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Capitolo II. Il Mezzogiorno e la Puglia nella storiografia

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Capitolo II. Il Mezzogiorno e la Puglia nella storiografia

Le rappresentazioni del Mezzogiorno dalla svolta storiografica degli anni '80

Il Mezzogiorno d'Italia è sempre stato un campo d'indagine sin dall'Unità d'Italia, quando i primi meridionalisti iniziarono ad indagare le cause di quella che si presentava ai loro occhi come

“l'arretratezza strutturale” del Meridione. Dalle loro riflessioni e dalle loro inchieste sul campo trassero spunto generazioni di storici, che nello studio della storia del Sud si avvalsero sempre della griglia interpretativa fornita dal meridionalismo postunitario. Come scrive J. Morris

Le analisi storiche si concentrarono sulla “questione meridionale”, servendosi di spiegazioni quali la scarsità di risorse (povertà dei terreni, penuria d'acqua), oppure l'assenza nelle popolazioni del Meridione di determinate qualità “umane”, come lo spirito d'iniziativa o il senso civico

1

.

A lungo la storia del Sud è stata storia della questione meridionale, questione che si inscriveva in un più ampio schema, quello del “dualismo economico” tra due aree italiane, Nord e Sud, che erano viste, a seconda dei punti di vista, in rapporti differenti:

1) di subordinazione, che vedeva un Nord svilupparsi sull'espropriazione violenta di risorse del Sud;

2) di freno, che vedeva lo spontaneo sviluppo del Nord frenato dalla “palla al piede”

meridionale.

Una tale visione delle cose è riemersa a livello di dibattito pubblico negli anni '90, con l'avvento della Lega Nord, e sopratutto durante le celebrazioni dei 150 anni dell'Unità d'Italia. Si tratta di visioni storiografiche ormai sorpassate all'interno del mondo accademico, ma che ancora fanno

1 J. Morris, Le sfide del meridionalismo, in Oltre il meridionalismo, a cura di Lumbley-Morris, Carocci, Roma, 1999, p. 12

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molta presa a livello di pubblica opinione, in quanto basate su luoghi comuni (spessissimo antimeridionali) ampiamente diffusi e difficili da sradicarsi, come ben spiega J. Dickie, che ricostruisce la nascita dell'immaginario collettivo del “Sud” come un Altro dalla lotta al brigantaggio sino al caso specifico di Francesco Crispi, primo meridionale a divenire Primo Ministro

2

.

Fu negli anni '80 che tale stato di cose cambiò, quando avvenne la così detta “svolta revisionista” che consisteva in una nuova tendenza degli storici, i quali riconobbero la necessità di studiare il Sud senza ricorrere alle interpretazioni del meridionalismo. Bisognava studiare il Sud e la sua storia come a se stante, senza ricorrere ad “impliciti paragoni con il Nord”

3

. Tale esigenza portò P. Bevilacqua e A. Placanica a fondare nel 1986 l'Istituto meridionale di Storia e Scienze Sociali e la rivista ad esso collegata, “Meridiana”; iniziativa che rientrava in un movimento più generale di rinnovamento della storiografia italiana, che solo allora iniziava a recepire la lezione delle

“Annales” francesi, i quali avevano inaugurato lo studio della nuova “storia sociale”, che integrava tra loro storia, sociologia, antropologia ed economia. Iniziò così a diffondersi la moda delle monografie e, più in generale, dei lavori incentrati sulla microstoria, la quale cercava di essere “una rappresentazione olistica delle interrelazioni umane” e che ha così favorito “lo studio particolareggiato di un singolo episodio, di una data impresa o famiglia”

4

.

Lo studio di casi specifici o di aree precise all'interno del Mezzogiorno non poteva che portare alla demolizione dell'idea di Sud formatasi nei decenni precedenti, che proponeva come carattere interpretativo quello di una falsa omogeneità all'interno dello stesso, come se ogni sua regione condividesse caratteristiche identiche che ne spiegassero l'arretratezza.

In tal modo si è costituito un “Sud” omogeneo e arretrato a partire dalle varie regioni, profondamente diverse, che avevano costituito il Regno dei Borbone

5

.

2 J. Dickie, Stereotipi del Sud Italia, 1860-1900, in Oltre il meridionalismo, op cit., pp. 113-140 3 Morris, Le sfide del meridionalismo, op. cit., p. 12

4 Ivi

5 Morris, Le sfide del meridionalismo, op. cit., p. 13

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Da quel momento in poi, dunque, la maggior parte della storiografia ha rifiutato qualsiasi interpretazione della storia meridionale che poggiasse su aprioristici concetti di “arretratezza”. E' per mezzo di questa nuova prospettiva di studi che è stata ampiamente dimostrata l'origine razionale delle strutture socio-economiche del Mezzogiorno all'interno delle sue condizioni geografiche, territoriali e culturali, strutture che hanno seguito il corso della storia evolvendosi man mano che le condizioni mutavano, sempre all'interno di una intrinseca razionalità che solo se viste con diverse lenti interpretative da quelle che sono loro proprie (in particolare, il modello di sviluppo borghese settentrionale a sua volta mutuato da quello inglese e francese) appaiono residui di età precedenti.

Un esempio in tal senso può considerarsi quello di M. Petrusewicz, che rilegge le vicende del latifondo in un'ottica completamente diversa da quella classica di “residuo feudale”, sottolineandone invece la razionalità (ovvero l'adeguatezza di una risposta all'interno di un panorama economico-sociale dato) all'interno di un panorama povero qual'era, nel caso specifico, quello della Calabria:

Il latifondismo non era né feudale, né capitalista; costituiva piuttosto un misto tra produzione per la sussistenza e produzione per il mercato; tra i metodi agricoli più moderni e i più arretrati, tra industria e agricoltura, retribuzione monetaria e pagamenti in natura, tra mercato locale e mercato internazionale, gestione moderna unita a mezzadria e distribuzione di terre. […]

Era razionale […] poiché offriva vantaggi diversificati (ma allo stesso tempo desiderati), da un lato ai latifondisti e, dall'altro, ai lavoratori

6

.

Questo nuovo corso della storiografia non ha dato vita ad una scuola di pensiero univoca, anzi esso include posizioni ed interpretazioni diverse, grosso modo riconducibili a due filoni, quello di coloro i quali in seguito ad una “rivalutazione della storia del Mezzogiorno li ha portati a presentare le sue istituzioni e i suoi risultati in una luce decisamente più positiva” e quello di coloro che sono “cauti

6 M. Petrusewicz, Il tramonto del latifondismo, in Oltre il meridionalismo, op. cit., p. 31

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nel trascurare le contraddizioni che ancora esistono nella società meridionale”

7

. A distanza di 30 anni, possiamo dire che è senz'altro riuscito quanto si proponeva di fare la rivista Meridiana, ovvero presentare un Meridione “letto al di là della retorica meridionalista, come un qualsiasi pezzo di mondo, con le sue ombre e le sue luci; un territorio da decostruire e rileggere, al di là del mito, nella sua realtà.”

8

.

Questo è particolarmente vero per quanto riguarda lo studio dell'economia (o meglio, delle economie) del Sud, della quale è stata “riscoperta”, come si diceva nel caso del latifondo, la razionalità. Ciò ha portato inevitabilmente a porsi un nuovo quesito: quello della

“modernizzazione” del Mezzogiorno. Acclarato che il Sud non era un mare feudale facente capo ad un'enorme capitale e riscoperta la razionalità delle risposte che il tessuto economico e sociale aveva dato ai problemi postisi nel corso della storia, c'era stato un fenomeno di modernizzazione nel corso dell'Ottocento? Quanto aveva inciso e in che modo? Sono tutte domande a cui molti storici hanno provato a dare una risposta. Un primo tentativo lo si fece, significativamente, nel 1986 con il volume curato da G. Barone, Mezzogiorno e modernizzazione, che si inserisce nel clima della svolta revisionista, come ben si nota leggendone la prefazione

Condizionata a lungo dall'ipoteca ideologica del meridionalismo liberista, la ricerca storica sul Mezzogiorno contemporaneo solo di recente sta liberandosi dalla subalternità ad opzioni

culturali precostituite, per ricostruire finalmente tempi, modi e peculiarità dello sviluppo capitalistico nazionale e della sua diversa incidenza nelle differenti realtà socio-ambientali. Gradualmente, in

seguito a varie sollecitazioni e “rotture”, la storiografia sembra voler superare la tradizionale analisi denuncia delle cause della “questione meridionale”, riorientando le coordinate interpretative

con un'immagine più complessa e meno stereotipata del Mezzogiorno

9

.

Tale analisi si limitava però al periodo post-unitario e, sopratutto, analizzava solo “le modalità

7 Morris, Le sfide del meridionalismo, op. cit., p. 14 8 Vedi Morris, op. cit., p. 15

9 G. Barone, Mezzogiorno e modernizzazione, Einaudi, Torino, 1986, Premessa

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dell'intervento pubblico nelle aree arretrate”

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, quindi non prendeva ancora in considerazione l'economia preunitaria, né indagava sull'imprenditoria privata.

Lo studio dell'economia preunitaria sarebbe arrivato un po' più tardi e prese l'avvio, non poteva essere altrimenti, dall'analisi dell'economia agricola, in particolare del latifondo. Oltre al già citato caso della Petrusewicz, anche l'analisi di S. Lupo dette risultati analoghi ai suoi: molti latifondi dell'Italia meridionale continentale erano gestiti da personale che vi risiedeva stabilmente o direttamente dal proprietario stesso, e che quindi non venivano dati in affitto e poi subaffittati a terzi come avveniva in Sicilia e come si ritenne facessero anche in tutto il Sud

11

. Ampio spazio venne poi dato agli studi incentrati sulla svolta vinicola negli anni '60 dell'Ottocento, indice di attenzione alle vicende dei mercati internazionali, e ad altre colture specializzate e strettamente collegate alla commercializzazione come olivi, mandorle e agrumi. In tal senso si sono mossi i lavori di Bevilacqua

12

(Breve storia dell'Italia meridionale), Lupo

13

(Il giardino degli aranci), A. Massafra

14

(Campagna e territorio nel Mezzogiorno) e sopratutto J. Davis

15

, il cui lavoro sulla società e gli imprenditori meridionali rimane ancor oggi un prezioso strumento di studio

Grande importanza all'interno di questa marea montante di studi ebbe il convegno “Forme e limiti di un processo di modernizzazione: il Mezzogiorno d'Italia tra la crisi dell'antico regime e l'Unità” (1985)

16

, durante il quale il termine “modernizzazione” venne finalmente analizzato e contestualizzato all'interno delle nuove visioni che andavano emergendo, si che divenisse atto a descrivere un particolare processo che si sviluppò in un periodo preciso della storia meridionale, ovvero l'Ottocento, non già solo per il settore primario, ma anche per quello industriale e commerciale. Modernizzazione voleva dire sviluppo della società meridionale tout court, la quale pur se innegabilmente vedeva delle aree fortemente arretrate, non di meno ne vedeva di avanzate.

10 Ivi

11 S. Lupo, I proprietari terrieri nel Mezzogiorno, in Storia dell'agricoltura italiana in età contemporanea, II vol., Marsilio, Venezia, 1990. pp. 105-149

12 Bevilacqua, Breve storia dell'Italia meridionale, Donzelli, 2005, 13 Lupo, Il giardino degli aranci, Marsilio, Venezia, 1990

14 A. Massafra, Campagna e territorio nel Mezzogiorno, Dedalo, Bari, 1984 15 J. Davis, Società e imprenditori nel regno borbonico, Laterza, Bari, 1979

16 Gli atti di questo convegno possono essere letti su Il Mezzogiorno preunitario: economia, società e istituzioni, Bari, Dedalo,

1988, a cura di A. Massafra

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Già uno studioso aveva tentato di definire questa idea in un suo scritto, Note sul concetto di Ottocento meridionale

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di B. Salvemini, e non a caso tre anni dopo l'edizione di questo testo ebbe luogo il citato convegno, che fece entrare definitivamente nello studio della storia meridionale una griglia valutativa assolutamente nuova e contrapposta a quella che aveva definito le ricerche sulla storia meridionale sino a quel momento:

Con le parole di uno studioso notoriamente attento a queste tematiche [Galasso] ho voluto indicare in quale accezione il termine ed il concetto di “modernizzazione” mi sembra possa e debba essere usato in riferimento alla storia della società meridionale ottocentesca.

Un'accezione che non implica, né allude necessariamente ad un rovesciamento dell'immagine tradizionale del Mezzogiorno preunitario e che ha ben presente […] il principio che “la progressiva unificazione del mondo, ieri come oggi, non equivale ad una crescente omogeneità, ma genera un'articolazione al cui interno fenomeni anche formalmente identici assumono contenuti e significati diversi

18

.

Questa linea d'intervento che ha caratterizzato tutti i lavori di quel convegno, in cui si sono confrontate molte e diverse posizioni sulla valutazione del processo di modernizzazione che ormai non si negava più esserci stato, ed è stata foriera di molti e durevoli sviluppi successivi, il che rende ben condivisibili le parole che F. Assante ebbe a pronunciare circa i suoi esiti:

Sono sotto gli occhi di tutti i risultati acquisiti su: organizzazione dei processi produttivi, tecniche agrarie, strumenti di lavoro, oscillazioni della congiuntura produttiva e commerciale, e soprattutto su aspetti del tutto nuovi dell'azienda agraria […]. Il paziente lavoro di scavo e l'utilizzazione congiunta di tecniche d'indagine e metodologie aggiornate hanno

consentito […] una modificazione dell'immagine che generazioni di storici ci avevano tramandato

19

.

17 B. Salvemini, Note sul concetto di Ottocento meridionale, in “Società e Storia”, n. 26, 1984, pp. 917-945

18 Massafra, Le ragioni di una proposta, in Il Mezzogiorno preunitario: economia, società e istituzioni, Bari, Dedalo, 1988, p. 20

19 F. Assante, Le trasformazioni del paesaggio agrario, in Il Mezzogiorno preunitario, op. cit., p. 29

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Sono molti i lavori che possono essere citati che sono discendenti di questa linea di lavoro e studio emerse nel convegno barese, sia di storia generale

20

che incentrati su di un settore economico prima del tutto ignorato dalla storiografia (se si eccettua il pregevole lavoro di L. De Rosa

21

), quello dell'industria: basti citare alcuni dei più importanti lavori sulle industrie napoletane di S. De Majo

22

, quello sulla produzione laniera di De Matteo

23

, sino al più recente lavoro di curato da P.

Malanima e N. Ostuni, una efficace summa su tutti gli aspetti del processo di modernizzazione avvenuto nel regno borbonico

24

.

Con i risultati che mano a mano emergevano, si rendeva sempre più necessario definire nuove periodizzazioni, in quanto appariva ormai chiaro che le periodizzazioni della storia politica non potevano comprimere al loro interno quelle della storia economica, ben più lunghe e non concordanti con le prime. Usando le parole di De Matteo

[ …] ritenni che una efficace prospettiva di analisi delle performance dell'economia meridionale e delle risposte imprenditoriali dovesse, a partire dalla condizione del Mezzogiorno nel mercato internazionale […], contemplare una periodizzazione che, a differenza di quelle generalmente accolte, muovendo dal preunitario si spingesse a quello post-unitario, per aderire alla cronologia delle esperienze indagate e per poterle così analizzare nel loro reale svolgimento

25

.

Un diversa periodizzazione che comprendesse anche il periodo preunitario, dagli ultimi decenni del Settecento in poi, era dunque la base per una migliore comprensione di un processo modernizzante che continuò ad operare anche dopo l'Unità, pur se su basi diverse rispetto al periodo borbonico. Ma non solo nuove periodizzazioni, anche nuove capacità erano richieste dall'ampliarsi e

20 Cito il lavoro di A. Spagnoletti, Storia del Regno delle Due Sicilie, Il Mulino, Bologna, 1997

21 L. De Rosa, Iniziativa e capitale straniero nell'industria metalmeccanica del Mezzogiorno, Giannini, 1986 22 S. De Majo – A. Vitale, Napoli e l'Industria: dai Borbone alla dismissione, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2008

23 L. De Matteo, Governo, credito ed industria laniera nel Mezzogiorno, Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli, 1984 24 P. Malanima – N. Ostuni, Il Mezzogiorno prima dell'unità: fonti, dati, storiografia, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2013; in

particolare l'ampia rassegna storiografica divisa per temi di ricerca curata da De Matteo, Percorsi di una stagione di rinnovamento storiografico, pp. 9-31

25 De Matteo, Percorsi, op. cit., p. 21

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dall'approfondirsi dei campi di studio. Infatti se agli inizi della svolta revisionista erano gli “storici generali” che tenevano le redini, in seguito vennero coinvolti sempre più studiosi di altri rami, spesso provenienti dalla Facoltà di Economia dell'Università Federico II di Napoli: Giura, Balletta, Cavalcanti, Dell'Orefice, Assante, Izzo

26

.

Modernizzazione, ovviamente, non vuol dire solo studi di storia industriale o agricola, ma anche storia di alcuni settori quali le comunicazioni, la finanza (settori dei quali molto e con profitto si è occupato Ostuni

27

) e la società, che in genere richiamano alla necessità di comprendere il ruolo che ebbe lo Stato Borbonico in tale processo. I giudizi in merito emersi dai vari lavori sono molto diversi, ma come rileva ancora De Matteo

La storiografia del Mezzogiorno preunitario sembrava dividersi aprioristicamente tra uno schieramento “ottimista”, che offriva una descrizione dei progressi economici compiuti dal Mezzogiorno nel periodo, ed uno “pessimista”

28

.

Lo stesso tema dello unificazione, così caro agli apologeti ad ogni costo del periodo borbonico, che lo vedono come causa prima ed ultima di tutti i mali del Sud, risultava “un rebus indecifrabile”

29

. Pur senza sottovalutare l'impatto destabilizzatore dei nuovi ordinamenti politici, istituzionali ed economici sugli assetti economici e sociali del Mezzogiorno, rimane a parere di chi scrive valido il giudizio espresso da V. Giura nel 1985, forse più duro del necessario, ma corretto nelle linee di fondo (anche se, così facendo, si allontanava dalla linea sviluppata da “Meridiana”):

E' vero che vi fu uno sviluppo industriale, favorito dalla politica governativa e da particolari condizioni ambientali, ma è altrettanto vero che si tratta di poche insulae felici e che questo sviluppo non fu certo tale da incidere in profondità sulla realtà esistente, trasformando un'economia 26 Ibidem, p. 20

27 N. Ostuni, Finanza ed economia nel Regno delle Due Sicilie, Liguori, 1992 e Iniziativa privata e ferrovie nel Regno delle Due Sicilie, Giannini, 1980

28 De Matteo, Percorsi, op. cit., p. 20

29 ivi

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preindustriale, caratterizzata a bassa produttività e da tassi di sviluppo stagnanti, in un'economia sviluppata dove produzione pro capite e livelli di vita sono relativamente alti e lo sviluppo economico elevato. E così pure non può negarsi che anche all'interno del paese non si sia avuto un certo rinnovamento nel commercio, nei trasporti, nel pensiero.

Ma, a mio parere, tutto questo è un fatto fisiologico dovuto non foss'altro, allo sviluppo economico che andava verificandosi in Europa e che si rifletteva anche nel Regno. Nulla restava immobile e quindi anche il Regno si muove, ma scambiare questi movimenti, queste novità, che vanno valutati nel loro giusto valore, per un fattore risolutivo sarebbe un errore

30

.

Tale giudizio va tuttavia mitigandosi man mano che ampliamo lo sguardo verso gli altri stati italiani in un'ottica comparativa, anch'essa frutto di quella rivoluzione storiografica partita dalle “Annales”.

Come dice giustamente Assante, ogni regione aveva il proprio “Sud”, mentre se si guarda all'Italia in generale è utile rifarsi a quanto dice L. Riall nel suo Il Risorgimento:

Si potrebbe infatti affermare che l'unica caratteristica comune delle economie degli Stati italiani della Restaurazione fosse proprio la loro posizione di relativa debolezza economica nei

confronti delle aree al centro del processo di industrializzazione in corso in Gran Bretagna, Francia e Germania

31

.

Ovviamente una tale visione generale potrebbe non concordare con indagini più approfondite su determinati territori e/o regioni, ma può essere presa come una buona base da cui partire. La svolta revisionista che ha riguardato il Mezzogiorno si inserisce, dunque, in un panorama più ampio che vide una ricerca più specifica sui governi preunitari e ne sottolineò gli aspetti positivi e le differenze che erano loro proprie, in reazione alla storiografia nazionalista che aveva dominato la scena sino agli anni '40 del Novecento. Anche Riall dà conto della tendenza storiografica emersa nei passati anni, la quale ripudiò come principale categoria di studio lo Stato-nazione preferendo invece un

30 V. Giura, Infrastrutture, manifatture, commercio, in Il Mezzogiorno preunitario, op. cit., pp. 241-242

31 L. Riall, Il Risorgimento, Donzelli, Roma, 1997, p. 116

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approccio diverso, incentrato sulle diverse aree regionali e municipali, sull'esempio dello storico economico inglese S. Pollard (in particolare del suo lavoro La conquista pacifica.

L'industrializzazione in Europa dal 1760 al 1970, edito Il Mulino nel 1989). Non solo per il

Mezzogiorno dunque, ma in generale per tutti gli Stati italiani della Restaurazione si mise in moto una revisione del periodo ottocentesco che rimise in discussione periodizzazioni, metodologie e interpretazioni delle precedenti storiografie, in particolare rifiutando l'uso di concetti mutuati da realtà diverse da quella italiana e che non erano ad essa confacenti, quali “nazione” e “classe”. In effetti, il successo politico-economico dei paesi con cui l'Italia viene messa a confronto sparisce quando le ricerche partono da diversi criteri d'analisi:

Le revisioni storiografiche relative alla Francia rivoluzionaria o all'epoca liberale britannica mostrano come non esista un'unica via d'accesso possibile alla democrazia parlamentare borghese. Inoltre Arno Mayer ha affermato che l'attenzione degli storici per i

mutamenti rivoluzionari del XIX secolo ha intralciato la loro comprensione delle continuità nascoste e dei modi in cui l'ancien régime è sopravvissuto sino al XX secolo. La capacità delle éilites preindustriali di adattarsi con successo all'avvento del capitalismo non sembra essere stata per nulla eccezionale, e anzi appare come il tratto distintivo di tutte le società europee del periodo. Si può così dire che la “deviazione” italiana è stata inventata dai suoi storici

32

.

Per concludere, vediamo come all'interno di questo nuovo quadro storiografico il Mezzogiorno non risulta più essere un'anomalia nel quadro italiano ed europeo, ma ne diviene anzi partecipe e perfettamente leggibile all'interno delle sue linee di lettura generali. Lo studio del Mezzogiorno non è più studio della questione meridionale, non è più ricerca di una spiegazione ad un'alterità che generazioni di meridionalisti e storici avevano costruito, ma è studio delle sue relazioni sociali e politiche viste dal loro interno, nella loro intrinseca razionalità.

32 Ibidem, p. 43

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E tuttavia, oggi a distanza di tre decenni è ancora indispensabile parlare di e studiare il Mezzogiorno, poiché la sua immagine nel senso comune, formatasi al di fuori dei miti fondativi del Paese (Risorgimento e Resistenza) dai quali il Sud è stato estraneo e che dunque ne giustifica

“l'alterità”, rimane prigioniera “di un circolo perverso” nel quale “la rappresentazione del Sud si è sempre più stereotipizzata”

33

.

Ridotto a pochi semplici fatti e intrappolato nella sua immobilità, il Mezzogiorno perde – o, almeno, per lungo tempo ha perso – interesse anche come oggetto di studio.

Le semplificazioni che ricorrono con ingiustificata frequenza – e che su quei pochi fatti si basano – non sono necessariamente falsità. Tuttavia, le semplificazioni non possono – di necessità –

essere la verità. Sono, piuttosto, una lente deformante che suggerisce diagnosi deformate.

Al di sotto delle semplificazioni vive quasi sempre una realtà complessa che meriterebbe di essere conosciuta e compresa di per se stessa, senza preoccuparsi troppo di stabilire se sia migliore o peggiore delle semplificazioni che dovrebbero rappresentarla. […]

Il Mezzogiorno non può essere raccontato come se fosse riducibile a pochi fatti,

facilmente interpretabili. Se «Meridiana», dopo molto tempo

2

, torna a occuparsi di Mezzogiorno la ragione di fondo è proprio questa: opporsi alla “deriva semplificatrice” e alla

“politica dell’abbandono” che ne scaturisce, offrendo un racconto del Sud più ricco e complesso di quello di “senso comune”

34

.

Aree forti ed aree deboli

Dopo oltre 40 anni dalla svolta storiografica, l'immagine con cui oggi lo studioso del Mezzogiorno si confronta è quella di un paesaggio vario e complesso, nella quale risulta difficile operare una reductio ad unum per mezzo delle categorie interpretative utilizzate per altri paesi europei o per altre regioni italiane. Tuttavia emerge abbastanza nettamente una linea interpretativa

33 Si veda G. Gribaudi, Le immagini del Mezzogiorno, in Oltre il meridionalismo, op. cit., pp. 89-110

34 M. Franzini, Di-vario Mezzogiorno, modi di leggere il Sud e l'Italia: un'introduzione, in “Meridiana”, n. 61, 2008, p. 10

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di fondo, a ben leggere sia fonti d'archivio che i numerosi lavori di ricerca effettuati in questi anni:

l'emergenza di aree del Mezzogiorno “forti”, integrate nel nuovo sistema commerciale europeo, dalla forte specializzazione colturale rivolta al mercato estero e caratterizzate dalla presenza di industrie dalle dimensioni più o meno importanti. Ecco come Salvemini “legge” la cartina del Mezzogiorno ottocentesco sulla base delle premesse prima fatte:

… individuerei tre gruppi di aree. Al livello inferiore della scala gerarchica collocherei zone molto diverse fra loro ma accomunate da una sostanziale esclusione dallo sviluppo mercantile ottocentesco, scarsamente collegate ai punti di contatto col mercato internazionale ed alle direttrici dei traffici interni, debolmente innervate dal sistema stradale e prive di

attrezzature portuali, ed al contempo incapaci di organizzare ed esprimere una domanda pressante di infrastrutture: il latifondo cerealicolo-pastorale […]; le colline costiere e le dorsali appenniniche […] in cui dominante è l'azienda contadina; le zone di transumanza […].

Ad un livello intermedio collocherei le zone ad inserimento “passivo” nel mercato interno ed internazionale, quelle cioè che, pur pienamente integrate nel circuito dominato dalle aree forti dell'Europa capitalistica, hanno al loro intero deboli elementi direzionali, funzioni solo subalterne nell'organizzazione degli scambi […] e perciò non riescono a trattenere in loco una parte consistente del profitto commerciale tramutandolo in fattore di crescita: la

monocoltura cerealicola del Tavoliere di Puglia e le monocolture olivicole delle aree centrate su Gallipoli e Gioia Tauro mi paiono esempi da questo punto di vista pregnanti.

Il livello superiore, infine, è occupato dalle zone ad inserimento “attivo” nel mercato, le quali, avendo al proprio interno il “cervello” delle operazioni […] riescono a trattenere al proprio interno gran parte del profitto commerciale, traducendolo in strumento di attivazione della vita economica, rinvigorendo anche la rete degli scambi […]. Si colloca ovviamente a questo livello la policoltura che si sviluppa a raggiera attorno a Napoli e […] il caso della costa barese, dove l'olio prodotto in una miriade di aziende contadine è elevato, tramite soluzioni elaborate in provincia ai problemi della trasformazione e commercializzazione, a pilastro degli equilibri commerciali del Regno borbonico.

35

35 Salvemini, Note sul concetto di Ottocento meridionale, in L'innovazione precaria. Spazi, mercati e società nel Mezzogiorno tra

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Le aree forti sono dunque Napoli e alcune zone della Campania (Valle dell'Irno, Isola del Liri, Terra di Lavoro) e la Puglia, con particolare protagonismo della provincia di Terra di Bari; le restanti zone del Regno delle Due Sicilie sono da considerarsi come aree “deboli”, con un inserimento passivo nei circuiti mercantili europei, quando non del tutto chiuse nell'autosufficienza. Non che all'interno di queste aree vi fosse una omogeneizzazione delle condizioni di prosperità e miseria collettive;

anche le aree che vivevano le trasformazioni dettate dalla rivoluzione commerciale della Restaurazione vedevano convivere miseria e prosperità. Il Mezzogiorno emerge come “una realtà spesso drammatica nelle sue miserie e disarmonie, ma non incapsulata nell'immobilismo secolare […] anzi, attraverso le sue stesse contraddizioni […] il nuovo può irrompere più facilmente che in altri ambienti meno disarmonici”

36

.

Salvemini parla esplicitamente della divisione del Mezzogiorno in aree, parlandone come di isole di organizzazione che emergono dalla dialettica che si instaura tra mercato internazionale, Stato borbonico e le varie figure imprenditoriali che, in diversa misura, riuscirono ad adattarsi alla situazione che andava di volta in volta creandosi. Quest'arte di arrangiarsi, però, era causa ed effetto di “un futuro minaccioso e inconoscibile” in un momento storico che vedeva la creazione di nuove e più stringenti gerarchie commerciali, basate ora non più sulla naturale vocazione del territorio, ma dalla sua capacità di produrre e di imporsi in mercati sempre più lontani dal centro di produzione. Il rischio, dunque, dell'estrema versatilità degli imprenditori meridionali nel seguire la domanda dei mercati esteri era che quelle aree di organizzazione “spesso definitesi sotto gli stimoli creativi di una crisi […] rischia(va)no di andare in frantumi di fronte alla crisi successiva”

37

. A ben guardare, è esattamente ciò che accadde alla Puglia tra la fine del XVIII secolo e i primi anni del XX secolo, la cui agricoltura e il commercio delle derrate che essa produceva vide almeno 3 grandi e rapidi mutamenti nel Decennio francese, nell'età della Restaurazione e dopo la guerra commerciale con la

Sette e Ottocento, Donzelli Editore, Roma, 1995, p. 14 36 B. Salvemini, L'innovazione precaria, Prefazione, op. cit.

37 Ivi

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Francia; ma di questo si dirà meglio altrove. Leggendo la vasta produzione di Salvemini, questo aspetto di estrema flessibilità dell'imprenditorialità del Mezzogiorno (sopratutto di quella barese, protagonista dei suoi scritti) viene visto come una debolezza della stessa, per la quale si prepara un'inevitabile fine. Certo, prendendo ancora ad esempio la Puglia, dopo la crisi del 1881 molte imprese, sopratutto commerciali, che avevano spadroneggiato lungo tutto l'Ottocento annaspano e spariscono dalla scena, decretando la fine di quell'area di organizzazione; ma a parere di chi scrive, questa non passa invano, in quanto lascia in eredità strumenti, infrastrutture e capacità tali da rendere possibile la strutturazione della stessa area su basi organizzative (e produttive) diverse e più rispondenti alle nuove necessità dei mercati. Il pessimismo di fondo di Salvemini è forse ingeneroso, ma bisogna tenere nel dovuto conto che esso era una sorta di difesa contro quella

“insistenza stucchevole su dinamismi, vivacità, molteplicità respinti dai tempi più recenti sempre più all'indietro”

38

che rischiava di trasformare la svolta storiografica degli anni '80 in un semplice ribaltamento dei giudizi sull'insieme del Mezzogiorno da solo negativi a solo positivi.

E' ancora lo stesso Salvemini, supportato da altri autorevoli pareri, che sottolinea l'esistenza di una differenza notevole tra le due aree forti del Regno, che vanno organizzandosi e configurandosi come due poli di sviluppo opposti e separati sui quali ruotano in varia maniera le provincie contermini.

… l'elemento di fondo che essi [i dati] suggeriscono, cioè la grande ampiezza dei settori e delle aree dell'economia meridionale sostanzialmente escluse dai giochi del mercato, non può essere messo in dubbio, e viene anzi rafforzato dal fatto che flussi interni ed internazionali si concentrino in pochissimi punti di contatto col mercato stesso, ciascuno dei quali riveste un ruolo strategico negli equilibri commerciali dell'interno Mezzogiorno.

39

In cosa consiste dunque la sostanziale differenza?

38 Salvemini, Note sul concetto di Ottocento meridionale, in L'innovazione precaria, op. cit., p. 4

39 Salvemini, Note, op. cit., p. 7

(15)

Un modello grossolano del funzionamento del territorio meridionale in relazione a questi flussi può essere costruito tenendo presente che […] le importazioni si concentrano a Napoli e vi si fermano in larghissima parte, mentre fra i porti provinciali che monopolizzano le esportazioni, decisivo è il ruolo di Bari, la quale, esportando massicciamente verso Trieste, recupera una larga parte dello squilibrio commerciale con Inghilterra e Francia.

Semplificando vigorosamente […] Bari procura dall'Austria una larga parte della valuta che Napoli spende per l'acquisto di manufatti inglesi e francesi.

40

Entrambe le aree sono dunque in contatto diretto con le trasformazioni promosse dalla rivoluzione commerciale ottocentesca e ciò comporta trasformazioni anche nelle infrastrutture presenti sul territorio. Ma anche in questo caso non si va verso una interconnessione delle due aree, anzi la sensazione di trovarsi di fronte due aree che vanno sviluppandosi secondo strategie loro proprie e non comunicanti si acuisce se si volge lo sguardo sullo sviluppo della rete stradale

41

. Nicola Ostuni, che si è occupato dello sviluppo infrastrutturale del Mezzogiorno borbonico, parla chiaramente dell'esistenza di due “sistemi” stradali, uno tirrenico facente capo a Napoli e uno adriatico, policentrico, che ha come vertici le più importanti città pugliesi, per ragioni amministrative e/o commerciali. Anche in questo settore, il giudizio positivo dell'autore cade sul versante pugliese:

Si trattava, in definitiva, di un sistema molto più potente di quello napoletano. La maggior parte dell'estensione di tutte le strade del Regno gravitava, infatti, sul versante adriatico.

42

Ancora una volta, le due aree forti del Regno vengono viste come separate, diverse, di cui una

40 Salvemini, Note, op. cit., p. 8

41Non dissimile il giudizio di Massafra, che nel suo articolo En Italie Méridionale: déséquilibres régionaux et reseaux de transport du mlieu du XVIII° siècle a l'Unité italienne, pubblicato su “Annales”, settembre-ottobre, 1988, n. 5, pp. 1076-77, così si esprime: “ […] la distribution territoriale du réseau routier […] se trouvait articulé, et pratiquement divisé, en deux sous-systèmes, centrés respectivement sur Naples et son arrière-pays et sur le provinces de Pouilles. Tout deux etaient de dimensions en gros comparable et relativement indépendant l'un de l'autre”

42 N. Ostuni, Le comunicazioni stradali, in Il Mezzogiorno prima dell'Unità, a cura di Ostuni-Malanima, Rubbettino, Soveria

Mannelli, 2013, p. 56

(16)

superiore all'altra per traffici e collegamenti stradali. Qual'è il discrimine? Cosa rende differenti due aree che pure partecipano in egual misura dei giochi del mercato europeo? La risposta che dà Ostuni per la rete viaria è valida anche per tutti gli altri settori economici:

...mentre il sistema imperniato su Napoli era costituito da strade costruite e mantenute a spese dello Stato per diversi scopi e motivi, il sistema pugliese, invece, ideato e costruito

dalle amministrazioni locali, era fortemente diramato, raggiungeva quasi tutto il versante adriatico e ionico della provincia con un unico scopo: il trasporto delle derrate alimentari dai centri agricoli interni verso il mare, per facilitare le esportazioni e, forse, per sfuggire al monopolio commerciale dei grandi mercanti napoletani.

43

Era la presenza della Capitale a far divergere i modelli di sviluppo e organizzazione delle due aree, con la prima che vedeva un unico centro direzionale che drenava risorse dalle provincie e le investiva in Campania, cuore politico del Regno, di volta in volta a seconda degli interessi di Napoli, e l'altra che era invece policentrica e investiva perseguendo logiche di sviluppo territoriali di lunga durata concordate con i vari protagonisti economici e politici dell'area. Detto ancora con le parole di Ostuni, il primo era “fortemente influenzato dalle necessità della corte e della capitale”, mentre il secondo era “più rispondente alle necessità economiche locali”

44

.

Tale differenza è chiaramente rilevabile anche nell'agricoltura, che pure sembrerebbe essere un campo di sviluppo “neutro”. Se confrontiamo due aree con un'agricoltura fortemente specializzata e volta al mercato quali erano le due provincie di Terra di Bari e Terra di Lavoro, notiamo come la prima si rivolga autonomamente e senza alcuna intermediazione a mercati esteri, confrontandosi dunque con una spietata concorrenza e sfruttando unicamente le sue risorse, mentre per la seconda

La “felicità” di Terra di Lavoro […] è fatto antico ed intrecciato alla “infelicità” di altre zone

43 Ostuni, Le comunicazioni stradali, op. cit., p. 56

44 Ibidem, p. 61

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del Regno; la sua prosperità dipende dal gigantesco mercato napoletano, dal concentrarvisi di rendite e profitti commerciali, dai meccanismi di trasferimento di reddito a scapito delle provincie – da quelli connessi alla funzione di capitale di Napoli alle istituzioni para-annonarie al protezionismo manifatturiero.

45

Stesso discorso vale per lo sviluppo di attività industriali nelle due aree. Se, come si vedrà in seguito, in Puglia i primi segni di industrializzazione si hanno dagli anni '50 dell'Ottocento, che per S. De Majo rappresentano per l'industria del Regno “la terza fase di crescita […] meno legata al protezionismo”

46

, per poi avere un deciso incremento nei primi vent'anni post-unitari, per quel che riguarda l'area campana

Il giudizio che possiamo formulare nel complesso sull'industria preunitaria è di una limitata prima espansione, non collegata a una trasformazione capitalistica della società; una crescita parziale, disorganica rispetto all'intero tessuto economico del paese. […] Il limite principale è proprio il protezionismo, perché […] si tenta di “proteggere e produrre tutto ad ogni costo”, anche settori con deboli radici, tributari dall'estero per qualsiasi necessità, dalle materie prime alle tecnologie, rivelatisi perciò assolutamente antieconomici.

47

Alla capacità di adattarsi al mercato degli imprenditori pugliesi studiata da Salvemini si contrappone dunque, in Campania, un modello di imprenditore i cui destini sono legati al favore sovrano e alla protezione che lo Stato borbonico concedeva in vista del raggiungimento di una produzione “autarchica”. Ma di questo si dirà nei capitoli successivi, per ora basta sottolineare che, in una tale visione delle cose, risulta evidente che viene meno la tesi della “crisi unitaria” secondo la quale, con l'Unità, l'economia del Mezzogiorno crollò improvvisamente. Tale tesi è applicabile solo a settori ormai già indeboliti dalla concorrenza di industrie più moderne avviatesi nel Regno (come

45 Salvemini, Note, op. cit., pp. 13-14

46 S. De Majo, Manifattura e fabbrica, in Napoli e l'industria, a cura di De Majo e A. Vitale, Rubettino, Soveria Mannelli, 2008, p.

24

47 Ivi

(18)

le cartiere di Amalfi mandate in crisi dalle nuove e più efficienti cartiere del Fibreno) oppure di imprese che dipendevano in gran parte dall'aiuto statale o dalle commissioni pubbliche.

Citando ancora De Majo:

Una lettura complessiva dell'andamento industriale del primo ventennio post-unitario, quando ancora il liberismo è trionfante, consente invece di cogliere come la crisi sia circoscritta a un breve periodo o soltanto ad alcuni settori particolarmente deboli.

E' questo sopratutto il caso dei lanifici e delle forme più arretrate dell'industria tessile, a prevalente lavorazione casalinga: il loro sviluppo preunitario si è eccessivamente basato sul protezionismo […] non in grado di contrastare l'improvvisa concorrenza delle produzioni settentrionali o estere. La gran parte dell'industria napoletana o meridionale ha una discreta espansione in questo periodo.

48

Appare chiaro, e per il caso pugliese lo si vedrà meglio in seguito, che le due aree forti del Regno non risentono del trauma unitario, ma anzi sfruttarono quanto sino ad allora era stato sviluppato in termini di competenze tecniche e di infrastrutture per adattarsi al nuovo corso economico. Una periodizzazione dell'economia meridionale basata sul pre e sul post Unità non ha dunque senso, anzi adottare una simile linea interpretativa “significa dare eccessivo credito alle proteste e alle constatazioni di crisi di vari ambienti economici e politici formulate a caldo, immediatamente dopo il 1860”

49

. Ben più sensato, invece, è seguire la linea tracciata da Salvemini di trattare l'Ottocento meridionale sulla base di una periodizzazione unitaria che parta dagli ultimi decennio del Settecento e si concluda agli esordi del Novecento, periodo che comprende i prodromi e le conclusioni di uno sviluppo non solo dal punto di vista economico, ma anche dal punto di vista del mutamento della società e dei quadri territoriali.

48 De Majo, Napoli e l'industria, op. cit., p. 28

49 De Majo, Napoli e l'industria, op. cit., p. 27

(19)

L'Ottocento in Puglia: storia di uno sviluppo

Poiché il lavoro da me presentato è centrato su Terra di Bari, è il caso che si getti una rapida luce sugli sviluppi che l'intera regione sperimentò nel suo complesso durante il XIX secolo

50

. Per far ciò, l'approccio più logico è partire dalle innovazioni che si registrano nell'agricoltura a partire dal Decennio francese per poi passare ai mutamenti che esse innescarono a livello commerciale ed infrastrutturale.

Il catasto provvisorio predisposto durante il Decennio è il primo documento che ci permette di visionare il paesaggio agrario dell'epoca con una certa precisione:

1) In Capitanata il 43% del territorio è adibito al seminativo (in parte utilizzato per l'allevamento nei periodi di riposo), solo il 4% è coltivato ad uliveti, vigneti ed altre colture arboree, mentre tutto il resto è pascolo (45%) e bosco (8%);

2) In Terra di Bari la percentuale del terreno adibito a seminativo arriva al 40%, mentre il 20%

è destinato a colture legnose (in ordine di importanza, oliveto, vigneto e mandorleto, spesso consociati). Il resto è adibito al pascolo;

3) In Terra d'Otranto ritroviamo percentuali simili a Terra di Bari, con una percentuale maggiore di oliveti e una minor presenza di vigneti, mentre il fico sostituisce il mandorlo.

Ovviamente la diffusione delle colture non rispettava perfettamente i confini amministrativi. Per fare un solo esempio, il paesaggio del Tavoliere proseguiva nell'entroterra murgiano barese, dove pascolo e seminativo si contendevano il territorio.

Le maggiori modifiche del paesaggio da questo momento in poi si registrarono nel Tavoliere e nel nord barese grazie alla legge del 1806 che prevedeva la censuazione affrancabile del demanio

50 La ricostruzione qui proposta è quella presentata in Storia della Puglia. Dal Seicento ad oggi, a cura di Massafra-Salvemini,

Laterza, Bari, 2005, con particolare riferimento ai saggi di Massafra, La costruzione dello spazio regionale (pp. 22-50), S. Russo,

Lo sconvolgimento del paesaggio agrario (pp. 51-64) e Salvemini, L'età del negozio. La grande trasformazione e i suoi

protagonisti (pp. 73- 93)

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pubblico del Tavoliere (prima sottoposto al controllo della Dogana della mena delle pecore) e, in parte, la libera destinazione colturale dei terreni non più vincolati alle destinazioni fissate nelle carte della Dogana. Con altre due leggi (1817 e 1865) che garantiranno infine il completo libero uso della terra e grazie alle spinte del mercato, che vedeva una stagione di prezzi alti per i cereali, nella sola Capitanata furono sottratti al pascolo ben 50.000 ettari, che furono adibiti per la maggior parte alla coltura di cereali e leguminose. Nella zona nord di Terra di Bari, invece, sarà la viticoltura a beneficiare dei nuovi terreni, che sarà la coltura caratterizzante del paesaggio agrario ottocentesco della zona (come anche nel Salento settentrionale).

Ma in generale si può dire che, tra il 1840 e il 1880, si succedono più fasi con diverse caratteristiche nei mutamenti del paesaggio agrario, il cui bilancio complessivo indica un deciso incremento dell'oliveto e del vigneto e un regresso altrettanto deciso del bosco e del pascolo. Le trasformazioni all'interno del regime cerealicolo-pastorale sono dunque molto rapide, tipiche di un'economia fortemente mercantilizzata e orientata a cogliere i segnali della congiuntura dei mercati, piuttosto che a cercare di perseguire durevoli vantaggi sui concorrenti per mezzo di investimenti e innovazioni tecniche. Così, mentre si estendeva il seminativo nelle nuove e fertili terre del Tavoliere, si convertivano ad uliveto e vigneto le terre seminatorie esaurite; a farne le spese fu, in definitiva, l'allevamento ovino transumante, che passò dai 1 milione e mezzo di capi del 1830 agli appena 730.000 capi del 1877. Questo però era dovuto anche ad un altro fattore, ovvero la concorrenza delle lane australiane che invasero i mercati europei a partire dagli anni '40.

L'affermazione dell'oliveto e del vigneto portò alla diffusione di impianti di trasformazione (quali

trappeti e palmenti) al quale si affiancheranno in seguito distillerie e impianti di imbottigliamento,

in un susseguirsi di innovazioni tecniche e sperimentazioni empiriche che faranno gradualmente

strada ad un tipo di agricoltura che aveva sempre più bisogno di scienza ed istruzione agraria; non è

infatti un caso che, sul finire degli anni '80, ci fossero una scuola speciale di olivicoltura a Bari e

una cantina sperimentale a Barletta.

(21)

Queste trasformazioni del paesaggio agrario non si accompagnarono a grosse modifiche nella distribuzione della proprietà: molte terre furono usurpate da borghesi, massari o contadini ricchi, mentre quelle assegnate ai contadini tornarono ben presto nelle mani di grandi e medi proprietari terrieri sulla base dei debiti contratti dai primi con quest'ultimi per far fronte alle spese di conduzione dei loro nuovi appezzamenti, troppo gravose sopratutto quando si verificava un crollo dei prezzi. Pur tuttavia, se ciò è vero come linea generale, non ovunque andò così: le fondazioni dei cinque siti reali di Orta, Stornara, Ordona, Carapella e Stornarella negli anni '70 del Settecento sulle terre confiscate ai Gesuiti e la fondazione di San Ferdinando 70 anni dopo (tutte località in site Capitanata) vanno nella direzione opposta di promozione e sviluppo di nuclei di piccola proprietà coltivatrice, che riuscirono non solo a difendere le posizioni acquisite ma anzi a crescere. Ma queste sono iniziative guidate dal governo borbonico, per cui sfuggono in certa misura alle vicende del mercato. Se è vero che poco cambia nella distribuzione della proprietà, cambiarono invece le figure dei proprietari: crollano sia la proprietà fondiaria feudale che ecclesiastica, aumenta il numero dei

“ceti medi” proprietari. Con l'eversione della feudalità del 1806 attuata da Giuseppe Bonaparte fu immessa sul mercato un'ingente massa di beni immobili, che furono acquistati da una vasta gamma di figure: negozianti, spesso creditori dei feudatari indebitati, gli agenti dei feudi e i massari, spesso fittuari di ampie quote dei patrimoni feudali. Sia nelle vendite del Decennio che in quelle post- unitarie a beneficiare delle nuove terre furono sempre queste figure, con scarsa partecipazione di contadini, anche a causa delle modalità scelte per la vendita (era previsto infatti che i “beni nazionali” andassero venduti di preferenza ai creditori dello Stato in cambio della restituzione dei titoli del debito pubblico). Emerse dunque, accanto alla proprietà tradizionale, una nuova classe di proprietari, spesso espressione del mondo delle campagne, oltre che del commercio e del credito più o meno usuraio.

Non è però l'agricoltura con le sue innovazioni a caratterizzare decisamente la Puglia

ottocentesca, bensì il commercio che sulle derrate che essa produce si basa. Ma come si è già

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accennato, e come si vedrà più in là, Capitanata e Salento vedono un inserimento passivo nel mercato internazionale, come ben dimostra il dominio di case commerciali napoletane ed estere nel porto granario di Barletta e nel porto oleario di Gallipoli. Così, quando si parla del commercio come nota caratterizzante della Puglia ottocentesca, in realtà si sta indicando un'area ben precisa e circoscritta, ovvero la fascia costiera e pedemurgiana di Terra di Bari. Essendo essa l'oggetto del lavoro qui esposto, se ne parlerà solo brevissimamente in questo paragrafo, dando più che altro conto delle premesse storiche che permisero a quest'area di sottrarsi al dominio commerciale straniero e di emergere autonomamente per mezzo dei suoi propri traffici.

Ancora nei primi decenni dell'Ottocento, l'olio di Terra d'Otranto e il grano del Tavoliere

producevano flussi commerciali ben più consistenti e vistosi rispetto a quello dell'olio della Puglia

centrale; ma a differenza di quest'ultimo essi sono controllati da case commerciali con sede a

Napoli, in Francia o in Inghilterra, per cui i proventi dell'attività mercantile vengono sottratti alla

regione e trasferiti in quei paesi, lasciando sul territorio solo un modesto patrimonio di attrezzature

e personale. Ciò fa si che i porti di Gallipoli e Barletta non vivano sviluppi urbani significativi,

vittime, assieme al loro entroterra, di rapporti commerciali “coloniali”. Al contrario, il territorio

barese è costituito da personale, capitali e attrezzature locali capaci di trattenere in provincia i

profitti dei traffici. Tale peculiarità ha origine durante la crisi del Seicento, con la marginalizzazione

dell'Adriatico e di Venezia rispetto alle nuove rotte atlantiche, cosa che rese possibile l'allentamento

del controllo straniero sui flussi commerciali dell'olio pugliese. Si aprirono così nuove possibilità di

inserimento nel mercato più adatte alle modeste risorse della comunità locale; così nelle città

costiere cominciamo a vedere pescatori avventurarsi verso l'alto Adriatico con qualche barile d'olio

o qualche sacco di mandorle comprato a credito da contadini affamati ed imparare piccoli saperi

mercantili e in seguito ad associarsi per comprare partite d'olio più consistenti e qualche veliero

uscito dai cantieri veneziani. Una volta sbarcati nel porto prescelto, essi si dedicavano alla vendita

dell'olio “porta a porta” e acquistare col ricavato manufatti da rivendere in Puglia durante fiere e

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mercati. Per quanto un simile commercio producesse frequenti fallimenti e pochissimi fossero i fortunati che “ce la facevano” (che tra l'altro abbandonavano subito un tale rischioso mestiere per investire in immobili, spesso terre), su tali pratiche commerciali andò formandosi a Molfetta, Bari e Mola un gruppo sociale riconoscibile, un insieme di famiglie marinare che realizzavano fra loro matrimoni, alleanze e che trasmettevano ai figli risorse e saperi mercantili.

Nel corso del Settecento l'Adriatico tornò a sperimentare una nuova vitalità commerciale, alla quale i marinai baresi rispondono costruendo un tessuto sempre più fitto di rapporti cooperativi interni al gruppo dei marinai: molti si legano in società di durata in genere limitata, talvolta su un solo affare, non sempre per mezzo di atto notarile. Eppure la diffusione di questo tipo di comportamenti appare vastissima e per mezzo di legami affaristici e parentali sempre più stretti che rafforzano la coesione e la fiducia reciproca nel gruppo, si andò creando una rete informativa fitta (per quanto disordinata) che collegava porti di sbocco e piazze di approvvigionamento che consente di far circolare notizie, di cogliere al volo le occasioni offerte dal mercato. Così facendo, i porti della provincia barese tornarono ad incanalare cospicui flussi di merci.

Il “negozio dei marinai” però apparirà inadeguato rispetto alle sfide poste dal mercato

ottocentesco della Restaurazione, per cui si imporranno nuovi e decisivi mutamenti. Tali mutamenti

sono merito di Vito Diana, il più importante tra i mercanti della Bari della prima metà

dell'Ottocento. Il percorso che lo portò alla professione di mercante fu del tutto inusuale: avviato

in un primo tempo al sacerdozio, quando il fratello maggiore ed erede del negozio del padre

Michele Diana si stabilì a Cento, toccò a lui prendere il posto del padre. Egli non aveva esperienza

delle navi olearie o dei traffici in generale, ma questo suo essere “estraneo” all'ambiente gli permise

di guardarlo con consapevolezza critica, di individuarne le debolezze e di sperimentare nuove

soluzioni ai problemi posti dal nuovo mercato internazionale: anzitutto, allentò i mille legami

(formali e non) di cooperazione con l'ambiente dei marinai nel mentre stringeva rapporti formali col

negozio di suo fratello Giuseppe a Cento e si impegnava nei giochi della Borsa di Napoli; infine

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dotando il negozio di una struttura più solida e organizzata, di una contabilità e di una corrispondenza regolari. Grazie a queste innovazioni il suo negozio (ora molto più simile ad una azienda), Vito Diana riesce a collocarsi nei punti decisivi dello spazio mercantile adriatico, garantendosi così una notevole prosperità che convinse altri commercianti baresi a seguire le sue orme. Solo in pochi vi riuscirono e solo loro poterono da quel momento in poi definirsi

“negozianti”, mentre gli altri dovettero accontentarsi di essere “marinai” o al più “commercianti”, collocati in posizioni subalterne nelle reti imprenditoriali dei primi pur senza perdere la propria autonomia e partecipando in parte della ricchezza prodotta dalla nuova organizzazione.

Il successo che questo modo di operare ottenne fu tale che, dalla seconda metà dell'Ottocento, questo comportò un'accumulazione di risorse (sopratutto a Bari) tale da modificare e complicare la società urbana. Grazie all'innovazione di Ravanas (di cui in seguito si parlerà più approfonditamente) nel settore della produzione olearia, fu risolto lo spinoso problema di trovare per l'olio sbocchi di mercato protetti dalla concorrenza e dai succedanei e per tanto il circuito commerciale iniziò a fuoriuscire dall'Adriatico, trovò sbocchi sicuri che garantivano prezzi migliori e quindi maggiori profitti per i mercanti e i produttori. Grazie a questa svolta decisiva, la prosperità inizia a diffondersi oltre la città di Bari, nelle sue campagne dove suscitò energie ed iniziative non inquadrate nella logica del negozio urbano. Attratti da questa rinascita economica, molti imprenditori stranieri si insediano in Puglia a metà Ottocento portando con loro capitali e idee; ma contrariamente a quel che avvenne altrove, i mercanti della provincia barese riescono a non farsi subordinare da quelli forestieri: pur non potendo più controllare i traffici (dagli anni '70 il commercio dell'olio era nella mani di imprese francesi e tedesche) essi sfruttano le nuove possibilità che vanno aprendosi davanti a loro, in particolare quella di trasformarsi da mercante a

“intermediario finanziario”, che si interessa delle occasioni di guadagno offerte dalla pubblica

amministrazione o dalla partecipazione a società specializzate. In tal maniera si formarono reti

affaristiche estese che non facevano più capo ad un solo negoziante, che intrecciavano affari e

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politica e che coinvolgevano personaggi dislocati in varie zone del Mediterraneo e dell'Europa. I nuovi mercanti ora non si occupano più della sola circolazione delle merci, ma sono coinvolti direttamente nella fase di produzione, finanziando così quelle trasformazioni del paesaggio agricolo che abbiamo prima visto. Pur se la regione si arricchì enormemente, la specializzazione produttiva che fu perseguita la espose alle fluttuazioni del mercato internazionale dal quale ormai dipendeva per la domanda, come dimostrò ampiamente la crisi del 1881 che costrinse l'economia regionale a percorrere vie meno avventurose, meno lucrose ma più sicure.

La figura del mercante, dunque, a partire dal Settecento vide trasformazioni tanto rapide quanto lo furono quelle dei mercati, passando da marinaio a negoziante e da negoziante a intermediario finanziario nel volgere di appena un secolo.

L'altro settore che fu interessato dalla rapide trasformazioni della rivoluzione commerciale fu, ovviamente, quello delle infrastrutture, necessarie tanto al produttore di derrate quanto al negoziante che doveva immetterle nei mercati europei. Nel corso dell'Ottocento la rete delle infrastrutture stradali, ferroviarie e portuali pugliesi vide infatti un potente sviluppo, creando un sistema di comunicazioni con le regioni contermini e il resto del paese la cui definizione era già chiaramente percepibile a metà Ottocento. Tale sistema venne ulteriormente integrato e potenziato nel ventennio post-unitario con la costruzione di tronchi ferroviari che collegarono la Puglia con le regioni dell'Italia centrale e settentrionale (linea adriatica), e con Basilicata e Calabria (linea Taranto-Metaponto-Crotone-Reggio Calabria). Altrettanto importante nella ridefinizione degli equilibri e delle gerarchie territoriali nella regione fu la ristrutturazione e l'ampliamento dei porti principali, in particolare quelli di Bari, Taranto e Brindisi.

Nell'area del Mezzogiorno continentale, la rete stradale pugliese presentava sicuramente un grado di densità ed efficienza decisamente più elevato rispetto a quello esistente in molte altre provincie meridionali: infatti sui 5.000 km di strade rotabili di fabbrica

51

costituite tra il 1812 e il

51 Ovvero costruite sotto la direzione e il controllo degli ingegneri dell'Amministrazione Ponti e Strade, quindi con criteri tecnici

omogenei ed affidabili

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1860, ben 900 si trovano in Puglia (400 in Terra di Bari, 328 in Terra d'Otranto e solo 175 in Capitanata). Un aspetto importante della buona qualità della rete stradale pugliese era il tracciato, generalmente rettilineo, delle strade costruite nel primo Ottocento, oltre di quelle a carico delle finanze statali e provinciali, anche di quelle costruite ex novo a spese dei singoli comuni. Questo aspetto può apparire un'ovvietà nelle zone pianeggianti, ma in quelle collinari fu il risultato di una scelta tecnica perseguita dagli ingegneri di Ponti e Strade, ovvero quella di progettare e costruire strade che collegassero tra loro i centri abitati e le principali zone di produzione e consumo o di scambio delle merci seguendo il tragitto più breve e, spesso, per far ciò fu necessario realizzare ponti, terrapieni e tagli di roccia.

A proposito dei finanziamenti necessari ad avviare i lavori stradali, il reperimento degli stessi accendeva tensioni spesso molto forti fra le comunità ed i gruppi sociali interessati, ma tuttavia l'opinione largamente diffusa tra le elites pugliesi circa il nesso tra infrastrutturazione del territorio e sviluppo, spiega il sostanziale consenso che tali rastrellamenti di risorse finanziare ebbero.

E' bene sottolineare che, in ragione del suo policentrismo, la rete stradale e poi ferroviaria

del territorio pugliese venne articolato in pochi ma coordinati assi longitudinali che attraversavano

(ed attraversano ancora oggi) la regione in tutta la sua lunghezza, intersecando e collegando una

serie di “sottosistemi” stradali organizzati a raggiera attorno ai principali centri politico-economici

dell'interno e costieri: Foggia, Cerignola, Canosa, Barletta, Bari, Altamura, Monopoli, Brindisi,

Taranto, Lecce, Gallipoli e Maglie. La realizzazione di tali sottosistemi serviva a soddisfare

anzitutto basilari esigenze di carattere amministrativo e di controllo del territorio collegando i

capoluoghi provinciali ai centri in cui avevano sede le sottointendenze, gli uffici giudiziari e

finanziari e gli insediamenti militari più importanti; solo dopo la crisi degli anni '20 per soddisfare il

bisogno di rendere più agevole, rapido ed economico il trasporto delle merci dalle are di produzione

a quelle di consumo e/o i principali porti commerciali. Intendenze e organi tecnico-amministrativi

governativi operarono congiuntamente per realizzare una schema di infrastrutturazione del territorio

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che corrispondeva a quello elaborato per tutto il Regno da Afan de Rivera, direttore generale dell'Amministrazione di Ponti e Strade, schema che subordinava il disegno della rete stradale alle esigenze di bacini territoriali organizzati attorno ad un limitato numero di centri amministrativi e commerciali particolarmente importanti, meglio dotati di infrastrutture e servizi, facilmente raggiungibili anche dai centri più lontani del loro hinterland grazie a strade efficienti e ben mantenute. I più importanti snodi snodi per la raccolta delle merci e il loro smistamento nei porti provinciali erano le città di Foggia, Cerignola, Lavello, Spinazzola, Gioia del Colle, Francavilla e Maglie.

In Capitanata risultò rinforzato il ruolo di Foggia, che negli anni '40 fu collegata a Cerignola, Lucera, San Severo e Manfredonia, divenendo il baricentro economico-commerciale della provincia; anche Cerignola rinforzò la sua posizione, sopratutto quando divenne lo snodo principale del bacino gravitante su Barletta, grazie alla costruzione della Canosa-Barletta (terminata nel 1838), della Spinazzola-Minervino-Canosa (1855) e della Canosa-Lavello-Melfi (1860). Ciò permise a Barletta di far giungere nel suo porto quote sempre maggiori della produzione cerealicola del Tavoliere meridionale, dell'altopiano ad ovest del Vulture e della Murgia barese nord-occidentale.

Maggior benefici ottenne Bari, che divenne in pochi decenni il punto di convergenza di una

raggiera di rotabili comprendenti la consolare adriatica verso Barletta e verso Monopoli, la

Mediterranea, la strada per Gioia del Colle-Taranto (1820) e la provinciale per Altamura-Gravina,

prolungata sino a Matera entro il 1846. Grazie alla fitta rete di strade provinciali e comunali

costruite nel suo hinterland (approfondiremo tale aspetto in seguito), su Bari iniziò a convergere la

maggior parte della produzione olearia e di mandorle, prodotti che venivano esportati in misura

sempre crescente dal suo porto. Contemporaneamente la città divenne la più importante piazza

d'importazione di manufatti e generi coloniali che una fitta rete di commercianti vendeva in tutta la

provincia. Grazie alla diffusione di più moderne tecniche di produzione, estrazione e

commercializzazione dell'olio e alla concentrazione in città di competenze tecniche e di risorse

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finanziarie, causa ed effetto della riorganizzazione e del potenziamento della rete di comunicazioni, negli anni '80 del secolo da Bari partiva la metà dell'olio esportato da tutta la regione. Ovviamente una simile gerarchizzazione dei centri costieri a tutto vantaggio di Bari provocò la crisi di porti (Giovinazzo, Mola, Polignano, Trani e Bisceglie) che, nel recente passato, avevano potuto contare su stabili bacini commerciali, costituiti dal loro immediato entroterra e dal territorio dei comuni più vicini, che invece ora, grazie alle più efficienti vie di comunicazione a media e lunga distanza, rivolgevano le loro merci verso il porto barese.

In Terra d'Otranto, infine, furono costruiti sistemi viari incentrati sui principali centri commerciali costieri, ovvero Taranto, Gallipoli e Brindisi; in particolare si evidenzia l'importanza dei due collegamenti diretti aperti tra le sponde dei due mari (Ionio e Adriatico) che univano Taranto a Fasano (via Martina Franca) e Brindisi (via Grottaglie-Francavilla). Invece nel basso Salento la costruzione di una forte rete viaria procedette molto lentamente, sopratutto a causa della marginalizzazione di Gallipoli nel mercato oleario interno ed internazionale: pur se già negli anni '20 una rotabile fu aperta tra Lecce e Gallipoli, bisognò aspettare gli anni '50 per vedere ultimata la Gallipoli-Maglie-Otranto e la Salice-Nardò, destinate a far convergere su Gallipoli il grosso della produzione olearia del Salento centro-meridionale. Fu Brindisi l'ultima a vedere realizzata una serie di rotabili regie e provinciali che consentissero di convogliare nel suo porto una grossa parte degli scambi commerciali del Salento centrale e nord-orientale, oltre a consentire rapidi collegamenti con Lecce, Bari e Taranto (realizzate rispettivamente a metà degli anni '40, nel 1852 e nel 1860). Tale ritardo nel processo di riorganizzazione della rete stradale è dovuto in gran parte ai costi della bonifica e manutenzione del porto di Brindi, che gravavano sulle finanze provinciali.

Come già accennato, dopo l'Unità ed in particolare tra il 1864 e il 1868 furono aperti i

tronchi ferroviari dell'Adriatica (che passava per Foggia, Bari, Brindisi e Lecce), che collegava la

regione a quelle dell'Italia del centro-nord, e la linea Bari-Taranto, prolungata poi da Taranto a

Reggio Calabria nel 1875, due linee che corrispondevano alle zone con cui la Puglia aveva forti

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legami commerciali. Il ritardo con cui fu costruita la ferrovia che da Foggia portava a Napoli (terminata nel 1870) è infatti indicativo del profondo mutamento nelle relazioni in cui si inserirono le provincie pugliesi dopo l'Unità, ma i cui sintomi erano già ampiamente rilevabili agli inizi dell'Ottocento con la crescente autonomia del sistema viario pugliese, sempre più orientato verso i porti ionico-adriatici che non verso il “Cammino di Puglia”, che per secoli aveva collegato la regione a Napoli. Roma, Firenze, Milano e Trieste divennero nel volgere di pochi decenni i punti di riferimento di una regione sempre più organicamente inserita nel mercato unitario e sempre più volta verso l'Europa centro-occidentale. A completare il quadro, nelle ultime due decadi del secolo furono costruite le linee trasversali Foggia-Lucera, Foggia-Manfredonia, Foggia-Potenza, Melfi- Venosa-Altamura-Gioia del Colle, Brindisi-Taranto e Zollino-Gallipoli), oltre alla “ferrovia economica” che negli anni '80 collegò Bari e Barletta, infittendo così i collegamenti interni e rafforzando la tendenza di vaste aree della Basilicata a gravitare sulle provincie pugliesi.

Anche la viabilità stradale migliorò, col risultato che nel 1910 risultava più che triplicata e si collocava al secondo posto nel Mezzogiorno per lunghezza complessiva e densità, con un miglioramento davvero sensibile nel sud-est barese, nel brindisino, nel tarantino e nel Tavoliere.

L'Ottocento in Puglia: un'analisi storiografica

L'uso del nome “Puglia” come riferimento ad una determinata area con determinate caratteristiche è qualcosa di molto ambiguo. Abbiamo visto come la storiografia posteriore alla svolta degli anni '80 abbia dimostrato non essere mai esistito un Mezzogiorno omogeneo nei suoi caratteri sociali ed economici. Simile discorso vale per la Puglia. Già dalla rapida ricostruzione proposta nel paragrafo precedente, è ben facile notare come la Puglia non presenti caratteri unitari ed omogenei ed anzi presenti delle differenze rilevanti anche all'interno delle tre provincie storiche:

nella Terra di Bari, oggetto di questo lavoro, emergono le differenze tra l'area murgiana a carattere

cerearicolo-pastorale, il nord barese e la fascia pedemurgiana a predominanza di colture arboree e in

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