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3.1. Una realtà cristiana INQUADRAMENTO TEOLOGICO DELL ECUMENISMO

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Nella teologia contemporanea s’intende per ecumenismo quell’aspetto della missione ecclesiale che cerca di condurre tutti i cristiani alla comunione piena nell’unica Chiesa di Cristo.

Lungo la storia gli sforzi a favore dell’unità hanno assunto le varie modalità appena studiate.

La forma attuale di questi sforzi è quella del movimento ecumenico, ossia «le attività e le iniziative che, a seconda delle varie necessità della Chiesa e l’opportunità dei tempi, sono suscitate e ordinate a promuovere l’unità dei cristiani» (UR 4). Le attività contemplate sono «in primo luogo, tutti gli sforzi per eliminare parole, giudizi e opere che non rispettano con equità e verità la condizione dei fratelli separati»; in secondo luogo, «il dialogo avviato tra esponenti debitamente preparati nel quale ognuno espone più a fondo la dottrina della propria comunità e ne presenta con chiarezza le caratteristiche»; in terzo luogo, «una più ampia collaborazione in qualsiasi dovere richiesto da ogni coscienza cristiana per il bene comune», che include anche il radunarsi «per pregare insieme». In queste attività, infine, «tutti esaminano la loro fedeltà alla volontà di Cristo circa la Chiesa e, com’è dovere, intraprendono con vigore l’opera di rinnovamento e di riforma». Si cerca in tal modo di far sì che «a poco a poco, superati gli ostacoli che impediscono la perfetta comunione ecclesiastica, tutti i cristiani, in un’unica celebrazione dell’Eucaristia, si riuniscano in quell’unità dell’una e unica Chiesa, che Cristo fin dall’inizio donò alla sua Chiesa, e che crediamo sussistere, senza possibilità di essere perduta, nella Chiesa cattolica» (UR 4).

Prima di affrontare lo studio della teologia ecumenica in quanto riflessione ecclesiologica sull’unità da ristabilire nella Chiesa, è d’obbligo un passo previo — al quale sono dedicate le pagine di questo capitolo —, ovvero quello di inquadrare teologicamente l’ecumenismo, determinandone il soggetto, la natura, lo scopo e la specificità rispetto ad altre attività ecclesiali.

3.1. Una realtà cristiana

L’ecumenismo è un’attività svolta fra cristiani, ossia fra tutti coloro che hanno ricevuto validamente il sacramento del battesimo (cattolici, ortodossi, luterani, anglicani, ecc.),

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«invocano la Trinità e professano la fede in Gesù Signore e Salvatore» (UR 1). Si distingue, quindi, dal dialogo interreligioso, che si riferisce al dialogo con le religioni non-cristiane (islamici, buddisti, induisti, ecc.), e dal dialogo con i non-credenti (gli atei e agnostici)1.

Pertanto occorre non mettere sullo stesso piano le comunioni non cattoliche e le religioni non cristiane. Si tratta di una differenza facile da afferrare come questione di fatto, ma più difficile da comprendere a livello terminologico e concettuale. Da un punto di vista semplicemente fattuale, l’appartenenza al cristianesimo, all’interno di comunioni cattoliche e non cattoliche, dipende dal battesimo e dalla fede trinitaria-cristologica, come appena accennato. Il vocabolo “comunione/comunioni”, però, è qui usato in senso più nominale che teologico, col rischio di impoverire un concetto che invece si trova al centro della teologia ecumenica (come verrà studiato nel prossimo capitolo). Esso, infatti, ha il merito di aver superato la terminologia anteriore, - in verità mai accettata da tutti – incentrata sull’espressione

“confessione/i cristiana/e”, in base alla quale si sosteneva che dalle differenti “confessioni di fede” (gli antichi “simboli”) derivassero le diverse confessioni cristiane. La Chiesa cattolica, però, si è abitualmente mostrata refrattaria all’uso di questa terminologia, poiché portatrice di un certo relativismo rispetto al concetto di simbolo della fede2. Nell’ambiente ecumenico attuale, l’espressione è inoltre associata all’idea di “confessionalismo”, nel senso di un indebito attaccamento alle formule, a scapito del contenuto3, e pertanto si tende a prendere distanza da essa. Tuttavia, ciò non dovrebbe condurre al “confusionismo” nella propria fede, un fenomeno preoccupante e, purtroppo, ricorrente fra diversi partners del dialogo ecumenico, tanto da far emergere fra alcuni autori l’eventuale convenienza di ritornare alla teologia simbolica di J.A.

Möhler4.

Più complicato ancora si presenta il tentativo di stabilire il contenuto del concetto di religione (cristiana e non cristiana )5, anche perché il riferimento al “sacro”, alla “divinità”, alla

“trascendenza”, e via dicendo, è sostanzialmente diverso in ciascuna forma religiosa . Occorrerebbe, inoltre, accostarvisi mediante un approccio tendenzialmente olistico, che non si rinchiuda nell’ambito esclusivamente filosofico, o antropologico, o sociologico e nemmeno

1 Cf. ibid., p. 61.

2 Cf. Y. CONGAR, «Note sur les mots confession, Église et communion», in Irénikon 23 (1950), pp. 14-20.

3 Per tutto ciò non sembra adeguato il titolo della traduzione spagnola del libro di K. Algermissen, Konfessionskunde (Giesel, Hannover 1939), reso con Iglesia Católica y Confesiones Cristianas (Rialp, Madrid 1964).

4 Cf. W. KASPER, Harvesting the Fruits. Aspects of Christian Faith in Ecumenical Dialogue, Continuum, London-New York 2009, pp. 201-202.

5 Sull’argomento, troppo esteso per essere affrontato qui, si possono consultare le incisive riflessioni contenute in G. MASPERO - G. TANZELLA-NITTI, La verità della religione. La specificità cristiana in contesto, Cantagalli, Siena 2007.

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solo teologico6. Essenzialmente potremmo dire che il concetto di religione indica l’ambito delle relazioni dell’uomo con una realtà ritenuta trascendente e a lui superiore, stabilmente strutturata e socialmente rilevante. Non si tratta quindi della mera “religiosità”, anche se la presuppone7.

Tornando ora alla distinzione fra religione e comunione, ciò che sostanzialmente interessa capire è che una “comunione non cattolica” non è semplicemente un “sistema religioso di pensiero”, o un insieme di persone delimitate dal fatto esterno di essere battezzate e di far riferimento a qualche forma di organizzazione. Si tratta, invece, di una vera partecipazione attuale alla vita divina in Cristo, mediante genuini vincoli ecclesiali. Essa non è realizzata secondo tutte le esigenze e le possibilità esistenti all’interno della Chiesa cattolica; tuttavia, supera assolutamente l’ambito delle religioni non cristiane, nelle quali non esiste una partecipazione alla vita divina in Cristo, che oggettivamente provenga dagli elementi specifici di quelle religioni. Per tal motivo, la distinzione in questione è premessa indispensabile per il dialogo ecumenico.

Nondimeno è da tener presente il caso particolare degli ebrei, che pur non essendo cristiani, sono i “figli delle promesse”, il “popolo eletto” e “nostri fratelli maggiori nella fede”, con i quali condividiamo l’antico testamento. Essi perciò meritano una considerazione speciale fra gli altri non-cristiani, e la Chiesa si pone in rapporto istituzionale con loro attraverso una sezione speciale del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani.

Non appartiene invece all’ambito ecumenico la relazione della Chiesa con le “sette” o - come adesso si suggerisce di chiamarle - “i nuovi movimenti religiosi”, che non posseggono un valido battesimo, né conciliano le loro convinzioni con la rivelazione contenuta nelle Sacre Scritture, anche se a volte mutuano alcuni elementi dal cristianesimo (New Age, Scientology, Bambini di Dio, ecc.). Per gli stessi motivi, in ambito ecumenico non si trattano neanche fenomeni religiosi relativamente più antichi, come i Mormoni o i Testimoni di Geova, argomento su cui torneremo più avanti, a proposito dei peccati contro la comunione.

Il “certificato di cittadinanza” come partner del movimento non è un’automatica conseguenza della condizione cristiana. È necessaria l’autentica volontà di dialogare su un piano di uguaglianza, senza pretese di imporre con prepotenza la propria posizione, col desiderio di arricchirsi reciprocamente e imparare dall’esperienza altrui, nell’instancabile ricerca di un linguaggio comune. È imprescindibile, inoltre, la ferma convinzione che l’attuale situazione di divisione è assolutamente anomala e contraddice la volontà del Signore e la stessa

6 Cf. ibid., p. 6.

7 Cf. M. DHAVAMONY, s.v. Religione: definizione, in R. LATOURELLE -R.FISICHELLA (edd.), Dizionario di Teologia Fondamentale, Citadella Editrice, Assisi 1990, pp. 919-929.

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ecclesialità delle Chiese. Perciò non sono interlocutori validi quelli che, pur essendo cristiani, rifiutano esplicitamente il dialogo. Tra questi si trovano varie sette cristiane nate dalle Chiese del protestantesimo storico, molte comunità fondamentaliste di tradizione riformata e altre. Fin dall’inizio, il movimento ecumenico incontrò l’opposizione della parte più radicale del protestantesimo di matrice calvinista, a causa della collocazione del suo traguardo nell’unità visibile della Chiesa; ciò fu considerato contrario a uno dei principi ritenuti essenziali dalla Riforma, quello secondo il quale la Chiesa è esclusivamente una comunità spirituale. Così, per contrastare il Consiglio Ecumenico delle Chiese sorsero sia il Consiglio Internazionale delle Chiese Cristiane (Carl Mac Intyre, 1948), che l’Alleanza Evangelica Mondiale (1968), i quali ebbero però una rilevanza piuttosto scarsa8.

3.2. Un approccio istituzionale

Nel dialogo ecumenico gli altri cristiani non sono considerati come persone singole, ma in quanto facenti parte di una comunità. Ossia, propriamente parlando, più che l’unità dei cristiani, si promuove l’unità fra le Chiese e le comunità ecclesiali9. Questo non solo implica che il dialogo ecumenico si stabilisca tra istituzioni, ma include anche il fatto che “l’altra parte”

è contemplata come realtà ecclesiale, come comunità costituita da vincoli veramente ecclesiali, e non solo come somma di singoli cristiani. Occorre, tuttavia, non isolare in modo assoluto queste due dimensioni, perché la fede è una realtà contemporaneamente personale ed ecclesiale;

quando accade che una comunità cristiana è accolta nella piena comunione, occorre, infatti, incanalare in modo adeguato l’assenso personale dei fedeli alla fede cattolica.

L’ecumenismo, dunque, si distingue dall’accoglienza individuale nella pienezza della comunione cattolica10. È importante ricordare che, pur trattandosi di due differenti attività, esse non si oppongono mutuamente; il Concilio ha, infatti, espressamente dichiarato che «l’opera di preparazione e di riconciliazione di quelle singole persone che desiderano la piena comunione cattolica è di natura sua distinta dall’iniziativa ecumenica; non c’è pero alcuna opposizione, poiché l’una e l’altra procedono dalla mirabile disposizione di Dio» (UR 4).

8 Cf. P. RODRÍGUEZ, Iglesia y ecumenismo, pp. 59-60.

9 Cf. G. THILS, Historia doctrinal del movimiento ecumenico, pp. 281-282.

10 Cf. ibidem, pp. 285-286.

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3.3. Un compito missionario

Dalla prospettiva di coloro che sono oggetto della missione della Chiesa, questa può essere considerata sotto tre diverse angolature: l’aspetto pastorale della missione (ad intra:

indirizzata ai fedeli cattolici), l’aspetto ad gentes (ad extra, nel senso tradizionale dell’”attività missionaria” della Chiesa, rivolta ai non-cristiani), e l’aspetto ecumenico, che si occupa dei cristiani non cattolici. Troviamo esplicitamente questa distinzione in AG 6/6: «l’attività missionaria tra le genti differisce sia dall’attività pastorale da svolgere nei riguardi dei fedeli, sia dalle iniziative da prendere per ricomporre l’unità dei cristiani». Intendere l’ecumenismo come un aspetto specifico dell’unica missione della Chiesa è importante per non confondere i mezzi impiegati nei vari ambiti della missione, diversi a seconda del caso in questione; e anche per una corretta considerazione teologica degli “altri cristiani” (espressione senz’altro migliore di quella di “fratelli separati”: cf. UUS 42), che se non possono essere equiparati ai fedeli cattolici, neppure possono essere considerati “infedeli”.

Allo stesso tempo è opportuno ricordare la convergenza di questi tre aspetti nell’unica missione; come prosegue il decreto Ad Gentes, «queste due forme di attività (pastorale ed ecumenica) si ricongiungono saldamente con l’operosità missionaria della Chiesa».

L’ecumenismo, in definitiva, risulta configurato come un’attività della quale non è lecito alla Chiesa disinteressarsi: la Chiesa cattolica non può non essere ecumenica senza tradire la propria missione e la volontà esplicita del Signore (Gv 17,21: «perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una sola cosa, perché il mondo creda che tu mi hai mandato»). Perciò Giovanni Paolo II ha riaffermato «in modo irreversibile» (UUS 3) l’impegno della Chiesa a favore dell’ecumenismo. Così operando si segue una volontà esplicita di Cristo, si tenta di evitare lo scandalo delle divisioni che tolgono credibilità alla Chiesa e pregiudicano l’evangelizzazione, si cerca di offrire a tutti i battezzati l’intero patrimonio dei beni salvifici. La Chiesa, che è madre, non può non curarsi dei suoi figli.

3.4. Un traguardo da raggiungere

Non bisogna infine dimenticare che l’obiettivo finale dell’ecumenismo è l’unità visibile della Chiesa11: «un solo gregge con un solo pastore» (Gv 10,16). Si punta alla “comunione

11 Cf. W. KASPER, Vie dell’unità, p. 60

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piena” o “perfetta” fra le Chiese in senso “strutturale”: «nella confessione di una sola fede, nella comune celebrazione del culto divino e nella fraterna concordia della famiglia di Dio» (UR 2).

Si tratta dunque di ristabilire fra tutte le comunità cristiane i tria vincula visibili di unità:

symbolicum, liturgicum, gerarchicum. Come affermato da Kasper, «sebbene ci possano essere diverse fasi intermedie a livello di ecumenismo spirituale o pratico, il traguardo finale non è l’unità sulla base del minimo comune denominatore, né la semplice coesistenza pacifica, né l’uniformità, ma la piena e visibile comunione nella fede, nella vita sacramentale, nel ministero apostolico e nella missione, in analogia con l’immagine dell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo in seno alla Trinità»12. L’unità visibile, infatti, non è solo ritenuta conveniente per il buon andamento della Chiesa, ma è insita nel suo codice genetico, come evidenziato dalla rivelazione neotestamentaria sulla vita della primitiva comunità cristiana: «Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere» (At 2,42)13.

Propriamente parlando, la “comunione piena” si riferisce anche, e soprattutto, alla comunione intima con Dio per mezzo di Gesù Cristo nello Spirito Santo (lo stato di grazia);

questa prospettiva non è però quella propria dell’ecumenismo, sebbene lo stretto legame tra comunione “interiore” e comunione “strutturale” ci obbliga a tenere presente anche questa dimensione della comunione.

Per l’ecclesiologia cattolica risulta di grande importanza la considerazione dell’unità visibile simultaneamente come dono e come compito. L’unità come obiettivo dell’ecumenismo non può intendersi come se essa non esistesse ora, poiché non si tratta di creare l’unità, la quale, nel suo aspetto più profondo, altro non è che un dono concesso da Dio alla sua Chiesa in modo irrevocabile. È proprio la fiducia nella fedeltà di Dio e nei suoi doni, che dà speranza all’ecumenismo. L’unità è data alla Chiesa come un dono costituente; perciò l’ecumenismo vero non tenta di crearla, come se non esistesse, ma cerca di scoprirla in tutti i luoghi dove si trova, per spogliarla di quel che la oscura, impedendo la manifestazione della sua pienezza.

Questo porta a intendere l’ecumenismo come una dilatazione dell’unità già presente, di

«quell’unità dell’una e unica Chiesa, che Cristo fin dall’inizio donò alla sua Chiesa e che crediamo sussistere, senza possibilità di essere perduta, nella Chiesa cattolica» (UR 3).

12 Cf. W. KASPER, Harvesting the Fruits, p. 205.

13 Non pochi autori scorgono qui i tria vincula di unità, appena menzionati: su questo, cf. CONGAR, Y., Proprietà essenziali della Chiesa, in J. FEINER - M. LÖHRER (ed.), Mysterium Salutis, Vol. 7: L’evento salvifico nella comunità di Gesù Cristo, Queriniana, Brescia 19813, pp. 456-457.

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Non è valida nemmeno la posizione opposta: ovvero, “in realtà già siamo uniti, l’unità importante è l’unità spirituale della grazia”. Senza eliminare così drasticamente il peso dell’aspetto visibile della Chiesa, già nel XIX secolo si ipotizzava la teoria delle three branches:

la Chiesa di Cristo sarebbe già una e sussisterebbe nella Chiesa cattolica, ortodossa e anglicana, come i tre rami di uno stesso albero14. Semmai, occorrerebbe solo passare “dall’unità all’unione”, come i membri di una famiglia che hanno litigato, ma i cui legami di origine vitale non si possono cancellare15. Tuttavia, l’unità già esistente non può essere ridotta alla sola unità invisibile, o ad un debole raggruppamento di Chiese. La rivelazione, infatti, mostra chiaramente i vincoli visibili di unità come qualcosa d’intrinseco alla comunione ecclesiale, come è stato appena accennato sulla base di At 2,42.

Entrambi questi estremi (negazione dell’unità esistente, affermazione di un’unità già piena) sono stati rifiutati dal magistero della Chiesa16. Ciò che consente di affermare senza contraddizione l’unità come realtà già data, ma che allo stesso tempo deve ancora raggiungere la sua pienezza, è la storicità della Chiesa, sempre in tensione escatologica finché dura il suo pellegrinaggio in terris. Essa si trova in statu viae, tra la redenzione già operata da Cristo, e l’ancora non consumata recapitulatio omnium escatologica17. Usando un’immagine molto espressiva, nel 1957 l’abate Couturier diceva: «la Chiesa cattolica romana afferma che l’unità è già esistente ed è un “dato rivelato”; ma non nega che questa stessa unità sia anche un compito ed un avvenire. In un qualsiasi essere vivente si congiungono armoniosamente nella sua unità individuale ciò che è dato con ciò che deve avvenire. La forza unificante dell’albero è la stessa già presente nel seme»18. La Chiesa, quindi, non si può accontentare semplicemente di conservare l’unità che già le è stata data, poiché si tratta di un dono in tensione escatologica verso la sua pienezza. Per questo “frenare” l’ecumenismo equivarrebbe a soffocare tale tensione, togliendo alla comunione la sua intrinseca dinamicità.

14 Era questa la posizione di fondo della Association for Promoting the Union of Christendom, fondata in Inghilterra nel 1857 da cattolici ed anglicani insieme. Per decreto del Santo Ufficio del 16.9.1864 (AAS 2 1919], p. 310), la Santa Sede vietò la partecipazione dei cattolici a quest’associazione: cf. G. THILS, Historia doctrinal del movimiento ecumenico, pp. 233-234.290.

15 Cf. G.D. ROSENTHAL, The Unity of the Church, in Report of the Anglo-Catholic Congress 1930 (The Church), Westminster 1930, pp. 22-29.

16 «Non possono quindi i fedeli immaginarsi la Chiesa di Cristo come la somma — differenziata ed in qualche modo unitaria insieme — delle Chiese e Comunità ecclesiali; né hanno facoltà di pensare che la Chiesa di Cristo oggi non esista più in alcun luogo e che perciò, debba essere soltanto oggetto di ricerca da parte di tutte le Chiese e Comunità»: CDF, Dichiarazione Mysterium Ecclesiae, 24.6.73, n. 1.

17 Cf. C.-J. DUMONT, Les voies de l’unité chrétienne. Doctrine et spiritualité, Cerf, Paris 1954, pp. 210- 213.

18 P. COUTURIER, Prière et unité chrètienne, Mappus, Le Puy 1952. La citazione è riperibile in VILLAIN, o.c., p. 341.

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