempio di Galatea, in cui i tralci di vite non danno vino, ma bianco latte e la celeberrima isola dei Beati, governata da Radamanto, dove effluvi fioriti profumano l’aria, ricchi gioielli adornano gli alti templi, i fanciulli allietano i banchetti con cori e canti, accettando di buon grado le attenzioni degli astanti e la natura dona spontaneamente e senza riserve i suoi frutti: “Il paese è tutto un rigoglio di fiori e piante di ogni genere, da frutto e da ombra: i tralci producono il frutto tredici volte l’anno, a quanto dicevano, (due volte solo nel mese di Minosse). Invece di grano le spighe portano in cima un pane già pronto, come un fungo.

Intorno alla città ci sono 365 fonti d’acqua, altrettante di miele, 500 di profumo (queste più piccole), 7 fiumi di latte e 8 di vino”. [LUCIANO DI SAMOSATA, Alethon Diegmaton, II, 13, (trad.it di Ugo Montanari, Storia vera, Milano, 1994, pp. 60-61)].

La straordinaria abbondanza, caratteristica dell’età dell’oro e delle isole cantate dai poeti, viene messa alla berlina dalla caustica ironia di Luciano, che vede addirittura interi pani sopra le spighe dorate.

25

Tibullo, Tibulli aliorumque carminum libri, I, 3, 35-36; 41-48, (trad.it di Luca Canali, Elegie, in I testi della

letteratura latina 2, op.cit., p. 527).

(11)

campi non dissodati s’imbiancavano di gravide spighe:

qui scorrevano fiumi di latte, lì fiumi di nettare

e biondo miele stillava dal tronco verde del leccio”.

26

Tra querceti e miele dorato, gli uomini trascorrono un’esistenza serena e gioiosa, godendo della generosità di una natura premurosa e spontaneamente ricca.

Anche per Montaigne, come per Pietro Martire, gli amerindi vivono in un locus amoenus, dove regna sempre un clima mite, salubre e gradevole:

“Quanto al resto, essi vivono in una contrada piacevolissima dal clima temperato; sicché, a quanto mi hanno detto i miei testimoni, è raro vedere un uomo malato (…).

Vivono lungo il mare, protetti dalla parte della terra da grandi ed alte montagne (…).

Hanno grande abbondanza di pesce e di carni che non somigliano affatto alle nostre, e le mangiano senza altro accorgimento che la cottura. […]

Si alzano col sole, e mangiano subito dopo essersi alzati, una volta per tutta la giornata; non fanno infatti altro pasto che quello. Non bevono allora, come Suida dice di certi altri popoli dell’Oriente, che bevevano fuori dai pasti; bevono diverse volte durante il giorno, e molto. […]

Tutta la giornata la passano a danzare. I più giovani vanno a caccia delle bestie con l’arco.

Una parte delle donne si occupa intanto a riscaldare la loro bevanda, e questo è il loro compito principale”.

27

L’ideale classico della modestia e della frugalità ricompare nelle abitudini degli indios, che non hanno bisogno di arti e di tecniche, poiché la terra, madre amorevole e fruttifera, produce per loro ogni bene. Essi trascorrono la giornata in danze e canti.

Non esiste invidia né inimicizia e la concordia regna sovrana.

Tutto è in comune e nessuno manca del necessario. Infatti, prima dell’arrivo degli europei, questi uomini non conoscevano l’amor sceleratus habendi

28

, che corrompe l’animo e ottenebra le menti.

29

Nonostante ciò, l’affinità tra le Americhe e l’età dell’oro nasconde in sé dei lati oscuri.

Come sottolinea Peter Mason, “la tradizione greco-romana sull’età dell’oro era fondamentalmente ambigua fin dall’inizio. Se ci concentriamo su coloro che erano distanti in termini di spazio – gli abitanti dei territori ai confini della Grecia – troviamo il vegetarianismo associato alla giustizia almeno fin dai tempi di Eschilo, che si riferisce agli Sciti dalle salde leggi, che mangiano formaggio fatto con latte di cavalla (fr. 198N). Una dieta di questo tipo dipende dalla raccolta del cibo, non dalla coltivazione, che caratterizza quindi l’età dell’oro

26

Ovidio, Metamorfoses, I, 89-94; 97-112, (a cura di Alessandro Barchiesi, trad.it di Ludovica Koch,

Metamorfosi, Milano, Fondazione Lorenzo Valla-Arnoldo Mondadori editore, 2005, pp. 14-17).

27

Michel de Montaigne, Des cannibales, Essais, (1580), (trad.it di Fausta Garavini, Dei cannibali, Saggi, libro I, XXXI, Milano, Adelphi, 1992, pp. 274-275).

28

Ovidio, Metamorfosi, I, 131.

29

Lo stesso Poliziano, nel tardo Quattrocento, ascoltando i sospiri delle ninfe e celebrando gli amori e le gioie della dolce età dell’oro, ricordava che allora: “Non era ancora la scelerata sete/del crudel oro/entrata nel bel mondo:/vivenasi in libertà le genti liete;/e non solcato il campo era fecondo./Fortuna invidiosa a lor quiete/ruppe ogni legge e pietà mise in fondo:/lussuria entrò ne’ petti e quel furore/che la meschina gente chiama amore”.

[POLIZIANO, Le Stanze, I, 21, (1475-1478), Firenze, Molini & Co., 1805, p. 10]

(12)

come un’era pre-culturale di raccolta spontanea prima dell’introduzione del lavoro agricolo.

D’altro canto, paradossalmente, l’età dell’oro era anche il periodo in cui la carne era consumata cruda, segno di una condizione pre-culturale. Quindi, mentre alcuni Sciti erano vegetariani, altri praticavano l’antropofagia (…).

Se torniamo al passato mitico può essere ravvisata una simile ambiguità.

La dieta a base di ghiande degli abitanti dell’Arcadia è vista in una luce positiva o negativa:

serve come modello di frugalità da imitare o è indice di uno stadio meno avanzato, precedente alla coltivazione del grano e contaminato dal mostruoso sacrificio di Licaone (…).

E se proseguiamo, dai mitici antenati degli Arcadi fino al mitico dio Crono, emerge la stessa ambiguità: da un lato, abbiamo Crono che uccide suo padre, uccide e divora i suoi figli e si comporta come un tiranno, dall’altro, c’è la sua relazione con la felicità dell’età dell’oro e il suo saggio e grande re (…)”.

30

L’ambiguità del mito accompagna tutta l’età pre-sociale: molti autori classici rimpiangono l’età dell’oro, altri esaltano l’uscita da una condizione belluina e ben poco civile, festeggiando l’avvento di ordinate comunità e città.

Esistono infatti rappresentazioni contraddittorie del lontano passato mitico: da un lato semplicità e pace, dall’altra bestialità e pericoli.

31

30

Peter Mason, “Classical Ethnography and its Influence on the European Perception of the Peoples of the New World”, The Classical Tradition and the Americas: European Images of the Americas and the Classical Tradition, vol. I, (ed. by Wolfgang Haase and Meyer Reinhold, Berlin-New York, Walter de Gruyter, 1994, p. 140).

Traduzione dall’inglese mia.

31

Bernard Sheehan si sofferma su questa duplice visione, che si riflette sugli abitanti delle Americhe, notando come i miti, le speranze e le paure che la costituiscono siano talmente radicati nell’immaginario europeo, da falsare la percezione che gli esploratori, i viaggiatori e i coloni hanno degli indigeni anche in seguito al contatto diretto con queste popolazioni. “Entrambe le immagini, nobile e ignobile, riposavano sul più ampio concetto di selvaggio. Entrambe supponevano l’esistenza di esseri umani che vivevano senza le usuali restrizioni dell’ordine sociale.

Sicuramente, i due tipi di barbarie erano stati a lungo parte dell’arsenale di idee che gli Europei avanzavano per spiegare le caratteristiche di popoli stranieri. Il concetto si spostava da una parte all’altra a seconda della necessità.

(…) Definiti come rozzi selvaggi, i popoli del Nuovo Mondo occupavano un posto speciale nell’immaginazione europea.

Non possedendo alcuno degli elementi costitutivi di una società organizzata, il loro unico controllo sul mondo sembrava essere l’indifferenziata rabbia che scatenavano contro chiunque fosse abbastanza stupido da andarli a cercare.

I rozzi selvaggi violavano tutte le limitazioni imposte agli uomini dalle consuetudini sociali.

Violenza, tradimento, crudeltà e distruzione erano le basi dell’esistenza selvaggia. [...]

La barbarie selvaggia spiegava tanto poco sulle società native quanto la teoria paradisiaca.

Le linee generali di quest’immagine erano state disegnate molto prima che gli Europei incontrassero gli indigeni

americani e niente di essenziale cambiò in seguito al contatto reale. Ma l’importanza della barbarie selvaggia non

risiede nell’imprecisione del ritratto che essa faceva degli indiani e neppure nell’idea completamente negativa che

comunicava degli indigeni americani. Il principale significato della rozzezza dei selvaggi era che interpretava la

vita dei nativi attraverso una serie di rigide formule, astratte e senza vita, che non offrivano alcuna promessa di

una rappresentazione positiva”. [B.W. SHEEHAN, Savagism and Civility. Indians and Englishmen in Colonial

Virginia, op.cit., pp. 37-38; 63. Traduzione dall’inglese mia]. L’immagine degli abitanti del Nuovo Mondo è

ormai sempre più simile a quella di feroci animali selvaggi, brutali e spietati. “Il male emergeva dalla più

profonda essenza dell’indole del cattivo selvaggio. Di conseguenza, l’immagine dei popoli indigeni tendeva a

scivolare fuori dalla dimensione umana. La loro smania di distruggere, di infliggere dolore iniziava ad apparire

molto più bestiale che umana”. [Ivi, p. 64. Traduzione dall’inglese mia].

(13)

Tradizionalmente, gli autori antichi suddividono la storia dell’uomo in età dell’oro, età del bronzo ed età del ferro. Il passaggio dalla primigena aurea aetas alle altre, dove lavoro, fatiche e contese sostituiscono gradualmente le gioie e i piaceri della natura, genera una caduta che, se certamente migliora e affina le modalità del vivere comune, allontana l’uomo dall’innocenza e dall’ingenuità.

Durante l’aurea aetas, gli uomini vivono liberi e in armonia, ma non conoscono né arti né tecniche e dipendono totalmente dal loro ambiente.

32

Gli indios amerindi rispecchiano, con la loro purezza, la semplicità e la perfezione di una natura amata e incontaminata.

La stessa visione che porta a considerare l’uomo dell’età dell’oro come innocente e felice oppure rozzo e barbaro si riflette specularmente sulle popolazioni amerindie, genuine e incorrotte o crudeli e violente. Infatti, tra Cinquecento e Seicento, come fa ben notare Libertad Borges Bittencourt, “insieme alla tesi che rifiutava il selvaggio, si affermò anche una concezione che lo valorizzava e che trasferì il mito del buon selvaggio nel continente americano”.

33

Seguendo la linea di Rouanet, la storica brasiliana sostiene il passaggio del mito dall’antichità al Nuovo Mondo e, più specificamente, al Brasile, che marcherà e definirà con i suoi indios il topos del bom selvagem.

L’immagine del selvaggio, costruita e declinata dagli europei, transita attraverso le Americhe e ritorna in Europa, in un ciclo che riproduce, identifica e innesta un modello ideale su una realtà nuova e sorprendente.

Questa duplicità di prospettiva nei confronti della figura dell’indio è ben delineata anche da de Melo Franco:

“Così come la scoperta dell’America è arrivata a determinare geograficamente una serie di figure di mostri umani, che andavano vagando, dispersi nella fantasia europa, in numerose terre ignote, questo stesso evento storico è arrivato anche a dare origine, in particolari aree del mondo, a uomini buoni e

32

Lo stesso Lucrezio configura l’età dell’oro come un’epoca in cui gli uomini ignoravano il “comune vantaggio”, vivevndo isolati e privi di difese, alla mercé del clima e degli animali feroci, costretti, dal bisogno, a pensare solo alle necesistà primarie e a soddisfare gli istinti più elementari: “Non sapevano ancora trattare col fuoco gli oggetti/servirsi di pelli, vestirsi di spoglie ferine/ma abitavano i boschi, le selve, gli anfratti montani/e celavano le ruvide membra in mezzo ai cespugli/costretti a fuggire i rovesci di vento e di pioggia./Non potevano ancora mirare al comune vantaggio/né sapevano uso di leggi o di muto costume./Ognuno la preda che il caso gli offrisse ghermiva/per sé solo, da solo, ammaestrato a durare la vita in pienenzza di forze”. [LUCREZIO, De rerum natura, V, vv. 953-961, (trad.it di Luca Canali, La natura delle cose, op.cit., p. 101)].

Il poeta latino sottolinea la debolezza e la precarietà dell’età pre-sociale, pur riconoscendole un’integrità morale che il progresso ha cancellato, una volta assestatosi “sull’angusto sentiero dell’ambizione”. [Ivi., V, v. 1132, p.

105)].

33

Libertad Borges Bittencourt, “Um ensaio sobre a alteridade – o índio brasileiro: da teoria da bontade natural à

denegação”, Dossiê: História e Literatura, v. 17, n. 1, 2011, pp. 134-135. Traduzione dal portoghese mia.

(14)

felici, che vivevano in una specie di età dell’oro, in armonia con le leggi della natura, la cui esistenza era stata intuita e contemplata fin dai tempi più remoti”.

34

La geografia dei luoghi non è affatto un elemento secondario: il clima favorevole e la natura rigogliosa dei Tropici si adattano perfettamente al mito dell’età dell’oro e rafforzano le fantasie dei viaggiatori, convinti di aver ritrovato finalmente la perduta aurea aetas vagheggiata dai poeti:

“In questo clima sempre caldo, circondato da una foresta sempreverde, l’uomo appariva agli occhi dell’europeo come un essere spensierato, ozioso, libero e, cosa che ha un’importanza fondamentale, completamente nudo. Non aveva bisogno, come i barbari di altre latitudini, di fare provviste per l’inverno, né di coprire il corpo con pelli di animali, cose che già facevano supporre previdenza, organizzazione e una poltica rudimentale. (…) Gli uomini e le donne mostravano candidamente i loro corpi ben formati e proporzionati, come Adamo ed Eva prima del peccato originale”.

35

Bittencourt, ripercorrendo la storia della questione indigena, analizza il valore del dualismo all’interno della riflessione europea, che oscilla tra barbarie e amenità, etichettando uomini e cose, ad uso e consumo del proprio pubblico.

Fantasia e mitologia si confondono, mentre gli opposti coesistono nei racconti di viaggio e nella mente degli umanisti e della gente comune:

“In questo senso, Franco ripete come le tesi negatrici e valorizzatrici del ‘selvaggio’ convivessero nello stesso spazio e nello stesso tempo, senza che una soppiantasse completamente l’altra.

L’immaginario pre e post conquista era permeato da figure mitologiche e l’America e i suoi indigeni incarnavano questi miti, che ‘vagavano’, molto tempo fa, nel continente europeo.

(…) Questa inclusione problematica dell’alterità è capace di segnalare tanto la valorizzazione quanto il rifiuto, senza che effettivamente l’indio abbia spazio e voce”.

36

L’immagine degli amerindi appare sfocata e imprecisa, troppo sbiadita per essere letta.

Nonostante Montaigne elogi l’integrità degli indios e le Americhe sembrino essere associate in toto a purezza e semplicità, il primitivismo negli Essais presenta alcune criticità.

Secondo William Hamlin, in Des Cannibales “vediamo (…) una dichiarazione dell’autosufficienza della natura e un’ equiparazione della naturalezza originale con purezza e bontà – uno dei primi dogmi del buon selvaggio. Vediamo anche la convinzione che la virtù del Nuovo Mondo superi ciò che i poeti immaginavano fosse esistito nell’età dell’oro. E vediamo, infine, conseguentemente, come la permanenza in uno stato di natura (o, in ogni caso,

34

Afonso Arinos de Melo Franco, O índio brasileiro e a revolução françesa. As origens brasileiras da teoria da

bontade natural, Rio de Janeiro, Topbooks, 2000, pp. 29-30. Traduzione dal portoghese mia.

35

Ibidem, p. 226. Traduzione dal portoghese mia.

36

L. Borges Bittencourt, “Um ensaio sobre a alteridade – o índio brasileiro: da teoria da bontade natural à

denegação”, art.cit., p. 148. Traduzione dal portoghese mia.

(15)

in uno stato minimamente modellato dall’esprit humain) sia una garanzia di continua innocenza”.

37

Eppure Montaigne descrive gli indios per via negativa, come già avevano fatto prima di lui molti altri viaggiatori e cronisti, riprendendo il topos, per lui positivo, dell’assenza di leggi, di governo, di religione, di arti. Non analizza le loro specificità, le caratteristiche dei vari gruppi, ma tende ad una pericolosa generalizzazione che inserisce in un’ unica cornice popolazioni completamente diverse tra loro. Gli amerindi sono cette nation e ces nations.

Ma quelle(s) nation(s)? Caribi, inca, maya, Aztechi , tupì o guaranì?

Celebra ingenuità, generosità, modestia e armonia, come massime qualità, ma non disdegna neppure la maestosità e la ricchezza delle costruzioni incaiche o azteche.

Hamlin avvicina lo stile di Montaigne a quello degli etnografi antichi, come Tacito, che, nella sua Germania, loda la purezza, l’onestà, il vigore fisico e il valore in battaglia dei Germani, sebbene mostri delle riserve nei confronti del bere smodato e della spiccata tendenza alla pigrizia e all’inattività. Nel descrivere la pratica rituale che prova l’antichissimo lignaggio dei Semnoni, la più grande tribù dei Suebi, lo storico latino inorridisce: tutto prende inizio da un sacrificio umano annuale, tragico preludio di un’orrenda barbarie (barbari ritus horrenda primordia).

38

Anche Montaigne riporta i sacrifici umani compiuti nel Nuovo Mondo, enumerando divers exemples d’horrible cruauté:

“E in quelle nuove terre, scoperte alla nostra epoca, ancora pure e vergini rispetto alle nostre, quest’uso è seguito, in misura diversa, dovunque; tutti i loro idoli si abbeverano di sangue umano, non senza diversi esempi di terribile crudeltà.

Li bruciano vivi e, mezzo arrostiti, li ritirano dal fuoco per strappar loro il cuore e le viscere.

Altri, specie le donne, sono scorticati vivi, e con la loro pelle sanguinante si rivestono e si mascherano altri. E non mancano esempi di fermezza e di decisione.

Infatti, quei poveretti destinati al sacrificio, vecchi, donne e bambini, vanno essi stessi, alcuni giorni prima, alla questua per l’offerta del loro sacrificio, e si presentano al macello, cantando e danzando insieme con coloro che che vi assistono”.

39

Il filosofo francese insiste con il topos delle nouvelles terres (…) pures et encore vierges, ma i particolari cruenti delle torture subite dalle vittime stridono con l’immagine del locus amoenus e dell’age doré.

37

William M. Hamlin, The Image of America in Montaigne, Spenser and Shakespeare. Renaissance Ethnography

and Literary Reflection, New York, St. Martin’s Press, 1995, p. 48. Traduzione dall’inglese mia.

38

Tacito, Germania, op.cit., p. 50. Tuttavia, in Tacito, la critica alla società romana rimane velata, mentre Montaigne estremizza il confronto tra indios ed europei. Lo storico latino, inoltre, a differenza del filosofo francese, non solo prende in considerazione molteplici aspetti culturali concreti, ma cerca anche di essere rigoroso e preciso, avanzando ipotesi sull’origine dei Germani e operando distinzioni all’interno dei vari gruppi. Batavi, Chatti, Usipi, Tencteri e altri occupano infatti capitoli a parte rispetto ai Germani liberi che vivono tra il Reno e il Danubio. (Sui popoli che Tacito considera propriamente Germani, vedi la nota 1, a cura di Elisabetta Risari, in Tacito, Germania, op.cit., p. 65).

39

Montaigne, De la moderation, Essais, I, XXX, (Della moderazione, Saggi, op.cit., pp. 266-267).

(16)

Per l’antichità classica, i sacrifici umani sono simbolo di empietà e inciviltà e quindi associati ai popoli barbari. Erodoto ricorda che, presso gli Sciti, tali sacrifici, riguardanti i prigionieri di guerra, seguono rituali peculiari, diversi da quelli previsti per le vittime animali:

“Dopo aver fatto libagioni di vino sul capo delle vittime umane, le sgozzano su un vaso, che viene poi issato su una catasta di legna per versarne il sangue sulla scimitarra.

Mentre il sangue viene portato incima alla catasta, in basso, intorno al tumulo, compiono quest’altro rito: tagliano agli uomini sacrificati la spalla destra, il braccio e la mano, e li lanciano in aria: poi, compiuti gli altri riti se ne vanno e il braccio rimane dove è caduto, lontano dal corpo”.

40

Inoltre, gli Sciti bevono il sangue dei loro nemici uccisi in battaglia, ne scuoiano la testa e realizzano mantelli cucendo insieme diversi pezzi di pelle provenienti da uno scalpo.

Cesare riporta che i Galli “pensano che non si possano placare gli dèi se non si dà la vita di un uomo per la vita di un uomo” e che spesso, in mancanza di ladri e briganti, “sacrificano anche degli innocenti”.

41

Plinio il Vecchio sostiene che “le Gallie (…) fino ai nostri giorni sono state preda della magia”

42

, fraudulentissima artium, e attribuisce alla colonizzazione romana, in particolare al governo di Tiberio, il merito di aver estirpato sciocche superstizioni e pratiche immonde, quali sacrifici umani e antropofagia.

Secondo Diodoro Siculo, i Galli non solo “tagliano le teste dei nemici uccisi e le appendono al collo dei cavalli”, ma, cosa ancora più orribile e mostruosa, “imbalsamano con olio di cedro le teste dei più famosi nemici e le custodiscono con cura in urne”; inoltre “le mostrano agli stranieri, vantandosi perché qualcuno degli antenati o il padre o lui stesso non volle accettare il molto denaro offerto per la testa”.

43

Lo storico greco non si trattiene dal commentare, a questo proposito, che, nonostante il rifiuto da parte dei Galli di un riscatto in denaro sia prova dell’assenza di cupidigia e di “una certa barbarica grandezza d’animo (…) pure è da belve continuare a far guerra a un morto che appartenga alla stessa stirpe”.

44

40

Erodoto, Istoriai, IV, 62; 64 (trad.it. di Augusta Mattioli, Storie, vol. I, Milano, BUR, 1958, pp. 359-360).

41

Cesare, De bello gallico, VI, 16, 3; 5, (trad.it di Adriano Pennacini, La guerra gallica, Torino, Einaudi, 1996, p.

253).

42

Plinio il Vecchio, Storia naturale, XXX, 13, tomo IV, op.cit., p. 405.

43

Diodoro Siculo, Bibliotheca historica, V, 29, (ed. it a cura di G. F. Giannotti, A. Corcella, I. Labriola, D. P.

Orsi, Biblioteca storica, Palermo, Sellerio, 1986, p. 264).

44

Ibidem. Corsivo mio. La ferocia e la rozzezza dei Galli si rispecchiano anche nella loro fisionomia e nel modo di parlare: “I Galli sono terrificanti nell’aspetto e hanno voce sorda e molto aspra; sono di poche parole e oscuri nelle conversazioni (….) chiacchieroni ed esagerati quando si tratti di aumentare i propri meriti e di diminuire quelli altrui (…)”. [Ivi., V, 31, p. 265] Ancora più crudeli sono i Cimbri, i Galli responsabili del sacco di Roma, che sacrificano agli dèi i delinquenti, dopo averli impalati, e i prigionieri di guerra, uccisi spesso insieme agli animali, anch’essi torturati in qualche modo.

(17)

Lo stesso Cicerone, sempre a proposito dei Galli, conclude che “è cosa universalmente nota che essi continuano a mantenersi fedeli fino ad oggi alla orrenda e barbara consuetudine di immolare vittime umane. Di conseguenza, quale buona fede, quale senso del sacro potrebbe (…) avere della gente che ritiene sia facilissima la possibilità di placare anche gli dèi immortali per mezzo di un empio spargimento di sangue umano?”.

45

La condanna degli antichi giunge inesorabile.

Sebbene Las Casas avesse mostrato come anche i Greci e i Romani non fossero del tutto estranei alle pratiche sacrificali - almeno nel loro lontano passato - secondo una tradizione consolidata, che influenza la cultura occidentale ben oltre l’età moderna, sono sempre i barbari a macchiarsi di tali delitti.

Numerose sono le fonti sulle Americhe che confermano l’esistenza dei sacrifici umani, spesso accomunati ad episodi di cannibalismo.

Colombo, pur senza averne diretta esperienza, sarà il primo a divulgare la notizia di genti dedite all’ antropofagia. Arens ricorda infatti che l’Ammiraglio, “nell’esporre concisamente alcuni degli aspetti più pittoreschi del suo viaggio, fece la categorica affermazione che alcune isole erano abitate da da mangiatori di uomini chiamati Caribi. [...] Da allora Colombo continuò ad alimentare il tema del cannibalismo, nelle sue pubbliche dichiarazioni, con sempre maggior energia, man mano che la possibilità del commercio degli schiavi assumeva una più vistosa importanza.

Al suo terzo viaggio, egli aveva ormai acquisito una tale esperienza in materia da essere in grado di riconoscere i mangiatori di uomini dal loro semplice aspetto”.

46

La ferocia e l’insaziabile appetito di carni nemiche costituiscono i tratti distintivi, fisicamente riconoscibili, dei popoli americani.

Le incisioni e la stampa offrono ad un avido pubblico numerosissime immagini che ritraggono gruppi di indigeni, rigorosamente nudi, intenti a squartare un prigioniero, ad arrostirlo o a dividersi il ricco pasto.

47

Nel secondo Cinquecento, anche a causa del rapido sterminio degli

45

Cicerone, Pro M. Fonteio Oratio, 14, 31, (trad.it di Giovanni Bellardi, Arringa in difesa di Marco Fonteio, Orazioni, vol. II, Torino, UTET, p. 257). I Galli non temono gli dèi, non cercano di ingraziarsene i favori, né prestano importanza ai giuramenti. “Al contrario costoro se ne vanno in giro allegri e impettiti qua e là per tutto il foro lanciando certe loro minacce e incutendo paura col loro orribile e barbaro linguaggio”.

Per il retore latino, questo popolo è “gente (…) degna solo di disprezzo”. [Ivi., 15, 33 - 34, pp. 259; 261]

È interessante notare come anche Livio, nella sua narrazione dell’assedio di Roma del 390 a.C, si soffermi sulle feroci grida che risuonano nella città: “ormai tutto, di fronte e all’intorno, era pieno di nemici e popoli, predisposti per natura a inutili clamori, con un terribile canto e con urla di vario genere, avevano riempito ogni cosa con un orrendo frastuono”. [LIVIO, Historiae, V, 37, 8. Traduzione dal latino mia].

46

William Edward Arens, The Man-Eating Myth. Anthropology and Anthropophagy, New York, Oxford University Press, 1979, (trad.it. di Stella Accatino, Il mito del cannibale. Antropologia e antropofagia, Torino, Bollati Boringhieri, 1980, pp. 52-54).

47

Per stabilire l’attendibilità delle fonti sul cannibalismo nelle Americhe, Arens si basa sulle testimonianze

iconografiche. Non ci sarebbero prove sufficienti per dimostrare l’esistenza dell’antropofagia tra gli Aztechi, dal

momento che il Codice fiorentino di Bernardino de Sahagún contiene solo un’ immagine che la documenta: “E

(18)

indios caraibici, lo scettro dell’antropofagia passa, a pieno diritto, al più grande paese dell’America meridionale.

Stando ai resoconti dei viaggiatori, infatti, il Brasile non è solo la terra dell’età dell’oro e del bom selvagem, ma anche la terra dei cannibali.

Già il navigatore vicentino Pigafetta li aveva incontrati e aveva descritto l’ antica origine di questa:

“Mangiano carne umana de li suoi nemici non per bonna, ma per una certa usanza.

Questa usanza lo uno con l’altro fu principio una vechia, la quale aveva solamente uno figliolo che fu amazato da li suoi nemici. Per il che, passati alguni giorni, li suoi pigliarono uno de la compagnia che aveva morto suo filiolo e lo condusero dove stava questa vechia.

Ela, vedendo e recordandose del suo figliolo, como cagna rabiata li corse adosso e lo mordete in una spala. Costui de lì a poco fugì ne li soi e disse come lo volsero mangiare, mostrandoli el segnalle de la spala. Quando questi pigliarono poi de quelli li mangiarono; e quelli de questi; sì che per questo è venuta tale usanza. Non se mangiano subito, ma ognuno taglia un pezzo e lo porta in casa metendolo al fumo.

Poi, ogni otto iorni, taglia uno pezeto mangiandolo brustolado con le altre cose per memoria de gli suoi nemici”.

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Consumare carne umana è, per gli indigeni brasiliani, un habitus, parte della ritualità derivante da una inestinguibile catena di odio e vendetta, che devono estrinsecarsi e trovare soddisfazione. La bestialità dei cannibali è simboleggiata da una donna, rabbiosa come un cane, che esige in pegno, per il figlio, ucciso da una tribù avversaria, un simile sacrificio.

La feroce vendetta avrà un ruolo centrale nelle dinamiche che spingono gli indigeni al cannibalismo, dal momento che, come noterà Thevet “questi selvaggi sono straordinariamente vendicativi”.

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Molti esploratori francesi giunti in Brasile forniscono la loro testimonianza sulla pratica dell’antropofagia, cercando di comprendere questo fenomeno.

inoltre è perlomeno curioso che, tra le centinaia e centinaia di illustrazioni contenute nel manoscritto di Sahagún, ci sia un’unica raffigurazione del cannibalismo: per un fatto che oggi si ritiene sia stato un avvenimento tanto frequente, ci sia aspetterebbe una documentazione maggiore”. [W. ARENS, Il mito del cannibale. Antropologia e

antropofagia, op.cit., p. 76.] Secondo l’antropologo americano, infatti, se la pratica dell’antropofagia fosse stata in

uso presso i popoli del Mesoamerica ci sarebbero stati altri disegni di ciò che, per gli europei, rappresentava il massimo segno di ferocia e barbarie. Arens respinge anche l’ipotesi che il cannibalismo azteco abbia come obiettivo il nutrimento.

Con la strage di Tenochtitlán, i cadaveri degli indios si moltiplicavano, ammucchiati per le strade, e i

sopravvissuti avrebbero certamente avuto di che sfamarsi, invece di cercare lucertole o pezzi di fango usato per i mattoni.

“Il fatto che gli Aztechi non approfittassero di quello che per loro avrebbe dovuto essere un periodo di

abbondanza, ha creato dei problemi ad alcuni commentatori. Gómara non possedeva la moderna terminologia, ma in sostanza concluse che gli Aztechi dovevano essere ‘esocannibali’; diversamente essi non sarebbero ‘morti di fame’”. [Ivi., op.cit., pp. 79-80].

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Antonio Pigafetta, Relazione del primo viaggio intorno al mondo, (ed. a cura di Andrea Canova, Padova, Antenore, 1999, pp. 171-172).

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André Thevet, Singularitez de la France Antarticque, autrement nommé Amerique: et des plusieurs Terres et

Isles decouvertes de notre temps, Paris, Maurice de la Porte, 1557, ch. 41, f. 78-79. Traduzione dal francese mia.

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