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I PROBLEMI TECNICI DELLA DIMOSTRAZIONE DEL MOBBING: SOLUZIONI DELLA DOTTRINA E DELLA GIURISPRUDENZA A CONFRONTO NELL’EVOLUZIONE DELLA TUTELA DEL LAVORATORE VESSATO. IL DANNO DA MOBBING

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I PROBLEMI TECNICI DELLA DIMOSTRAZIONE DEL MOBBING: SOLUZIONI DELLA DOTTRINA E DELLA GIURISPRUDENZA A CONFRONTO NELL’EVOLUZIONE DELLA TUTELA DEL LAVORATORE VESSATO. IL DANNO DA MOBBING

Dr. Matteo Cavallini*

SOMMARIO:

¾ 1. I limiti della tutela del mobbing;

¾ 2. L’analisi della dottrina;

¾ 3. L’evoluzione della giurisprudenza e la prova concreta del mobbing;

¾ 4. Il danno da mobbing.

1. I LIMITI DELLA TUTELA DEL MOBBING.

La prevaricazione del più forte sul più debole negli ambiti sociali e lavorativi ha un cuore antico ed oggi si chiama mobbing.

Recentemente sociologi, psicologi, medici e giuristi hanno ampiamente riflettuto sulla natura di questo fenomeno ed attentamente analizzato ogni sfaccettatura della sua complessa essenza, dando un quadro sempre più preciso ed oculato circa le ragioni della sua origine e degli effetti da esso scaturenti. Ciò che invece appare ancora, per diversi aspetti, difficile e controverso, è riuscire ad adoperare l’impianto normativo esistente per garantire una pronta ed efficace tutela a chi, suo malgrado, vive situazioni lavorative di tal genere, ovvero, come dicono gli esperti, “è vittima del mobbing”.

L’analisi interdisciplinare e l’enorme numero di problematiche che ruotano intorno al concetto di mobbing ha reso, a mio avviso, nei singoli casi più complessa la possibilità di garantire, sempre e comunque, un’efficace forma di tutela giuridica a chi in concreto si trova a vivere in tali circostanze lavorative. Nonostante le numerose proposte di legge in Parlamento, l’aumento della consapevolezza sul problema, se da un lato ha smosso le coscienze di chi da tempo era vittima inconsapevole di tali soprusi, dall’altro non ha prodotto, almeno per il momento, un pari incremento di garanzie normative a favore del lavoratore vessato.

Mentre, infatti, dal punto di vista sociologico e medico il mobbing può essere identificato come una forma di aggressione psicologica, in sé anche omogenea, che produce malessere e scompiglio nella vita del malcapitato, con ripercussioni anche gravi sulla sua salute psicofisica. Dal punto di vista giuridico è, invece, necessario concentrarsi non tanto sugli effetti, quanto sui fatti che, nella fattispecie concreta,

* Consulente Legale dell’Associazione PRIMA, Associazione Italiana contro Mobbing e Stress Psico-Sociale - Bologna

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possono caratterizzare la vicenda in questione, al fine di ricondurli all’interno di quelle categorie giuridiche tipiche che rendono una situazione degna di tutela per il nostro ordinamento.

In sostanza, il giurista deve necessariamente riuscire a dare un nomen juris ad ogni singola “ingiustizia” che il lavoratore mobbizzato denuncia di aver vissuto in ambito lavorativo, provarla e cercare, poi, di addebitare tutti gli elementi d’illegittimità riscontrata ad un unico comportamento, doloso o colposo, del datore di lavoro.

Quest’operazione è senz’alcun dubbio indispensabile al fine di accreditare realisticamente la tesi di una responsabilità contrattuale o extracontrattuale del datore nella gestione del rapporto di lavoro.

Solitamente, quelle che in precedenza ho genericamente definito come “ingiustizie”, si concretizzano in illegittimità che già rispondono ad una precisa violazione di norme contrattuali riconosciuta dal nostro ordinamento giuridico, ma, quando ciò non avviene, possono sorgere svariati problemi.

Fin quando il mobbing si manifesta sotto forma di dequalificazione professionale, di illegittimo diniego di diritti nascenti dal contratto, di abuso del potere disciplinare o dello jus variandi, o addirittura si traduce in molestie sessuali, le possibilità di trovare degli spazi di tutela in giudizio sono alte, soprattutto se da ciò è derivato, in concreto, un danno dimostrabile. Quando, invece, si esula da queste particolari species di illegittimità, anche laddove vi sia stato effettivamente un danno alla persona del lavoratore, non è facile trovare giustizia.

Ciò accade soprattutto quando l’aggressione della sfera psicologica altrui avviene in maniera impalpabile, con mezzi sottili, con il silenzio e l’isolamento forzato, con lo scherno, con l’offesa velata, con il fastidio prolungato nel tempo.

De jure condito, nasce da ciò l’esigenza di verificare, in concreto, fino a che punto è possibile agire in giudizio e, verosimilmente, ottenere un riconoscimento giuridico adeguato in circostanze di mobbing, e quando, invece, è necessario affidarsi, senza alcuna garanzia di successo, esclusivamente al buon senso e all’equità del giudice.

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2. L’ANALISI DELLA DOTTRINA.

In genere, dalla ricostruzione di quei fatti che possono configurare una situazione di mobbing, emergono chiaramente due questioni: l'una di natura strettamente contrattuale, relativa alla liceità della lenta e progressiva opera di dequalificazione ovvero di delegittimazione che il lavoratore è costretto a subire, da parte del datore di lavoro o del proprio superiore gerarchico; l'altra di natura anche extracontrattuale, concernente la possibilità che, dalla situazione di conflitto che viene a crearsi nell'ambito lavorativo, sia derivato per il medesimo un danno ingiusto.

La dottrina ha di recente affrontato la questione della configurabilità in capo al lavoratore di un diritto allo svolgimento effettivo di mansioni proprie alla qualifica di appartenenza, cioè dell'esistenza di un vero e proprio “diritto a lavorare”. Viene da

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chiedersi, allora, se esiste anche un diritto alla serenità lavorativa, un codice di comportamento d’ufficio o di fabbrica, un codice di buona condotta che disciplini i rapporti fra colleghi.

Se, infatti, è vero che la giurisprudenza1 e gli interpreti sono ormai giunti alla conclusione che, stando alla lettera e alla ratio dell'art. 2103 c.c., la violazione di tale norma si ha, identicamente, sia nell'ipotesi di assegnazione del dipendente a mansioni inferiori, sia nell'ipotesi in cui il dipendente sia lasciato inattivo, è anche vero che, come da qualcuno è stato affermato, "il lavoro non è solo un mezzo di guadagno, ma costituisce un mezzo prevalentemente di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino".2

Comporta, tuttavia, non poche difficoltà la possibilità di qualificare come un vero e proprio diritto soggettivo, la pretesa del lavoratore di eseguire effettivamente e tranquillamente la prestazione lavorativa, quando comunque gli sia corrisposto il trattamento economico e normativo, corrispondente alla qualifica.

I percorsi seguiti dalla dottrina a tal proposito sono i più diversi. Alcuni autori ritengono che il riconoscimento esplicito di un diritto a svolgere effettivamente, ed anche serenamente, l'attività lavorativa sia ricavabile dall'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Altri fanno, invece, riferimento direttamente all'art. 13 dello Statuto, la cui ratio non può essere ridotta alla mera tutela degli interessi patrimoniali del lavoratore.3 Secondo quest'ultimi, mirando la norma a tutelare la professionalità del lavoratore ed a promuoverne lo sviluppo, entrano in contrasto con essa tutti i comportamenti che si traducono, comunque, in un pregiudizio del patrimonio professionale del lavoratore, qual è quello di lasciare inattivo il lavoratore o di non sfruttarne a pieno le sue capacità e la sua esperienza, qualunque ne sia la motivazione.

La via più interessante è, però, quella di fondare l'obbligo del datore di lavoro sull'art.

2087 c.c., nella parte in cui è tutelata la “personalità morale” di questo, oltre che la sua salute.

Sulla base della norma citata è stato, infatti, sostenuto4 che ove sia comprovata la violazione dell'obbligo di protezione, e sia accertato l'inadempimento del datore di lavoro, il lavoratore potrà agire autonomamente per chiedere il risarcimento del

"danno biologico" sofferto.

L’art. 2087 c.c., ponendosi come norma “di chiusura” offre, infatti, una vasta gamma di interpretazioni e, soprattutto se correlata ad altre norme civilistiche e costituzionali (come gli artt. 2, 3, 32 e 41 - 2° co. Cost.), consente di approntare una solida struttura di principi a tutela del lavoratore per la garanzia dei suoi buoni diritti.

In relazione a ciò, è attualmente possibile sostenere che la nozione di "danno biologico" sia andata lentamente sganciandosi dall'originario ambito causale e, ormai, il ventaglio delle applicazioni concrete, in proposito offerte, comprende una casistica abbastanza eterogenea. E’ sufficiente notare che, fra le varie situazioni che possono dare atto ad un'azione di risarcimento del danno, vengono da tempo comunemente ricomprese anche le "sindromi psichiche", causate da "amarezza, delusioni, incomprensioni e frustrazioni" in ragione di atteggiamenti "negativi" e "di chiusura"

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del datore di lavoro di fronte alle richieste del lavoratore, volte ad ottenere il riconoscimento concreto dei meriti acquisiti.5

Questa nuova sottocategoria di danno, c.d. "danno professionale", è tuttavia soggetta ad un’applicazione abbastanza cauta: il prestatore deve, infatti, offrire la prova concreta di aver sofferto il danno e, l'accertata dequalificazione o, comunque, il diniego dei diritti contrattuali, non sono considerati una circostanza sufficiente a surrogare l'assenza di prove ovvero di presunzioni nella direzione del lamentato pregiudizio.

La dottrina è concorde con la giurisprudenza nel ritenere che l'automatismo, che considera esistente ex se il danno a fronte di una violazione diretta delle garanzie costituzionali (come nel caso della mancata fruizione del riposo compensativo), non funziona quando il prestatore lamenta una violazione dei meri obblighi contrattuali, come quelli scaturenti dagli artt. 2087 e 2103 c.c.. In questi casi è necessario provare che lo "svuotamento" delle mansioni, l'inattività, o l'affidamento d’incarichi dequalificanti, ha non solo compromesso il bagaglio professionale e/o l'immagine del prestatore, ma gli ha cagionato, in aggiunta, un danno ulteriore, da qualificarsi di natura psichica o biologica.

Secondo un autorevole parere,6 addirittura, nel caso della dequalificazione del prestatore, il danno alla salute in realtà costituisce poco più di un "pretesto", mentre il vero pregiudizio sofferto dal lavoratore è quello all'immagine e alla professionalità, o se si preferisce, alla "personalità" e alla "dignità", ambedue valori fondamentali, e parimenti protetti dalla Costituzione (artt. 2 e 3 Cost.).

Sul terreno giuslavoristico, l'esigenza di proteggere la "persona" in senso non solo fisico, ma anche etico, offre sicuramente gli spunti per un’estensione della categoria del danno biologico e, nel contempo, conferma l'insufficienza dell'originaria contrapposizione fra danno patrimoniale e non.

Si può quindi credere che sia ormai ampiamente consolidato l'ingresso nel diritto del lavoro del danno biologico, soprattutto là dove, di fronte ad alcuni comportamenti datoriali, le tecniche tradizionali si mostrerebbero inadeguate.

La risarcibilità di per sé, in ogni caso, del danno biologico (e, come sarebbe più opportuno dire in tal caso, della species del "danno psicologico") trova, inoltre, il suo fondamento anche e soprattutto nell'art. 2043 c.c. che, correlato all'art. 32 della Cost., va necessariamente esteso fino a comprendere il risarcimento non solo dei danni in senso stretto patrimoniali, ma di tutti i danni che ostacolano le attività realizzatrici della persona umana.

Considerato, in ultimo, che il rapporto di lavoro non è altro che un rapporto contrattuale, a questo complesso disposto di norme, deve necessariamente affiancarsi anche una serie di principi civilistici, fondamentali nella disciplina della tutela dei contraenti - vale a dire la buona fede e la correttezza, previsti dagli articoli artt. 1175 e 1375 del Codice Civile - la cui violazione comporta un inadempimento contrattuale rispetto al quale il lavoratore ragionevolmente può chiedere ed ottenere anche il risarcimento dei danni ex artt. 1218 e ss. c.c.

* * *

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3. L’EVOLUZIONE DELLA GIURISPRUDENZA E LA PROVA CONCRETA DEL MOBBING.

Recentemente i giudici, con l’avallo della dottrina, stanno progressivamente ampliando i termini della tutela giuridica del lavoratore vessato. Ciò è accaduto soprattutto in quei casi in cui è stato possibile riscontrare elementi capaci di evidenziare l'illegittimità del comportamento del datore di lavoro che utilizza la sua posizione per ostacolare le ambizioni, la carriera, o per intromettersi nella vita privata di un suo dipendente.

Sono ormai note la sentenza del Tribunale di Torino del 16 novembre 1999 e la n.

143 del 2000 della Suprema Corte in tema di mobbing. In entrambi i casi, i giudici hanno ampiamente analizzato quelle situazioni di "persecuzione psicologica sul luogo di lavoro", determinate da particolari condizioni di sovra ordinazione gerarchica, strumentalizzate ad hoc per punire quel dipendente che non accetta l'omologazione a quelle regole comportamentali di sudditanza, non scritte né tanto meno contrattualizzabili, che tuttavia vigono negli ambienti di lavoro.

Le pronunce testé ricordate rappresentano, tuttavia, una novità solo in quanto introducono espressamente nel linguaggio giuridico ufficiale il termine mobbing, poiché, in realtà, già in precedenza la Cassazione si era molte volte espressa favorevolmente al riconoscimento dell’illegittimità dei comportamenti vessatori nei luoghi di lavoro.

Appare opportuno innanzi tutto citare la sentenza n. 475 del 19/01/1999, con cui la Corte di Cassazione ha accolto l’importante principio per cui, a determinate condizioni, anche un comportamento astrattamente lecito può essere fonte di risarcimento del danno, e ribadito il concetto che “l’obbligo previsto dall’art. 2087 c.c., che impone al datore di lavoro di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, determina, in caso di violazione di esso, una responsabilità contrattuale – rientrante nelle competenze del giudice del lavoro – che concorre con quella extracontrattuale originata dalla violazione dei diritti soggettivi primari; tale obbligo non è limitato al rispetto della legislazione tipica della prevenzione, ma (come si evince da una interpretazione della norma in aderenza ai principi costituzionali e comunitari) implica anche il divieto di comportamenti commissivi lesivi dell’integrità psicofisica del lavoratore, che in quanto caratterizzati da colpa o da dolo ed attuati durante l’orario dell’attività lavorativa, sono perciò fonte di responsabilità contrattuale per l’inosservanza della norma anzidetta, oltre ad integrare violazione dei doveri di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.”.7

In realtà, l'ammissibilità dell'azione di risarcimento ex art. 2087 c.c. per danno biologico costituisce ormai da anni jus receptum per la giurisprudenza.8

E' pacifico, infatti, che i comportamenti che nuocciono all'esplicazione della personalità del soggetto, menomandola e mortificandola, producono non solo un danno patrimoniale, ma anche il c.d. "danno biologico", che è patrimonialmente

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valutabile e la cui determinazione deve essere effettuata anche nell'ambito di una valutazione equitativa ex art.1226 c.c.

Ebbene, secondo i giudici, ha natura patrimoniale e va risarcito nella sua interezza, il danno arrecato alla salute e all'equilibrio psicofisico di una persona, perché colpisce un valore essenziale che fa parte del patrimonio del soggetto. Esso, pertanto, non è limitato alle conseguenze pregiudizievoli inerenti all'efficienza lavorativa e alla capacità di produzione del reddito del danneggiato, ma si estende a tutti gli effetti negativi incidenti sul bene primario della salute, in sé considerato, quale diritto individuale dell'uomo alla pienezza della vita fisica e all'esplicazione della propria personalità morale, intellettuale e culturale, nel grado di intensità, anche minimo, raggiungibile da ciascun soggetto.

Secondo, infatti, un principio più volte richiamato in giurisprudenza,9 un medesimo comportamento, in quanto suscettibile di ledere diritti di natura diversa, ben può anche costituire contemporaneamente tanto un illecito contrattuale, sanzionabile in base a norme specifiche di inadempimento contrattuale, quanto illecito extracontrattuale, sanzionabile ex artt. 2043 c.c. e ss.

Riconosciuta la possibilità di tutela, va però nel caso concreto adempiuto l’onere probatorio imposto dall'art. 2697 c.c., che richiede al lavoratore, per provare l'esistenza dei presupposti per la risarcibilità del danno biologico ex art. 2087 c.c., di dimostrare:

1. che le vessazioni ed i comportamenti denunciati si siano realmente verificati;

2. che il datore di lavoro, nelle persone di chi per esso amministrava e dirigeva, non abbia posto in essere tutte le misure idonee affinché dette molestie non si verificassero o reiterassero nel tempo ovvero abbia dolosamente arrecato un danno al dipendente;

3. l'effettività del danno biologico subito;

4. il nesso di causalità tra tali condotte persecutorie e le lesioni psicofisiche del ricorrente.

In merito alla prova del mobbing, i giudici fino ad oggi si sono però sempre espressi in maniera alquanto restrittiva e moderata, indipendentemente dalla gravità del comportamento denunciato.10

Ai fini dell’accertamento dei fatti, reputo quindi importante sfruttare tutti gli strumenti introdotti dal legislatore nel processo del lavoro sulla base del principio cardine della tendenziale ricerca della verità materiale.

Faccio riferimento a:

1. la necessità di rifarsi a prove documentali precise (anche a mezzo di registrazioni meccanografiche e fotografie) e soprattutto testimoniali, per esordire un effetto di maggiore convincimento nel giudice;

2. l’indispensabilità di allegare, già all’atto introduttivo, una perizia psichiatrica – o comunque specialistica – a supporto della dimostrazione del nesso di causalità e di richiedere, sin dal principio, l’intervento di un C.T.U. medico-legale per la valutazione del danno psichico;

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3. l’opportunità di stimolare il libero interrogatorio della parte e, ove il giudice lo riterrà possibile, anche dei familiari di questo;

4. l’utilità, infine, di fare anche istanza di accesso sul luogo di lavoro per l’apposita procedura ispettiva prevista dall’art.421, 3° comma, c.p.c., qualora ciò sia significativo per documentare l’illegittimità del trattamento ricevuto.

Importante, in queste particolari controversie, è riuscire a sensibilizzare il più possibile il giudice, alimentando in lui la convinzione che ciò che si è denunciato, dal fatto più grave a quello meno grave, rientri in un unico disegno vessatorio teso a ledere la personalità e la dignità del lavoratore, che per un motivo qualsiasi – spesso suffragato da ragioni profondamente soggettive – è divenuto scomodo per l’azienda o per il superiore, oppure semplicemente per il collega.

Con questo sistema, che opera proprio nel senso di ricostruire l’intera vicenda ricorrendo alternativamente anche a più strumenti di prova della veridicità dei fatti denunciati, quando l'altra incontra una preclusione o un limite nell'ordinamento, è stato più volte in giudizio dimostrato che è possibile, sul piano applicativo, eliminare i problemi che sorgono dalla distinzione teorica fra violazioni contrattuali specifiche e non, con una buona riuscita della controversia giudiziale.

* * *

4. IL DANNO DA MOBBING.

Un altro importante profilo è quello risarcitorio ed anche da questo punto di vista la tutela del lavoratore mobbizzato incontra non poche difficoltà.

Il c.d. danno da mobbing include senz’alcun dubbio sia il danno patrimoniale che quello non patrimoniale, meglio detto danno biologico.

Intorno al danno non patrimoniale, inteso come pregiudizio arrecato ad interessi non economici aventi rilevanza sociale,11 vi è oggi un acceso dibattito dottrinale e giurisprudenziale volto ad individuare gli strumenti più appropriati per superare l’ormai anacronisticolimite fissato dall’art. 2059 c.c. Tale norma sancisce, infatti, la regola della risarcibilità dei danni non patrimoniali "solo nei casi determinati dalla legge", vale a dire principalmente nelle ipotesi di reato.12

La presenza di una clausola così limitativa, sopratutto in casi di mobbing, ha imposto ai giuristi di riconsiderare la figura dell’illecito nella sua unitarietà attraverso un collegamento sistematico e strutturale tra l’art. 2059 c.c. e l’art. 2043 c.c. Scopo di quest’operazione è di apprestare una tutela piena del danno alla persona, senza sostanziale differenziazione tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale, e a prescindere dalla sussistenza di un reato, laddove il risarcimento di quello che tradizionalmente è definito danno non patrimoniale svolge la funzione di riparare alla lesione dell’integrità umana nella sua dignità.

Reinterpretando il sistema di risarcimento alla luce dei principi costituzionali, si pone il problema di individuare come riparare alle lesioni di beni-interessi che, in quanto connessi allo svolgimento della personalità dell’individuo ed al pieno sviluppo della

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persona umana, sembrerebbero ontologicamente refluire nell’alveo tradizionale del danno non patrimoniale.13

Due sono le principali scelte interpretative su cui si confrontano la dottrina e la giurisprudenza.

La prima è orientata nel senso di un’estensione contenutistica dell’art. 2059 c.c., attraverso un’interpretazione sistematica ed evolutiva della norma sulla base dei principi costituzionali e del sistema risarcitorio nel suo complesso, al fine di apprestare un efficace strumento di tutela nel caso di ingiustificata compromissione di beni-interessi definiti inviolabili.14

Nell’ambito dello stesso filone si colloca anche chi propende per un ampliamento della sfera di operatività del danno morale, ancorandolo ai valori costituzionali, in funzione non tanto ampliativa, quanto piuttosto selettiva del bene-interesse tutelato.15 All’interno della seconda ipotesi interpretativa si colloca il riconoscimento della nuova e autonoma categoria del danno biologico, inteso come lesione dell’integrità psicofisica e della salute. In particolare, la Consulta ha dapprima recepito la nuova figura del danno alla salute, configurandola come danno non patrimoniale risarcibile ai sensi e nei limiti dell’art. 2059 c.c. (sent. n. 88/79), salvo affermare in un’altra sentenza che il danno alla salute, in quanto diritto costituzionalmente garantito, non sopporta limitazioni di risarcibilità in caso di lesioni (sent. n. 87/79).

Successivamente però, la Corte Costituzionale, mutando decisamente rotta, ha fatto refluire il danno biologico nell’ambito d’applicazione dell’art. 2043 c.c., propendendo per una sua qualificazione in termini di danno patrimoniale (sent. n.

184/86). Ha così ricondotto il danno alla salute tra i danni non patrimoniali, cui però deve applicarsi per analogia iuris la disciplina dell’art. 2043 c.c. (sent. n. 372/94),16 quale espressione di un principio generale che assoggetta a risarcimento ogni danno ingiusto, senza distinguere tra situazione a carattere patrimoniale e non.17

Con un’altra pronuncia (ord. n. 293/96) ha inoltre affermato il principio secondo cui il danno biologico va risarcito nell’ambito dell’art. 2059 c.c., laddove sussistano gli estremi del reato, nulla aggiungendo invece a proposito della risarcibilità del danno biologico nelle ipotesi che non integrino un illecito penale. Malgrado tali oscillazioni, in ultima analisi, la Corte costituzionale, sancendo la risarcibilità del danno non patrimoniale alla salute ex art 2043 c.c., ha salvato l’art. 2059 c.c. da ogni possibile censura di incostituzionalità, ma ne ha al tempo stesso limitato la portata alla risarcibilità del solo danno morale puro, da sofferenza morale e da patema d’animo, inteso come sottocategoria del danno non patrimoniale, per la quale soltanto devono ritenersi operanti le limitazioni di risarcibilità fissate dall’art. 2059 c.c.; limitazioni che si giustificano in considerazione del fatto che in tale ipotesi non viene in rilievo alcuna garanzia costituzionale.

Seguendo le indicazioni della Corte, che peraltro non hanno mancato di suscitare perplessità in parte della dottrina,18 si è concluso che se una posizione soggettiva è assistita da una garanzia costituzionale, ed è questo il caso dei diritti inviolabili della personalità, debba valere lo stesso ragionamento fatto per il diritto alla salute ex art.

32 Cost., vale a dire in questi casi il danno non patrimoniale deve essere risarcito ex art. 2043 c.c. come species di danno ingiusto.19

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Se quest’ultima è la soluzione che allo stato sembra più praticabile e più coerente con l’evoluzione del sistema nel suo complesso, alla luce del processo di tendenziale traslazione della materia risarcitoria verso l’art. 2043 c.c., con la conseguente erosione dell’art. 2059 c.c.,20 si pone il problema di verificare se il sistema già offra al suo interno uno strumento idoneo a garantire una piena protezione alla personalità del soggetto, ovvero se sia opportuno individuare una nuova ed autonoma figura risarcitoria ad hoc, il danno esistenziale, valutata anche la sua compatibilità con le altre categorie di danno.

Il dibattito sul punto è aperto. Da una parte si collocano coloro i quali ritengono che le esigenze sottese all’introduzione di un’autonoma voce di danno esistenziale possono già essere soddisfatte nel contesto attuale, attraverso una crescita dell’area coperta dal danno alla salute.21

Secondo tale formulazione "allargata", il danno biologico, inteso come danno alla persona "riferito all’integrità dei suoi riflessi pregiudizievoli rispetto a tutte le attività, le situazioni e i rapporti in cui la persona esplica se stessa nella propria vita, [...]

anche con riferimento alla sfera spirituale, culturale, affettiva, sociale, sportiva e ad ogni altro ambito e modo in cui il soggetto svolge la sua personalità",22 sarebbe in grado da solo "di raccogliere alla fine del ventesimo secolo la sfida delle nuove frontiere del danno risarcibile".23

Dall’altra parte, tra i sostenitori della nuova figura del danno esistenziale, si collocano coloro i quali ancorano invece il danno biologico ad una rigida matrice medico-legale, restringendone la portata ai soli pregiudizi di carattere psico-fisico accertabili attraverso una consulenza medico-legale.24

Costoro, opponendosi al processo di estensione della categoria del danno alla salute, avvertono l’esigenza di individuare uno specifico strumento di tutela con riferimento a tutti gli aspetti ed i momenti della personalità del soggetto che, pur non risolvendosi in lesioni all’integrità psico-fisica, accertabili secondo i canoni della scienza medico- legale, tuttavia si ripercuotono sull’individuo comprimendo un diritto costituzionalmente garantito afferente la sua sfera esistenziale. Il danno esistenziale verrebbe così a costituire un’autonoma categoria di danno, conseguente alla lesione di un diritto di rango costituzionale,25 in grado di contenere anche tutte quelle figure risarcitorie che, seppure sorte nell’ambito del danno biologico, tuttavia non concernono direttamente il diritto alla salute, quanto piuttosto il profilo relazionale- sociale. Se l’archetipo di tale ricostruzione è senza dubbio da rintracciare nella figura del danno biologico, tuttavia il danno esistenziale, così come è stato prospettato, verrebbe a tutelare interessi diversi ed ulteriori (perché non circoscritti al solo diritto alla salute), dal momento che assicurerebbe una salvaguardia risarcitoria a fronte di ogni modificazione peggiorativa patita dal danneggiato nell’esplicazione della propria personalità, intesa come valore fondamentale dell’individuo, cui l’ordinamento deve tendere e perciò solo tutelare adeguatamente.

Resta ben inteso che in tal caso la tutela risarcitoria non è invocabile nel caso di generici pregiudizi esistenziali, conseguenti alla lesione di un qualsivoglia interesse, bensì soltanto nel caso di lesione di beni-interessi che godano di una copertura, diretta o indiretta, di rango costituzionale. In tali casi soltanto, riconosciuto il valore

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assoluto dei diritti inviolabili come beni e valori personali, in quanto tali garantiti dalla Costituzione come diritti fondamentali dell’individuo, al pari della salute, il pregiudizio alla sfera esistenziale cagionerà un danno riparabile in quanto suscettibile di valutazione patrimoniale, attraverso il ricorso al potere equitativo del giudice.

Questa nuova figura di danno, attraverso la quale si riconosce un autonomo spazio di salvaguardia anche sul terreno risarcitorio ai valori della persona (diversi dal diritto alla salute ex art. 32 Cost.) si viene ad affiancare, nell’ambito del sistema, alla tripartizione ormai classica del danno biologico, del danno morale e del danno patrimoniale26 e garantisce in tal modo una perfetta conciliabilità anche nei casi di mobbing.

Una notazione particolare merita, infatti, il rapporto tra il danno esistenziale ed il danno biologico derivante da una lesione psichica. Il danno psichico è invocabile solo laddove le conseguenze negative provocate dall’illecito siano tali da incidere negativamente sulla salute psichica della vittima. Viceversa, il danno esistenziale è invocabile anche nell’ipotesi in cui le alterazioni e gli squilibri provocati dall’illecito, non siano tali da compromettere l’equilibrio mentale della vittima in modo così grave da determinare una vera e propria patologia. Ciò comporterà inevitabilmente un’inversione di tendenza con riferimento alla portata applicativa del danno psichico, che pure, negli ultimi anni, ha incontrato notevole fortuna presso le corti, dal momento che rappresentava l’unico strumento utilizzabile per riconoscere uno spazio di tutela risarcitoria alle lesioni incidenti sulla sfera personale del danneggiato.

La categoria di danno così delineata è destinata ad assumere una valenza di ordine generale, tale da renderla applicabile anche al campo della responsabilità da inadempimento.27

E’ ben vero che l’art. 1174 c.c. prevede che la prestazione deve avere un contenuto patrimoniale, tuttavia nella medesima disposizione si ammette che l’obbligazione possa corrispondere anche ad un interesse non patrimoniale. Del resto la rilevanza degli interessi e dei valori non patrimoniali nell’ambito dei rapporti contrattuali si evince da una serie di norme specifiche, prime fra tutte gli artt. 2087 e 2105 c.c., in tema di rapporti di lavoro.

Nell’applicare le considerazioni sin qui svolte al campo dei rapporti di lavoro, ed in particolare alla problematica connessa alla tutela della persona del lavoratore, occorre premettere alcune osservazioni relative alla peculiarità della disciplina in questione.

Trattandosi di situazioni relative allo svolgimento di un contratto di lavoro, ci muoviamo all’interno della responsabilità per inadempimento.28

La particolarità che connota il rapporto di lavoro, laddove vengono in potenziale conflitto due soggetti, di cui uno, il prestatore di lavoro, da considerarsi soggetto debole, se non da un punto di vista giuridico, quantomeno da un punto di vista economico-sociale, esige una tutela forte e garantista della persona del lavoratore.29 La norma fondamentale di riferimento, in cui si materializza nella disciplina codicistica quest’esigenza di protezione della persona del prestatore di lavoro non solo sotto il profilo fisico, ma anche sotto il profilo etico e morale, è l’art 2087 c.c. Le disposizioni in esso contenute radicano in capo al datore di lavoro un duplice obbligo di protezione, tanto con riferimento all’integrità fisica ed alla salute del lavoratore,

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quanto con riferimento alla sua personalità morale. Questi obblighi non sono che una specificazione del più generale dovere di correttezza ex art. 1175 c.c., e compendiano l’obbligo dell’imprenditore di rispettare il diritto del prestatore alla conservazione della propria integrità psico-fisica, con il dovere di salvaguardarne la personalità, intesa nella sua più ampia accezione.30

E’ stato significativamente notato in dottrina come la norma, con il riferimento alla protezione della personalità morale del prestatore, comporti che "nell’esecuzione del rapporto deve essere rispettata la ‘persona’ del debitore di opere, sia in senso fisico, sia nella direzione più ampiamente etica, onde evitare che il prestatore, anziché cedere energie e forza-lavoro, sia costretto a ‘scambiare’ ed alienare i propri diritti personalissimi".31

Attraverso l’introduzione di tali obblighi, in funzione protettiva, un elemento non patrimoniale entra a far parte, come componente essenziale, dell’oggetto del rapporto di lavoro: il generale principio del neminem laedere "si materializza e assume la forma giuridica di un’autonoma obbligazione contrattuale, così confermando l’esistenza di un periculum reale ed immanente nella relazione giuridica che nasce dal contratto di lavoro subordinato".32

La portata dell’art. 2087 c.c. va altresì colta attraverso una lettura in chiave costituzionale delle disposizioni in esso contenute.

Il riferimento è innanzitutto all’art. 32 Cost. per ciò che attiene all’obbligo di tutelare l’integrità fisica del lavoratore. L’ulteriore estensione dell’obbligo di protezione, fino a ricomprendervi la tutela della personalità morale del prestatore, impone una reinterpretazione più estesa della norma codicistica, alla luce anche degli artt. 2, 3 e 41 II co. Cost. In particolare, valorizzando la portata immediatamente precettiva delle disposizioni costituzionali, il rispetto della sicurezza, della libertà e della dignità umana si pongono come limiti invalicabili nell’esercizio del potere d’iniziativa economica privata. Dunque, non solo tutela della sicurezza e dell’integrità fisica, ma anche salvaguardia delle essenziali prerogative del lavoratore inteso quale persona.

Da quest’analisi è possibile cogliere la valenza universale dell’art. 2087 c.c., in grado di assicurare una tutela piena e rafforzata, in quanto direttamente collegata a precetti di rango costituzionale, del prestatore di lavoro, tanto a fronte di comportamenti lesivi della sua integrità psico-fisica, quanto a fronte di comportamenti lesivi della sua sfera personale-morale.33

Sul terreno della tutela risarcitoria per il principio di effettività della tutela, se c’è stato un danno, non può non esservi spazio per una tutela risarcitoria, in funzione di riparazione del pregiudizio subito.34

Ebbene, sulla base di quanto fin qui esposto, un danno a carico del lavoratore può verificarsi ogni volta che il datore di lavoro, venendo meno agli obblighi di protezione imposti dall’art. 2087 c.c., cagioni una lesione dell’integrità fisica ovvero comprometta la personalità morale del prestatore di lavoro. In entrambe le ipotesi è riscontrabile un inadempimento contrattuale del datore di lavoro rispetto ad un obbligo che si inserisce come componente essenziale del rapporto di lavoro subordinato e perciò solo è fondato il ricorso all’azione risarcitoria da parte del lavoratore.

(12)

Tuttavia, dall’analisi dell’esperienza giurisprudenziale emerge che mentre il primo profilo dell’art. 2087 c.c., collegato alla tutela del diritto alla salute, è stato preso in considerazione e tutelato in via diretta attraverso la figura del danno biologico, più trascurato è stato invece il secondo aspetto dell’art. 2087 c.c., relativo alla tutela della personalità morale del lavoratore, che pure, come si è già visto, risulta coperto da garanzia costituzionale. Si è assistito in proposito ad una singolare operazione ermeneutica da parte della giurisprudenza lavoristica che da un lato, superando l’ordinario regime civilistico relativo alla lesione dei diritti della personalità,35 ha ampliato l’ambito della tutela giuridica del lavoratore ricomprendendovi diverse ipotesi di violazione dei diritti della persona, dall’altro però ha giustificato l’utilizzo del rimedio risarcitorio "associando alla violazione dei valori personali (ad es. la dignità) una concomitante violazione della salute, agevolmente ravvisabile nello stress fisico e/o psichico sofferto dal lavoratore a causa dell’illecito e del peggioramento della situazione esistenziale: ché, una volta invocata la prospettiva più tranquilla e assodata del danno alla salute (cioè al bene giuridico salute), il rimedio risarcitorio segue infallibilmente".36

Sicché il percorso compiuto dalla giurisprudenza, pur meritorio nei suoi esiti finali, ha forse peccato di ambiguità quanto ad impostazione di principio. L’utilizzo dello strumento del danno biologico ed il costante richiamo al solo bene giuridico salute, per giustificare la tutela risarcitoria, hanno comportato una mancata valorizzazione dell’ultima parte dell’art. 2087 c.c.,37 con evidente pregiudizio per le ragioni del prestatore di lavoro, in particolare, nelle ipotesi in cui il danno collegato alla lesione dei diritti della personalità finiva per costituire l’unica voce di danno possibile. In casi di questo genere la giurisprudenza si è a lungo sforzata di rintracciare comunque nella lesione della professionalità, della dignità e della personalità del lavoratore una sindrome psichica, vale a dire una vera e propria lesione della salute, piuttosto che ammettere la risarcibilità del danno collegato alla compromissione della sfera esistenziale-personale del prestatore di lavoro.38

Se con fatica si è giunti ad elaborare la figura del danno biologico, al fine di tutelare con uno strumento tecnico ad hoc il diritto alla salute, una simile opera ricostruttiva è auspicabile anche al fine di individuare una figura di sintesi relativa ai danni conseguenti alla lesione dei diritti fondamentali della persona. In particolare, nell’ambito dei rapporti di lavoro, non si può procedere solo con lo strumento del danno biologico; il suo ambito applicativo non può essere esteso a dismisura, tramite un progressivo allargamento delle ipotesi di danno psichico. Deve potersi riconoscere una tutela risarcitoria anche quando la lesione di una prerogativa costituzionale, pur cagionando un danno effettivo, non abbia comportato una patologia clinicamente accertabile.

La figura di sintesi in grado di garantire quanto sin qui auspicato è rappresentata dal danno esistenziale. E’ questa la categoria che meglio sintetizza l’esigenza di tutelare in via diretta la persona, nel suo essere e nei suoi valori, piuttosto che, in via indiretta, attraverso la protezione della sua sfera patrimoniale.39

In ambito lavoristico una simile figura di sintesi sarebbe in grado di assicurare un adeguato ristoro in tutti quei casi di ingiustificata e dannosa compromissione della

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personalità morale del lavoratore, anche se non tali da originare traumi o sindromi psichiche di natura patologica. Ciò è tanto più vero nelle ipotesi in cui tali danni derivino direttamente da una situazione di mobbing".40

In particolare, si fa riferimento a quelle già richiamate ipotesi di danno da illegittimo licenziamento del lavoratore,41 o da licenziamento ingiurioso,42 ovvero ancora alle ipotesi di dimissioni determinate da molestie sessuali,43 o alle diverse ipotesi di dequalificazione professionale, con conseguente lesione della professionalità44 e menomazione della capacità di concorrenza lavorativa ed avanzamento di carriera.45 Dunque, secondo questa ricostruzione, due sarebbero le voci di danno attraverso le quali si realizza la tutela piena ed effettiva della persona: il danno biologico, di portata più ristretta e connesso alla specifica tutela del diritto alla salute, e il danno esistenziale, di portata più ampia e connesso alla tutela dei diritti fondamentali dell’individuo costituzionalmente garantiti.

L’unico problema resta ancora quello di individuare una tecnica di monetizzazione del danno ancorata a parametri e criteri obiettivi, certi ed omogenei, in grado di scongiurare il rischio di ingiustificate disparità di trattamento e al tempo stesso di assicurare un’uniformità di giudizio tra le diverse corti.46 Pur condividendo l’opinione della Suprema Corte quando afferma che tali parametri debbono comunque essere ponderati dal giudice, così da essere adattati e misurati al caso concreto,47 tuttavia occorre evitare che il potere equitativo del giudice degeneri in arbitrio, o quantomeno che la liquidazione del danno sia lasciata solo al suo prudente apprezzamento. E’ necessario indirizzare in qualche modo il giudice individuando

"parametri idonei ad attribuire un valore economico unitario ai diritti della persona (sul presupposto che uguale debba essere la loro valenza) [sebbene] tali "metri" non esistono in rerum natura".48

Oggi la valutazione del danno non patrimoniale (nell’ambito del quale deve necessariamente ricondursi, secondo le categorie tradizionali, la lesione dei diritti della persona costituzionalmente garantiti) è ancorata a parametri di valutazione che risentono dell’influenza dell’orientamento giurisprudenziale maggioritario, secondo cui il danno non patrimoniale si identifica con il patema d’animo (c.d. pretium doloris).49

I principali criteri, in via esemplificativa, sono rappresentati: dall’intensità del patema d’animo, dal grado di sensibilità dell’offeso, dalla gravità del reato, dal riferimento alla pena edittale, dal concorso di colpa del danneggiato, dalle condizioni economiche delle parti, dal profitto conseguito dal danneggiante, dal quantum assegnato a titolo di danno patrimoniale.50 Criteri tutti, com’è evidente, inidonei a realizzare una tutela omogenea, piena ed effettiva di quei valori personali fondamentali secondo la prospettazione che è stata ricostruita.

NOTE:

1 V. Cass., Sez. Lav., 13 agosto 1991, n.8835, RIDL. 1992, 954 ss.; Tribunale di Roma, 28 febbraio 1990, L80, 1990, 659 ss.; Pretura di Milano, 27 novembre 1989, ivi, 100 ss.; Pretura di Milano 28 dicembre 1990, RIDL, 1991, III, 388.

(14)

2 V. FOCARETTA, Sottrazione di mansioni e risarcimento del danno, RIDL. 1992, 957.

3 V. GIUGNI, Qualifiche, mansioni e tutela della professionalità, RDL., 1973, I, 3 e ss.; SCOGNAMIGLIO Mansioni e qualifiche dei lavoratori: evoluzione e crisi dei principi tradizionali, ibidem, 167.

4 V. S. RODOTÀ, Il terribile diritto, Bologna - Il Mulino, 1981.

5 Cfr. Cass., 20 dicembre 1986, n.7801, RIDL., 1987, II, 578 e ss.

6 V. L. MONTUSCHI (Professore Ordinario di diritto del lavoro dell'Università di Bologna), Problemi del danno alla persona nel rapporto di lavoro, RIDL., 1994, 328.

7 così Cassazione Civile, 17/11/1995, n. 7768, NDL., 1995, 740.

8 per tutte: Cassazione Civile, Sez. Lavoro, 06/07/1990 n. 710; Cassazione Civile, Sez. lavoro, 16/12/1992 n. 132999;

Cassazione Civile, Sez. lavoro, 18/10/1999 n. 11727.

9 V. Cass., Sez. Unite, 14 maggio 1987 n. 4441, GC 1987, 1627; Cass., 22 settembre 1983 n. 5683, RFI 1981, I, 388; Cass.

7 agosto 1982 n. 4437, ivi 1984, voce "Responsabilità civile" n.55.

10 V. Cass., Sez. Lav., 08 gennaio 2000, n.143.

11 In tal senso BIANCA, Diritto civile, La responsabilità, vol. 5, Milano 1994, p. 168, la Corte cost. ha definito danno non patrimoniale "… ogni danno non suscettibile direttamente di valutazione economica", cfr. Corte cost. 22 luglio 1996, ord. n. 293, in DR, 1996, p. 679.

12 Questa interpretazione tradizionale assolutamente pacifica risale a R. SCOGNAMIGLIO, RTDPC, 1957, p. 357, e fu poi consacrata dalla Suprema Corte, v. Cass. S.U. 6 dicembre 1982, sent. n. 6651, FI, 1983, I, p. 1631; cfr. sul punto MONATERI, Alle soglie di una nuova categoria risarcitoria: il danno esistenziale, DR, 1999, n. 1., p. 5 nota 3.

13 Nel senso della sicura non patrimonialità del bene persona, insuscettibile di un prezzo economico, cfr. BIANCA, cit., p.

180.

14 In tal senso NAVARRETA, Diritti inviolabili e risarcimento del danno, Torino, 1996, p. 32 ss., che sottolinea però anche l’esigenza di "evitare un’ipertrofia degli stessi diritti inviolabili, tramite una loro indefinita moltiplicazione giurisprudenziale".

15 Per una rilettura della categoria del danno morale, finalizzata a ricomprendere in esso la tutela dei diritti inviolabili inerenti all’integrità ed alla dignità umana, cfr. PETTI, Il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale della persona, Torino, 1999, p. 13; peraltro va sottolineato come la Corte cost. (ord. n. 293/96) abbia negato la possibilità di ravvisare una garanzia costituzionale per quel che concerne il danno morale.

16 Per tale ricostruzione, a proposito della vicenda del danno biologico, cfr. BUSNELLI, Interessi della persona e risarcimento del danno, RTDPC, 1996, p. 1 ss.

17 In tal senso GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 1996, p. 694.

18 Sottolinea NAVARRETA, cit., p. 18, come risulti "ancora avvolto di interrogativi il significato teorico della traslazione del danno alla salute nell’art. 2043 c.c.. Si alternano la tesi di un superamento radicale della patrimonialità, attraverso una sorta di equazione fra rilevanza costituzionale dell’interesse leso e risarcibilità ex art. 2043 c.c., ed il tentativo di salvaguardare la nozione di patrimonialità".

19 Così MONATERI, cit., p. 6, che sottolinea altresì come "la categoria del ‘danno non patrimoniale abbia ormai un valore più che altro dogmatico e classificatorio, [laddove] la distinzione operazionale rilevante è quella tra danni morali di cui all’art. 2059 c.c. e tutti gli altri tipi di danno risarcibili come species di danno ingiusto ex art. 2043 c.c.".

20 In tal senso NAVARRETA, cit., p. 139.

21 In tali termini si esprime PONZANELLI, Limiti del danno esistenziale: postfazione al convegno triestino, DR, 1999, n.

3, p. 361.

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22 Così Corte cost. 18 luglio 1991, n. 356, Q, 1992, p. 149; nonché Cass. 13 maggio 1995, n. 5271, riportata da VETTOR, Violazione dell’art. 2103 c.c. e risarcimento del danno professionale, OGL, 1997, II, p. 65.

23 Così letteralmente PONZANELLI, cit., p. 361.

24 In tal senso cfr. MONATERI, cit., p. 8.

25 Così MONATERI, cit., p. 8.

26 In tal senso in giurisprudenza cfr. Trib. Torino 12 luglio 1995, cit., p. 378-79, nonché MONATERI, cit., p. 8, il quale non condivide la ricostruzione di P. Ziviz (Il danno non patrimoniale, in La responsabilità civile, VII, a cura di CENDON, Torino, 1998) che prospetta un sistema risarcitorio tripartito, costituito dalle due categorie tradizionali del danno patrimoniale e del danno morale, alle quali si deve aggiungere quella del danno esistenziale, all’interno della quale sarebbe da ricondurre il danno biologico.

27 In tal senso ZIVIZ, cit., p. 382.

28 In tal senso, v. Trib. Bologna, 11 ottobre 1999, GL, 1999, n. 49, p. 34. VETTOR, cit., p. 63, rileva le oscillazioni della giurisprudenza sul problema della natura contrattuale o extracontrattuale della responsabilità e sottolinea come, nei casi in cui i giudici hanno preso una posizione in merito, da una parte è rinvenibile un orientamento secondo cui il danno è risarcibile a titolo di responsabilità contrattuale in violazione dell’art. 2087 c.c., dall’altra non sono mancate sentenze che hanno accolto la soluzione opposta, sostenendo la natura extracontrattuale della responsabilità collegata al danno alla professionalità.

29 Non è da condividere l’opinione di chi non riconosca la specialità del rapporto di lavoro nell’ambito dei rapporti inter privatos e con essa l’esigenza di una tutela rafforzata della personalità e della dignità del lavoratore, in tal senso, v., invece, BUSNELLI, cit., p. 17.

30 In tal senso MONTUSCHI, cit., p. 321.

31 Così MONTUSCHI, cit., p. 322.

32 Così MONTUSCHI, cit., p. 322.

33 Sono da ricomprendere nell’ambito di tale categoria una serie di casi tra loro eterogenei: dalle ipotesi di molestie sessuali che hanno causato le dimissioni in tronco della lavoratrice, alle ipotesi di licenziamento ingiurioso, alle diverse ipotesi di dequalificazione professionale. Ipotesi tutte che si risolvono in una compromissione della personalità e della dignità del lavoratore, valori fondamentali costituzionalmente garantiti.

34 In tal senso cfr. Cass. 16 dicembre 1992, n. 13299, DInf, 1993, II, p. 656, secondo cui "Il danno va risarcito: questo è l’essenziale […] perché resti tutelata l’esigenza del libero svolgimento dell’attività lavorativa e della salvaguardia della personalità e libertà del lavoratore".

35In tal senso, PIZZOFERRATO, Il danno alla persona: linee evolutive e tecniche di tutela, CI, 1999, III, p. 1087.

36 Così TULLINI, Del licenziamento ingiurioso, del danno biologico e di altro, RIDL, 1994, II, p. 571, riportato da PIZZOFERRATO, Il danno alla persona, cit., p. 1088-89.

37 Osserva MONTUSCHI, cit., p. 323, come la giurisprudenza fosse "poco incline all’esaltazione dei valori primari fondamentali" cosicché l’art. 2087 c.c. "è stato pressoché disapplicato dalla giurisprudenza, che non ha saputo coglierne, né valorizzarne l’intrinseca vocazione alla ‘tutela’ dei valori della persona".

38 Solo di recente si è assistito a pronunce giurisprudenziali, per lo più di merito, che hanno riconosciuto ed hanno liquidato come tale il "danno alla personalità morale" ex art. 2087c.c.; v. in proposito Pretura Vicenza 20 aprile 1999, GL, n. 8-2000, p. 42.

39 Ciò in linea con un processo di portata generale conosciuto come "depatrimonializzazione" del diritto civile. Cfr., in tale prospettiva, ZIVIZ, op. ult. cit., p. 93.

40 Si fa qui riferimento a quelle particolari ipotesi in cui le provocazioni, le vessazioni, le pressioni psicologiche subite dal lavoratore non siano tali da determinare disturbi di origine emotiva (ad es. depressione, ansia, attacchi di panico), neurologica (ad es.

insonnia) o patologica (ad es. colite, gastrite) clinicamente apprezzabili, ma si sostanzino comunque in una violenza morale, lesiva della personalità e della dignità del lavoratore, e tale da incidere negativamente nell’esecuzione della prestazione lavorativa.

(16)

41 In tal senso, cfr. Pret. L’Aquila 10 maggio 1991, cit., p. 317.

42 In proposito, vedi Pret. Ferrara 25 novembre 1993, cit., p. 70 ss.

43 In proposito, vedi Cass. 17 luglio 1995, n. 7768, RCP, 1996, p. 329.

44 In tema, cfr. Pret. Milano 19 febbraio 1999, D&L, 1999, p. 375; Pret. Milano 9 aprile 1998, D&L, 1998, p. 704; Pret.

Milano 7 gennaio 1997, OGL, 1997, p. 59 ss.; Pret. Milano 26 agosto 1996, D&L, 1997, p. 140.

45 In materia, cfr. Pret. Lucca 26 ottobre 1994, D&L, 1995, p. 648.

46 In giurisprudenza si è fatto riferimento ad una valutazione che non appaia difforme da quella generalmente accolta in casi simili, sottolineando che la liquidazione deve essere tale da rappresentare il riflesso della coscienza media esistente nella società in un dato momento storico. Cfr., in tal senso, App. Venezia 20 settembre 1966, RCP, 1968, p. 210, riportata da ZIVIZ, op. cit., p. 181.

47 In tal senso, vedi Cass. 18 febbraio 1993, n. 2009, GC, 1993, p. 2102, riportata da MONTUSCHI, cit., p.333.

48 Così MONTUSCHI, cit., p. 333.

49 In tal senso ZIVIZ, op.cit., p. 184.

50 Per una disamina più approfondita di tali criteri, v. ZIVIZ, op. cit., p. 185 ss.

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