Capitolo 1 ‐ Introduzione
Chapter 1 ‐ Introduction
1.1 ‐ Origine del Mustang / Origin of MustangsL’antenato preistorico del cavallo (eohippus) scomparve dal continente americano intorno al 7000 a.C. (Ryden, 1999a). Le ragioni sono tuttora
ignote agli studiosi, ma tutti concordano sull’epoca in cui i cavalli ricomparvero su quelle terre. Il Mustang Nordamericano origina dai cavalli portati nel Nuovo Mondo dagli spagnoli nel XVI secolo, i quali erano considerati i migliori a quel tempo. Avevano sangue Andaluso, Berbero e Arabo.
Cristoforo Colombo fu il primo a portare alcuni cavalli durante i suoi viaggi in cerca delle Indie e durante tutto il XVI secolo, i Conquistadores spagnoli contribuirono alla reintroduzione del cavallo nelle Americhe. Col tempo sorsero molti allevamenti nell’odierno Messico e nell’area Sud‐ Ovest degli Stati Uniti. Il nome Mustang origina da “mesteño”, termine con cui gli spagnoli definivano i cavalli senza padrone (Dines, 2001). Infatti, poteva capitare che alcuni cavalli scappassero dai ranches, formando gruppi di cavalli selvaggi che in seguito furono usati dalle tribù di indiani nativi. I principali centri di diffusione degli animali si trovavano dove oggi sorgono le città di San Antonio, nel Texas, e Santa Fe, nel New Mexico (Capps, 1973).
I nativi americani non avevano mai visto questo animale, prima di allora. Lo chiamavano “Big Dog” (grosso cane) e consideravano le persone a cavallo dei semi‐dei. Gli spagnoli avevano proibito agli indiani l’uso del cavallo, ma col tempo molte tribù lo adottarono ugualmente, diventando
nomadi. Fu così che avvene un cambio radicale nelle abitudini delle tribù delle Grandi Pianure. Per loro il cavallo divenne presto indispensabile, sia per il trasporto che per le guerre. Inoltre, i cavalli erano usati anche come merce di scambio tra le tribù, alcune delle quali diventarono esperte nel commercio di cavalli, come nel caso degli Apache, Comanche, Shoshoni, Kiowa, Crow, Dakota, Cheyenne, Plains Cree e Ute (Capps, 1973). Sorsero centri di scambi tra le varie tribù sia nelle zone montagnose del Wyoming, territorio degli Shoshoni, sia nelle pianure del Nord e del Sud Dakota, dove si trovavano i Cheyenne, i Dakota e i Mandan‐Hidatsa, per citarne alcuni (fig. 1.1).
Si pensa che questi scambi, le guerre ed il commercio tra tribù abbiamo portato i cavalli anche nelle regioni più a Nord e ad Ovest, al di là delle Montagne Rocciose. In queste aree, che oggi corrispondono agli stati dell’Idaho, Oregon, Washington e Montana, vi erano insediamenti di Blackfoot, Nez Percé, Cayuse e Flathead e negli anni questo sistema ha contribuito al diffondersi del cavallo in tutto il territorio del Nordamerica (Ryden, 1999a).
I nativi americani iniziarono quindi ad utilizzare il cavallo principalmente come mezzo di trasporto o come merce di scambio tra tribù. Durante i loro spostamenti nelle Grandi Pianure del centro degli Stati Uniti, le tribù trasportavano tende, teepi, materiali e averi sul dorso dei cavalli o su rudimentali lettighe di forma triangolare. Ciò permetteva loro di coprire distanze maggiori rispetto a prima dell’introduzione del cavallo e col tempo cominiciarono a valutare l’importanza dei posse‐ dimenti di un capo tribù in base al numero dei suoi cavalli (Capps, 1973).
I metodi usati per catturare i cavalli selvaggi erano molto semplici. Ancora oggi si trovano resti di alcune trappole costruite dalle tribù native che sfruttavano le asperità del terreno, come certe gole tra le montagne, per costruire dei corridoi verso i quali spingevano gli animali. Queste trappole erano usate solitamente alla fine dell’estate, così da poter spostare gli accampamenti prima dell’arrivo dell’inverno. Infatti, col tempo gli indiani avevano acquisito una grande conoscenza degli spostamenti dei gruppi di cavalli e potevano individuare facilmente gli animali da catturare. A turno, anche per 2 o 3 giorni, alcuni uomini circondavano il gruppo di animali scelto, fino a quando riuscivano a spingerlo verso la parte più stretta della trappola. Lì, i cavalli erano catturati con il lariat, una
sorta di lazzo. Quelli migliori, in ottima forma, erano comunque difficili da catturare, mentre i soggetti più vecchi e deboli, o quelli che avevo messo su troppo peso durante l’estate potevano essere catturati con più facilità (Capps, 1973).
Dopo la cattura, i Comanche, per esempio, legavano il cavallo con delle corde, lo obbligavano con la forza a sdraiarsi a terra e il futuro proprietario soffiava nelle narici dell’animale, quasi a simboleggiare il fatto di esserne divenuto il padrone. Successivamente, il cavallo restava legato ad una vecchia giumenta per alcuni giorni, durante i quali la persona si avvicinava sempre più spesso all’animale fino ad abituarlo alla presenza dell’uomo. Al termine di questo periodo, la cui durata poteva variare sensibilmente in base al soggetto, il cavallo veniva liberato, in quanto si riteneva che avrebbe seguito la giumenta anche senza coercizioni (Capps, 1973).
Nelle fasi successive dell’addestramento, i cavalli venivano portati in luoghi dove l’animale aveva più difficoltà a scalciare o a sgroppare, come zone sabbiose o fiumi. Qui avvenivano ripetuti tentativi di cavalcare gli animali, fino ad ottenere il risultato desiderato, ossia la sottomissione del cavallo (Capps, 1973). La figura 2.2 mostra i metodi usati per legare gli animali. Lo schema in alto mostra la briglia più usata, conosciuta come la “briglia di guerra”. Era costituita da una lunga corda con un nodo detto “a testa di allodola”. Il nodo era stretto attorno alla parte inferiore della mandibola del cavallo a formare una sorta di morso, mentre le due estremità della corda erano usate come redini. Lo schema in basso mostra invece un metodo meno comune per legare il cavallo durante le prime fasi della doma. Come si può vedere nella figura 2.2, il giro attorno al naso dell’animale e la redine unica permettevano alla persona di esercitare più
forza sulla testa dell’animale, così che quando veniva dato uno strattone alla redine la testa del cavallo si piegava a tal punto da rendere più difficile la respirazione, in modo da spingere l’animale a fermarsi. Fig. 2.2: Metodi usati dagli Indiani d’America per controllare il cavallo (Capps, 1973). Col tempo, le tribù operarono una certa selezione dei cavalli catturati, spinti dall’importanza che questi rivestivano all’interno della loro struttura sociale. Gli spagnoli erano soliti montare solo stalloni, i quali però si rivelavano essere più difficili da gestire, specialmente nelle situazioni molto stressanti, come le cariche in guerra. Al contrario, gli indiani erano soliti castrare la maggior parte dei maschi, tenendo solo gli stalloni con le qualità migliori, dal punto di vista sia fisico che del temperamento. In questo modo, non solo la maggior parte dei maschi era resa più docile, ma, nel corso degli anni la qualità della razza ebbe un
notevole incremento, favorevendo i cavalli più agili, coraggiosi e con maggiore resistenza all’affaticamento. 1.2 ‐ Il Mustang oggi / Mustangs today Intorno al 1860, il numero dei Mustang allo stato brado presenti negli Stati Uniti aveva raggiunto la cifra di circa 2 milioni di capi (Dines, 2001). Gli allevatori di bestiame iniziarono a recintare le loro proprietà con filo spinato e sempre più spesso i cavalli finivano per essere cacciati e uccisi (Ryden, 1999b). Questa pratica durò per oltre un secolo, mettendo in serio
pericolo i pochi gruppi rimasti, fino a quando, nel 1971, la responsabilità di gestire e proteggere i Mustang selvaggi fu affidata, in alcuni stati, al
Bureau of Land Management, facente capo al Dipartimento degli Interni,
mentre in altri stati fu affidata allo U.S. Forest Service. Da allora il B.L.M. si occupa della salvaguardia di milioni di acri di terra, disseminati in 10 stati, nei quali vivono un grande numero di specie sia animali che vegetali (B.L.M., 2005a).
In condizioni protette, il numero dei cavalli oggi ha raggiunto i 42.000 capi circa, suddivisi in 186 Heard Management Areas, o HMAs. Nello stato dell’Oregon, quest’anno è stata censita una popolazione totale di 27.369 cavalli (B.L.M., 2005b). Per mantenere una grandezza dei gruppi
ottimale in rapporto alla superficie a loro destinata, è nato il National Wild Horses & Burros Program: in ogni stato, il BLM organizza delle spedizioni per catturare i capi in sovrannumero, utilizzando elicotteri ultraleggeri e personale a cavallo, data la vastità e le asperità del territorio. Ciò serve per monitorare sia i cavalli selvaggi (wild horses) sia gli asini (burros) che popolano vaste aree in molti stati dell’Ovest. Gli animali sono radunati in
ampi corrals o recinti (fig. 1.3), spinti uno alla volta in un travaglio, permettendo una più attenta osservazione dell’animale e delle sue caratteristiche individuali. Queste sono riportate sulla scheda di ogni soggetto, insieme al numero identificativo che viene apposto sul collo mediante la marcatura a freddo (freezemarks), come si può vedere nella figura 1.4 (B.L.M., 2005c). Fig. 1.3: Corrals nei pressi di Burns, Oregon, USA. Fig. 1.4: Marcatura a freddo, nel travaglio.
I cavalli catturati e tenuti nei corrals entrano poi a far parte di un programma di adozioni che permette a privati cittadini in possesso dei
requisiti idonei, quali condizioni soddisfacenti al mantenimento del benessere psico‐fisico dell’animale, di prenderli in affidamento. Trascorso un anno dall’affidamento, la proprietà dell’animale può passare dal Governo Federale degli Stati Uniti al privato affidatario, diventando quest’ultimo proprietario del cavallo a tutti gli effetti. In questo modo, negli ultimi decenni sono stati adottati migliaia di cavalli, alcuni dei quali sono poi stati domati e usati per vari scopi, dalla semplice passeggiata a lavori più specifici, come per esempio con il bestiame.
1.3 ‐ Addestramento del cavallo / Horse training
L’addestramento del cavallo è inteso come le “modificazioni volontarie della frequenza e/o dell’intesità di specifiche risposte comportamentali” (Waran e Casey, 2005). Queste modificazioni possono essere operate con vari mezzi, a seconda del metodo utilizzato. Bisogna innanzitutto tenere presente che esistono due stili principali, quello europeo e quello western. Pur avendo alcuni punti in comune, le due scuole presentano differenze sostanziali.
Il metodo europeo si basa essenzialmente sull’assuefazione dell’a‐ nimale a situazioni e materiali nuovi, associata a tecniche che si basano sul rinforzo negativo, ossia il cavallo impara evitando stimoli avversi e situazioni che lo mettono sotto pressione (Waran e Casey, 2005). L’adde‐ stramento inizia fin dalla nascita del puledro, abituandolo all’uomo e alla capezza, utilizzando il rinforzo negativo. La fase successiva dell’ad‐ destramento generalmente si svolge intorno ai 3 o 4 anni, quando si passa al lavoro in un tondino, con il cavallo alla longhina. L’animale si trova in situazioni nuove e gradualmente vengono introdotti nuovi elementi: i comandi a voce, la pressione sul morso, il mantenimento delle varie
andature, la distanza dalla persona, l’utilizzo di materiali come il frustino, (per il mantenimento dell’andatura desiderata) o il bastone (per abituare il soggetto alle pressioni che successivamente verranno esercitate dalle gambe del cavaliere) (Waran e Casey, 2005). Anche in questa fase, il metodo usato per spingere il cavallo ad eseguire gli esercizi in modo corretto è il rinforzo negativo. Lo stesso tipo di approccio è usato anche nella fase successiva, con il cavaliere, e nell’addestramento al salto o ad altre discipline equestri. Lo scopo ultimo resta quello di avere un cavallo subordinato, i cui movimenti sono la diretta conseguenza di un comando impartito dal cavaliere o dall’addestratore (Waran e Casey, 2005).
Tutt’altra filosofia troviamo nei metodi di addestramento western, in cui si preferisce avere un cavallo che esegue i lavori richiesti in modo autonomo. I metodi tradizionali usati in passato erano abbastanza cruenti e implicavano severe coercizioni del cavallo, mentre adesso l’addestra‐ mento si basa essenzialmente sull’assuefazione del cavallo (Waran e Casey, 2005). Il puledro resta nel box con la madre fino allo svezzamento, in un ambiente relativamente isolato, nel quale si abitua comunque al contatto con l’uomo, senza l’utilizzo di rinforzi negativi. Questi vengono introdotti nelle fasi successive, in cui il cavallo verrà abituato alla capezza, alla longhina, al morso e, in seguito, alla sella ed al cavaliere. L’addestramento spesso avviene in tondini di diametro più piccolo rispetto a quelli usati in Europa (Waran e Casey, 2005). Ciò permette all’addestratore di controllare i movimenti dell’animale con più facilità, spostandosi all’interno e all’esterno della zona di fuga (flight zone) del cavallo. Infatti, quando la persona si avvicina all’animale in movimento, la direzione del cavallo tende a cambiare per mantenere una sorta di
distanza di sicurezza dall’uomo. Questo comportamento è spesso sfruttato durante gli esercizi sulle andature e sui cambi di direzione.
Negli ultimi decenni, sono apparse altre tecniche per addestrare i cavalli, che in realtà sono delle varianti o delle combinazioni di altri metodi usati in passato. Di seguito riportiamo una breve descrizione di alcuni tipi di approccio citati da Waran e Casey (2005).
• Approach and retreat (avvicinamento e allontanamento): Questo metodo trae ispirazione dalle tecniche usate da alcune tribù native degli Stati Uniti. Il cavallo viene isolato da ogni possibile distrazione, in modo da focalizzare la sua attenzione sulla persona. Questa si avvicina all’animale poco alla volta, allontanandosi dopo ogni tentativo di avvicinamento. In questo modo il cavallo si abitua al contatto con l’uomo. Lo scopo è quello di far sentire il cavallo al sicuro con la persona e dipendente da questa per evitare gli stimoli avversi in un ambiente in principio sconosciuto. L’addestramento sfrutta principalmente l’istinto dell’animale, che spinge il cavallo ad allontanarsi da stimoli spiacevoli e situazioni sconosciute.
• Join up: Questo metodo è stato sviluppato da Monty Roberts (1997) e sfrutta il linguaggio del corpo dell’addestratore per stabilire un rapporto con il cavallo nel quale l’animale non è più la preda, bensì entra a far parte di una sorta di “branco a due”, in cui l’elemento dominante è la persona. Quest’ultima dovrà fare attenzione ad usare segnali comprensibili dal cavallo. È quindi necessaria una conoscenza dettagliata dell’etogramma dei cavalli allo stato brado.
In un ambiente controllato, come per esempio un tondino, il comportamento dell’animale viene manipolato mediante l’utilizzo e l’intepretazione dei segnali del corpo, sia della persona che dell’animale. Durante l’intero procedimento, sono inoltre utilizzati il rinforzo negativo e la punizione, quest’ultima solitamente di breve durata onde evitare che il cavallo sia unicamente spinto ad allontanarsi (Fraser, 1992), nonché la ripetizione degli esercizi fino a quando l’animale ha imparato a rispondere sempre nel modo corretto.
• Sympathetic horsemanship (equitazione sensibile, naturale): I principi su cui si basa questo approccio, sviluppato da Pat Parelli (2003), sono molto simili a quelli del metodo di Monty Roberts, ma in questo caso il procedimento è diviso in tappe, o games, ognuna con un particolare obiettivo, quale il contatto fisico tra uomo e cavallo. Questo approccio potrebbe risultare utile per addestratori che preferiscono indicazioni più schematiche sul lavoro da eseguire con l’animale.
Oltre ai diversi metodi utilizzati per l’addestramento, i quali poggiano su alcuni principi di base dell’apprendimento e spesso su osservazioni di tipo etologico, nonché sull’esperienza di persone che in tempi più o meno recenti hanno lavorato in questo ambito, esistono delle tecniche che facilitano lo svolgimento dell’addestramento. Di seguito riportiamo quelle più conosciute e diffuse.
• Clicker training: Questo metodo era usato inizialmente nell’adde‐ stramento dei mammiferi marini, ma in seguito è stato adottato anche per altre specie animali. Il comando è associato ad un suono (clicker) e rinforzato da una ricompensa, generalmente del cibo. In uno studio sull’utilizzo di tale tipo di rinforzo nel cavallo, McCall e Burgin (2002) sostengono che questo facilita l’apprendimento ed accorcia il tempo che intercorre tra il comando e la conseguente risposta da parte dell’animale. L’addestramento prevede l’introduzione di stimoli nuovi contemporaneamente alla ricom‐ pensa, così che il rinforzo positivo rappresentato dalla ricompensa riduce gli effetti indesiderati che si potrebbero avere alla presentazione di uno stimolo nuovo. In questo modo, la risposta finale richiesta dall’addestratore è ottenuta procedendo per gradi (Casey, 2002).
• Touch training: Il contatto fisico con l’animale, con massaggi circolari e movimenti simili a quelli dei cavalli stessi durante il grooming, stimolano la produzione endogena di endorfine, le quali inducono il rilassamento dell’animale. Secondo Linda Tellington‐ Jones (1985) ciò rende gli animali più cooperativi durante le diverse fasi dell’addestramento, facilitandone la buona riuscita. Tuttavia, questo approccio non sembra avere nessuna efficacia con cavalli particolarmente paurosi o nevrili.
• Imprint training: Questo approccio prevede l’inizio dell’addestramento in età molto precoce. Il puledro entra in contatto con l’uomo fin dai primi giorni di vita, con lo scopo di
abituare il soggetto alla presenza della persona e facilitare le fasi successive, che costituiscono l’addestramento vero e proprio. Tuttavia, studi al riguardo hanno evidenziato che gli effetti di questa pratica sono purtroppo solo temporanei e ciò non risulterrebbe quindi influenzare l’esito dell’addestramento (Lansade et al, 2005; Williams et al, 2002).
In conclusione, secondo Waran et al (2002) questi metodi dipendono prinicipalmente dalle differenze culturali riguardo al benessere degli animali, nonché dall’importanza attribuita all’utilizzo di un approccio etico all’addestramento, piuttosto che dall’efficacia dell’addestramento stesso. Le tecniche usate sono, in effetti, delle varianti o delle combinazioni di altre tecniche. In alcuni casi sono applicati gli stessi metodi utilizzati con altri animali, per esempio i mammiferi marini, e in letteratura non si trovano molti studi scientifici riguardo al loro impiego nell’addestramento del cavallo.