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Capitolo 3 Il problema dei confini e della sicurezza 3.1

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Capitolo 3

Il problema dei confini e della sicurezza

3.1 La questione dei confini sino-sovietici: i “trattati ineguali”

A partire dalla fine degli anni Cinquanta e inizio anni Sessanta, prima le tensioni e poi la crisi nei rapporti con l'Unione Sovietica furono al centro delle preoccupazioni cinesi in politica estera. Il nodo della disputa con Mosca sovrastò per importanza il delicato tema dei rapporti con Washington, che continuò ad essere essenziale riguardo alla questione di Taiwan, al veto americano contro l'ingresso del rappresentante di Pechino alle Nazioni Unite e al crescente impegno militare statunitense nell'area asiatica1.

Nei primi anni Sessanta la rottura sino-sovietica si approfondì, costantemente alimentata da diversi fattori. Innanzitutto la guerra di frontiera tra la Cina e l'India, nell'ottobre del 1962, che mise in evidenza i rapporti tra Mosca e Nuova Delhi e la volontà sovietica di perseguire la politica di coesistenza pacifica anche a discapito di una nazione ritenuta sino ad allora fraterna, la Cina. Inoltre, sempre nel mese di ottobre del 1962, si consumò un'altra crisi che portò il mondo sull'orlo dello scontro nucleare, ovvero la crisi dei missili di Cuba. Pechino dapprima dichiarò solidarietà a Mosca e successivamente, a crisi conclusa, accusò Chruscev di "avventurismo" per aver provocato gli americani e aver sfiorato una possibile guerra mondiale e alla fine aver ceduto, promettendo di non installare i missili, di fronte alle minacce del presidente Kennedy2.

Oltre a questi problemi, due furono gli elementi principali alla base dell'inasprimento della disputa sino-sovietica: il problema delle frontiere e quello della proliferazione delle armi nucleari. Per quanto riguardava il primo problema la Cina considerava la demarcazione di frontiere definite con i propri vicini una questione di fondamentale importanza per garantire la sicurezza ad un paese sovrano. Detto ciò, in un primo momento, la Repubblica popolare decise di rimandare la discussione sulle frontiere con l'Unione Sovietica. Consapevole della necessità di ricevere l'aiuto militare ed economico sovietico, Pechino scelse di firmare il trattato di amicizia, alleanza e cooperazione con Mosca nel febbraio del 1950, rimandando nel futuro la revisione dei “trattati ineguali”3

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1 G.Chang, op.cit., p.176. 2 M.Del Pero, op.cit., p.64.

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84 Relativamente alla questione delle armi nucleari, nel biennio 1962-1963, i sovietici informarono i cinesi che avrebbero discusso con gli americani dell'ipotesi di non fornire alcuna tecnologia nucleare a qualsiasi paese, in modo da bloccare la proliferazione delle armi nucleari. Nel luglio del 1963 l'Unione Sovietica firmò con Stati Uniti e Gran Bretagna il “Trattato per la sospensione degli esperimenti nucleari nell'atmosfera, nello spazio e nelle acque” che la Cina considerò come una sfida diretta alla sua capacità di costruirsi un ordigno e di difendersi in caso di un eventuale attacco nucleare da parte degli Stati Uniti4.

Il problema della frontiera tra Cina e Unione Sovietica tornò alla ribalta nel momento in cui il legame di amicizia e alleanza che aveva caratterizzato i rapporti dei due paesi nel corso degli anni Cinquanta si incrinò in modo irreversibile. Il problema delle frontiere non era stato risolto nemmeno in occasione della visita di Chruscev a Pechino, nel settembre-ottobre 1954, quando il leader sovietico aveva rinunciato al porto di Dairen, di Port Arthur e alla presenza nelle compagnie miste nello Xinjiang, annullando così le ultime disposizioni ereditate dai “trattati ineguali”5

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L'Impero cinese per oltre duemila anni aveva intrattenuto con il mondo esterno rapporti basati sul cosiddetto sinocentrismo, un antico sistema di relazioni internazionali dell'Asia centrale fondata sulla centralità della Cina, sull'assenza di rapporti paritari e sul “sistema del tributo” che ha costituito una derivazione logica del sistema politico-filosofico confuciano6. La fine dell'isolamento dell'Impero risaliva al 29 agosto 1842, quando l'Impero cinese firmò il Trattato di Nanchino, che poneva fine alla Prima guerra dell'oppio e avviava la lunga stagione dei trattati ineguali, la cui peculiarità consisteva nel fatto che la potenza straniera firmataria del trattato acquisiva diritti nei riguardi della controparte senza che fosse prevista reciprocità alcuna e che, nel giro di qualche decennio, avrebbero contribuito ad assoggettare l'Impero cinese alle potenze occidentali. Il Trattato di Nanchino stabilì l'apertura di cinque porti al commercio occidentale, la cessione dell'isola di Hong Kong alla Gran Bretagna, l'accordo su una tariffa doganale fissa, la possibilità per i residenti stranieri di acquistare terreni e fondare scuole e la possibilità per le navi da guerra straniere di stazionare nei porti aperti. Il supplementare Trattato del Bogue, firmato nell'ottobre 1843, stabilì il principio della extraterritorialità per i sudditi di nazionalità britannica, che non potevano essere giudicati dai tribunali

4 G..Samarani, op.cit., p.289. 5 O.A.Westad, op.cit., p.135.

6 La nozione di relazioni internazionali era priva di senso, dal momento che l'unica forma di rapporto che si poteva instaurare tra l'Impero cinese e le altre nazioni era uniformata alla diseguaglianza, il cui simbolo era rappresentato dall'invio a Pechino di un tributo in cambio del quale l'imperatore garantiva la sua protezione.

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85 cinesi, e soprattutto conteneva la clausola della nazione più favorita, che ebbe l'effetto di legare insieme i principi stabiliti dai vari trattati nel cosiddetto “sistema dei trattati”. Il periodo delle guerre dell'oppio e la conseguente apertura della Cina contribuirono a ridisegnare la realtà cinese e a reimpostare su nuove basi i rapporti con le potenze straniere, segnando il tramonto della concezione sinocentrica delle relazioni internazionali7. Con la firma del Trattato di Nanchino si avviò per l'Impero cinese un periodo di graduale declino, caratterizzato da una politica sempre più invadente delle potenze occidentali e da una paralisi quasi totale della politica delle autorità imperiali, incapaci di reagire e inclini a fare sempre maggiori concessioni agli stranieri pur di non mettere in pericolo la propria posizione.

Il “sistema dei trattati” finì per trasformare l'Impero in una semicolonia, o, come successivamente la definì il padre della patria Sun Yat Sen, una “ipocolonia”, senza mai riuscire a farne una colonia vera e propria. La sovranità e l'indipendenza cinesi non furono mai completamente soggiogate in quanto le potenze straniere trovarono più conveniente sostenere, anziché combattere, un potere debole come quello che caratterizzò l'ultimo periodo del governo della dinastia Qing8.

Quello cinese fu l'unico caso di regione al mondo in cui operarono tutti gli imperialismi della storia moderna e in cui furono messe alla prova tutte le possibili forme di influenza esterna, dal dominio coloniale diretto fino alla manipolazione discreta dei detentori locali del potere. Il concetto che meglio spiega l'eccezionale statuto cui venne sottoposto l'Impero, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, è quello di “imperialismo informale” altrimenti definito “imperialismo senza responsabilità”, che si caratterizzò per il suo carattere multinazionale, all'interno del quale ciascuna delle potenze interessate curava i propri interessi particolari. Con il passare del tempo l'infrastruttura giuridica della penetrazione straniera in Cina si fece sempre più sofisticata e invadente. Le potenze occidentali riuscirono a rafforzare la loro posizione assicurandosi dei vantaggi supplementari non previsti dai trattati del 1842-1844, quali l'istituzione di “concessioni” che finirono per diventare delle isole di sovranità straniera in territorio cinese, veri e propri “stati nello stato”, all'interno delle quali vigeva il diritto straniero9. Tuttavia, più che in seguito ai “trattati ineguali” imposti, la maggioranza dei cinesi si rese conto della perdita di preminenza del proprio paese solo in seguito alla sconfitta subita nella guerra contro il Giappone nel 1894-1895. A seguito di tale

7 T.Chung, Imperialism in Nineteenth Century China, The Unequal Treaty System: infrastructure of

irresponsible imperialism, in “China Report”, 1981.

8 B.Onnis, op.cit., p.20. 9 T.Chung, op.cit.

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86 sconfitta la Cina si vide costretta ad accettare i termini umilianti del Trattato di Shimonoseki, che le imposero di rinunciare al plurisecolare rapporto tributario con la Corea e di riconoscerne l'indipendenza, la cessione dell'isola di Taiwan e delle Pescadores, così come della penisola del Liadong nella Manciuria meridionale10.

L'occupazione giapponese del Liadong costituì una seria minaccia per i possedimenti russi in Estremo Oriente, bloccando in particolare l'accesso a un porto della ferrovia Transiberiana, la cui costruzione aveva avuto inizio nel 1891. La Russia, però, con la complicità di Francia e Germania, riuscì a fare in modo che il Giappone rinunciasse alla penisola in cambio di un indennizzo maggiore. La Russia zarista infatti considerava irrinunciabile l'Asia per motivi commerciali, in quanto le popolazioni locali potevano fornire materie prime e al tempo stesso costituivano un mercato per i prodotti industriali dell'Impero zarista11.

Nel 1689 lo zar Pietro il Grande firmò con l'imperatore cinese Kangxi il Trattato di Nercinsk, che fu il primo trattato siglato dalla dinastia Qing con una nazione europea, il quale pose fine all'annosa questione delle invasioni dei cosacchi nella valle dell'Amur, permettendo di fatto di arginare le tendenze espansionistiche e assicurandosi la zona dell'Amur. Se inizialmente l'Impero cinese era riuscito ad arginare l'espansione russa, nel corso del XIX secolo la Russia, come le altre potenze europee, sfruttò la situazione di debolezza dell'Impero, riuscendo ad estorcergli vastissimi territori. Nel 1858 con il Trattato di Aigun la Cina cedette alla Russia la riva sinistra dell'Amur e nel 1860, con il Trattato di Pechino, la Cina cedette la regione dell'Ussuri. Nel 1860 l'Impero zarista fondò il porto di Vladivostok e, di fatto, con l'annessione del territorio ad est del fiume Ussuri, tagliò fuori la Cina dal Mar del Giappone12. Nonostante la pressione esterna a cui nel corso del XIX secolo l'Impero cinese fu sottoposto, nel 1881, con la firma del Trattato di San Pietroburgo, riuscì a recuperare la regione dell'Ili occupata nel 1871 dalla Russia, anche se dietro il pagamento di un risarcimento di nove milioni di tael. Nel 1890 la Russia aveva ottenuto il diritto di costruire la ferrovia Transiberiana, i cui lavori si svilupparono tra il 1891 e il 1903, che serviva a collegare la Russia con la Manciuria, la Cina, la Corea e indirettamente con il Giappone13.

Le frontiere sino-sovietiche furono il risultato delle tendenze espansionistiche della Russia zarista e delle debolezze della Cina durante il XIX secolo. Contemporaneamente all'espansione verso est e all'annessione di tutto il territorio cinese a nord del fiume

10 B.Onnis, op.cit., pp.23-24. 11 H.Schmidt-Glintzer, op.cit., p.23.

12 N.V.Riasanovsky, Storia della Russia. Dalle Origini ai giorni nostri, Roma, Bompiani, 2001, p.391. 13 H.Schmidt-Glintzer, op.cit., p.29.

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87 Amur e ad est del suo immissario Ussuri, la Russia premeva sull'Asia centrale, facendo arretrare la frontiera del Turkestan cinese, Xinjiang. Dopo la costituzione della Repubblica della Cina nel 1911 i nazionalisti cinesi cominciarono a chiedere l'abrogazione dei “trattati ineguali” e la restaurazione delle frontiere precedenti.

Nello spirito rivoluzionario i bolscevichi nel 1917 annunciarono che il governo considerava nulli tutti i trattati conclusi dal precedente governo russo con la Cina, rinunciando a tutte le annessioni di territorio. Ben presto però il governo sovietico giunse alla risoluzione che, iniqui o no, i confini sino-russi dovevano restare dov'erano. Quando nel corso del 1949 i comunisti cinesi affermarono il loro potere, proclamando la nascita della Repubblica popolare, data l'impossibilità di ammettere l'esistenza di una “terza via” rispetto ai due blocchi, decisero di “pendere da una parte” e quindi di cercare l'alleanza con Mosca che fu sancita il 14 febbraio 1950 con la firma del Trattato di amicizia, alleanza e mutua difesa. Scegliendo di collaborare con Mosca i cinesi decisero di mettere a tacere, almeno per il momento, la questione della definizione dei confini, anche se uno degli argomenti principali della politica estera cinese era quello di completare l'unificazione, riaffermando il controllo sui cosiddetti “territori perduti”, ovvero quei territori che l'Impero cinese aveva perduto in seguito alla firma dei “trattati ineguali”14

. Nonostante i reciproci sospetti, Stalin e Mao decisero di firmare l'accordo di amicizia, mettendo in secondo piano interessi diversi e conflittuali. Mao Zedong, essendo consapevole della necessità, vista la debolezza della Cina, di ricevere il sostegno militare, diplomatico ed economico sovietico, non ruppe l'unità interna al blocco comunista per la questione dei confini.

Pechino infatti avviò con Mosca una intensa cooperazione lungo i confini comuni. Nel 1951 si costituì la commissione mista sino-sovietica per la navigazione sui fiumi Amur, Ussuri, Argun, Sungocha e sul lago Khanka, definendo le regole di navigazione e di controllo delle navi che attraversavano le acque. Nell'agosto del 1956 i due paesi negoziarono un accordo per l'utilizzo delle risorse naturali nella valle dell'Amur, incluso un piano per la costruzione di un impianto idroelettrico. Nel dicembre del 1957 firmarono un ulteriore accordo per semplificare le regole di navigazione e commercio lungo i fiumi e i laghi15.

Nonostante la collaborazione, che caratterizzò le relazioni tra Cina e Unione Sovietica e che portò i due paesi a definire intese per la gestione dei confini e lo sfruttamento delle risorse, Pechino non aveva abbandonato l'interesse verso i “territori perduti” e quando

14 E.Collotti Pischel, La Cina. La politica estera di un paese sovrano, Milano, FrancoAngeli, 2002, p.42. 15 T.Sung An, op.cit., p.67.

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88 nel 1954 Chruscev rinunciò agli ultimi interessi sovietici in Cina, il governo cinese cercò di accelerare il processo per stabilire l'autorità del governo nei territori di confine. Per consolidare l'autorità del governo comunista cinese di decise di avviare nello Xinjiang, nella Mongolia interna e in Manciuria un processo di “sinificazione delle terre di confine” favorito dalla migrazione verso questi territori di cinesi di nazionalità han16

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I comunisti cinesi adottarono per la questione dei confini con l'Unione Sovietica l'identico atteggiamento assunto nei confronti dell'India, per cui si dichiararono pronti ad accettare i confini così stabiliti come un fatto compiuto. Chiarirono ai sovietici il loro punto di vista, sostenendo che, nonostante l'insita ingiustizia dei trattati relativi al confine sino-sovietico, il governo cinese era disposto a rispettarli e a prenderli come base di una ragionevole sistemazione della questione confinaria17.

Nel 1960 i cinesi proposero a Mosca negoziati per definire i confini, convinti che la piccola discrepanza presente nelle mappe fosse una questione facilmente regolabile. I negoziati, cominciati nel 1964, furono interrotti quasi subito poiché i sovietici sostennero che la frontiera fosse determinata in modo chiaro e preciso, rifiutandosi di intavolare negoziati generali. Essi si dichiararono inoltre disposti ad accordarsi con la Cina su rettificazioni di frontiera di poca importanza, rifiutando di avviare negoziati sui confini nel loro insieme18.

La questione dei confini divenne un problema quando, a partire dai primi anni Sessanta, le relazioni sino-sovietiche subirono un graduale peggioramento e i due partiti comunisti, sovietico e cinese, si sfidarono apertamente sulle diverse posizioni assunte in ambito ideologico.

Lo scontro che si era aperto all'interno del movimento comunista tra cinesi e sovietici, subì un inasprimento in seguito alle crisi internazionali che si ebbero nel corso del 1962, ovvero la guerra di frontiera sino-indiana nell'ottobre-novembre e la crisi dei missili di Cuba in ottobre19.

I cinesi criticarono la decisione di Chruscev di non appoggiare la Cina nella sua contesa confinaria con l'India e allo stesso modo criticarono il leader sovietico, quando la crisi di Cuba si concluse, accusandolo di avventurismo, per aver installato missili sovietici sull'isola, e di capitolazione, per averli ritirati dietro le minacce del presidente

16 Ivi, op.cit., p.69.

17 D.J.Doolin, Territorial Claims in the Sino-Soviet Conflict: Documents and Analysis, Stanford, Stanford University Press, 1965, p.38.

18 Ivi, op.cit., p.51.

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89 Kennedy20.

L'8 marzo 1963 il partito comunista cinese dichiarò pubblicamente che non avrebbe più accettato come validi i “trattati ineguali” stipulati nel corso del XIX secolo, compresi quelli stipulati dalla Russia zarista con l'Impero cinese. Pechino chiese che l'Unione Sovietica ammettesse pubblicamente che i confini erano il risultato di trattati imposti dagli zar e che fosse dunque necessario procedere ad una revisione21.

L'Unione Sovietica rispose ai cinesi negando di avere una disputa territoriale aperta e rifiutandosi di avviare negoziati per definire i confini.

Dal marzo del 1963 lungo la frontiera sino-sovietica si verificarono numerosissimi incidenti e scontri, che si acuirono in seguito al lancio della Rivoluzione Culturale in Cina nel 1966 e che culminarono nello scontro armato del marzo 1969.

Nel 1963 però la Cina non diede un seguito di carattere militare alle rivendicazioni territoriali, data l'indubbia superiorità dell'Unione Sovietica in termini di armi nucleari e armi convenzionali. La Cina cercò di apparire agli occhi degli altri “paesi fratelli” come la vittima della politica sovietica e sperò che altri partiti comunisti potessero avanzare richieste territoriali a Mosca e seguire l'esempio di Pechino. Il governo di Pechino voleva dimostrare al resto dei paesi afro-asiatici, che i sovietici erano i diretti successori degli zar di Russia e quindi continuatori di una politica coloniale.

Cina e Unione Sovietica nel corso del 1964 avviarono negoziati per la definizione dei confini ma poi non si raggiunse nessun accordo al riguardo.

Nella primavera del 1966 il governo di Pechino promulgò una serie di regolamenti che stabilivano l'obbligo per le navi sovietiche di issare la bandiera cinese quando entravano in un porto cinese lungo il corso del fiume. Inoltre il quarto incontro della commissione sino-sovietica per la navigazione, istituita nel 1951, non fu programmato per il 1967. Come inevitabile, la situazione lungo la frontiera peggiorò in seguito alla radicalizzazione politica cinese interna e all'avvio della Rivoluzione Culturale.

Nel luglio del 1967 Mosca adottò uno speciale piano economico per lo sviluppo della Siberia, attribuendovi la massima priorità. Nell'agosto del 1968 Mosca e Tokyo firmarono un accordo per lo sviluppo nella regione siberiana che prevedeva che le banche giapponesi avrebbero fornito un prestito di 133 milioni di dollari per i progetti sovietici. L'accordo sovietico-giapponese fu attaccato dal governo di Pechino, che considerò la collaborazione in Siberia come parte della cospirazione anticinese.

In seguito all'invasione delle truppe sovietiche della Cecoslovacchia nell'agosto 1968 e

20 A.Graziosi, op.cit., p.271. 21 T.Sung An, op.cit., pp.75-76.

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90 dopo l'enunciazione della dottrina della “sovranità limitata” di Breznev, il governo cinese aumentò il numero delle truppe regolari lungo le zone di confine. Sia Mosca che Pechino erano preparate allo scontro della primavera del 1969.

3.2 La guerra sino-indiana

La contesa di frontiera sino-indiana fu una fase drammatica nelle relazioni tra le due grandi repubbliche dell'Asia che sembravano avviate su un cammino di cooperazione amichevole, nonostante i loro sistemi di governo fossero agli antipodi. L'amicizia con la Cina era stata il fulcro della politica estera indiana in quanto da essa, e da una situazione di pace alla frontiera, dipendeva lo sviluppo economico, il neutralismo e il rifiuto di schierarsi dalla parte di uno dei due blocchi. La disputa lungo la frontiera sino-indiana riguardava il settore occidentale, dove il governo indiano rivendicava l'altopiano dell'Aksai Chin che i cinesi consideravano proprio territorio, e il settore orientale dove l'India riconosceva come frontiera internazionale la linea McMahon, che invece non era riconosciuta dalla Cina22.

La disputa di frontiera doveva essere inserita nel contesto storico e quindi vista come la continuazione di centocinquantanni di manovre politiche, militari e diplomatiche attraverso e intorno alle montagne dell'Himalaya23.

Nel settore occidentale i cinesi avevano rivendicato l'Aksai Chin nel 1895, dandone comunicazione al rappresentante della Gran Bretagna nel Kashgar. Gli inglesi, affidandosi al tracciato che era stato fornito dal funzionario di rilevamento indiano Johnson, consideravano l'Aksai Chin territorio britannico24. Anche nel settore orientale non fu possibile tracciare una linea di confine condivisa. In particolare gli inglesi considerarono come confine valido la linea McMahon, che includeva nel territorio indiano il Tawang Tract, territorio attraversato da un'importante strada commerciale25. proposta concreta dovesse tener conto degli interessi della Cina26.

Al momento della sua indipendenza nel 1947, l'India ereditò lungo le frontiere settentrionali tutte le problematiche che gli inglesi non erano riusciti a risolvere e che

22 A.Lamb, op.cit., p.43. 23 N.Maxwell, op.cit., pp.7-9.

24 G.J.Alder, British India's Northern Frontier, 1865-1895, London, Longmans, 1963, p.75.

25 R.Bickers, C.Henriot, New Frontiers. Imperialism's New Communities in East Asia, 1842-1953, Manchester, Manchester University Press, 2000, p.87.

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91 inevitabilmente l'avrebbero portata a scontrarsi con gli interessi della Repubblica popolare cinese, la quale aveva bisogno di definire in modo chiaro i confini così da poter meglio gestire il proprio territorio. Quando la Repubblica popolare cinese nacque nel 1949 i valori di riferimento in politica estera furono unità, sicurezza, sovranità e indipendenza27. Il ritorno all'unità della Cina fu uno degli obiettivi perseguiti dalla Repubblica popolare, proprio per il retaggio della precedente esperienza storica. Alcuni dei fenomeni che avevano minato l'unità della Cina erano stati superati dalla vittoria stessa delle forze rivoluzionarie, dirette da un partito centralizzato e sostenuto da forze armate profondamente identificate con il partito stesso e prive di connotazione regionali. La politica del nuovo governo indiano, per quel che riguardava la gestione delle frontiere settentrionali, non si scostò da quella perseguita in precedenza dagli inglesi, infatti, il presidente Nehru diede ordine di estendere l'amministrazione indiana a tutta la North East Frontier Agency, NEFA, che era il nome con cui venne ridenominata la zona tribale sottostante la linea McMahon28.

Gli indiani sostenevano che le loro frontiere erano definite e, nel settore orientale, la linea McMahon era segnata come una frontiera interamente internazionale, ma non ancora demarcata sul terreno. Nel settore occidentale, il governo indiano rivendicò l'Aksai Chin come terra indiana, anche se la richiesta non rispecchiava la situazione di fatto sul terreno29.

A Oriente gli indiani avevano completato il lavoro lasciato in sospeso dagli inglesi, rendendo valida la linea McMahon ed espellendo dal Tawang l'amministrazione tibetana. La zona era stata ribattezzata NEFA, catalogata, nella costituzione del 1950, come territorio indiano e amministrata da membri dell'Indian Frontier Service.

Ad Occidente i cinesi svilupparono il vecchio itinerario carovaniero dell'Aksai Chin, trasformandolo in un'importante arteria di traffico tra Xinjiang e Tibet30.

Mentre il primo scontro a fuoco della contesa di frontiera ebbe luogo il 25 agosto 1959 sulla linea McMahon, simultaneamente ci si avvicinò al punto di collisione nel settore occidentale, quando una pattuglia indiana, che stava risalendo la valle del Changchenmo, venne a contatto sul passo di Kongka con i cinesi i quali, essendovi arrivati per primi, vi avevano stabilito una guarnigione31.

Con il rifiuto dell'India di acconsentire ad un primo incontro al vertice con la Cina,

27 B.Onnis, op.cit., p.38.

28 R.Bickers, C.Henriot, op.cit., p.176. 29 J.Osterhammel, op.cit., pp.345-347. 30 N.Maxwell, op.cit., pp.82-92.

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92 determinato dall'opinione che non ci dovesse essere nessuna discussione con Pechino, fintanto che i cinesi non si fossero ritirati dall'Aksai Chin, la discussione diplomatica giunse ad una fase di stallo.

Il governo di Mosca, fin dall'inizio della contesa territoriale tra Cina e India, assunse un atteggiamento imparziale, evitando che l'ostilità tra le due potenze incidesse sulle relazioni tra Mosca e Nuova Delhi. L'incidente di Longju avvenne alla vigilia della visita di Chruscev negli Stati Uniti nel settembre 1959 e i sovietici si tennero accuratamente neutrali a tal proposito, deplorando unicamente l'uso che era stato fatto dell'incidente per screditare l'idea della coesistenza pacifica. La neutralità sovietica sulla contesa sino-indiana era tutto quello che il governo indiano avrebbe potuto sperare. Per l'Unione Sovietica essere neutrale su una grave contesa tra una potenza comunista e una non comunista era come sottrarsi agli obblighi di solidarietà fraterna e, come osservò Pechino non facendo nessuna distinzione tra i due stati, Mosca in realtà condannava la posizione della Cina32.

Il tacito sostegno da parte dei sovietici fu di grande importanza per l'India che cercò di sfruttarlo a vantaggio delle proprie rivendicazioni. Alla fine di dicembre del 1959 il governo indiano fu informato che Chruscev avrebbe gradito far coincidere una visita in India con l'imminente viaggio in Indonesia. La prospettiva di un incontro con Chruscev offriva la possibilità a Nehru di presentare ancora più chiaramente la validità della posizione indiana nella contesa di frontiera. Gli indiani credevano che l'influenza di Mosca su Pechino fosse talmente forte da indurre i cinesi ad accettare il punto di vista indiano33. Alla fine di gennaio del 1960 il governo indiano decise di invitare il ministro cinese Zhou Enlai a Nuova Delhi per esplorare “le strade che avrebbero potuto condurre a una soluzione pacifica”, rinunciando alla richiesta del ritiro cinese dall'Aksai Chin quale condizione indispensabile per un incontro al vertice34.

Nel mese di aprile del 1960 il ministro Zhou Enlai si recò in India per incontrare il presidente Nehru e discutere la questione delle frontiere, ma il vertice fallì, in particolare per l'ostinato rifiuto dell'India di rinunciare alla propria rivendicazione sull'Aksai Chin, e la situazione si deteriorò ulteriormente35.

Nel frattempo continuava lungo la frontiera sino-indiana la politica espansionistica indiana di installare nuove e più avanzate postazioni che avrebbero dovuto tagliare le vie di comunicazione cinesi.

32 O.A.Westad, op.cit., p.143. 33 N.Maxwell, op.cit., p.156. 34 N.Jayapalan, op.cit., p.221. 35 N.Maxwell, op.cit., p.230.

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93 I cinesi cominciarono a reagire energicamente all'inizio del 1962 e informarono l'India che nel settore occidentale avrebbero ristabilito pattuglie di confine, sospese nel 1959, e avvertirono il governo indiano che se avessero persistito nel processo di avanzamento essi avrebbero pattugliato la frontiera in tutti i punti36.

Durante l'estate del 1962 lungo il confine sino-indiano si assistette ad un continuo avanzamento delle truppe indiane a cui corrispose l'immediata reazione cinese, con il conseguente bilanciamento delle forze in campo.

La contesa di frontiera sino-indiana si trovò immischiata nella rottura fra la Cina e l'Unione Sovietica, e le due controversie influirono l'una sull'altra e si esacerbarono reciprocamente. Il desiderio dei sovietici di conquistarsi l'amicizia del popolo indiano e affermare la propria influenza sull'India era già stato dimostrato dall'entusiastico viaggio che Bulganin e Chruscev compirono nel 1955 e che diede inizio ad un modesto programma di aiuti economici sovietici. Questo interessamento faceva parte della nuova politica del governo sovietico, tesa a conquistarsi l'appoggio dei paesi divenuti indipendenti di recente, senza curarsi se quei paesi fossero governati da una borghesia nazionale o da “lacchè degli imperialisti”37

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Il governo sovietico, poco prima dello storico viaggio di Chruscev negli Stati Uniti, nel settembre del 1959, dovette affrontare le conseguenze derivanti lo scontro che vi era stato il 25 di agosto presso il villaggio di Longju tra truppe cinesi e indiane, che rischiò di compromettere la validità della politica di “coesistenza pacifica” perseguita. Chruscev aveva affermato, rovesciando l'ortodossia leninista, che la guerra poteva essere eliminata come mezzo per risolvere i problemi internazionali e che il socialismo poteva trionfare nel mondo senza bisogno di ricorrere alle armi38.

I comunisti cinesi cercarono di spiegare l'incidente di Longju a Chruscev quando questi, di ritorno dal viaggio negli Stati Uniti, si fermò a Pechino per i festeggiamenti dei dieci anni della Repubblica popolare. I cinesi mostrarono al leader sovietico che il luogo dello scontro si trovava a nord del confine e chiarirono che la provocazione era partita dal lato indiano. Nonostante le spiegazioni, ai dirigenti cinesi parve che Chruscev non fosse intenzionato a conoscere la reale situazione dei fatti ma piuttosto a ribadire che comunque stessero le cose era ingiusto uccidere. Il nocciolo del conflitto ideologico sino-sovietico risiedeva nell'inevitabilità o meno della guerra, nella sua utilità per la causa socialista o nella necessità di evitarla a causa del pericolo nucleare e per questo le

36 N.Maxwell, op.cit., p.251. 37 Ivi, op.cit., p.298.

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94 implicazioni dello scontro di Longju servivano a entrambe le parti nella gara di citazioni dei testi a supporto delle proprie tesi39. Durante il suo soggiorno a Pechino Chruscev si pronunciò contro la guerra come strumento politico, sostenendo che non si dovesse ricorrere alla forza contro il mondo capitalista, per quanto forti potessero essere i comunisti40.

Per quanto concerneva il movimento comunista stesso, la frattura sino-sovietica venne alla luce durante il Congresso del partito comunista rumeno tenuto a Bucarest nel luglio 1960, quando Chruscev pose al centro della condanna dei revisionisti di sinistra il modo in cui la Cina stava conducendo la sua controversia contro l'India. Chruscev respinse le tesi dei cinesi secondo cui l'Unione Sovietica li aveva traditi, rifiutando di schierarsi dalla loro parte contro l'India. Consigliò i cinesi di prendere più a cuore la condanna leninista dello sciovinismo delle grandi nazioni e di ricordare che Lenin era stato pronto anche a rinunce territoriali per ragioni tattiche41.

Mentre il conflitto sino-sovietico si acutizzò nel 1960, l'appoggio di Mosca all'India divenne l'accusa chiave nella condanna ideologica cinese al revisionismo di Chruscev. Nell'autunno del 1960 i sovietici aprirono un nuovo capitolo provocatorio per i cinesi, avviando quello che in seguito sarebbe diventato un vasto programma di assistenza militare all'India. Il ministero della difesa indiano fece ordinazioni per aerei pesanti da trasporto Antonov-12 e per elicotteri Hound. Inoltre furono avviati negoziati per l'acquisto di cacciabombardieri a reazione MiG42. Secondo i cinesi, l'Unione Sovietica era andata oltre l'errore ideologico di dare un appoggio morale al governo di Nehru, arrivando addirittura a compiere il tradimento di fornirgli l'equipaggiamento militare necessario per potenziare gli effettivi militari lungo le frontiere. Nell'autunno 1961 i cinesi si resero conto che l'attività militare indiana nel settore occidentale era coordinata ad uno scopo preciso, ed ebbero la sensazione che il governo indiano stesse deliberatamente ponendo fine alla calma che regnava sulla frontiera dallo scontro del passo di Kongka, avvenuto quasi due anni prima. Pareva che Nehru e il suo governo, con l'appoggio sia dei sovietici che del blocco imperialista, lanciassero una sfida alla Cina43.

Dal punto di vista di Pechino, l'obiettivo politico dell'operazione militare sarebbe stato di costringere l'India al tavolo delle trattative, dopo aver reso evidente l'inutilità del

39 O.A.Westad, op.cit., p.132.

40 E.Crankshaw, The New Cold War: Moscow v. Peking, London, Penguin Books, 1963, p.88. 41 Ivi, op.cit., p.114.

42 R.F.Staar, Foreign Policies of Soviet Union, Stanford, Hoover Press, 1991, p.265. 43 N.Maxwell, op.cit., pp.308-309.

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95 tentativo indiano di ottenere de facto una sistemazione di proprio gradimento, invadendo il territorio cinese, ma sarebbe bastato anche solo indurre l'India a rispettare lo status quo fin quando non fosse stata disposta a negoziare una revisione concordata dei confini. Il momento preciso in cui Pechino decise di passare all'offensiva resta incerto, ma la data più probabile dovrebbe cadere attorno alla metà di ottobre, nello specifico il 6 ottobre, quando Nuova Delhi interruppe lo scambio di note diplomatiche che preparavano un incontro per discutere la situazione lungo i confini.

Il 17 ottobre le truppe cinesi compirono i preparativi per l'attacco sul Thag La44. La notte tra il 19 e il 20 ottobre un reparto del contingente cinese si diresse, risalendo il fiume, a Tsangdhar, mentre il resto delle truppe si schierò in modo da investire di fianco le truppe indiane, disposte lungo il corso del fiume Namka Chu.

Alle cinque del mattino, del 20 ottobre, i cinesi iniziarono il bombardamento delle postazioni indiane. L'attacco cinese si diresse contro le posizioni indiane situate lungo il fiume e, data la superiorità cinese, le brigate indiane furono presto sbaragliate e costrette a rientrare in India, passando dal Bhutan. Contemporaneamente i cinesi passarono all'offensiva anche nel settore occidentale e assalirono, nella valle del fiume Chip Chap, sul Galwan e nell'area del lago Pangong, le guarnigioni indiane che si batterono strenuamente, ma che presto furono travolte e i soldati uccisi o fatti prigionieri45.

Se il mondo occidentale si schierò compatto con l'India, la reazione dei governi non allineati fu invece riservata e cauta. Invitarono entrambe le parti alla calma e alla responsabilità, offrendosi come possibili mediatori46.

La reazione dei non allineati fu meno dannosa agli interessi indiani della linea pacificatrice assunta in un primo momento da Mosca, per una volta dichiaratamente filo-cinese. Poche ore dopo l'attacco cinese, il 20 ottobre, Chruscev scrisse una lettera a Nehru in cui esprimeva preoccupazione nell'apprendere che l'India meditava di ricorrere all'uso delle armi per risolvere la contesa di frontiera con la Cina e ammoniva dall'intraprendere questa strada assai pericolosa. La lettera di Chruscev invitava Nehru ad accettare le proposte cinesi di trattative47.

Il 24 ottobre Pechino rinnovò le proposte di disimpegno militare e di colloqui, e il giorno seguente la “Pravda” lodò la mossa cinese come onesta e costruttiva, tale da fornire una base accettabile all'apertura di trattative.

44 Ivi, op.cit., p.382.

45 N.Jayapalan, op.cit., p.223.

46 Etiopia e Cipro furono i soli paesi tra i promotori della Conferenza di Belgrado del 1961 dei non allineati a schierarsi apertamente fin dall'inizio dalla parte dell'India.

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96 I sovietici, per rendere effettivo il nuovo atteggiamento, comunicarono all'ambasciata indiana a Mosca di non poter mantenere l'impegno di fornire all'India gli aerei MiG. Il problema di Mosca fu che la crisi nell'Himalaya coincise proprio con la fase più acuta della crisi dei missili a Cuba per cui, nel contesto del confronto “aperto” con gli Stati Uniti, apparve di massima importanza ricomporre la frattura con Pechino, o almeno far credere all'opinione pubblica mondiale che l'unità era stata ristabilita48.

Nehru comprese subito che il comportamento sovietico era stato determinato dalla crisi cubana e dalla necessità, in una fase delicata, di non inimicarsi la Cina. Nehru sperava che, come espresse ad un giornalista di una rete televisiva americana, dal momento che il problema dei missili “non ingombrava la strada”, l'Unione Sovietica sarebbe tornata alla posizione precedente49.

Il 20 novembre il governo cinese annunciò che entro ventiquattro ore le proprie forze avrebbero cessato il fuoco ed entro nove giorni avrebbero cominciato a ritirarsi.

Le intenzioni dei cinesi prevedevano che a partire dalla mezzanotte del 21 novembre le guardie confinarie cessassero il fuoco lungo l'intero confine sino-indiano e che a partire dal primo dicembre le guardie si ritirassero 20 km dietro la linea di controllo effettivo50. Il governo di Pechino si riservava il diritto di effettuare rappresaglie se le truppe indiane non avessero rispettato di tenersi 20 km dalla linea di confine. Entrambi i governi potevano istituire posti di polizia civili dal proprio lato della linea51.

Una settimana dopo l'armistizio il ministro Zhou Enlai inviò una lettera a Nehru in cui esortava l'India a rispondere alle proposte cinesi che rispettavano la dignità di entrambe le parti e non comportavano perdite territoriali per alcuno. Nonostante la proposta cinese il governo indiano perse tempo, eludendo la risposta circa l'accettazione dell'armistizio, anche se all'esercito era stato dato l'ordine di rispettare la tregua e di non provocare i cinesi52.

L'esercito indiano non penetrò di nuovo nella NEFA quando le truppe cinesi si ritirarono e nel Tawang l'amministrazione fu affidata a civili che si insediarono a partire dal 21 gennaio 1963. L'armistizio restò non concordato e gli indiani lo osservarono tacitamente. La volontà cinese di aprire negoziati si scontrò con la ferma decisione indiana di evitare contatti diretti di qualsiasi genere con i cinesi e così, mentre alla

48 Ivi, op.cit., p.180.

49 J.K.Galbraith, Ambassador's Journal: A Personal Account of the Kennedy Years, London, Hamish Hamilton, 1969, p.448.

50 A.Lamb, op.cit., p.154.

51 N.Maxwell, op.cit., pp.455-456.

52 Nel 1965 il Ministero della difesa indiano pubblicò il resoconto ufficiale delle perdite indiane che vedeva 1383 uccisi, 1696 dispersi e 3968 catturati dal nemico.

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97 frontiera si stabiliva una tregua armata, le relazioni tra Cina e India restavano come sospese nel vuoto53.

3.3 La crisi delle relazioni sino-sovietiche

La controversia sino-sovietica potrebbe essere considerata come la conseguenza inevitabile del processo di sviluppo del movimento comunista internazionale, passato dalla condizione di ristretta avanguardia rivoluzionaria a quello di grande forza internazionale. L'allargamento delle responsabilità e del campo di azione e l'ammissione di nuove forze furono alla base della graduale accentuazione delle tendenze all'autonomia e alla diversificazione delle molteplici componenti. All'interno del movimento comunista internazionale l'Unione Sovietica rappresentava il centro di coordinamento e di controllo54. La presa di posizione dei cinesi fu sicuramente una rivendicazione di autonomia, come quelle che già in passato si erano manifestate, ma che si differenziò, caratterizzandosi come un avvenimento completamente nuovo.

La rivoluzione cinese rappresentava una “seconda rivoluzione socialista” paragonabile alla rottura operata dai sovietici nel 1917 nell'equilibrio sociale e politico ed era l'unico caso in cui un partito comunista fosse riuscito a elaborare una linea rivoluzionaria specifica in un paese arretrato e sottoposto all'influenza delle potenze straniere55.

Due paesi uniti sul piano ideologico e storico dall'adesione ad un patrimonio comune, ma divisi sul piano pratico e politico da una serie di diverse prospettive e quindi portati a una diversa interpretazione della funzione e del contenuto dell'ideologia.

Il rapporto tra Cina e Unione Sovietica divenne più articolato in seguito alla denuncia di Chruscev al XX Congresso del Pcus nel febbraio 1956 che aprì in Cina un dibattito sui fondamenti teorici e dottrinali e sulle scelte pratiche da assumere. I dirigenti cinesi, di fronte alle tensioni in Polonia e alla ribellione in Ungheria, favorevoli al riconoscimento delle “vie diverse” per i vari partiti comunisti, in un primo momento offrirono sostegno alle spinte indipendentiste nell'Europa orientale e addebitarono la responsabilità della crisi all'atteggiamento egemonico dell'Unione Sovietica. Gli eventi dell'autunno 1956

53 N.Maxwell, op.cit., p.484. 54 O.A.Westad, op.cit., p.127. 55 D.J.Doolin, op.cit., p.67.

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98 segnarono la crisi di quello che, nonostante differenze legate alle realtà locali, era stato l'unitario insieme dei partiti comunisti56. Secondo i comunisti cinesi il XX Congresso del Pcus fu il primo passo lungo la via del revisionismo intrapreso dal gruppo dirigente sovietico, in quanto consideravano le opinioni espresse riguardo la lotta internazionale e il movimento comunista una violazione dei principi del marxismo-leninismo. In particolare la denuncia di Stalin e la tesi del passaggio pacifico al socialismo, attraverso la via parlamentare, erano gravi errori di principio. Nel suo rapporto al XX Congresso, col pretesto che mutamenti radicali si erano verificati nella situazione internazionale, Chruscev aveva avanzato tale tesi. Essa rappresentava una revisione degli insegnamenti marxisti-leninisti sullo stato e la rivoluzione, negando il significato universale della via della Rivoluzione d'Ottobre.

Chruscev dichiarò che la coesistenza pacifica era la linea generale della politica estera dell'Unione Sovietica, escludendo, nell'opinione dei cinesi, l'assistenza ai paesi socialisti e la reciproca cooperazione57.

La polemica tra comunisti cinesi e sovietici prese forma, dopo le denunce del XX Congresso, tra il 1957 e il 1959. A contrapporre le posizioni dei due partiti contribuì la scelta compiuta dai cinesi nel corso del 1958 di accelerare la trasformazione socialista del paese e la militarizzazione della società rurale con l'adozione della politica del Grande Balzo in avanti e della creazione delle comuni popolari. Questa linea si scontrò con le scelte di Chruscev in Unione Sovietica e non casualmente da allora nella polemica entrarono temi che riguardavano la strategia economica e sociale di ciascuno dei due paesi e la concezione stessa della società socialista alla quale entrambi si ispiravano58.

Il XX Congresso del Pcus fu l'occasione per il lancio ufficiale della dottrina della coesistenza pacifica e per sottolineare i vantaggi che la nuova linea di azione avrebbe garantito alle prospettive di pacifica avanzata del socialismo sia nelle nazioni di recente indipendenza che nei paesi capitalistici. Chruscev, nel rapporto presentato il 14 febbraio, sostenne che nella competizione tra il sistema capitalistico e socialista quest'ultimo era destinato a vincere, ma questo non significava che la vittoria del comunismo dovesse essere imposta con la forza e l'intervento armato. Inoltre egli sottolineò come la coesistenza pacifica fosse stata assunta, negli anni precedenti dalla Repubblica popolare cinese, come il principio su cui fondare la propria politica estera.

56 E.Collotti Pischel, op.cit., pp.54-57. 57 O.A.Westad, op.cit., p.89.

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99 Tuttavia la tesi cinese sul problema della pace e della guerra non poteva essere paragonata a quella sovietica, in quanto non era il cardine essenziale di un'impostazione strategica e ideologica59. Secondo i cinesi, nel processo per condurre al trionfo la rivoluzione mondiale e il rovesciamento del sistema imperialistico, era possibile utilizzare come strumento tattico anche la coesistenza pacifica, ma questa non poteva essere considerata, come facevano i sovietici, un fine generale del movimento comunista.

Nonostante le difficoltà, cinesi e sovietici riuscirono a trovare un primo compromesso nel novembre 1957 con la Dichiarazione dei dodici partiti comunisti e operai, che fu adottata dalla Conferenza di Mosca, tenuta dal 14 al 16 novembre, e nel manifesto per la pace dei sessantaquattro partiti comunisti e operai del mondo adottato nel corso della Conferenza del 16-19 novembre. Con la Dichiarazione dei dodici partiti comunisti e operai dei partiti socialisti e con la Dichiarazione di unità, la solidarietà sino-sovietica raggiunse il suo punto culminante. La Dichiarazione del 1957 riassunse le esperienze del movimento comunista internazionale, espose i compiti di lotta di tutti i partiti comunisti, ribadì il significato universale della via della Rivoluzione d'Ottobre, delineò le leggi comuni che governavano la rivoluzione socialista e l'edificazione socialista e formulò i principi che reggevano i rapporti tra i partiti e i paesi fratelli. Pur indicando la possibilità di un passaggio pacifico, la Dichiarazione criticava anche la strada del passaggio non pacifico, sottolineando che “il leninismo insegna e l'esperienza conferma che le classi dirigenti non abbandonano mai volontariamente il potere”60.

Dopo l'incontro di Mosca, secondo l'opinione dei comunisti cinesi, il gruppo dirigente del Pcus, invece di seguire la linea tracciata nella Dichiarazione e correggere i propri errori, perpetrò sempre più gravi violazioni dei principi rivoluzionari, allontanandosi dalla strada del marxismo-leninismo e dell'internazionalismo proletario.

Ignorando la conclusione comune della Dichiarazione, secondo cui l'imperialismo statunitense era il nemico di tutti i popoli, il gruppo dirigente del Pcus cercò di collaborare con gli Stati Uniti per risolvere i problemi mondiali.

Dalla primavera del 1958 la Cina e l'Unione Sovietica presero strade diverse poiché i sovietici proseguirono il cammino della destalinizzazione e della distensione, mentre i cinesi quello della “via della fretta”, per quel che concerneva il ritmo e i metodi di edificazione del socialismo e la politica da adottare verso i paesi capitalisti e del Terzo Mondo. Le relazioni sino-sovietiche subirono un lento peggioramento a partire dal 1958

59 P.Calzini, E.Collotti Pischel, op.cit., p.83. 60 A.Graziosi, op.cit., p.244.

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100 e, nonostante le differenti posizioni all'interno del movimento comunista, fu possibile raggiungere un compromesso alla Conferenza di Mosca degli 81 partiti comunisti nel novembre del 1960. Siccome per principio era necessario che la conferenza si concludesse con un testo approvato all'unanimità, Chruscev fu costretto a fare importanti concessioni ai cinesi, in particolare a proposito della questione dell'unità del movimento comunista internazionale. Il delegato cinese si era rifiutato di firmare un testo che contenesse la condanna del “frazionismo” all'interno del movimento61.

Mosca e Pechino erano in disaccordo sulle principali questioni legate al socialismo e al movimento comunista internazionale.

Innanzitutto riguardo i metodi per l'edificazione del socialismo, i sovietici rimproveravano ai cinesi il Grande Balzo in avanti e l'instaurazione delle comuni popolari, sostenendo che avevano provocato una completa disorganizzazione dell'economia cinese e un grave danno all'interno del mondo socialista.

I cinesi contestavano i metodi per l'edificazione della “base tecnico-materiale del comunismo” in vigore in Unione Sovietica, considerandoli non più accettabili da un punto di vista marxista-leninista.

In tema di collaborazione economica all'interno del mondo socialista i cinesi non erano sostenitori della “divisione internazionale del lavoro” nel campo socialista, intesa come ripartizione della produzione di beni e servizi tra i diversi paesi specializzati in determinati tipi di attività economica, a differenza dei dirigenti sovietici che ritenevano che da essa sarebbe derivata l'integrazione delle economie dei paesi dell'est. I sovietici ritenevano che il mezzo principale per preparare il trionfo della rivoluzione mondiale fosse quello di dare priorità al rafforzamento economico e politico dell'Europa dell'est e dell'Unione Sovietica stessa62.

Secondo i cinesi questa concezione non era altro che espressione di una particolare tendenza dell'Unione Sovietica di abbandonarsi alle tentazioni dello sciovinismo da grande nazione. Non era infatti necessario preoccuparsi della costruzione del comunismo in Unione Sovietica, ma piuttosto della lotta politica e, se necessario, militare per strappare all'avversario tutti i paesi che ancora erano sotto il suo controllo. I cinesi erano convinti della necessità di accelerare la rivoluzione nei paesi del Terzo Mondo, sostenendo i movimenti di liberazione nazionale e favorendo la lotta contro i regimi monopolizzati dalle “borghesie nazionali”. Questo tipo di politica implicava la

61 G.Chang, op.cit., p.234.

62 L.M.Luthi, The Sino-Soviet Split: Cold War in the Communist World, Princeton, Princeton University Press, 2008, p.137.

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101 mobilitazione permanente dei popoli del mondo intero contro l'imperialismo americano. Per i dirigenti cinesi la lotta di classe diventava, in quel momento storico, la lotta dei popoli asiatici, africani e dell'America latina per conquistare, difendere o consolidare la loro indipendenza nazionale63.

Relativamente all'organizzazione del movimento comunista internazionale, i sovietici si ritenevano soddisfatti del sistema in vigore dopo il 1956, quello dell'Internazionale intesa, almeno teoricamente, come una sorta di lega di partiti indipendenti, sovrani, eguali di diritto64.

Al tempo stesso però il partito sovietico pretendeva che, ogni volta che i leader nazionali si riunivano per dibattere questioni che riguardavano l'intero movimento, la minoranza fosse strettamente vincolata dalle decisioni della maggioranza. I cinesi, al contrario, rivendicavano per le minoranze il diritto di continuare a difendere il proprio punto di vista contro la maggioranza una volta che le decisioni erano state prese. Mentre il partito comunista sovietico proponeva ai suoi militanti, riguardo lo stile del comunismo del futuro, una visione rasserenata di una società comunista dell'abbondanza, il partito cinese vi opponeva quella di un mondo in continuo progresso caratterizzato sempre da nuove contraddizioni65.

Nel novembre del 1960 si riunì la Conferenza dei partiti comunisti e operai che, come già era accaduto con la Conferenza del 1957, avrebbe dovuto consentire a sovietici e cinesi di superare le divergenze e che invece contribuì ad approfondire. Nel corso della Conferenza di Mosca si verificò la rottura tra l'Unione Sovietica e l'Albania, la quale aveva criticato la coesistenza pacifica, ricevendo il prudente sostegno da parte dei comunisti cinesi. Nei mesi che seguirono la Conferenza di Mosca le relazioni sino-sovietiche attraversarono una fase di stallo in cui entrambe le parti ritennero che fosse meglio evitare, sia in pubblico che in privato, argomenti che potevano essere motivo di attrito66.

Il 17 ottobre del 1961 si aprirono i lavori del XXII Congresso del partito comunista sovietico, con la lettura del rapporto di attività del Comitato centrale da parte di Chruscev, il quale ne approfittò per accusare i dirigenti del partito albanese del lavoro. Il 19 ottobre, il ministro Zhou Enlai dichiarò che se fossero sorte discussioni o divergenze tra partiti o paesi fratelli si sarebbe dovuto cercare una soluzione nello

63 M.Li, op.cit., pp.97-98. 64 A.Graziosi, op.cit., p.258. 65 O.A.Westad, op.cit., p.116.

66 R.E.Whitman, Ideological aspects of the Sino-Soviet dispute and related questions of Leninism and

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102 spirito dell'internazionalismo proletario e in conformità con i principi dell'eguaglianza e dell'unanimità ottenuta attraverso consultazioni.

Rivolgere pubblicamente e unilateralmente accuse ad un partito fratello non avrebbe contribuito all'unità e alla soluzione dei problemi. Inoltre il ministro Zhou sostenne che dispiegare di fronte al nemico una discussione tra partiti o paesi fratelli non poteva essere considerato come un atteggiamento marxista-leninista.

Il 31 ottobre del 1961 si chiuse il XXII Congresso del Pcus e la delegazione cinese rientrò a Pechino senza essere riuscita ad ottenere il consenso sovietico per la convocazione di una nuova conferenza dei partiti comunisti per risolvere le divergenze con gli albanesi67.

Nel mese di novembre i comunisti cinesi pubblicarono una vera e propria valanga di discorsi, articoli e messaggi favorevoli ai punti di vista albanesi e sfavorevoli agli eccessi della destalinizzazione in corso in Unione Sovietica.

I rapporti sino-sovietici, che erano stati pessimi da gennaio a marzo del 1962, subirono un netto miglioramento nel mese di aprile dovuto alla decisione, in seguito ad alcuni incontri tra i rappresentanti dei due paesi, di salvare ancora una volta le apparenze e di rimandare ad un secondo tempo la soluzione delle divergenze nei loro aspetti sostanziali. L'atteggiamento più flessibile dimostrato dai dirigenti cinesi trovò il proprio limite nell'ostinazione con la quale continuavano a richiedere la convocazione di una nuova conferenza dei partiti comunisti, pur appoggiando la proposta avanzata da alcuni partiti fratelli di porre fine alle polemiche aperte e pubbliche all'interno del movimento comunista internazionale68.

Dal 5 al 17 di aprile si riunì a Pechino la quarta ed ultima sessione della commissione mista di ricerca per inventariare le risorse del bacino dell'Amur, in vista del loro sfruttamento in comune ad opera della Cina e dell'Unione Sovietica69. Il ministro del commercio estero sovietico arrivò a Pechino il 13 aprile per concludere il protocollo sugli scambi sino-sovietici per il 1962, firmato il 20 di aprile. Tutto questo non impedì né ai sovietici di continuare ad avvicinarsi agli jugoslavi, né ai cinesi di stabilire legami sempre più stretti con gli albanesi o di denunciare con estrema violenza le “provocazioni militari degli imperialisti americani”70

. Il mese di aprile segnò effettivamente una svolta nella storia delle relazioni sino-sovietiche, non soltanto perchè fu realizzato l'ultimo tentativo di riconciliazione tra i due grandi del socialismo, ma

67 Ivi, op.cit., p.43. 68 J.Strauss, op.cit., p.145. 69 T.Sung An, op.cit., p.67. 70 G.Chang, op.cit., p.276.

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103 anche perchè ebbe inizio un periodo nel quale le contraddizioni tra Mosca e Pechino presero un carattere sempre meno ideologico e assunsero una natura sempre più politica e concreta. Durante un dibattito sulla questione del Kashmir, nel maggio, il delegato sovietico al Consiglio di sicurezza dell'ONU si pronunciò favorevole alle tesi indiane, sottolineando come l'occupazione del Pakistan di una parte del Kashmir fosse illegale ed esprimendo una implicita disapprovazione del riavvicinamento sino-pakistano71. La guerra sino-indiana e la questione di Cuba fecero precipitare definitivamente le relazioni tra Cina e Unione Sovietica.

Nel dicembre 1959 a Cuba si era insediato, dopo aver rovesciato la dittatura di Batista, il governo rivoluzionario guidato da Fidel Castro. I rapporti tra il nuovo regime cubano e il governo statunitense divennero tesi quando Castro nazionalizzò le banche americane e firmò un trattato commerciale con l'Unione Sovietica72.

La decisione di installare basi missilistiche sovietiche a Cuba, presa nell'aprile-maggio del 1962, fu espressione della volontà sovietica di togliere agli americani ogni residua illusione circa il fatto che fossero possibili accordi generali, lasciando in sospeso questioni importanti come il divario di potenziale nucleare.

Se gli Stati Uniti volevano accordi per la sospensione degli esperimenti nucleari, dovevano preventivamente compensare l'insicurezza che la vicinanza di basi nucleari al territorio sovietico generava.

L'idea venne accolta con calore dai cubani e nel luglio del 1962 Raul Castro, ministro della Difesa, si recò a Mosca per definire il progetto per l'installazione dei missili. Fu previsto l'invio di quarantacinquemila militari sovietici e l'installazione sull'isola di cinque reggimenti specialistici capaci di lanciare missili del tipo SS-4 e SS-5 contro il territorio degli Stati Uniti73.

I lavori di installazione dei missili iniziarono alla fine di agosto e subito gli americani ne furono a conoscenza. Il presidente Kennedy, dopo aver esaminato la questione, il 22 ottobre annunciò alla nazione che tutte le navi sovietiche dirette a Cuba che avessero oltrepassato la linea di quarantena stabilita sarebbero state fermate, ispezionate e, se necessario, respinte con la forza74.

Nell'incontro tra il ministro della giustizia Robert Kennedy e l'ambasciatore sovietico negli Stati Uniti Dobrynin, avvenuto il 27 di ottobre, si delinearono i contorni dell'accordo per lo smantellamento delle basi in Turchia e in Italia, in cambio della

71 A.Sharp, op.cit., p.154.

72 A.Chomsky, A History of the Cuban Revolution, Oxford, Wiley-Blockwell, 2011, p.87.

73 J.Blight, D.A.Welch, Intelligence and the Cuban Missiles Crisis, London, Frank Cass, 1998, pp.89-94. 74 M.J.White, The Cuban Missiles Crisis, London, MacMillan, 1996, p.94.

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104 rinuncia all'installazione di missili a Cuba. Raggiunto l'accordo la crisi scese di tono e Kennedy apparve come il vincitore, mentre Chruscev come colui che aveva sfidato il “colosso americano”, uscendone sconfitto75

.

La decisione di Chruscev di ritirare i missili da Cuba provocò la dura reazione di Mao Zedong, che accusò il leader sovietico di debolezza per aver ceduto di fronte alle minacce del presidente Kennedy.

Pechino difese strenuamente la politica della “linea dura” contro gli Stati Uniti e la tesi maoista che la guerra contro l'imperialismo americano era “necessaria”76

.

I cinesi reagirono alla decisione sovietica di giungere ad un compromesso con gli Stati Uniti, moltiplicando le note e le dichiarazioni destinate a stigmatizzare la “codardia” di coloro che credevano di poter barattare una rivoluzione con una “illusione di pace”. Il 27 ottobre 1962 i cinesi pubblicarono un testo intitolato Ancora sulla filosofia di

Nehru considerata alla luce della questione delle frontiere cino-indiane, che fu un

monito diretto non solo a Nuova Delhi ma anche a Mosca, a cui venne rimproverato l'atteggiamento di neutralità adottato nella contesa.

Tra novembre e dicembre del 1962 ebbero luogo tre congressi di partiti comunisti: l' VIII Congresso del partito ungherese, il X Congresso del partito italiano e il XII Congresso del partito cecoslovacco. Tutti e tre questi congressi servirono come piattaforma principale del contrattacco di Mosca e sempre secondo lo stesso schema, che puntava a evidenziare l'isolamento della posizione cinese all'interno del movimento comunista77.

Il 12 dicembre Chruscev pronunciò di fronte al Soviet Supremo un discorso di politica estera dedicato ai problemi attuali del movimento comunista internazionale e alla Cina. L'intervento del leader sovietico aveva un carattere fortemente polemico e ironizzava sulla “prudenza dei compagni cinesi” che “tolleravano l'occupazione di alcuni loro territori da parte straniera”.

Dopo le dichiarazioni del 12 dicembre, la lotta tra Cina e Unione Sovietica, per far trionfare i rispettivi punti di vista all'interno del movimento comunista internazionale, si svolse alla luce del giorno e assunse un carattere sempre più violento.

A Pechino furono pubblicati due testi fondamentali intitolati Proletari di tutto il mondo,

uniamoci contro il nemico comune del 15 dicembre e Ciò che ci separa dal compagno Togliatti del 13 dicembre. In essi si trovavano enumerate le principali accuse della Cina

75 J.Blight, D.A.Welch, op.cit., pp.153.156. 76 O.A.Westad, op.cit., p.115.

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105 contro l'Unione Sovietica sia sul piano teorico che su quello pratico78.

Uno dei principali motivi di rottura fra Cina e Unione Sovietica fu la politica di coesistenza pacifica perseguita da Chruscev e invece duramente contrastata da Mao. Secondo i sovietici le possibilità di garantire la pace e di superare il dogma dell'inevitabilità della guerra, fintanto che fosse esistito il sistema imperialista, erano effettive. I sovietici non negavano il permanere della natura aggressiva del sistema capitalistico ma sostenevano che si erano create in campo mondiale condizioni nuove, capaci di frenarne la volontà di guerra. Il mantenimento della pace costituiva per il regime di Mosca, oltrechè il fine dell'azione politica-diplomatica, anche il mezzo per fare avanzare la causa socialista nel mondo. In un clima di distensione i paesi socialisti sarebbero stati in grado di dedicare tutte le proprie energie allo sviluppo delle capacità produttive, altrimenti assorbite dalle esigenze della difesa militare79.

Il rafforzamento della base economica e militare del campo socialista costituiva la garanzia più sicura per l'avanzata rivoluzionaria nel mondo, portata avanti in comune con le altre componenti del processo rivoluzionario.

La problematica cinese sulla pace e sulla guerra, essendo stata elaborata in risposta alla tesi sulla coesistenza pacifica sovietica, subì notevoli trasformazioni soprattutto con il passaggio del dibattito dalla fase indiretta e allusiva alla polemica aperta e generale. Prima del 1959, i cinesi cercarono di indurre l'Unione Sovietica ad includere la Cina in ogni accordo distensivo con l'Occidente, facendo della priorità di trattamento e dell'estensione della coesistenza all'Asia la condizione preliminare per ogni intesa80. Successivamente, di fronte all'immutato irrigidimento americano, il partito comunista cinese elaborò a fondo la tesi secondo la quale la coesistenza doveva essere imposta all'Occidente attraverso un'intensificazione delle lotte rivoluzionarie e del rafforzamento materiale del sistema socialista, cosicchè il sistema imperialista fosse costretto con la forza a rinunciare ai suoi piani bellici. Questa interpretazione della coesistenza, intesa come risultato dell'espansione del rafforzamento del fronte rivoluzionario, divergeva con la tesi sovietica e soprattutto con la conseguenza tattica tratta da Chruscev a proposito dell'opportunità di fare concessioni all'avversario, allentando la tensione rivoluzionaria, pur di garantire il mantenimento della pace81. I cinesi obiettarono che ogni indebolimento della spinta rivoluzionaria costituiva un elemento di rafforzamento del sistema imperialista e quindi delle tendenze belliciste di questo sistema, implicando

78 Ivi, op.cit., p.69.

79 P.Calzini, E.Collotti Pischel, op.cit., p.44. 80 O.A.Westad, op.cit., pp.97-102.

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106 una minore possibilità di imporre all'Occidente la pace.

La crisi cubana, soprattutto perchè coincise con la crisi confinaria sino-indiana e con il mancato appoggio dell'Unione Sovietica alla Cina in questa questione, riportò in primo piano la polemica tra la tesi sovietica, che assegnava assoluta priorità al mantenimento della pace e al potenziamento del fattori distensivi, anche a costo di parziali ritirate e concessioni, e la tesi cinese che assegnava all'espansione delle forze rivoluzionarie il compito di indebolire l'imperialismo e quindi di impedirgli di scatenare una guerra. La difesa di Cuba rappresentò per i cinesi il banco di prova della politica di Chruscev sia per ciò che concerneva il valore politico delle armi nucleari, sia per la possibilità del mondo socialista di scuotere il dominio imperialista82.

La crisi di Cuba ebbe anche ripercussioni positive nella politica estera di Unione Sovietica e Stati Uniti, poichè dimostrò che le armi nucleari non potevano essere direttamente usate come strumenti per realizzare fini politici, se non a prezzo di una guerra che nessuno dei due contendenti voleva. Questa coscienza segnò un nuovo spartiacque della Guerra Fredda, ponendo fine alla sua fase drammatica e facendo parlare di un suo “addomesticamento”83

.

Tra le ragioni della svolta sovietica vi era anche la convinzione che il rapporto con la Cina fosse ormai irrecuperabile e il distacco da Mao e dalla sua politica favoriva l'apertura verso Occidente.

Un discorso del presidente Kennedy, nel giugno 1963 rilanciò il dialogo, sanzionato dall'installazione della “linea rossa” tra Washington e Mosca, ideata per impedire che difficoltà di comunicazione mettessero a repentaglio la pace, come successo durante la crisi di Cuba.

Il 5 agosto 1963, Unione Sovietica, Stati Uniti e Gran Bretagna firmarono a Mosca il “Trattato per la sospensione degli esperimenti nucleari nell'atmosfera, nello spazio e nelle acque”, che fu il primo di una lunga serie di accordi concepiti per circoscrivere i rischi di un conflitto nucleare, mediante la definizione di regole sistemiche sempre più precise84.

Le potenze firmatarie del trattato condividevano l'obiettivo di porre fine alle contaminazioni ambientali dovute a sostanze radioattive.

Nel marzo 1954 gli Stati Uniti fecero esplodere una bomba termonucleare, nell'atollo di Bikini, che sprigionò una potenza di 15 megatoni, il doppio di quella prevista dagli

82 L.M.Luthi, op.cit., p.235.

83 J.Blight, D.A.Welch, op.cit., p.179. 84 A.Graziosi, op.cit., p.278.

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107 esperti, e che provocò la contaminazione dell'area. La questione degli esperimenti nucleari divenne sempre più centrale con l'aumento della consapevolezza dei rischi per l'ambiente. Il principale problema che per alcuni anni impedì di firmare l'accordo per la sospensione degli esperimenti nucleari era quello di definire il sistema di controllo che avrebbe garantito il rispetto dell'accordo e la reale sospensione di tutti gli esperimenti. Dopo anni di discussione il presidente Kennedy, il 10 giugno 1963, annunciò che l'accordo era stato raggiunto e che ci sarebbe stato l'incontro tra le potenze a Mosca per la firma del Trattato85.

Le parti si impegnarono a evitare qualsiasi tipo di esplosione nucleare nell'atmosfera, sotto il mare, nello spazio o in ogni altro ambiente che avrebbe potuto causare contaminazione radioattiva, anche oltre i confini dello stato.

Il Trattato aveva durata illimitata e ogni parte poteva proporre emendamenti.

L'articolo III apriva il Trattato a tutti gli stati che non lo avevano firmato, come Francia e Cina. Poco prima della firma del Trattato, il 14 giugno, i cinesi avevano pubblicato un testo dal titolo Una proposta sulla linea generale del movimento comunista

internazionale, in risposta alla lettera del Comitato centrale del Pcus del 30 marzo 1963,

che sollevava la questione della linea generale del movimento comunista internazionale, che prospettava in 25 punti una strategia opposta a quella sovietica.

Il partito comunista cinese ribadì la propria fedeltà ai principi dell'internazionalismo proletario espressi nella Dichiarazione del 1957 e nel Manifesto del 1960, che guidavano i rapporti fra partiti e paesi fratelli, salvaguardando e rafforzando l'unità del campo socialista e del movimento comunista internazionale. Nei 25 punti il partito comunista cinese affermò che la rivoluzione della seconda metà del XX secolo era quella dei paesi oppressi, il Terzo Mondo era al centro della principale zona delle tempeste e la Cina aveva il compito di guidare questa nuova rivoluzione86.

Nel mese di luglio si riunì a Mosca una conferenza che avrebbe dovuto favorire il dialogo tra il partito cinese e sovietico, appianando le divergenze, e che invece si concluse con la rottura del dialogo.

Al testo cinese del giugno 1963 fecero seguito, nella seconda metà del 1963 e nel 1964, altri nove testi cinesi sulle origini dei contrasti, sul problema dell'esperienza staliniana, sulla Jugoslavia, sul colonialismo e la natura delle società socialista.

Mosca, nel luglio 1963, rispose con una lettera alle critiche cinesi espresse nei 25 punti, difendendo la destalinizzazione e sottolineando i progressi quali la riforma delle

85 G.Chang, op.cit., pp.268-271. 86 J.Osterhammel, op.cit., p.459.

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