INDICE
1. IL MEDITERRANEO ... 1
1.1 INTRODUZIONE ...1
1.1.1 Caratteristiche idrologiche ... 1
1.1.2 Caratteristiche biogeochimiche ... 3
1.1.3 Il Mediterraneo orientale... 4
1.1.4 Reti trofiche e flussi di carbonio ... 5
1.1.5 Il Mar Mediterraneo e la fosforo limitazione ... 9
1.1.6 Il Microzooplancton... 10
1.1.7 Ruolo trofico del microzooplancton ... 11
1.2. SCOPO DEL LAVORO...15
1.3. MATERIALI E METODI...16
1.3.1 Area di studio... 16
1.3.2 Variabili ambientali... 17
1.3.3 Il metodo delle diluizioni... 18
1.3.4 Campionamento ... 22
1.3.5 Distribuzione del microzooplancton... 24
1.3.6 Analisi quali-quantitativa ... 25
a) Picoplancton... 25
b) Nanoplancton ... 27
c) Microplancton ... 28
1.3.7 Produzione secondaria ... 30
1.4 RISULTATI ...31
1.4.1 Dati ambientali... 31
1.4.2 Predazione sul picoplancton eterotrofo ... 31
1.4.3 Predazione sul picoplancton autotrofo ... 37
1.4.4 Predazione sul nanoplancton... 41
1.4.5 Microzooplancton ... 48
1.4.6 Produzione secondaria ... 57
1.4.7 Distribuzione ... 59
1.5. DISCUSSIONE E CONCLUSIONI ...63
2.OSTREOPSIS OVATA ... 72
2.1 INTRODUZIONE ...72
2.2 SCOPO DEL LAVORO...76
2.3 MATERIALI E METODI...77
2.3.1 CAMPIONAMENTO ... 77
a) Esperimento di diluizione ... 77
b) Esperimento di grazing (giugno 2009) ... 78
c) Esperimento di grazing (settembre 2009)... 79
d) Copepodi... 79
2.3.2 ANALISI QUALI QUANTITATIVA... 80
2.4 RISULTATI ...82
2.4.1 Caratterizzazione del popolamento microzooplanctonico (giugno 2009)... 82
2.4.2 Inizio dell’incubazione (T0)... 83
2.4.3 Fine dell’incubazione (T24) – Crescita apparente... 84
2.4.4 Esperimento di predazione del mesozooplancton (Grazing) – giugno 2009 ... 91
2.4.5 Caratterizzazione del popolamento microzooplanctonico (settembre 2009)... 92
2.4.6 Esperimento di predazione del mesozoo plancton (grazing) – settembre 2009 ... 94
2.5 DISCUSSIONE E CONCLUSIONI ...96
3. ANTARTIDE... 100
3.1. Introduzione ...100
3.1.1 Ruolo del microzooplancton in Antartide... 101
3.1.2 Caratterizzazione dell’area di studio... 102
3.1.3 Il Mare di Ross... 105
3.1.4 Baia Terra Nova ... 107
3.2 MATERIALI E METODI...108
3.3 RISULTATI ...109
Esperimento 1 ... 109
Esperimento 2 ... 110
Esperimento 3 ... 111
Esperimento 4 ... 114
Esperimento 5 ... 115
Esperimento 6 ... 117
Esperimento 7 ... 117
Esperimento 8 ... 119
3.4 DISCUSSIONE E CONCLUSIONI ...121
Bibliografia
Allegati
Il Mediterraneo-Introduzione
1. IL MEDITERRANEO
1.1 INTRODUZIONE
Il Mar Mediterraneo è un mare chiuso che si estende tra 45°N e 30°N circa di latitudine e tra 5°W e 36°E circa in longitudine, con una superficie di 2.560.0000 km2 e una profondità massima di 5.020 m. Compreso fra le coste dell’Europa meridionale, dell’Asia Occidentale e dell’Africa Settentrionale, il Mar Mediterraneo si sviluppa per una lunghezza di 3.680 km, tra lo Stretto di Gibilterra e la costa orientale, e con una larghezza media di 700 km, la cui massima estensione di 1.665 km è compresa tra il golfo della Sirte e quello di Trieste.
Il Mediterraneo è in comunicazione con l’Oceano Atlantico tramite lo Stretto di Gibilterra e con il Mar Nero tramite il Bosforo.
Il Mediterraneo è suddiviso in diversi sottobacini. Lo zoccolo siculo africano, ampio sollevamento del fondo tra la Sicilia e il Capo di Bon in Algeria, divide questo mare in un bacino orientale ed uno occidentale, che a loro volta sono divisi in mari e bacini minori. Nel bacino occidentale, escludendo il sollevamento delle Baleari e qualche piccola piattaforma, si denota che la scarpata continentale, che raggiunge i 2.400 m di profondità, è molto ravvicinata alla costa e la piana abissale non presenta quasi rilievi.
1.1.1 Caratteristiche idrologiche
Il Mediterraneo è un bacino di evaporazione, in quanto le perdite di acqua dolce per evaporazione sono maggiori degli apporti dovuti alle precipitazioni e ai fiumi. Il bilancio di massa e di sale è però mantenuto in stato stazionario attraverso gli scambi con l’oceano Atlantico che avvengono attraverso lo Stretto di Gibilterra. Il deficit di acqua dolce è bilanciato dall’ingresso nel Mediterraneo di acqua superficiale atlantica relativamente poco salata e dalla fuoriuscita di acqua a salinità elevata. La differenza di densità (Béthoux et al., 1999) confina con il flusso entrante alla superficie (0-150 m), mentre il flusso in uscita
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l’acqua atlantica presente nel Mediterraneo come Atlantic Water (AW). L’AW scorre poi principalmente verso est fino alla parte orientale del Mediterraneo, confinata dalla forza di Coriolis alla parte orientale del bacino. Nonostante l’influsso delle masse d’acqua che attraversa e i parziali rimescolamenti che ne attenuano le particolarità in modo crescente con il movimento verso est, l’AW resta identificabile in ogni parte del bacino.
Nel Mediterraneo sono inoltre presenti processi di formazione di acque profonde e intermedie, rappresentati dallo sprofondamento di masse d’acqua superficiale. La formazione delle acque è il risultato dell’aumento di densità provocato dall’aumento di salinità dovuto alla forte evaporazione estiva e dal forte raffreddamento invernale che si verifica in specifiche aree.
In particolare, si ha sprofondamento di acque dense nel Golfo del Leone e nell’Adriatico Meridionale, mentre nel bacino levantino si ha formazione di acque intermedie. Nel Golfo del Leone il raffreddamento invernale è causato dal maestrale, vento freddo e secco incanalato dai Pirenei e dal Massiccio Centrale Francese in direzione nord- ovest. Nell’Adriatico è solamente il raffreddamento invernale a guidare il flusso di densità (Béthoux et al., 1999) poiché l’evaporazione e le precipitazioni si equivalgono. E’ quindi la bora, vento freddo proveniente da nord-est, a raffreddare le masse d’acqua che poi muovono verso sud lungo le coste italiane.
La Levantine Intermediate Water (LIW) è una massa d’acqua che si forma nel Bacino levantino dalla trasformazione dell’AW. A causa dell’evaporazione la LIW acquista elevata salinità e si estende per tutto il Mediterraneo orientale ad una profondità che varia tra 100-150 m nella porzione più orientale del bacino e 250-300 m nella parte più occidentale. La LIW poi oltrepassa lo Zoccolo siculo-africano e attraversa il Mediterraneo occidentale ad una profondità di circa 400 m, costituendo una parte importante del flusso uscente da Gibilterra. La LIW subisce un rimescolamento con le acque sottostanti e soprastanti, entrambe a salinità inferiore, che attenua il caratteristico massimo di salinità a profondità intermedia mano a mano che si procede da est verso ovest. AW e LIW, insieme alla formazione di acque profonde, compongono il forzante termoalino del Mediterraneo.
Questa forza è l’origine della circolazione nel Mediterraneo, circolazione che riproduce in scala ridotta quella degli oceani. La presenza del LIW infatti gioca un ruolo importante nella formazione delle acque profonde, connettendo le celle di circolazione meridionali delle acque profonde con le celle zonali formate da AW e LIW (fig.1.1)
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Fig.1.1 Circolazione e formazione delle acque nel Mar Mediterraneo (Pinardi &
Masetti, 2000)
1.1.2 Caratteristiche biogeochimiche
La circolazione antiestuarina del Mediterraneo causa la fuoriuscita di acque intermedie e profonde, arricchite in nutrienti, e l’ingresso di acque superficiali, povere di nutrienti.
Il caso fosforo può servire a schematizzare il comportamento degli elementi con lunghi tempi di residenza in ambiente marino. Per il fosforo si può assumere lo stato di equilibrio (Béthoux, 1981) dato che la concentrazione di questo elemento non mostra variazioni significative nel tempo. Béthoux (1991) stima la quantità di fosforo uscente da Gibilterra (433 *106 kg P y -1) bilanciata dal fosforo trasportato dal flusso in entrata (86
*106 kg P y -1) e soprattutto dall’apporto terrestre (357*106 kg P y -1). L’utilizzo del fosforo da parte dei processi biologici avviene principalmente negli strati superficiali, mentre negli strati intermedi e profondi questo elemento può essere considerato conservativo al pari
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e corrisponde al tipico utilizzo di nutrienti da parte del fitoplancton (Redfield et al., 1963), mentre nel Mediterraneo il valore caratteristico è 22:1. Questo ultimo valore, pur essendo una schematizzazione del bacino nel suo complesso, indica da solo l’impoverimento dei fosfati. Bisogna però sottolineare che nel tipico profilo verticale questo elemento presenta un impoverimento superficiale, ovvero nella zona fotica, proprio dove è necessario per la vita.
Anche l’azoto presenta un profilo simile, ma il nitroclino si posiziona ad una profondità inferiore a quello del fosfoclino, portando il rapporto N : P nelle acque superficiali a valori ben superiori a 22:1. In aggiunta a ciò recenti esperimenti (Diaz et al., 2001) hanno evidenziato che l’arricchimento di fosfati in campioni d’acqua superficiale aumenta la produttività e la richiesta fitoplanctonica di azoto, suggerendo quindi per il fosforo il ruolo di fattore limitante.
1.1.3 Il Mediterraneo orientale
La circolazione nel bacino orientale può essere descritta come un sistema a tre strati (Ribera d’Alcalà et al., 2003). L’acqua Atlantica entra attraverso lo Stretto di Sicilia (a 200 m). Quest’acqua fluisce verso il bacino orientale diventando più salata a causa delle condizioni climatiche più calde e secche della regione orientale, in particolar modo durante il periodo estivo. Le acque levantine intermedie (200-500 m di profondità) si generano durante l’inverno vicino alla costa della Turchia e formano la maggior parte del flusso di ritorno dell’acqua in uscita dal bacino attraverso lo stretto di Sicilia. Le acque profonde del bacino orientale si formano nell’Adriatico meridionale e riempiono il bacino dagli 800 m di profondità al fondo. Dal 1987 una nuova fonte di produzione di acque profonde si è osservata nel bacino levantino e nel mar Ionio profondi (Roether et al., 2007). Quest’acqua profonda formata nell’Egeo Meridionale viene scaricate nel bacino levantino attraverso lo stretto di Kassos e questa sostituzione tra le sorgenti di acque dense di fondo è nota come il transiente del Mediterraneo orientale.
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1.1.4 Reti trofiche e flussi di carbonio
Il Mar Mediterraneo, per la sua configurazione di mare semi chiuso è caratterizzato da un ricco complesso di dinamiche fisiche con tratti distintivi riguardanti in maniera particolare la circolazione termoalina. La produzione primaria presenta un andamento decrescente da ovest verso est. Il bacino del Mediterraneo è dominato da piccoli autotrofi, microeterotrofi e piccoli copepodi. I microrganismi - fitoplancton, virus, batteri, flagellati, ciliati e zooplancton in generale - rivelano una considerevole diversità e variabilità sia su scala temporale che spaziale. Le maggiori differenze fra il bacino occidentale e quello orientale sono state evidenziate studiando il fitoplancton ma anche la componente microbica eterotrofa e le sue relazioni. In queste aree l’arricchimento intermittente di nutrienti favorisce un’alternanza tra la comunità dominata da diatomee e la comunità microbica. In questi casi la rete trofica classica sostituisce la rete microbica (fig.1.2) Queste alternanze aumentano il flusso verso i livelli trofici superiori. Il sistema microbico sembra subire contemporaneamente un controllo di tipo bottom-up e top-down. La rete mistivora è dovuta alla grande varietà di modalità di assunzione del cibo e di preferenze di prede da parte del mesozooplancton sul fitoplancton e sui ciliati.
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all’inizio degli anni ’80 si era creduto che il flusso di energia attraverso la rete trofica fosse regolato da relazioni fra la produzione primaria microfitoplanctonica e i suoi predatori rappresentati prevalentemente dal mesozooplancton (copepodi). Si credeva che la biomassa fotosintetizzata fluisse attraverso la rete trofica classica ai livelli trofici superiori. In questo schema gli organismi microfitoplanctonici erano i soli responsabili della produzione primaria e non era stato del tutto considerato che la perdita di materia organica potesse rappresentare il substrato per la degradazione batterica (Azam, 1998). In questo caso i batteri non avevano un ruolo essenziale. Da quel momento si sono molto approfonditi gli studi sui processi biogeochimici che avvengono negli oceani e questo ha portato ad una nuova idea di rete trofica marina grazie alla scoperta dell’esistenza di un enorme numero di microrganismi dalle dimensioni comprese fra 0.02 e 0.2 µm che includono virus e batteri sia autotrofi che eterotrofi (Pomeroy, 1974; Azam et al., 1983; Rassoulzadegan, 1993;
Legendre & Rassoulzadegan, 1995; Fonda Umani, 2000).
La nuova tecnica di microscopia ad epifluorescenza proposta da Daley e Hobbies nel 1975 ha notevolmente aumentato l’interesse per lo studio dei batteri marini. Questo metodo di analisi permette di distinguere tra organismi autotrofi, sulla base della fluorescenza naturale dei pigmenti fotosintetici (Waterbury et al., 1979) ed organismi eterotrofi riconoscibili grazie ad una nuova tecnica di colorazione. La capacità di contare le cellule microbiche e distinguerle in componente autotrofa ed eterotrofa ha permesso di fare una stima generale delle abbondanze che va da 107-109 ind L-1 per la componente eterotrofa e 105-108 ind L-1 per la componente autotrofa partendo da ambienti marini eutrofici fino ad arrivare ad ambienti oligotrofici.
Si specula che una componente così abbondante possa avere un ruolo determinante per il flusso di energia nell’ecosistema marino (Pomeroy, 1974). I procarioti sono infatti gli unici organismi in grado di utilizzare la materia organica disciolta (DOM) e trasformarla in biomassa utilizzabile dai predatori (Azam et al., 1983). I batteri non solo utilizzano il DOM ma sono anche in grado di degradare la materia organica particellata (POM). Viene così introdotto il concetto di circuito microbico o “microbical loop” (Azam et al., 1983) che comprende le interazioni trofiche tra il pico-nano e microplancton partendo da considerazioni quantitative: la più alta percentuale di carbonio organico in mare si trova in fase disciolta.
L’origine del DOC può essere molto diversa: essudazione microalgale (William, 1990; Alledredge et al., 1993), perdita di materia cellulare durante i processi di predazione
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(Fuhrman & Shuttle, 1993; Fuhrman & Noble, 1995), degradazione di pallottole fecali
“faecal pellets” prodotte dallo zooplancton (Honjio & Roman, 1978), e da processi di escrezione.
Su questo substrato agiscono i batteri utilizzandolo e trasformandolo in propria biomassa. Tale biomassa viene predata dal nanoplancton eterotrofo, il quale a sua volta è predato dal microzooplancton. Tutti questi organismi restituiscono all’ambiente carbonio inorganico sotto forma di CO2 attraverso la respirazione e materiale organico disciolto (DOC) e quindi il “loop” si chiude. Il nanoplancton può predare sui batteri autotrofi ed eterotrofi ma può predare anche piccole cellule eucarioti mentre il microzooplancton può utilizzare come fonte di energia sia la frazione autotrofa che quella eterotrofa del picoplancton e del nano plancton (fig.1.3).
Fig. 1.3 Rappresentazione delle tre reti trofiche: microbial loop, rete trofica microbica, rete del pascolo.
Si può avere la percezione che una rete trofica (classica) escluda l’altra ( microbica)
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immediatamente respirata o trasformata in prodotti di escrezione quali faecal pellets piccole e galleggianti utilizzate in superficie con ulteriore rilascio di CO2. Se prevale la catena classica invece, i consumatori di ordine superiore immobilizzano nella loro biomassa una parte del carbonio organico per tempi maggiori producendo faecal pellets più pesanti che possono sedimentare al di sotto della zona fotica, fino ad arrivare sul fondo.
Fig.1.4 Ciclo del carbonio oceanico. La pompa biologica (sinistra) controllata dalla rete trofica marina e la pompa di solubilità (destra) regolata da processi fisici e chimici (Chisholm, 2000)
Il ruolo che i batteri giocano nell’ambiente marini è fondamentale sotto molteplici aspetti: basti pensare alla loro importanza nel ciclo globale del carbonio e quindi allo scambio di CO2 tra oceano e atmosfera nel contesto generale dell’incremento di tale gas e dei suoi possibili effetti sul riscaldamento del pianeta. Nell’oceano sono state identificate tre diversi tipi di “pompe” di CO2 (Volk and Hoffert, 1985): la pompa fisica legata alla solubilità della CO2 all’interfaccia atmosfera-oceano, attiva nelle zone di formazione delle acque dense; la pompa biologica dei carbonati, legata alla sedimentazione di organismi con gusci calcarei e la pompa biologica dei tessuti molli (soft-tissue-pump) nota come la pompa biologica della CO2 (fig.1.4).
Il carbonio biogenico negli oceani viene classificato in base al suo tempo di turn over definito come il tempo che intercorre tra la fissazione del carbonio per via fotosintetica e il suo rilascio in atmosfera (Legendre and LeFevre, 1992). Si distinguono 3
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(short lived carbon >10-2 anni), costituito da organismi ad alto tasso di turn over e dal carbonio organico disciolto labile. Il carbonio organico a vita lunga (long-lived carbon 10-
2-102 anni) e il carbonio biogenico sequestrato (>102 anni), che comprende i resti organici seppelliti nei sedimenti, la sostanza organica refrattaria e la CO2 disciolta nelle acque profonde derivata dai processi di ossidazione (respirazione) in situ dei composti organici.
La produzione primaria può, come abbiamo visto, essere respirata nella zona eufotica, veicolata verso gli organismi di maggiori dimensioni o verso gli strati profondi dell’oceano. La catena classica del pascolo è caratteristica di zone ad alta energia, sia in termini idrodinamici che in termini di concentrazione di nutrienti come in aree costiere o di upwelling dove si verificano fioriture di diatomee (Kiorbe, 1996). La catena microbica è invece tipica di zone a bassa energia, con scarso apporto di nutrienti dove il carbonio viene fotosintetizzato dai produttori primari ed essenzialmente utilizzato e respirato in zona fotica (Kiorbe, 1996).
1.1.5 Il Mar Mediterraneo e la fosforo limitazione
Il Mediterraneo è da sempre considerato uno dei mari più oligotrofici del mondo e dagli studi più recenti sembra essere quasi sempre in condizioni di fosforo limitazione. Per questo ambiente Thingstad e Rassoulzadegan (1995) hanno messo a punto un semplice modello basandosi su numerose osservazioni precedenti relative all’esistenza di una fosforo limitazione sia per il fitoplancton che per i batteri; elevate concentrazioni superficiali di organico disciolto (DOP e DOC) con gradienti decrescenti verso il fondo;
scarsa degradazione del DOC da parte dei batteri a causa della fosforo limitazione e della predazione insieme; regolazione del ciclo di rigenerazione del fosforo da parte degli organismi di taglia minore e particolarmente dei batteri.
Tre sono le potenziali classi di utilizzatori di fosforo inorganico: i batteri, i piccoli autotrofi (flagellati) e le diatomee. A seconda della maggiore o minore disponibilità di DOC (labile) da un lato e di silice organica dall’altro, l’incorporazione del fosforo inorganico sarà più efficiente da parte di uno dei comparti di fissatori. Ad alte
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Scarsi apporti di fosforo inorganico e sufficiente disponibilità di DOC labile favoriranno la catena microbica in zone più stabili ed oligotrofiche. La predazione giocherà il suo ruolo in egual misura: abbondanti biomassa di eteronanoflagellati controlleranno efficacemente le biomassa di batteri e favoriranno l’assunzione di fosforo da parte di nanoflagellati autotrofi; consistenti biomassa di ciliati controlleranno efficacemente sia il nanoplancton autotrofo che eterotrofo diminuendo la pressione di grazing di quest’ultimo sui batteri, i quali saranno più efficienti nell’assunzione di fosforo: la presenza massiccia di predatori di ordine superiore (copepodi) infine abbasserà via predazione il numero di diatomee ma anche di ciliati spostando nuovamente l’equilibrio a favore del nanoplancton ((Fonda Umani, 2000).
1.1.6 Il Microzooplancton
Il termine zooplancton fu coniato da Hensen (1887) e comprende tutti quegli organismi galleggianti nell’acqua le cui abilità locomotorie sono insufficienti a contrastare l’andamento delle correnti.
Lo zooplancton è distinto dal fitoplancton in base alle modalità di nutrizione eterotrofa o autotrofa. Lo zooplancton è definito come l’insieme degli organismi fagotrofi in accordo con le loro preferenze alimentari che possono essere classificati in erbivori, detritivori, onnivori o carnivori.
Il microzooplancton è composto da organismi di taglia compresa fra 10 – 20 (a seconda della classificazione utilizzata) a 200 µm: molti protisti come ciliati, dinoflagellati, foraminiferi, acantari ed i primi stadi larvali di molti metazoi chiamati solitamente micrometazoi. Il plancton eterotrofo include anche i batteri osmotrofi. Comunemente tra i flagellati si trovano anche forme mixotrofe, una combinazione di autotrofi ed eterotrofi, e si possono trovare anche in alcuni phyla di metazoi (cnidaria e molluschi). Il plancton marino comprende un’ampia varietà di organismi. Per distinguere le varie componenti del plancton, Sieburth et al. (1978) hanno proposto un ordinamento basato sulla classe dimensionale, al cui interno si identificano organismi con modalità trofiche diverse (autotrofi, eterotrofi, mixotrofi). Il plancton viene così dimensionalmente distinto (tab.1.1);
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Plancton Dimensione Organismi FEMTOPLANCTON 0.02-0.2 µm Virus,Batteri
PICOPLANCTON 0.2-2 µm Batteri, Cianobatteri, Proclorofite
NANOPLANCTON 2-10 µm
Fitoflagellati,
Coanoflagellati,Dinoflagellati, Ciliati, MICROPLANCTON 10-200 µm
Diatomee, Tintinnidi, Dinoflagellati, Radiolari, Ciliati, larve e uova di Metazoi
MESOPLANCTON 0.2-20 mm Crostacei (Copepodi, Eufasiacei, Cladoceri)
MACROPLANCTON 2-20 cm Meduse
MEGAPLANCTON 20-200 cm Meduse, colonie di Tunicati
Tab.1.1 Suddivisione dimensionale del plancton
1.1.7 Ruolo trofico del microzooplancton
Negli ultimi decenni sono stati condotti studi sul microzooplancton relativi non solo agli aspetti morfologici e sistematici, ma anche a quelli biochimici ed ecologici, allo scopo di valutarne la rilevanza nella rete trofica marina. Più esattamente si è approfondito il ruolo dei popolamenti microzooplanctonici nei trasferimenti energetici dai produttori primari ai successivi anelli della rete trofica (Margalef, 1963; Montagnes et al., 1988; Epstein et al., 1992, Stoeker & Capuzzo, 1990).
In particolare, l’interesse per questi organismi è aumentato dagli inizi degli anni
’80, da quando il concetto di rete trofica marina è cambiato passando dalla classica catena alimentare della predazione (Azam 1998) ad una più complessa rete alimentare mistivora, dove il micobial loop o rete microbica gioca un ruolo importante (Azam et al., 1983). La rete trofica del pascolo prevedeva come produttori primari soltanto gli organismi microfitoplanctonici, (diatomee, dinoflagellati autotrofi, coccolitoforidi, ecc). Il maggior trasferitore di biomassa in queste reti era il mesozooplancton, gruppo di organismi tra cui si trovano piccoli crostacei planctonici come i copepodi, che peraltro sono il gruppo di metazoi più numeroso di tutto il pianeta. L’introduzione del concetto di “microbial loop”
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catena del pascolo come predatore del fitoplancton di cui è capace di consumare anche il 100% della produzione giornaliera (Goldman,1984; Calbet & Landry, 2004). Inoltre, costituisce il principale veicolo di trasferimento energetico dalla rete microbica a quella del pascolo, in quanto a sua volta viene attivamente predato dal mesozooplancton (copepodi, e larve di pesci) (Fonda Umani & Zanon 2000; Fonda Umani et al., 2005).
Nonostante l’ormai riconosciuta importanza di questa frazione planctonica non si è ancora messo a punto un protocollo unico di campionamento, conseguentemente il confronto tra dati di origine diversa deve essere affrontato con grande cautela considerando le modalità di campionamento adottate.
L’abbondanza della comunità microplanctonica è regolata dalla presenza di risorse ambientali come l’abbondanza delle prede (Heinbokel & Beers, 1979; Fenchel 1980b;
Verity 1985; Jonsson 1986; Rassoulzadegan et al., 1988; Hansen 1991; Hansen et al., 1994) e dalla pressione di grazing derivante dai livelli trofici superiori esercitata dai crostacei (Stoeker & Egloff 1987; Stoeker & Capuzzo, 1990; Gifford, 1991; Kivi et al., 1996).
I ciliati loricati o tintinnidi sono uno dei gruppi più abbondanti che può rappresentare anche il 50% dell’abbondanza microzooplanctonica (Dolan et al., 2009;
Fonda Umani et al., 2005) e sono peraltro gli organismi ideali per lo studio della struttura o della composizione della comunità microzooplanctonica (Thompson et al., 1999). I ciliati loricati sono caratterizzati dall’avere uno specifico rivestimento detto appunto lorica (Dolan et al., 2005) sul quale è basata la classificazione. Sono facilmente identificabili al microscopio grazie alla presenza della lorica che ha forme ben definite (Pierce & Turner 1993; Thompson & Adler, 2005; Dolan et al., 2005, 2007).
I ciliati planctonici sono considerati predatori di particellato sospeso catturato con il movimento delle ciglia (Fenchel, 1980). I ciliati non predano in maniera indiscriminata, ma selettivamente discriminando il tipo di preda in base una varietà di meccanismi tra i quali anche l’uso di chemiosensori (Fenchel, 1980). I tintinnidi sono inoltre in grado di ingerire prede di dimensioni superiori del 40-45% rispetto il diametro orale (Spittler, 1973).
I dinoflagellati rappresentano un gruppo piuttosto eterogeneo con più di 2000 specie descritte. Una gran parte di queste specie sono mixotrofe, e sebbene dotati di cloroplasti possono anche comportarsi da eterotrofi (Stoeker, 1999). I dinoflagellati presentano due flagelli che permettono loro di muoversi attivamente, tanto che la loro velocità nel nuoto è maggior di quella delle loro prede. Le forme eterotrofe presentano tre modalità di
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preda ed emissione di un imbuto che aspira il contenuto della preda (Hansen & Calado, 1999).
I mixotrofi sono prevalentemente organismi unicellulari (dinoflagellati, primnesioficee, ciliati) che in primis hanno la capacità di fotosintetizzare ma al tempo stesso possono nutrirsi in modo eterotrofo. Questa caratteristica viene usata per rinnovare le riserve di carbonio cellulare, macronutrienti e amminoacidi (Stoecker & Gustafson 2003). Sono presumibilmente i fattori e le condizioni ambientali quali luce, nutrienti e disponibilità di prede che modulano le varie modalità di predazione. Mentre per alcuni taxa sembra che i mixotrofi siano associati ad ambienti oligotrofici, i protisti mixotrofi sembrano essere abbondanti in ambienti eutrofici (Stoeker, 1998).
A partire dal concetto di rete microbica introdotto da Azam (Azam et al. 1983, Pomeroy, 1974), il microzooplancton ha assunto un ruolo fondamentale nel trasferimento dell’energia dai livelli trofici inferiori (rete microbica) alla rete del pascolo.
Il microzooplancton cresce alla stessa velocità delle cellule fitoplanctoniche e può facilmente adattarsi alle variazioni delle disponibilità di cibo. Fa parte della dieta dei grandi predatori come i copepodi (Kleppel, 1993; Roman & Gauzens, 1997; Calbet &
Landry, 1999 Roman et al., 2000; Rollwagen Bollens & Perny, 2003; Calbet & Saiz, 2005;
Irigoien et al., 2005; Liu et al., 2005), può allo stesso tempo essere preda e competere con i consumatori di livello superiore nella rete mistivora (Rassoluzadegan, 1993). Quando disponibile, il microzooplancton e specialmente i ciliati sono selettivamente predati dal mesozooplancton (Wiadnyana & Rassoulzadegan, 1989; Stoecker & Capuzzo, 1990;
Verità & Paffenhofer, 1996; Roman et al., 2000; Rollwagen Bollens & Penry, 2003; Calbet
& Saiz, 2005; Liu et al., 2005).
Nonostante l’importanza di questa frazione non c’e’ ancora una modalità unica di campionamento (retino o bottiglia), e non c’e’ accordo tra i ricercatori sul volume più adeguato di campione, sul fissativo più idoneo (e le relative concentrazioni) (Choi &
Stoecker, 1989; Sherr & Sherr, 1993; Leakey et al., 1994; Stoecker et al., 1994 Gifford &
Caron, 2000; Zinabu & Bott, 2000; Karayanni et al., 2004; Modigh & Castaldo, 2005).
Conseguentemente ogni confronto quantitativo con altri dati deve essere considerato con cautela in considerazione al protocollo utilizzato.
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sull’importanza ecologica, ma bisogna arrivare ai primi anni ’90 perché i dinoflagellati vengano presi in considerazione.
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1.2. SCOPO DEL LAVORO
Lo scopo della tesi è stato quello di quantificare il flusso ci carbonio attraverso la comunità microbica valutato attraverso la stima della predazione esercitata dal microzooplancton sulla comunità microbica. Determinare sia le prede che i predatori dal punto di vista arrivando al genere e specie (quando possibile).Lo scopo è stato anche quello di verificare l’eventuale predazione selettiva esercitata dalla comunità eterotrofa, l’analisi dei “black box” studiando gli effetti sinergici ed antagonisti della predazione esercitata dal microzooplancton e dai nanoflagellati sul picoplancton eterotrofo.
Quantificare il tasso specifico di crescita dei predatori rappresentati dal microzooplancton dopo un periodo di incubazione (produzione secondaria).
Comparare la composizione e la distribuzione spaziale del microzooplancton raccolto e conservato con tre diverse tecniche di campionamento.
Questo lavoro di tesi si inserisce all’interno del progetto V.E.C.T.O.R.
(Vulnerability of the coasts and of the Italian marine ecosystems to climate change and their role in the Mediterranean carbon cycles) che ha come scopo quello di approfondire le conoscenze relative all’impatto esercitato dai cambiamenti climatici globali sull’ambiente marino Mediterraneo, focalizzando l’attenzione sui processi fisici e biogeochimici delle masse d’acqua. Si prefigge anche l’obiettivo di studiare il ruolo attivo esercitato dal bacino del Mediterraneo nel ciclo globale del carbonio cercando di capire se il bacino del Mediterraneo si comporta da produzione (source) o deposito (sink) di CO2.
Il Mediterraneo- Materiali e Metodi
1.3. MATERIALI E METODI
1.3.1 Area di studio
Fig.1.5Stazioni di campionamento (V6, V7, V10, Viera)
I campioni di acqua di mare analizzati in questa tesi di dottorato sono stati raccolti durante la “Transmediterranean cruise” all’interno del progetto V.E.C.T.O.R.
(VulnErabilità delle Coste e degli ecosisTemi marini italiani ai cambiamenti climatici e loro ruOlo nei cicli del caRbonio mediterraneo) svoltasi dal 13 al 27 giugno 2007 nel Mediterraneo orientale. La crociera oceanografica si è svolta a bordo della Nave oceanografica N/O Universitas.
L’acqua di mare è stata campionata in 5 stazioni del Mediterraneo orientale (fig.1.5). Condizioni meteorologiche avverse si sono presentate a sud di Creta tali da bloccare ogni attività per più di 48 ore. Condizioni di mare non affrontabili hanno inoltre impedito di raggiungere la stazione V9 che è stata sostituita con una stazione posta a 40 miglia a sud di Creta in corrispondenza del vortice di Ierapetra: la stazione è stata chiamata Viera.
I campioni di acqua di mare superficiale sono stati raccolti in 4 stazioni (V6, V7, V10, Viera) . Nella tabella 1.2 sono riportate le date e le coordinate di campionamento.
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Tab. 1.2 Date, longitudine e latitudine, delle stazioni campionate
1.3.2 Variabili ambientali
Parametri idrologici
:
temperatura (°C) e salinità sono stati raccolti con una sonda multiparametrica provvista di sensore per la temperatura, conducibilità ossigeno, fluorescenza, transmittanza, pH, equipaggiata con 24 bottiglie Niskin da 12 litri ciascuna.Parametri biogeochimici: ossigeno disciolto (AOU Wink.) nutrienti inorganici (NO3, NO2 SiO2, PO4) così come il fosforo e l’azoto organico disciolti (TDP e TDN), usati per la caratterizzazione della colonna d’acqua. I campioni per le analisi sono stati raccolti a quote discrete mediante bottiglie Niskin montate sulla rosette.
L’ossigeno disciolto è stato analizzato a bordo con il metodo Winkler, mentre i nutrienti inorganici disciolti (nitriti, nitrati, fosfati e silicati) sono stati campionati e mantenuti a -20°C fino all’analisi condotta presso il laboratorio CNR-ISMAR di Trieste.
Produzione primaria: è stata misurata in situ lungo la colonna d’acqua utilizzando radioisotopi in modo da stimare il tasso di produzione di carbonio. La clorofilla a è stata campionata con un’analoga procedura utilizzata per la produzione primaria: sono stati raccolti 5L di acqua allo scopo di calcolare i rapporti Produzione/Biomassa.
Data Stazione Longitudine Latitudine
14/06/2007 V6 17°59.980' E 38°29.720' N
10/06/2007 V7 20°52.500' E 35°08.120 N
24/06/2007 Viera 26°05.200' E 34°24.690 N
23/06/2007 V10 28°19.390 E 35°57.190 N
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Stazioni V6 V7 V10 Viera
14/06/2007 16/06/2007 23/06/2007 24/06/2007
Temperatura °C 22.66 22.49 24.33 23.40
Salinità 38 38.73 39.36 39.27
Tot. Chl a(µg L-1) 0.059 0.046 0.057 0.035
PP (µgCL-1 h-1) 0.44 0.27 0.51 0.33
AOU Wink. µM-O2 -12.14 -4.81 -6.37 -12.53
NO3 µM-N 0.78 0.07 0.18 0.09
NO2 µM-N 0.13 0.03 0.02 0.02
SiO2 µM-Si 0.77 1.01 0.85 1.15
PO4 µM-P 0.12 0.01 0.02 0.01
Longitudine 17°59.980' E 20°52.500' E 26°05.200' E 28°19.390 E Latitudine 38°29.720' N 35°08.120 N 34°24.690 N 35° 57.190 N
Profondità (m) 5 5 5 5
Tab. 1.3 Variabili ambientali registrate durante il campionamento
1.3.3 Il metodo delle diluizioni
La maggior difficoltà riscontrata nel misurare il tasso di predazione del microzooplancton in situ, risiede nel fatto che separare i predatori (microzooplancton) dalle loro prede (microfitoplancton, nanoplancton e picoplancton) è impossibile, a causa delle loro equiparabili dimensioni. Per valutare l’efficienza della predazione si utilizza ormai come protocollo standard il metodo delle diluizioni proposto da Landry e Hassett (1982), successivamente modificato da Landry et al. (1995) e Gallegos (1989) e ulteriormente adattato per stimare anche la predazione del nanoplancton eterotrofo sul picoplancton. Il metodo classico delle diluizioni si limita a stimare l’impatto del microzooplancton sulla frazione autotrofa, valutando le differenze tra i valori di clorofilla. Altri ricercatori hanno utilizzato analisi con l’HPLC per valutare la predazione in base a pigmenti specifici (Strom et al., 1991; McManus et al., 1992; Verity et al., 1993; Waterhouse et al., 1995; Latasa et al., 1997; Schlüter, 1998) così come è stata utilizzata la citofluorimetria (Reckermann et al., 1997; Kuipers et al., 1999; Stelfox-Widdicombe et al., 2000; Aberle et al., 2007).
Per valutare l’efficienza della predazione a livello specifico si devono analizzare i campioni al microscopio ottico rovesciato me se si vogliono avere informazioni relativamente alla predazione sulla frazione eterotrofa (nano e picoplanctonica) i campioni
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(Landry et al., 1984; Campbell et al., 1986; Caron et al., 1991; Landry et al., 1993; Verity et al., 1993; 1996; Ayukai, 1996; Nejstgaard et al., 1997; James and Hall; 1998; Lessard &
Murrel, 1996; Caron et al., 2000; Fonda Umani & Zanon, 2000; Fonda Umani & Beran, 2003; Fonda Umani et al., 2004; 2005; Sakka Hlaili et al., 2007). A tutt’oggi in poche ricerche si è tenuto nel dovuto conto lo studio della composizione dei predatori (microzoo- e nanoplanctonici) e della loro possibile crescita durante l’esperimento (Gifford, 1995;
Paranjape, 1990; Verity et al., 1993; Froneman & Perissinotto, 1996, Froneman et al., 1996; Strom & Strom, 1996; James & Hall, 1998; Dolan et al., 2000; Fonda Umani &
Beran, 2003), anche se è di fondamentale importanza controllare i possibili cambiamenti quali e quantitativi durante l’esperimento.
A differenza di altri metodi proposti, quali ad esempio l’uso di prede fluorescenti, particolarmente utilizzato per lo studio dell’impatto dei batterivori (Sherr et al., 1986), il metodo delle diluizioni, estremamente semplice, non prevede alcuna manipolazione degli organismi e consente di ottenere sia il tasso specifico di crescita delle prede (microfitoplancton, nanoplancton, picoplancton) sia quello di mortalità indotta da predazione degli organismi eterotrofi (Båmstedt et al., 2000). Successive diluizioni dell’acqua di mare con la stessa acqua filtrata su 0.22 µm, allo scopo di eliminare ogni organismo presente, riducono le probabilità d’incontro tra preda e predatore e consentono di stimare il tasso apparente di crescita delle prede e il tasso mortalità dovuta a predazione.
Il tasso specifico di crescita delle prede si ottiene estrapolando la crescita apparente al 100% di diluizione (cioè il tasso di crescita in mancanza di predatori); il tasso di mortalità da predazione degli eterotrofi corrisponde al valore assoluto dell’angolo della retta di regressione tra la crescita apparente delle prede e le frazioni di acqua non filtrata.
Il metodo si basa su tre presupposti:
1- Il tasso di predazione è costante, indipendentemente dalla concentrazione delle prede e di conseguenza il popolamento dei consumatori non varia durante l’incubazione (Evans & Paranjape, 1992);
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3- Il tasso di predazione è linearmente correlato con le diverse concentrazioni delle prede.
Il tasso di crescita delle prede può essere descritto dalla seguente equazione
Ct= C0e(k-g)t
che può anche essere scritta:
(1/t)ln(Ct /C0)= k-g
dove:
Ct = numero di individui o biomassa totale al tempo t soggetti a crescita e predazione al tempo t
C0= numero di individui o biomassa totale al t0 k= coefficiente istantaneo di crescita delle prede
g= coefficiente istantaneo di mortalità delle prede, dovuto alla predazione
t= tempo di incubazione, in genere 24 ore per comprendere il ciclo giornaliero completo.
Il termine k, dato dal primo postulato non viene influenzato dalle diluizioni, ma rimane costante. Il coefficiente g, in accordo con il secondo postulato, varia in modo direttamente proporzionale alla densità dei predatori, risultando quindi indipendente dalle variazioni della densità delle prede. k e g possono variare senza modificare il tasso di crescita delle prede in condizioni naturali nelle differenti diluizioni.
Dal momento che k è costante e g è direttamente proporzionale alla diluizione, le equazioni con le due incognite k e g possono essere risolte graficamente con una retta di regressione relativa alla crescita apparente contro il fattore diluizione (fig.1.6).
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Fig.1.6 Rappresentazione grafica del modello di regressione lineare
I coefficienti di crescita apparente, (1/t)ln(Ct /C0), sono riportati in ordinata, mentre in ascissa vengono riportati i fattori di diluizione.
L’intercetta della retta con l’asse y, ossia il punto dove g=0, rappresenta il coefficiente di crescita istantaneo k in assenza di predatori; la pendenza della retta rappresenta invece il valore negativo del coefficiente istantaneo di mortalità dovuta alla predazione , -g.
Conoscendo la concentrazione delle prede all’inizio dell’esperimento (C0), il coefficiente istantaneo di crescita delle prede (k) ed il coefficiente di mortalità da predazione (g) è possibile ricavare un altro utile parametro, il tasso di ingestione (I), identificato con la quantità di prede eliminate dai predatori nell’unità di tempo (t) e di volume.
Innanzitutto si calcola la concentrazione media delle prede <C> nel corso dell’esperimento, mediante l’equazione:
<C>= (C0e(k-g)t- C0)/(k-g)
E poi si procede al calcolo del tasso di ingestione (µgCl-1g-1):
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La produzione reale (Pr) rappresenta la quantità di biomassa (µgCl-1) prodotta dal popolamento delle prede in presenza del predatore durante l’esperimento:
Pr = C0e(k-g)- C0
La produzione potenziale (Pp), invece è la quantità di biomassa (µgCl-1) che avrebbe potuto essere prodotta dal popolamento in assenza del predatore:
Pp= C0 ek- C0
La produzione potenziale rimossa dalla predazione (PP%) rappresenta l’incidenza della predazione sulla produzione potenziale:
PP% = [(Pp-Pr)/Pp] *100
Inoltre, è possibile calcolare la biomassa iniziale rimossa dalla predazione (SP%):
SP%= [(Pp-Pr)/(Pr+C0)] *100
1.3.4 Campionamento
Lo scopo principale di questo lavoro è stato quello studiare, applicando il metodo delle diluizioni, la predazione da parte del microzooplancton sul comparto nano e picoplanctonico. Si è voluto anche studiare la distribuzione del microzooplancton lungo il transetto del mediterraneo orientale.
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Fig.1.7 Rosette con bottiglie Niskin
Gli esperimenti di campionamento sono stati condotti a bordo della nave oceanografica Universitas. Il campionamento di acqua di mare superficiale è stato condotto utilizzando una rosette con 24 bottiglie Niskin da 12 L cad. (fig.1.7). Sono stati raccolti circa 100 L d’acqua per ogni stazione campionata. Allo scopo di eliminare gli eventuali predatori di taglia superiore, l’acqua è stata immediatamente filtrata con retino a maglia 200µm. Un’aliquota della stessa acqua è stata filtrata con pompa peristaltica (fig.1.8) e filtro da 0.22 µm allo scopo di ottenere acqua pura, priva di qualsiasi organismo utilizzata per l’allestimento delle diluizioni.
Fig.1.8 Pompa peristaltica per la filtrazione
Le operazioni di filtrazione sono state condotte con molta attenzione per evitare il danneggiamento delle cellule con conseguente alterazione dei risultati dell’esperimento.
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incubazione e 12 bottiglie in plastica per il C0) per il microplancton ed altre 24 bottiglie per il nano ed il picoplancton (da 250 ml e da 50 ml ciascuna).
I campioni iniziali al C0 sono stati immediatamente fissati con formalina al 2% e mantenuti al freddo (5°C) e al buio. Solo per la frazione picoplanctonica la formalina è stata prefiltrata con un filtro a siringa Acrodisc per eliminare ogni possibile impurità. I campioni di nanoplancton (C0 e C24) sono stati conservati in gluteraldeide all’1% (Sherr &
Sherr, 1993).
Considerata l’elevata oligotrofia del bacino del Mediterraneo orientale, ed allo scopo di favorire la crescita del fitoplancton durante il periodo di incubazione, sono stati aggiunti i seguenti nutrienti: 5 µM NaNO3 e 1 µM KH2PO4 rispettivamente. Allo scopo di mantenere le condizioni ambientali costanti si è provveduto ad incubare i campioni in un incubatore alle stesse condizioni di luce e di temperatura dell’ambiente naturale (fig.1.9).
Fig.1.9 Incubazione delle bottiglie in situ
1.3.5 Distribuzione del microzooplancton
E’ stata condotta anche un’analisi relativa alla distribuzione e composizione del popolamento microzooplanctonico lungo il transetto ovest – est del bacino del Mediterraneo, raccogliendo 5 L di acqua superficiale con le bottiglie Niskin. Di questi 300 ml venivano messi in bottiglie di vetro e fissate con Lugol al 2%, mentre l’acqua rimanente veniva immediatamente filtrata con filtro a 10µm con filtrazione inversa. I campioni concentrati sono stati messi in bottiglie da 250 ml, fissati con formalina al 2%, conservati al buio e al freddo (5°C). Il Lugol e la formalina sono i fissativi più comunemente usati per
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conservare al meglio i ciliati. Questa doppia fissazione è stata effettuata per comparare gli effetti dei due fissativi, cercando di evidenziarne i vantaggi e gli svantaggi.
1.3.6 Analisi quali-quantitativa
L’analisi quali-quantitativa dei campioni è stata condotta nei laboratori del Dipartimento di Scienza della Vita presso l’Università di Trieste con la supervisione della prof.ssa Serena Fonda Umani.
a) Picoplancton
I campioni di picoplancton conservati in formalina prefiltrata al 2% sono stati filtrati con pompa di filtrazione che produce una depressione tra 0.2-0.3 atm, utilizzando un sottofiltro nero in policarbonato (NTG) da 0.2 µm sul quale è stato sovrapposto un filtro in cellulosa da 0.4 µm (Millipore) (fig.1.10).
Fig.1.10 Rampa di filtrazione
L’analisi dei campioni è stata fatta seguendo la modifica del metodo di Porter e Feig (1980). La componente eterotrofa è stata colorata al buio con DAPI (4’6 – diamidio - 2- phenylindole) per 15 minuti ad una concentrazione finale di 1µg mL-1. La molecola del
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La componente autotrofa è stata filtrata separatamente con volumi maggiori ed osservata al microscopio ad epifluorescenza.
Il picoplancton eterotrofo è stato filtrato in 9 repliche mentre per la componente autotrofa sono state filtrate 3 repliche. I filtri sono stati mantenuti al buio alla temperatura di -20° C fino all’analisi dei campioni. Al momento dell’analisi i filtri sono stati posizionati sul vetrino portaoggetti tra due gocce di olio da immersione e coperti con un vetrino coprioggetti.
Fig.1.11 Picoplancton eterotrofo (sx) ed aurotrofo visto all’epifluorescenza (dx)
Il conteggio del picoplancton è stato condotto con un microscopio ad epifluoresenza Olympus BX60 F5 con lampada a mercurio 100W con obiettivo ad immersione 100X (fig.1.12)
Fig.1.12 Microscopio ad epifluorescenza
L’abbondanza della frazione autotrofa è stata conteggiata usando la luce blu (λ=
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utilizzata la luce UV (λ=365 nm) e sono state contate almeno 200 cellule per campo. Il numero di cellule contate, sia per la componente eterotrofa che per quella autotrofa è stato convertito in biomassa di carbonio usando un fattore di conversione di 20 fg C cell-1 (Ducklow & Carlson, 1992) e 200 fgC cell-1 (Caron et al., 1991) rispettivamente.
b) Nanoplancton
I campioni per la determinazione quantitativa del nanoplancton sono stati fissati con gluteraldeide fino ad ottenere una concentrazione finale dell’1% (Verity et al., 1993) e conservati in frigorifero. Successivamente in laboratorio l’acqua è stata filtrata in 3 repliche per ciascuna quota di diluizione (100%, 80%, 50%, 20%) utilizzando sottofiltri Millipore da 1.2 µm di porosità per uniformare la filtrazione e filtri in policarbonato NTG black 0.8 µm di porosità. Prima di procedere alla filtrazione i campioni sono stati colorati con una soluzione di fluorocromo DAPI (4’-6-diamino-2-fenilindolo) con concentrazione finale di 1µ g mL-1 lasciata agire per circa 15’. I filtri sono stati mantenuti a – 20°C fino al momento dell’analisi al microscopio.
Fig.1.13 Nanoplancton al microscopio ad epifluorescenza
Al momento dell’analisi i filtri sono stati posizionati sul vetrino portaoggetto tra due gocce di olio da immersione e coperti con un vetrino portaoggetti. I conteggio sono
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1993), mentre le cellule degli autotrofi si distinguono per la presenza al loro interno dei cloroplasti di colore rosso-arancione dovuto all’autofluorescenza della clorofilla (fig.1.13).
La componente autotrofa non era distinguibile dalla componente eterotrofa, fatto questo probabilmente dovuto alla perdita della fluorescenza della chl a quindi il nanoplancton è stato conteggiato suddividendolo in 3 classi dimensionali: < 3 µm, 3-5- µm, >5 µm. La frazione compresa tra 10-20µm che normalmente appartiene al nanoplancton, in questo caso è stata analizzata al microscopio invertito utilizzando la tecnica di conteggio applicata per il microplancton allo scopo di effettuare una corretta distinzione degli organismi con dimensioni < di 20 µm. Per il nanoplancton sono state contate almeno 100 cellule per filtro. Il numero di cellule litro è stato poi convertito in biomassa di carbonio utilizzando il fattore di conversione di 183 fg C µm-3 (Caron et al., 1995).
c) Microplancton
I campioni per la determinazione del microzoo e microfitoplancton sono stati conservati in formalina al 2% e mantenuti al freddo (5°C) e al buio fino al momento dell’analisi in laboratorio. I campioni sono stati preconcentrati da un volume iniziale di 2 L a circa 200 ml. Di questi, 100 ml sono stati messi a sedimentare per 72 ore (3 ore per cm di altezza) in apposite colonnine di sedimentazione secondo il metodo Uthermöhl (1958) (fig.1.14). L’analisi quali-quantitativa dei comparti microplanctonici è avvenuta al microscopio
rovesciato Labovert utilizzando un obiettivo a 32 ingrandimenti. I campioni sono stati conteggiati in 3 repliche al T0 e al T24. Il conteggio della componente eterotrofa è stato effettuato sull’intera cameretta (fig.1.15).
Fig.1.14 Colonnina di sedimentazione
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Fig.1.15 Cameretta di sedimentazione e microscopio rovesciato Labovert
I tintinnidi sono stati determinati in base alla forma e dimensione della lorica in accordo con Kofoid e Campbell (1929, 1939) e Marshall (1973); i ciliati aloricati, foraminiferi, radiolari e acantari, sono stati determinati seguendo le descrizioni di Neudruck Asher et al., (1929). L’identificazione delle larve di metazoi e dei naupli di copepodi è stata fatta in accordo con Trègouboff e Rose (1957). Gli altri piccoli flagellati sono stati riconosciuti secondo Throndsen (1997) mentre i coccolitoforali secondo Heimdal (1997). Il termine nanociliati descrive i ciliati < 20 µm (Pitta et al., 2001). Il numero di individui conteggiato è stato poi convertito in cellule litro e biomassa di carbonio determinando prima i biovolumi associando gli organismi a formule geometriche standard (Edler, 1979) poi il biovolume è stato convertito in contenuto di carbonio usando specifici fattori di conversione disponibili in letteratura (tab.1.4).
Microplancton
Fattore di
conversione Bibliografia
Ciliati aloricati 0.14 Putt & Stoeker, 1989 Nanociliati, Dinoflagellati <
20µm, Coccolitoforali,
Foraminiferi < 50 µm 0.183 Caron et al., 1995a Ciliati loricati: Tintinnidi 444.5+(bv*0.053) Verity & Langdon, 1984 Dinoflagellati atecati 0.13 Lessard, non pubblicato Dinoflagellati tecati 0.14 Lessard, 1991
Foraminiferi > 50 µm 0.089 Michaels et al., 1995
Acantari 0.0026 Michaels et al., 1995
Larve mesoplanctoniche
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1.3.7 Produzione secondaria
Per stimare la crescita del microzooplancton dopo il tempo di incubazione previsto (produzione secondaria) è stata calcolata la biomassa (µ gCL-1) all’inizio dell’esperimento (C0) e alla fine dell’esperimento (C48) per le tre repliche al 100% utilizzando il metodo Uthermöhl (1958). 100ml di campione sono stati messi a sedimentare per 72 ore e l’analisi dei campioni è stata condotta al microscopio invertito Labovert a 32 ingrandimenti conteggiando gli organismi presenti nell’intera cameretta. Il numero di cellule conteggiato è stato convertito prima in cell L-1 e poi in biomassa di carbonio attraverso fattori specifici di conversione presenti in letteratura.
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1.4 RISULTATI
1.4.1 Dati ambientali
Le variabili ambientali per tutte le stazioni del Mediterraneo orientale sono riassunte nella tabella 1.5. La temperatura aumenta passando dalla stazione V6 a quella geograficamente più orientale V10. Lo stesso andamento si osserva per alla salinità che aumenta allo stesso modo passando da valori pari a 38.00 a valori di 39.36 nella stazione più orientale.
La Chl a è relativamente bassa in tutte le stazioni campionate in accordo con la stagione di campionamento in cui si evidenziano scarse concentrazioni di nutrienti.
Tab1.5 Variabili ambientali. Temperatura, salinità, parametri biogeochimici, produzione primaria e chl a sono stati gentilmente forniti da DISMAR (Università di Ancona); CNR – ISMAR (Trieste); U.O. Saggiomo Stazione Zoologica A.
Dohrn (Napoli).
1.4.2 Predazione sul picoplancton eterotrofo
Stazioni V6 V7 Viera V10
Temperatura °C 22.66 22.49 23.4 24.33 Salinità (psu) 38.00 38.73 39.27 39.36 Tot chl (µg L-1) 0.059 0.046 0.035 0.057 PP (µgCm3 h-1) 0.44 0.27 0.33 0.51
NO3 µM-N 0.78 0.07 0.09 0.18
NO2 µM-N 0.13 0.03 0.02 0.02
SiO2 µM-N 0.77 1.01 1.15 0.85
PO4 µM-N 0.12 0.01 0.01 0.02
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all’aumentare del fattore diluizione c’è un’effettiva diminuzione nel numero di organismi (fig.1.16,1.17,1.18,1.19).
St.V6
Picoplancton eterotrofo
y = 6.2622x + 1.2983 r2 = 0.957
0 2 4 6 8 10
0% 20% 40% 60% 80% 100%
Diluizioni
µgC L-1
St.V7
Picoplancton eterotrofo
y = 4.8972x + 0.7244 r2 = 0.8234
0 2 4 6 8 10
0% 20% 40% 60% 80% 100%
Diluizioni
µgC L-1
Fig.1.16 Abbondanza (µgC L-1) all’inizio dell’esperimento (C0) presenta una correlazione significativa p<0.001; r = 0.97
Fig.1.17 Abbondanza (µgC L-1) all’inizio dell’esperimento (C0) presenta una correlazione significativa p<0.001; r = 0.90
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St. Viera
Picoplancton eterotrofo
y = 4.1055x + 0.6736 r2 = 0.9846
0 1 2 3 4 5 6
0% 20% 40% 60% 80% 100%
Diluizioni
µgC L-1
St. V10
Picoplancton eterotrofo
y = 4.2841x + 1.6771 r2 = 0.8742
0 2 4 6 8
0% 20% 40% 60% 80% 100%
Diluizioni
µgC L-1
Fig.1.19 Abbondanza (µgC L-1) all’inizio dell’esperimento (C0) presenta una correlazione significativa p<0.001; r = 0.93
Fig.1.18 Abbondanza (µgC L-1) all’inizio dell’esperimento (C0) presenta una correlazione significativa p<0.001; r = 0.99
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Fine dell’incubazione (C24): il tasso di crescita apparente è stato calcolato per ogni diluizione in ogni stazione.
Nella stazione V6 (fig. 1.20) c’è una relazione significativa tra la crescita apparente ed il fattore diluizione (r=0.71; p<0.001). Il coefficiente istantaneo di crescita k=1.408 ed il coefficiente istantaneo di mortalità indotta da predazione g=-0.881 determina un tasso di ingestione I= 9.51 µgC L-1 d-1.
St. V6
Picoplancton eterotrofo
y = -0,8817x + 1,4084 r2 = 0,5147
0 0.5 1 1.5 2 2.5
0% 20% 40% 60% 80% 100%
Diluizioni Ln (Ct/C0)
Fig.1.20 Il tasso di crescita apparente presenta una correlazione significativa con p<0.001 r = 0.71
Nella stazione V7 (fig. 1.21) c’è una relazione significativa tra il tasso di crescita apparente ed il fattore diluizione (r= 0.97 p<0.001). Il coefficiente istantaneo di crescita k=
1.66 ed il coefficiente istantaneo di mortalità indotta da predazione g=-1.405, determina un tasso di ingestione I = 9.58 µg C L-1 d-1.
Il Mediterraneo -Risultati
St. V7
Picoplancton eterotrofo
y = -1,4057x + 1,6661 r2 = 0,9442
0 0.5 1 1.5 2
0% 20% 40% 60% 80% 100%
Diluizioni Ln (Ct/C0)
Nella stazione Viera (fig. 1.22) c’è una relazione significativa tra il tasso di crescita apparente ed il fattore diluizione (r=0.93 p< 0.001). Il coefficiente istantaneo di crescita k= 2.09 ed il coefficiente istantaneo di mortalità indotta da predazione g=-1.838, determina un tasso di ingestione I = 11.80 µgCL-1d-1
St. Viera
Picoplancton eterotrofo
y = -1,838x + 2,0939 r2 = 0,8693
0 0.5 1 1.5 2 2.5
0% 20% 40% 60% 80% 100%
Diluizioni Ln (Ct/C0)
Fig 1.21 Il tasso di crescita apparente evidenzia una correlazione significativa con p<0.001; r = 0.97