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CAPITOLO II TRATTAMENTO DELLE INFEZIONI OSSEE: recenti acquisizioni

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CAPITOLO II

TRATTAMENTO DELLE INFEZIONI OSSEE:

recenti acquisizioni

L’osteomielite è definita come un processo infiammatorio dell’osso, locale o generalizzato, che colpisce la cavità midollare, la corticale e, talvolta, anche il periostio (Jackson & Pacchiana, 2004; Schulz, 2008). Può instaurarsi per via ematogena o per via esogena per contaminazione del focolaio di frattura da parte di contaminanti esterni (May, 2002). Nonostante i patogeni responsabili di infezione ossea possano essere di origine sia batterica sia micotica, con il termine di osteomielite viene più frequentemente indicata la forma batterica (Bubenik, 2005). Le principali cause di infezione ossea sono imputabili a traumi ossei con esposizione della frattura o a infezioni iatrogene e/o post-chirurgiche (Jackson & Pacchiana, 2004; Weese, 2008).

La patologia può presentarsi in forma acuta o cronica (May, 2002; Bubenik, 2005). La forma acuta è caratterizzata da insorgenza rapida, con infiltrazione leucocitaria dell’osso e dei tessuti molli circostanti, fagocitosi dei microrganismi patogeni e rilascio di enzimi proteolitici, responsabili dei classici segni di calore, tumefazione, dolore e limitazione funzionale dell’osso colpito (May, 2002; Bubenik, 2005). Nelle lesioni croniche, al contrario, i classici segni di infiammazione acuta sono meno frequenti, ma si possono riscontrare necrosi, per l’ischemia cronica, sequestri ossei o fistolizzazioni (May, 2002; Bubenik, 2005).

L’infezione può essere o meno suppurativa, soprattutto in seguito a infezioni batteriche (Jackson & Pacchiana, 2004); infatti, la necrosi ossea e l’assenza di vascolarizzazione, creano un microambiente particolarmente favorevole per la crescita batterica (Jackson & Pacchiana, 2004; Bubenik, 2005).

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Trattamento delle infezioni ossee: recenti acquisizioni

34 EZIOPATOGENESI

Le infezioni ossee sono, per lo più, sostenute da un unico organismo patogeno (Muir & Johnson, 1992; Bubenik, 2005) ma si possono riscontrare anche infezioni sostenute da più patogeni (Smith et al., 1978; Braden, 1991; Parker, 1987; Bubenik, 2005). L’agente patogeno di per sé può non essere in grado di causare la patologia (Schulz, 2008); un particolare fattore predisponente è il danno vascolare nella sede di frattura (Jackson & Pacchiana, 2004).

I principali patogeni individuati come responsabili di infezione ossea sono: Staphylococcus spp. β-lattamasi produttori, Streptcoccus spp., batteri aerobi Gram-positivi, Eschrichia coli, Pseudomonas auriginosa, Klebsiella spp., Pasteurella spp., Proteus spp., Nocardia spp. e Anaerobi (Bacterioides, Fusobacterium, Actinomyces, Clostridium e Peptostreptococcus spp.) (May, 2002; Bubenik, 2005). Forme particolarmente insidiose di infezione ossea, sono risultate sostenute da batteri resistenti agli antibiotici di comune impiego come nel caso di S. aureus meticillino-resistenti (MRSA). Questi batteri presentano una particolare persistenza nelle ferite possono colonizzare facilmente tessuti molli e/o duri (Soontornvipart et al., 2003).

La presenza di mezzi di osteosintesi metallici può incrementare la resistenza batterica per formazione di un biofilm costituito dal batterio stesso e dal glicocalice da esso prodotto (Budsberg, 2005). Il glicocalice è un insieme di matrice batterica, detriti cellulari dell’ospite, proteine sieriche, ioni, carboidrati e fibronectina, che avvolge le colonie e facilita l’adesione batterica. I gram-positivi, infatti, possiedono recettori per la fibronectina, mentre i gram-negativi e gli anaerobi si legano alla matrice e alle proteine cellulari (Johnson & Hulse, 2004b; Jackson & Pacchiana, 2004). È proprio il glicocalice che permette al batterio di rimanere adeso alla superficie delle strutture metalliche e di riprodursi, a formare numerose colonie. Una volta creatosi, il biofilm protegge la colonia batterica dall’azione degli antibiotici e inibisce, o semplicemente altera, la risposta immunitaria anticorpale e la fagocitosi cellulare (Budsberg, 2005).

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35 DIAGNOSI E TRATTAMENTO

La diagnosi di osteomielite si basa sull’evidenza dei segni clinici, come tumefazione, dolore, limitazione funzionale, fistolizzazioni e altro (Jackson & Pacchiana, 2004; Bubenik, 2005), sui rilievi radiografici di reazione periostale, lisi e sclerosi ossea, presenza di sequestri ossei o non-unioni/cedimenti degli impianti (May, 2002) e aspirati o altri tipi di prelievi per esami colturali (Bubenik, 2005). Gli esami colturali, e l’antibiogramma ad essi associato, sono estremamente utili per l’allestimento di una terapia antibiotica mirata (May, 2002).

Il trattamento di elezione dell’osteomielite prevede sia il trattamento chirurgico sia la terapia antibiotica mirata.

Nelle infezioni acute, la terapia deve essere particolarmente aggressiva per prevenire il rischio di cronicizzazione (Bubenik, 2005). In questi casi è prevista la somministrazione intravenosa di antibiotici ad ampio spettro al massimo dosaggio, in attesa dell’esito dell’antibiogramma, per poi passare al farmaco o all’associazione di farmaci più specifici (May, 2002; Jackson & Pacchiana, 2004; Bubenik, 2005). In caso di frattura è importante stabilizzare i monconi e garantire una corretta vascolarizzazione del sito di lesione in modo da consentire un corretto afflusso dei farmaci e minimizzare i fattori predisponenti la crescita batterica, ovvero l’ischemia e la necrosi (Budsberg, 2005).

Il debridement chirurgico, ovvero la rimozione chirurgica del tessuto necrotico e infetto, è necessario in caso ci si trovi di fronte a osteomieliti croniche (Jackson & Pacchiana, 2004). Questa procedura non deve essere limitata al solo tessuto devitalizzato, ma deve essere estesa anche alle zone vicine fino a evidenziare tessuto sano (Jackson & Pacchiana, 2004; Bubenik, 2005). La rimozione chirurgica dell’osso infetto può esitare in una perdita di sostanza più o meno grave che può essere trattata con una guarigione per seconda intenzione (Jackson & Pacchiana, 2004) o, se di dimensioni notevoli, mediante impiego di innesti o sostituti ossei (Jackson & Pacchiana, 2004; Budsberg, 2005).

Debridement chirurgico e antibiotico-terapia devono essere strettamente associate per il buon esito del trattamento. Il trattamento medico, di norma, deve

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36 durare dalle 2 alle 6 settimane, in alcuni casi deve essere protratto anche per alcuni mesi. La sospensione dei farmaci è indicata a partire da 2 settimane dopo la scomparsa dei segni radiologici di infezione ossea (May, 2002). A causa della scarsa vascolarizzazione dell’area di destinazione i farmaci devono essere somministrati ad alti dosaggi, questo può comportare l’instaurarsi di intossicazioni (May, 2002).

NUOVE PROSPETTIVE DI TRATTAMENTO

Per ovviare alla possibile insorgenza di complicazioni legate a lunghe somministrazione di alti dosaggi di antibiotici è stata valutato il trattamento antibiotico locale che permette, infatti, di poter raggiungere concentrazioni elevate a livello tissutale, abbassando i rischi associati alla tossicità sistemica dei farmaci (Perry et al., 1988; Henry et al., 1993; McKee et al., 2002; Gitelis & Brebach, 2002). Nel 1984, Buchholz e collaboratori, suggerirono la somministrazione locale di antibiotici addizionati a cemento osseo. Il rilascio di antibiotico dalla miscela si realizza, a concentrazioni molto superiori alla Minima Concentrazione Inibente la formazione di colonie (MIC), per diverse settimane o mesi, contribuendo a limitare la proliferazione del patogeno. A tutt’oggi numerosi antibiotici sono stati inseriti in una miscela di cemento osseo (Poli-Metil-metacrilato – PMMA) per la prevenzione o il trattamento locale di infezioni ossee (Lautenschlager et al., 1976; Welch, 1978; Johnson, 1994; Rochat, 2001; Cariou et al., 2006). Gli aspetti negativi derivanti dall’impiego del PMMA sono associati alla reazione esotermica durante la fase di polimerizzazione che può determinare il rilascio di sostanze tossiche e il danno tissutale. Può, inoltre, inibire la rigenerazione ossea ed essendo non riassorbibile richiede un secondo intervento per la sua rimozione (Henry et al., 1993; Sayegh & Moore, 2003).

Queste importanti limitazioni hanno spinto alla ricerca, sviluppo e valutazione di altri vettori bioriassorbibili che permettano il rilascio di antibiotici locali per il trattamento di infezioni ossee (Mendel et al., 2005; Ham et al., 2008). L’impiego di vettori biodegradabili presenta il doppio vantaggio di sostenere il rilascio prolungato di farmaco, assicurando la sua adeguata concentrazione per

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37 lungo tempo, e, grazie alla graduale degradazione del sistema, non è necessario un secondo intervento di rimozione chirurgica del dispositivo (Setterstrom et al., 1984; Calhoun & Mader, 1997).

In uno studio condotto da Mendel e collaboratori, nel 2005, è stata valutata l’efficacia della gentamicina nel trattamento di infezioni ossee iatrogene su modello murino, applicata localmente in associazione a PMMA o spugne di collagene. Lo studio ha confermato l’efficacia del trattamento antibiotico locale, evidenziando, però, che il PMMA per la sua struttura compatta, presenta un rilascio molto più prolungato nel tempo. Al contrario, i vettori porosi, altamente solubili in acqua, presentano un rilascio più rapido del farmaco con risultati migliori, in termini di riduzione della carica batterica, dopo 4 settimane di terapia (Mendel et al., 2005).

I primi dispositivi biodegradabili caricati con farmaci per il trattamento locale di infezioni sono stati descritti nel 1984 da Setterstrom e collaboratori. In questo studio, condotto sul ratto, le microsfere caricate con Ampicillina, hanno mostrato un rilascio sostenuto e prolungato oltre due settimane. Ad oggi, grazie anche al forte sviluppo dell’ingegneria tissutale, numerosissimi sono i dispositivi biodegradabili caricati con farmaci testati per il trattamento locale delle infezioni ossee (Lin et al., 1999; Joosten et al., 2004; Wang et al., 2004;Kanellakopoulou et la., 2008).

Un sistema di rilascio di farmaci o Drug-Delivery System (DDS) dovrebbe: mantenere una concentrazione adeguata di farmaco nella sede di impianto, favorirne il rilascio costante per tempi sufficientemente lunghi ed essere degradabile (Nie et al., 1995; Ali et al., 1993).

I vantaggi che questi sistemi offrono, rispetto al trattamento tradizionale sistemico o con PMMA, sono risultati numerosi:

- forniscono concentrazioni adeguate di antibiotici, per tempi sufficientemente lunghi da consentire il completo trattamento dell’infezione ortopedica;

- la biodegradabilità, variabile da poche settimane ad anni, può permettere di trattare diversi tipi di infezioni;

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38 - non richiedono la rimozione chirurgica;

- grazie ai tempi di degradazione lenti il tessuto osseo ha la possibilità di rigenerare andando gradualmente a colmare il difetto che può residuare (Kanellakopoulou & Giamarellos-Bourboulis, 2000; Wang et al., 2004).

Riferimenti

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