LA
STORIA D’ITALIA
RACCONTATA ALLA GIOVENTÙ
DA' S U O I P R I M I A B I T A T O R I SINO AI NOSTRI GIORNI
c o r re d a ta d i u n a C a rta G eografica d ’ Ita lia
dal Sacerdote
BOSCO GIOVANNI
TORINO
TIPOGRAFIA PARAVIA E COMPAGNIA
1855.
P R O P R IE T À L E T T E R A R IA .
SCOPO E DIVISIONE
d i q u e s ta S to ria
E g li è un fatto universalm ente am m esso ch e i libri debbono essere adattati all''intelligenza di co
loro a cui si p a rla , in quella guisa che il cibo deve essere acconcio secondo la com plessione degli individui. A seconda di questo principio divisai di raccontare la Storia d’Italia alla gioventù, se guendo nella m ateria, nella dicitura e nella m ole dei volum i, le m edesim e regole già da me prati
cate per altri lib ri al medesimo scopo destinati.
Attenendom i perciò ai fatti certi e più fecondi di m oralità e di utili ammaestramenti, tralascio le cose incerte, le frivole congetture, le troppo fre
quenti citazioni di a u to r i, com e pure le troppo elevate discussioni politiche, le quali tornano inu
tili e talvolta dannose alla gioventù. Posso n on-
pertanto accertare il letto re, che con ho scritto un periodo senza confrontarlo coi più accreditati autori, e per quanto m i fu possibile, anche con
tem poranei, od alm eno più vicini al tempo cui si riferiscono gli avvenim enti. Nemmeno ho rispar
miato fatica nel leggere i moderni scrittori delle cose d’Italia, ricavando da ciascuno quanto parve convenire al mio intento.
Q uesta storia è divisa in quattro epoche p a r
tico lari; la prim a com incia dai prim i abitatori d’Italia e si estende fino al principio d ell'E r a vol
gare, quando tutto l ’impero Romano passò sotto la dom inazione di Augusto. Q uest’epoca si può de
nom inare l ’Italia antica o pagana.
La seconda dal principio del Romano im pero fino alla caduta del m edesimo in O ccidente nel 476, e la chiam erem o l'Italia cristiana, perchè appunto in tale spazio di tempo il Cristianesim o fu propa
gato e stabilito in tutta l ’Italia.
L a terza dalla caduta del Romano im pero in Occidente fino alla scoperta dell’A m erica fatta da Cristoforo Colombo n ell’anno 14 9 2 , ed è la Storia del Medio Evo.
La quarta com prende il resto della Storia sino ai nostri tempi, com unem ente appellato Storia Mo
derna.
Ho fatto quello che ho potuto perchè il mio lavoro tornasse utile a quella porzione dell’umana società che form a la speranza di un lieto avvenire, la gioventù. Esporre la verità storica, insinuare l’am ore alla virtù, fuga del vizio, rispetto alla reli
gione, fu lo scopo finale di ogni pagina.
Le buone accoglienze fatte dal pubblico ad al
cune mie operette altra volta pubblicate m i fanno pure sperar bene di questo com unque siasi lavoro.
Se a taluno riescirà di qualche vantaggio, ne renda gloria al Dator di tutti i b en i, cui intendo di con
sacrare queste m ie tenui fatiche.
EPOCA PRIMA
l . 'IT A L IA PA G A N A .
Dai primi abitatori d’Italia fino al principio dell' Era volgare.
1 . L' ITALIA ANTICA.
A llorché, m iei cari giovani, leggeste la Storia Sacra, a v rete senza dubbio notato che i prodi Maccabei m an
darono am basciadori a Roma p e r fare alleanza coi Ro
m ani già divenuti padroni di tu tta l 'Italia. È quella la p rim a volta che nei lib ri santi si p arla dei nostri paesi, sebbene fossero già lungo tem po prim a abitati. Ora siccome io credo che non v i sia paese del nostro p iù fe
condo di avvenim enti, e p iù ricco d ’uom ini illu stri p e r coraggio e p e r ingegno, cosi giudico di farvi cosa p ia cevole col n a rra rv i distintam ente i fatti p iù l um inosi che nei passati tem pi in questi paesi avvennero.
P rim a però di com inciare i racconti, e nom inarvi i p e r
sonaggi celebri, i quali ci p recedettero, sarebbe necessa
rio che im paraste a conoscere in una ca rta geografica i fium i p rincipali, le catene delle m ontagne, le città p iù im p o rta n ti, affine di poter m eglio essere in grado di
comprendere i molti fatti di cui l'Italia fu campo glo
rioso.
I monti più famosi d’Italia sono le Alpi e gli Appennini.
Si è dato il nome di Alpi a quella catena di mon
tagne che, cominciando da Nizza, corre verso set
tentrione sino al lago di Ginevra, quindi piegandosi verso levante, si stende sino al mare Adriatico, e quasi baluardo naturale separa l’Italia dalla Francia, dalla Svizzera e dall’Alemagna. Il primo tratto d’Italia che da Nizza si prolunga sino a Venezia, è bagnato a mez
zodì dal mare Mediterraneo. Il secondo tratto che da Venezia si piega verso mezzodì, quasi gamba umana, è bagnato a levante dal mare Adriatico, a ponente dal Mediterraneo.
In quella parte delle Alpi che sovrasta al Piemonte sorge il Monviso. Ivi ha sorgente il fiume che anti
camente denominavasi dai Latini Pado e dai Greci Eridano, da noi detto Po. È chiamato dai poeti re dei fiumi, perchè maggiore di tutti gli altri fiumi d’Italia;
passa presso la città di Torino, capitale del Piemonte, riceve il Ticino a poca distanza da Milano, capitale della Lombardia, e va a scaricare le sue acque nel mare Adriatico, vicino alla famosa città di Venezia.
Parecchi fiumi d’Italia oltre il Ticino concorrono ad ingrossare la corrente del Po, tra cui la Dora Riparia, che nasce alle falde del Monginevro, e si congiunge al Po presso a Torino. La Dora Maggiore ossia Baltea, che scende da quel tratto delle Alpi detto il piccolo S. Ber
nardo, e si scarica nel Po nelle vicinanze di Crescentino.
L’Adda, il Mincio e l ’Adige alla sinistra ed il Tanaro alla destra del Po, sono i principali affluenti, i quali traendo origine dalle Alpi, mettono foce in questo fiume.
Vicino a Nizza, dove cominciano le A lpi, com incia p u re u n ’altra giogaia di m onti d etti Appennini, la quale staccandosi dalle Alpi m edesim e, segnano u n sem icir—
colo intorno a Genova, capitale degli antichi L iguri, poi sotto a Bologna si piega verso mezzodì, a ttrav ersa n d o e dividendo l’Italia fino all’estrem o confine del regno d i Napoli.
Molti fiumi traggono la loro sorgente dagli App en n in i;
il Rubicone nasce dalle p arti orientali dell’antica E tru - ria, oggidì Toscana, e passando vicino alla città di R i- m ini va a scaricarsi n ell’A driatico. Sulle m edesim e v e tte degli Appennini d ’E tru ria , ma un p o ’ p iù al mez
zodì, tra e la sua sorgente il gran fiume T evere, il quale passa nel mezzo di Rom a, e va a scaricare le sue acque nel m are di Toscana, vicino al porto d ’Ostia.
S arà bene a ltresì, p e r chiarezza della storia, il ricor
darsi che anticam ente questa nostra Italia fu appellata con v arii nomi. Fu detta S aturn ia da Saturno, che le m em orie antiche ci danno p e r prim o legislatore dei nostri paesi, e che visse circa m ille e dugento anni prim a della venuta di Cristo.
Fu dipoi nom inata Enotria dagli E n o tr i, antichi ab itan ti d ’una p a rte d ’Italia : E sp eria , ovvero occiden
tale dai Greci, p erch è appunto ha tale posizione ri
spetto alla G recia. Talora è nom inata Tirren ia dai Tirreni, che sono i p iù antichi abitatori d ’Italia di cui ci sia rim asta m em oria.
La p a rte più m eridionale, che corrisponde all’odierno regno di Napoli, fu appellata Ausonia e talora Magna Grecia, nome che derivò dagli Ausonii popoli della Gre
cia, i quali vennero ivi a stab ilire la loro dim ora. Gal
lia Cisalpina fu p e r qualche tem po nom inata la parte
com presa tra la catena delle Alpi e la Toscana fino a Venezia. E bbe un tal nom e dai Galli, antichi invasori del nostro paese, di cui avrò p iù cose da raccontarvi.
Ma il nom e che a tu tti prevalse fu quello d 'I ta lia , nome che gli eru d iti fanno d eriv a re da Italo re dell E - notria , oggidì C alabria, il quale, avendo grandem ente prom osso la civiltà nelle nostre c o n tra d e , m eritò che fosse col suo nome appellato tu tto quel paese che og
gidì si nom ina Italia.
Prem essa la cognizione di questi n o m i, m iei cari am ici, voi potete m etterv i a leggere la Storia d ’Italia.
Tuttavia potendovi occorrere nom i di città o paesi da voi non ancora conosciuti, o ai nostri tem pi altrim enti nom inati, p e r togliervi questa difficoltà ho stim ato cosa utile m etterv i in fine di questo libro un piccolo dizio
nario con una carta geografica m oderna, m ercè cui voi potete con u n sem plice colpo d ’occhio confrontare i nom i antichi con quelli di oggidì.
II.
PRIMI ABITATORI DELL' ITALIA D a ll’an n o 2 6 0 0 a l 9 0 0 a v a n ti C risto .
Parecchi anni erano già trascorsi dopo il diluvio, e niun popolo era ancora venuto nel fertile paese, nel
l’am eno clima dell’Italia. Sicché i fiumi si versavano ovunque senza alcun letto regolare ; le colline e le mon
tagne erano ingom bre da folte selve, da oscure foreste;
la superficie delle valli e delle p ia n u re era coperta da acque stagnanti, da p aludi e da fanghiglia. Non p rati, non cam pi, giardini o vigne. Niuna città, borgo, vil
laggio echeggiava di voci um ane. Quando u n popolo discendente da T iras, figlio di Giafetto, venne a sta b i-
lirsi nella T oscana, anticam ente d etta T irre n ia , onde T irreno si appella quel m are che bagna le coste occi
dentali della Toscana. Ciò credesi avvenuto l ’anno due
m ila p rim a del Salvatore.
Ora im m aginatevi quante fatiche abbiano dovuto so
stenere qu ei nostri antenati affine di ren d e re fruttifero il terreno! Colla m assim a p rem u ra gli uni si diedero a form are argini e riv e p e r far p ren d e re ai fiumi un corso regolare ; gli altri a scavare canali in mezzo alle paludi p erchè avessero il libero scolo. A ltri a sradicare alberi e selve onde p oter utilm ente sem inar c a m p i, p ia n ta r vigne, raccogliere frutti. M entre costoro si occupavano con alacrità a coltivare le te rre , m olti a ltri si diedero a costruire case, donde com inciarono a sorgere borghi,
villaggi e città.
Debbo p rem ettere con grande mio rincrescim ento come le m em orie rig u ard an ti a quei p rim i abitatori dei nostri paesi, andarono in gran p a rte p erd u te , e quelle che si conservarono vennero m ischiate con molte favole. Ciò che si può sapere con qualche certezza si è che i T irreni crebbero ben tosto in gran num ero, perciò si divisero in tre popoli dagli antichi conosciuti sotto il nom e di Taurini, E tru sci, Osci.
I T aurini, quasi provenienti dal Tauro che è una lunga ed alta catena di m ontagne dell’Asia, andarono ad ab itare tra le Alpi ed il Po e da loro fu appellata Torino la capitale del Piem onte. E trusci furono detti quelli che restarono nel prim iero lor paese. Gli Osci poi andarono ad ab itare l’Italia m eridionale. Sparsasi intanto la fama della bellezza e della fertilità dell’Italia vennero a stabilirvisi successivam ente altri popoli stra
n ieri, circa l’anno 1700 av. C.
I Pelasgi, così d etti da Phaleg quarto discendente dopo Noè, sotto il nom e di O m bri, vennero ad abitare l’U m bria che forma oggidì una p a rte degli stati Romani.
Ceth nipote di Noè diede nom e alla grande Nazione dei Celti che scesero ad ab itare intorno all’A driatico, nella G erm ania e nella F rancia verso l ’anno 1300 av. C .
T u tti questi popoli figli d ’ un Dio Creatore, tu tti di
scendenti dal com un p ad re A d a m o , avrebbero dovuto am arsi come fratelli ; ma non fu così. Fosse p e r motivo di com m ercio, fosse a cagione d i possesso, nacquero discordie e fin d ’allora si cominciò a far g u erra. I T ir
ren i, degli a ltri meglio am m aestrati, ordinavano i loro eserciti, e a suon di trom ba li guidavano alla pugna in modo tale, che m ettevano in fuga chiunque avesse o - sato assalirli, facendo continue conquiste sopra i lor nem ici e p e r m are e p e r te rra . La grande isola d i S ar
degna, fu conquistata dai T irre n i. Dopo molto spargi
m ento d i sangue ben conoscendosi che la g u erra non ap p o rta v e ru n bene alle nazioni, gli E truschi deposero le arm i, e stretta alleanza coi loro vicini si diedero indefessam ente a coltivare la te rr a , a costruire città, a far fiorire il com m ercio. Fondarono Veio, M antova con m oltissim e altre città tr a loro confederate ed am iche.
A vevano u n sistema di m onete e di pesi ; praticavano cerim onie religiose, avevano riti e sacerdoti. Lavora
vano con m aestria 1’ oro e l ’ argento in filigrana e col cesello. E ra n v i tra d i loro abilissim i scultori in m arm o od in bronzo.
Dalla qu al cosa apparisce quanto quegli antichi Ita
liani fossero dati al lavoro, facendo consistere la loro p rim a gloria nel guadagnarsi il pane colle loro fatiche.
L'IDOLATRIA
D al 9 0 0 a l 752 a v a n ti C risto .
La Religione, o giovani, è qu el vincolo che strin g e l’uomo a riconoscere e se rv ire il Creatore. Gli uomini essendo tutti creati da un m edesim o Dio, tu tti discen
d enti da u n m edesim o p a d re , in principio avevano tu tti la m edesim a religione ; praticavano le stesse ceri
m onie, gli stessi sacrifizi con u n culto puro e scevro di e rro re .
Ma dopo il diluvio universale si può d ire che la vera religione siasi soltanto conservata tr a ’ discendenti d 'A
b r a m o d etti E brei. Le altre nazioni sparsesi a popolare le v a rie p arti del m ondo, di m ano in mano che si al
lontanavano dal popolo E breo confusero l ’ idea di un Dio creatore, e si diedero all'idolatria ; cioè comincia
rono a p re sta re alle cre atu re quel cu lto che a Dio solo è dovuto. Di questo erro re erano p u re m iseram ente im b ev u ti gli antichi abitatori d ’Italia.
Convien però n otare che l ’idolatria degli Italiani fu sem p re meno m ostruosa di quello che fosse presso alle a ltre nazioni, e parecchie istituzioni, alm eno nella loro origine, p arv e ro assai ragionevoli. P ersuasi che tutto dovesse av e r principio da u n E ssere S uprem o consi
deravano Giano come il m aggiore di tu tti e Reggitore del m ondo, che av ev a due faccie p e r indicare eh ’Egli v edeva il passato e l ’avvenire.
Come poi i Rom ani ebbero maggiori relazioni coi Greci, ne adottarono tu tte le d ivinità. Giove era rico
nosciuto p e r p a d re degli Dei e degli uomini e lo chia
III.
m avano Giove S tatore, S alvatore, secondochè a quella buona gente pareva di a v e r ricevuto questo o qu ell’al- tro beneficio.
Giunone, sposa di Giove, era la Dea sovrana ed u- niversale cui davasi talvolta il nom e di Giunone So
spita o S alvatrice, Moneta o Consigliera.
N ettuno presiedeva al m a re , C erere all’ agricol
tu r a , Vulcano al fuoco, Marte alla g u erra, Diana alla caccia, M inerva alle scienze, Apollo alla poesia ed alla musica. Che p iù ? La Pudicizia, la Gioventù, la V irtù, la Pietà, la Mente, l ’Onore, la Concordia, la S peranza, la V ittoria erano altretta n te divin ità cui s’innalzavano tem pli ed altari.
Credo che voi di leggieri scorgerete ove stesse l’er
ro re riguardo a queste d iv in ità : gli uom ini invece d i p raticare queste v irtù p e r am or di Dio c re a to re , adoravano le v irtù m edesim e.
I Sabini poi veneravano la Dea Tellure o Vesta che vuol d ire te rra , la quale riconoscevano come larga p ro d u ttrice di tu tte le cose necessarie alla vita um ana, e in questa guisa gli uomini erano eccitati alla coltura dei cam pi p e r m otivo di religione. I Latini ed anche i Sabini, i quali abitavano le spiagge del T evere, adora
vano la Dea M atuta che vuol d ire au rora; divin ità non p e r altro im m aginata che p e r anim are i popoli a m et
tersi di buon m attino al lavoro ; onde l ’uso d i far pas
sare i soldati a rassegna avanti al lev ar del sole.
N um a Pompilio prim o legislatore religioso dei Ro
m ani propose all’ adorazione la Dea Fede affinchè tu tti fossero eccitati a m antenere la parola data in ogni ge
nere di contratti.
Lo stesso Numa voleva che fosse tenuto in grande
venerazione il Dio Termine affine di avvezzare i suoi popoli a non invadere i poderi dei vicini. Laonde que
sto Dio non solo era adorato con feste particolari dette term inali, ma di p iù quelli d ie avevano te rre n i lim i
trofi, si radunavano sui confini e presso ai segni divi
sori dei loro poderi facevano offerte e sa crifizi, ed am ichevolm ente banchettando riconosceva ciascuno i te rm in i del suo campo.
A ltri popoli p u r dell’Italia prestavano culto ad altre divinità più ridicole, m a sem pre con u n a certa ragione.
P er es. adoravano il bu e, p erch è quest’anim ale serve a condur ca rri, a coltivar la te rra . Rendevano omaggio al cane, p erchè custodisce la casa; ossequiavano il gatto, p erchè distrugge i sorci e così le altre divinità.
Ma questa superstizione o idolatria, che in mezzo all’e rro re presen tav a u n ’ apparenza di ragionevolezza, in progresso di tem po degenerò è giunse a deplorabili eccessi. C hiunque si fosse distinto con qualche azione, anche m alvagia, aveva dopo m orte gli onori divini.
A nim ali im m ondi e talora i p iù rib u tta n ti ricevevano q u ell’ onore che solam ente a Dio onnipotente si deve ren d e re . F ra i sacrifizi e le offerte alcune erano rid i
cole, altre esecrande a segno, che in qualche luogo si giunse fino ad offrire v ittim e um ane alle insensate d ivinità.
Voi farete certam ente le m araviglie, o giovani miei, in v ed e re tante div in ità adorate dagli antichi abitatori d i questa nostra Italia e che solo siasi costantem ente ricusato di riconoscere il Dio degli E b re i e dei Cristiani.
P erchè m a i? Le altre religioni si lim itavano a p rescri
vere sacrifizi e m ere cerim onie, senza im p o rre alcun obbligo o di v e rità da credersi o di v irtù da esser p ra-
tica te . T utti erano padroni di credere ciò che volevano e m olti negavano una v ita av v en ire ; tu tti si abbando
navano alle più b ru ta li passioni, delle quali avevano molti esem pi nella v ita degli Dei incontinenti, la d ri, v e n d ic a tiv i, ingannatori. L addove la religione degli E b rei frenava l ’orgoglio d ell’ intelletto con dogmi da cred ersi, e regolava la condotta della v ita colle v irtù da p raticarsi ; senza la fede, e senza la m orale le ceri
m onie servivano a nulla.
Bensì i filosofi, ossia i dotti, negavano fede alla re
ligione pubblica , anzi ne ridevano ; e vollero pro varsi ad in tro d u rre qualche credenza, e qualche eser
cizio di v irtù , m a n iu n effetto ottennero. Discordavano fra loro anche sulla n a tu ra di Dio, e sull’esistenza della vita futura : le poche v ir tù che ostentavano, nasce
vano da uno spirito d ’ orgoglio e non d all’ am or di Dio e del bene. Platone, il p iù dotto di questi filosofi, ri
conobbe che bisognava asp ettare u n Dio che venisse ad insegnare al m ondo la v e ra religione.
IV.
ROMOLO PRIMO RE D I ROMA.
D a ll’a n n o 7 52 a l 7 1 4 a v a n ti C ris to .
Vi ricorderete, cari am ici, della famosa visione di Nabuccodonosor colla quale Iddio pronunziava quattro grandi m onarchie. Una fu quella degli A ssiri, l ’altra dei Persiani, la terza dei G reci, la q u a rta dei Romani.
Di q u est’ultim a io voglio ora p a rla rv i. E ssa fu la p iù vasta e di m aggior d u rata delle altre t r e : eccone l’u
m ile sua origine.
Circa l ’ anno 750 avanti la v enuta di Gesù Cristo,
viveano due fratelli, uno di nom e Remo, l ’altro Romolo nella città di A lba situata nelle vicinanze del T evere a poca distanza d al m are M editerraneo.
E ' bene però ch ’io v i faccia n otare che la storia della stirp e e della nascita di questi due fratelli è mi
schiata con m olte favole. Dicesi che quattrocento anni p rim a della fondazione di Rom a, u n principe di nome E nea, dopo la distruzione d ’una città dell’Asia Minore chiam ata Troia, venisse in Italia, e fondasse la città ed il regno di A lba, e che da uno dei discendenti di E nea nascessero Remo e Romolo. A ppena n ati, essi furono gettati nel T evere donde furono dalla corrente riget
ta ti sulla riv a. A llattati da una lu p a vennero poi tro v ati da u n pastore di nom e Faustolo che li allevò come suoi p ro p rii figli. C resciuti in età ed inform ati della loro origine reale si unirono a d a ltri pastori ed assalirono im provvisam ente il R e d i A lba detto A m ulio, che era appunto c o lu i, il quale av ev a dato ordine che appena nati fossero affogati nel T evere.
Riuscirono a cacciarlo dal regno, e q u in d i diedero p rin cipio alla fondazione di Rom a in q u el m edesim o luogo ove erano stati salvati.
Ma quello che si può credere con qualche certezza, si è che Faustolo vedendo questi due fratelli bizzarri, rissosi, incorreggibili, pensò d i licenziarli da casa sua lasciando che si andassero a ce rcar fortuna. A bbando
nati così a se stessi quei d u e fratelli, si associarono ad una q u an tità d ’uom ini al p a r di loro vagabondi e anda
rono a gettare le fondam enta d ’una città sopra un an
golo del T evere al confine degli E tru sch i, dei Sabini e dei L atini, popoli d ell’Italia centrale.
Nella costruzione della novella città nacquero gravi
S to r ia d’I t a l i a . 2
discordie fra i due fratelli. Dicesi che venissero a con
tesa tra loro per decidere a chi dei due toccasse di dare il nome alla novella città. A tal fine consultarono gli auspizi, vale a dire il volo degli uccelli. Remo vide il primo sei a v o lto i, Romolo ne vide dodici. Derivò quindi la contesa, pretendendo l’uno la superiorità per averli veduti prim a ; l’altro p er averne veduti di più.
Nel bollore della rissa Romolo, trasportato dalla collera, gettò sul capo di Remo uno strumento di ferro di cui era armato, e l’uccise sull’istante. Così la regina delle città veniva fondata da un’ orda di avventurieri. Ro
molo fratricida le diede il suo nome, la chiamò Roma e facendone ricettacolo di ogni sorta di masnadieri si costituì loro Re.
Roma fu fondala alle falde di un colle detto Palatino.
e coll’andare del tempo ampliata, venne a rinchiudere, fino a sette colli. In mezzo al recinto della città v'era una vasta piazza detta Foro, dove il popolo si radunava per deliberare intorno agli affari pubblici. L’adunarsi dei popolo nel Foro veniva significato con questa frase : tenere i comi z i . Nel foro s'innalzava la rin ghiera. specie di cattedra su cui salivano quelli che dovevano parlare al popolo.
Sebbene molti abitanti fossero corsi a popolare la nuova città, tuttavia in niun modo i paesi vicini vole
vano m aritare le loro figliuole con quei malfattori. Per
ciò Romolo studiò di ottenere coll’inganno quello che non poteva ottenere per amicizia. Finse egli di voler celebrare in Roma una gran festa, e la fece annun
ziare a suon di trom ba, invitando i popoli vicini ad intervenirvi. Gli abitanti d ’Alba, i Sabini accorsero in folla a Roma ; ma in breve ebbero a pentirsi della
loro curiosità: perciocché nei grandi spettacoli vi sono g ran d i pericoli. M entre stavano atten ti a guardare i giuochi che si celebravano, i Rom ani, ad un segno con
venuto, tra d ita l ’ospitalità, a m ano arm ata piom barono addosso ai S abini, e loro rapirono le fanciulle, m algrado la resistenza dei loro p a d ri e dei loro fratelli. I Sabini erano a q u e’ tem pi i p iù forti e i p iù rinom ati popoli d 'Ita lia in fatto d ’arm i. Tito Tazio loro re passava pel p iù valoroso g u erriero del suo tem po. Perciò altam ente sdegnato p e r l ’oltraggio fatto a ’suoi su d d iti, si pose alla testa di un form idabile esercito, e m arciò contro ai Ro
m ani che in b re v e costrinse a rinchiudersi dentro le m u ra di Roma.
Difficilmente però i nem ici avreb b ero potuto en
tra re in c ittà , se una donzella d i nom e T arpea non ne avesse con perfidia aperta una porta. Ma quella donzella avendo poi chiesto ai S abini, in prem io del suo tra dim ento, che le dessero ciò che ognuno d i essi portava nel braccio sinistro; volendo in tendere u n braccialetto d ’oro o d ’arg e n to , coloro fingendo di non com pren
d e rla , le gettarono tu tti insiem e adosso ce rti arnesi di ferro, g ra n d i e rotondi che portavano eziandio al braccio sinistro i quali si chiam ano scudi. T arpea m orì in tal modo a piè di una ru p e che dal suo nom e fu detta rupe Tarpea. E n trati così i Sabini in città appiccarono tre sanguinose battaglie in Roma m edesim a, ed i Rom ani sareb b ero forse stati interam ente d istru tti se le zitelle dei S abini, divenute spose dei Rom ani, non si fossero colle lor preg h iere interposte p e r far cessare le ostilità.
A llora fu conchiusa la pace a queste condizioni: i Sabini lasciando la loro città d etta Curi o Quiri, verranno a p o rre le loro stanze in Roma; Tazio regnerà congiunta- m ente a Romolo sui due popoli uniti.
Infatti i Sabini vennero a stanziarsi sul colle Capi
tolino e sul Q uirinale, e chiam aronsi Q uiriti dal nome della loro antica città, nom e che col tem po si accomunò p u re ai Rom ani, dopoché i due popoli vie p iù si m ischia
rono tra loro.
Due re d i egual potere non possono alla lunga an d a r d ’accordo, e trascorsi appena cinque anni, Tazio fu uc
ciso nell’occasione d i una festa, non si sa da chi, m a probabilm ente Romolo v i ebbe p arte.
Romolo, rim asto solo, divise tu tto il popolo in tre tribù: la trib ù com prendeva dieci Curie, ed ogni C uria si suddivideva in d ie ci Decurie. A lla testa di ciascuna di queste divisioni Romolo aveva preposto capi, che però chiam avansi Tribuni, Curioni, e Decurioni. T utti questi capi form avano una nobiltà e re d ita ria , detta P a tr iz i, ossia P adri. Cento di questi p atrizii furono scelti da Romolo p e r form are il Senato, ossia il Consiglio supre
mo dello Stato, a cui furono aggiunti cento S abini, dopo che questi si unirono coi Rom ani: ap p ellavansi senatori.
ossia vecchi, perchè appunto vecchi p e r età, p e r espe
rienza e p e r senno. E ra v i d unque u n senato che p ro
poneva le leggi e consigliava quanto fosse a farsi. E ra v i l’assem blea com posta d ei soli P atrizi d etta C u riata;
questa sanciva le leggi, decideva su tu tte le proposte del Senato, e nom inava i m agistrati p re si dal suo seno. Il restante popolo, cioè l ’infima plebe non aveva pressoché alcun d iritto ; era bensì convocato nel foro, m a non d av a quasi m ai voto alc u n o , solam ente ud iv a ad esporre i p a rtiti p resi dai p atrizi, serv iv a nella m i
lizia, esercitava le a rti ed i m estieri. Romolo così ci insegnò, che ad occuparsi dello Stato sono inabili tu tti coloro che o p e r età o p e r occupazione non hanno ac
quistata la scienza che è indispensabile nel governo dei popoli.
Siccome p er professare una scienza bisogna attendervi esclusivam ente, così i patrizi dovevano occuparsi della sola scienza dello Stato, ed erano proibiti di esercitare q u alunque com mercio od arte , esclusa però l ’agricoltura.
Ogni cittadino era soldato; m a fra i cittadini Romolo ne p rese cento di ciascuna trib ù , i quali servissero a cavallo, epperò furono denom inati Cavalieri. Il loro num ero d a trecento crebbe b en presto a m ille ed otto
cento; e col tem po formarono un ordine interm edio tra i patrizii ed il popolo. A ltri del popolo servivano in qualità d i littori. Dodici di questi arm ati di un fascio di verg h e con entro una scure accom pagnavano il Re, ne eseguivano i com andi, e punivano i m alfattori.
Romolo oltre ad a v e r ordinato lo Stato, lo ampliò m ovendo g u erra ai Veienti, popoli dell'E tru ria , li scon
fisse, e fermò con essi la pace obbligandoli a cedere sette dei loro borghi. S tava egli passando in riv ista le schiere, quando levossi un fiero tem porale accompa
gnato da tenebre; cessato questo, Romolo p iù non si vide. A ltri raccontarono che i senatori non potendo più sopportare i modi altieri di Romolo, lo tagliarono a pezzi e lo dispersero fra le tenebre del tem porale.
Dopo la m orte di Romolo u n uomo di nom e Proculo si presentò al popolo, indi al senato, dicendo che aveva ve- d u to Rom olo salire al cielo, e g li aveva detto che voleva essere adorato dai Rom ani sotto il nom e di dio Quirino.
Si prestò fede al racconto e gli fu innalzato un tem pio su l vicino m onte, detto perciò m onte Q uirinale , ove presentem ente sorge il palazzo dei pontefici R om ani con tal nom e appellato. La v ita di Romolo deve am m aestrarci
a non esser superbi e crudeli verso i nostri sim ili, p e r
chè av v i un Dio giusto che a tem po e luogo rende il m eritato castigo: chi di spada ferisce, di spada perisce.
V.
IL F I L O S O F O P I T A G O R A .
V erso il 7 12 a v a n ti C risto .
Nel v edere qu ei p rim i Rom ani tanto rozzi e feroci, non pensatevi che così fossero p u re gli altri Italiani.
Im perocché anche in quei rem oti tem pi nelle altre p arti d ’Italia alcuni d av ansi con tu tta sollecitudine alla col
tu ra della t e r r a , a ltri attendevano alle a rti ed ai me
stieri, e sappiam o che fin d ’allora le a rti erano flori
dissim e [4). Presso gli E truschi sono particolarm ente m enzionati gli am atori della m usica, d etti trom bettieri, gli orefici, i fabbri, i tin to ri, i calzolai, i cuoiai, i me
tallieri e vasellai. La p ittu ra e l’arc h itettu ra degli antichi offrono ancora oggidì m onum enti degni di alta am m i
razione.
L’oro, l’argento erano lavorati con gran m aestria. Con queste a r ti e m estieri l'Italia estendeva il suo com mercio sopra tu tte le nazioni vicine; da lontano paese venivano a far acquisto dei magnifici p rodotti dell’in d u stria ita
liana.
Lo credereste, o giovani m iei, che in mezzo a tanto com m ercio, le scienze erano col p iù vivo ard o re colti
vate? Ci assicura la storia che m olte scuole erano sta
bilite p e r l ’istruzione della classe alta, ed anche della classe bassa del popolo. P erchè fu sem pre conosciuto che
(1) P lu t. in N u m a, cap . 15— L ivio lib. I — P o lib io lib . II.
senza la coltura delle arti belle, il com mercio illangui
disce e vien meno.
F ra le scuole rinom ate nell’antichità fu quella di Pi
tagora, soprannom inato il filosofo, parola che vuol dire amante della scienza. Egli am ava veram ente la scienza, ed affinchè gli altri fossero istru tti nella sapienza fondò una scuola delta Ita la , che fu m odello di tutte le altre scuole che n e’tem pi posteriori vennero stabilite in Italia, nella G recia, e nelle altre p arti del mondo. Questo uomo m eraviglioso dopo essersi profondam ente istruito in tutte le scienze degli antichi E truschi (toscani), e degli altri popoli p iù eru d iti d ’Italia, spinto da desiderio di ulte
rio ri cognizioni, viaggiò in G recia, in Egitto, ed ovunque trattò coi più dotti personaggi di quei tem pi. In sim ile guisa fecesi un nobile corredo di cognizioni, e ritornato in Italia a p rì scuole p e r la gioventù con ce rti m etodi di disciplina n e’m aestri, di tanta pu n tu alità e docilità negli alunni, che p o trebbero in p iù cose proporsi p e r esem
p la ri ai collegi dei n ostri giorni.
Ma lo studio torn a inutile ove si perd a in m inute sot
tigliezze, senza che vada unito all’ operosità. Pitagora m entre da un canto occupavasi indefessam ente di pro
m uovere le scienze le tte ra rie am m inistrava alte cariche a pubblico vantaggio. E gli si rese assai benem erito in una g u erra mossa agli ab itanti di Crotone, città posta a mezzodì dell’Italia. Mercè le opere e le sollecitudini di Pitagora fu im pedito il saccheggio della città, risp a r
m iato molto sangue dei cittadini. Così il gran Pitagora nel mezzo dell’idolatria, rav v isav a il divino am m aestra
m ento p e r cui gli uom ini debbono am are la scienza e la v irtù , e p ro cu rare nel tem po stesso di adoperarsi in
quelle cose che possono to rn are al nostro sim ile di gio
vam ento.
Da tu tte p a rti si correva in folla a Pitagora, ed i più nobili personaggi am bivano di essere suoi discepoli.
Malgrado tante belle doti di questo filosofo egli cadde nell 'invidia di alcuni m alevoli i qu ali mossero contro di lui una persecuzione tale, che u n giorno fra gli urli, schiam azzi e tum ulti fu ucciso. Fatto abbom inevole che ci dim ostra come anche gli uom ini p iù pii e be
nem eriti talvolta cadono vittim a dei m alvagi.
VI.
RUMA POMPILIO LEGISLATORE II RE DI ROMA.
D a ll’a n n o 7 12 a l 6 7 0 a v a n ti C risto.
Dopo la m orte di Romolo i Sabini ed i Romani dis
putarono due anni p e r sapere chi avreb b ero nom inato p e r loro Re. F inalm ente prevalse il p artito dei Sabini e fu eletto u n uomo d i lo r nazione, conosciuto p e r la sua bontà e giustizia, chiam ato N um a Pompilio. Egli era molto erudito nella dottrina degli E truschi, e d a questa aveva im parato ad essere benefico e giusto verso d i tutti, ond’era da tu tti am ato.
E gli era nel quarantesim o anno della sua età quando si presentarono due m essaggieri ad offerirgli la dignità reale a nom e del popolo e del senato di Rom a. Esso am ava p iù v iv e re col vecchio suo p a d re , che indossarsi una d ignità tanto pericolosa; perciò rispose agli am b a - sciadori: « perchè volete che io lasci mio p a d re , la m ia casa, p e r accettare una corona che offre ta n ti p eri
coli? A m e non piace la guerra, poiché essa non reca
agli uom ini se non danno; io am o e rispetto gli Dei che i Rom ani non conoscono e che dovrebbero tem ere ed onorare. Lasciatem i adunque v iv ere tranquillo nella mia dim ora, e tornate a Roma senza di m e. » Gli am b a - sciadori rinnovarono le loro istanze, e N um a non ac
condiscese se non quando gli fu com andato da suo p ad re, a cui egli prontam ente obbedì. Fu estrem a la gioia in R o m a,'allorché si seppe che N um a era Re dei Romani.
Invece d i tenere i Rom ani continuam ente occupati in giuochi ed in esercizi m ilitari, come aveva fatto Romolo, egli distribuì a tu tti i suoi sudditi cam pi da co ltiv are, stru m en ti p e r la v o ra re la te rra , perchè l ' agricoltura ossia la coltivazione delle campagne deve essere rep u tata la prim a di tu tte le arti, come quella che procaccia il nutrim ento agli uom ini e contribuisce assai a ren d erli ro b u sti ed onesti.
Numa p e r ben governare il popolo fece molte leggi utilissim e p e r l ’am m inistrazione della giustizia e favo
revoli alla religione. Egli era persuaso essere impossi
b ile frenare i disordini senza di essa. A tal fine trasferì a Roma il culto di parecchie divin ità che erano venerate in altri paesi d ’Italia. Fece innalzare un tem pio a Giano, le cui po rte rim anevano sem pre ap e rte in tem po di g u e rra , e solo chiudevansi quando vi era la pace. Stabilì p u re sacerdoti, cui diede l ’incarico d i se rv ire agli Dei.
Il prim o d i essi chiam avano Pontefice Massimo. Gli altri sacerdoti inferiori prendevano v arii nomi, secondo la p a rte del m inistero che esercitavano.
D icevansi A u gu ri quelli che studiavansi di presagire l ’avvenire d al volo, dal canto, e dal modo di m angiare degli uccelli. P e r es. se i polli trangugiavano di buon appetito il grano, annunziavano qualche lieto a v v e n i-
m ento, se rifiutavano di m angiare, si teneva qual p re
sagio d i qualche disastro. A ruspici erano quelli che esa
m inavano attentam ente le viscere delle vittim e imm olate n e ’ sacrifìzii, sem pre nella ridicola persuasione di p re
ved ere da esse l ’avvenire.
N um a instituì m olte cose vantaggiose al suo popolo, e m en tre inculcava a tu tti i suoi su d d iti di coltivare la te rra , adoperavasi p e r prom uovere il com m ercio, perfe
zionare le a rti ed i m estieri. A pprofittò delle scienze im parate, e l’anno che Romolo aveva solo diviso in dieci m esi, egli lo corresse dividendolo in dodici, quasi nel modo che noi presentem ente l’abbiam o. S tabili in cia
scun m ese giorni festivi, in cui il popolo doveva cessare da ogni lavoro p e r occuparsi nelle cose rig u ard an ti la religione : ad sacrificia Diis offerenda.
N um a m orì in età d ’anni 84 dopo av e r fatto molto bene al suo popolo, e fu molto com pianto p erchè era giusto e benefico. Come egli aveva ordinato, il suo corpo fu deposto entro u n ’ u rn a di p ie tra , ed a fianco suo in u n altro sepolcro furono collocati 24 grossi lib ri, i quali contenevano la storia delle cerim onie instituite in onore degli Dei, ai quali aveva innalzati tem pli.
Di certo a voi rincrescerà, giovani cari, che un uomo così pio non abbia conosciuta la v era religione; e senza dubbio egli che aveva u n cuore sì buono, che adorava e faceva adorare ta n te ridicole divinità, che cosa non av reb b e fatto se avesse conosciuto il vero Dio Creatore e suprem o padrone d el cielo e della terra?
V. Plutarco,V i t .di Numa.
DUE RE GUERRIERI.
D a ll’a n n o 6 7 0 a l l ’an n o 6 1 4 a v a n ti C ris to .
La P rovvidenza che destinava Roma ad essere domi- natrice di tu tta l ’ Italia, dispose che al pacifico N um a succedessero l ’un dopo l ’altro due re coraggiosi e guer
r ie r i, i quali dilatarono assai i confini della potenza Rom ana sopra gli altri popoli d ’Italia.
A N um a succedette im m antinente Tullo O stilio, il cui regno fu segnalato particolarm ente da u n a g uerra contro gli Albani. Dopo molto spargim ento di sangue da am be le p a rti, si venne ad u n fatto unico nella sto
ria delle nazioni. F u deciso che fossero scelti tre Ro
m ani e tre A lbani a com battere insiem e, con patto che il popolo d i quelli, i quali riportassero v itto ria, da
reb b e leggi all’altro popolo. E rano in Roma tre giovani fratelli, forti, ro b u sti e g u errieri d etti i tre Oraz i , e questi furono scelti dai Rom ani p e r quella decisiva ten
zone. Gli A lbani dal canto loro scelsero p u re tr e fra
telli d etti i tre C u ria zi , sicché erano tre fratelli con
tro a tre fratelli.
Si com battè risolutam ente. Due Orazi furono uccisi nel prim o scontro, ed i tre Cu riazi feriti. A llora l ’ul
tim o Orazio, fingendo di fuggire, assalì separatam ente ed uccise l’u n dopo l ’altro i Curiazi che gli tenevan dietro.
Perciò gli A lbani divennero sudditi dei Romani. Gli Al
ban i non durarono a lungo nella giurata fede. Tullo avendo mossa g u erra ai F idenati, chiamò gli A lbani in aiuto. Mezio Fufezio, loro d itta to re , credette essere quella una favorevole occasione p e r iscuotere il giogo
VII.
rom ano ; laonde invece di ten er il luogo assegnato nella p u g n a , si r itir ò , aspettando di v ed e re da qual p arte pendesse la fortuna. Si accorse Tullo del tradim ento; ma affinchè i suoi non si perdessero d ’animo disse che M e- zio ciò faceva p e r suo ordine, a fine di so rp ren d ere i nem ici alle spalle. In tal modo incoraggiati i Romani raddoppiarono i loro sforzi e furono vittoriosi. Allora Mezio si avanzò co’ suoi p e r ralleg rarsi con Tullo della v ittoria. T ullo senza m ostrare d ’essersi accorto del tra
dim ento fece atto rn iare Mezio e i suoi A lbani dall’e
sercito Romano. Q uindi così parlò a Mezio: Poiché la tua fede fu dubbia tra i Romani e i F iden ati, il tuo corpo sia diviso a somiglianza d i quella. E fattolo at
taccare pei piedi a due ca rri, riv o lti a due p a rti op
poste, fu da quelli squarciato. Dopo di che T ullo de
cise di distruggere la città d ’A lba, e ne diede incarico al famoso Orazio, che era rim asto superstite nella ten
zone contro ai Curiazi. Giunto esso in quella sventu
ra ta città con u na tru p p a di soldati R o m a n i, ordinò a tu tti gli abitanti di uscire dalle lor case. A llora i Ro
m ani spianarono al suolo la magnifica città d ’A lb a , d etta la Lunga, perchè postalungo le radici d ’un m onte, e le riv e di un lago detto oggidì lago Albano. Gli A lbani furono condotti a R o m a , dove p e r grazia si perm ise di fabbricarsi le loro abitazioni sopra u n colle detto m onte Celio, e così la nazione degli A lbani di
venne Rom ana. Lo stesso T ullo intim ò la g u erra ai Fi
denati ed ai Veje n ti, tu tti popoli g u errieri ab itan ti non lungi da Roma ; m a dopo sanguinose battaglie dovet
tero tu tti arren d e rsi alla crescente potenza dei Rom ani.
Questo re bellicoso avendo trasc u rate le cerim onie religiose instituite da N u m a , fu colpito da una m alat
tia contagiosa che allora serpeggiava nel Lazio; e seb
bene abbia tentato di liberarsene con mezzi em pi, p e rì nel suo palazzo colpito dal fulm ine. Così credettero i Rom ani, persuasi che Dio punisce l ’irreligione anche nei personaggi i p iù elevati.
Anco Marzio nipote di N u m a , quarto re di R o m a , diede principio al suo regno col ristab ilire le sacre ce
rim onie ed il culto degli dei, trasc u rato dal suo ante
cessore.
Malgrado il suo am ore p er la pace, Anco fu costretto a p ren d e re le arm i contro ai L atini, popoli dim oranti a poca distanza d a Rom a. Costoro avevano fatto grave oltraggio ai Rom ani. Marzio p e r sostenere l ’onore dei suoi su d d iti inviò alcuni a r a ld i, cioè nunzii di g u erra, d etti feciali, a d ich iararla ai suoi rivali. G iunti sulla frontiera dei paese dei Latini si ferm arono e presero a g rid a re ad alta voce : « U dite, o dei del c ie lo , della
» te rra e degli inferni, noi v i chiam iam o in testim onio
» che i Latini sono in g iu s ti, e siccome essi oltraggia
rono il popolo Rom ano, così il popolo Rom ano e noi dichiariam o loro la gu erra. » D ette queste cose get
tarono alcune freccie , la cui p u n ta era stata in trisa di sangue, sul te rrito rio nem ico, e si ritiraro n o senza che nessuno osasse a rrestarli. Tale modo di dichiarare la g u erra fu in uso presso quegli antichi Rom ani.
Allestito colla m assim a prestezza un esercito , Anco attaccò i Latini, li sconfìsse e d istru sse P ulini loro ca
pitale con altre città. T uttavia egli seppe usare gene
rosità verso i v in ti, e loro im pose soltanto di v enire ad ab itare in Rom a, p erm ettendo di costruirsi case sopra un colle detto m onte Aventino. Anco non si lim itò ad a u m en ta re con le sue conquiste il num ero de’ sudditi
e a fortificare le città, egli fece altresi scavare alla foce del T evere, cioè nel luogo in cui quel fiume si scarica n el M editerraneo, u n porto profondo p er accogliere le navi che portassero in Roma le provvisioni necessarie alla sussistenza. Quel porto fu appellato Ostia da una parola latina che vuol dire foce. Quel p rin cip e dopo a v e r regnato 24 anni m orì lasciando due figliuoletti, i quali finirono infelicem ente, p erchè affidati ad un cattivo educatore d i nom e Lucum one, e soprannom inato Tarquinio.
V I I I .
TARQUINIO PRIMO E LA
P r im a in v a sio n e d e i G a lli. D al 6 1 4 a l 5 76 a v a n ti C risto .
Un cittadino di Corinto, p e r nom e D em arato, era venuto a stabilirsi in T arquinia città dell’ E tru ria , donde il suo figliuolo non tardò a recarsi a Roma can
giando il suo prim o nom e di Lucum one in quello di T arquinio. V enutovi colle sue g randi ricchezze e con gran num ero di se rv i acquistò la riputazione d ’ uomo magnifico e generoso. Anco Marzio che lo am ava assai, m orendo lo lasciava tu to re dei suoi figliuoletti ; m a egli in cam bio di proteggerli li m andò in villa, e si fece nom inare re dal Senato.
T arquinio abbellì la città con portici e con u n circo p e r gli spettacoli, m a soprattutto la risanò dalle acque, che stagnavano nel fondo delle valli interposte fra i v arii colli. P er tal fine fece scavare canali sotterranei, guerniti di m u ratu ra d etti cloache, i quali dessero scolo alle acque paludose; e dopo v entiquattro secoli d u ra ancora oggidì una p a rte del m aggior canale, chiam ato
cloaca massima. A tali ingenti spese sopperì non poco col bottino raccolto nelle v arie g u erre da lui condotte felicem ente contro ai Sabini ed ai Latini.
Già da 30 e p iù an n i T arquinio regnava, quando i due figliuoli di Anco m al sofferendo di essere stati p ri
vati del regno dal loro tutore, pagarono due pastori i quali fingendo di a v e r querela fra loro, si presentarono al Re p e r ottener giustizia. M entre il Re b ad av a ai di
scorsi dell’uno, l'a ltro colla scure lo percosse nel capo e 1’ uccise. Ma T unaquilla moglie di T arquinio, fatte chiudere le po rte del palazzo, diede voce che il Re fosse solam ente ferito ed incaricò frattanto il genero S ervio Tullo di p ren d e re in sua vece le red in i del go
verno. Quando poi fu conosciuta la m orte, S ervio già regnava di fatto.
M entre reg n av a T arquinio, u n num ero straordinario di forestieri invasero l ’Italia e la riem pirono di te rro re . E rano costoro una colonia di q u e’ Celti che andarono ad a b itare di là dalle A lpi, e diedero il nom e di Gallia a quel vasto regno che oggidì appelliam o Francia. Que
sti Galli soliti a v ivere nelle foreste e nelle tane erano b arb a ri e feroci a segno, che con vittim e um ane face
vano sacrifizi alle lor divinità, uccidevano con gioia i loro inim ici e qualsiasi forestiero che fosse capitato nelle loro m ani ; e m angiandone con gusto la carne, ornavano coi teschi le capanne e l’en trata delle loro caverne.
La battaglia era loro suprem o diletto, e tanto erano bram osi di vincere l ’avversario col solo valor personale, che spesse volte nel calor della m ischia gettavano l’elmo e lo scudo e com battevano nudi. Vivevano di frutti di alberi e di bestiam i : non conoscevano diritto se non
quello della forza ; non avevano città ; i luoghi delle loro adunanze erano ap erte cam pagne od attendam enti.
Questa era la nazione cui la sv e n tu ra ta Italia con im menso suo danno doveva d ar ricetto.
Circa sette secoli av an ti l’era volgare, questi b a rb a ri moltiplicati a sterm inato num ero, non avendo p iù di che cam pare nei p ro p rii paesi, stabilirono u n a m igra
zione verso l ’ Italia, vale a d ire u n a p a rte di quella nazione risolse d i trasferirsi dal proprio paese in Italia.
Vecchi e fanciulli, m a riti e m ogli con equipaggio da gu erra, con ca rri e bestiam i in num ero sterm inato gui
dati dal loro Re di nom e Belloveso, si avviarono verso le A lpi che si drizzavano scoscese ed altissim e ad im pedir loro il passo. Valicati con im m ensi sforzi questi alti monti com inciarono a d im padronirsi del paese d e ’ T au rin i;
quindi si spinsero innanzi fra i L iguri e p iù in là con
tro gli E truschi. C ostretti a com battere p e r salv are la vita p ro p ria e quella dei figli e delle mogli in battaglia parevano b o n i; e spargendo ovunque lo spavento si ferm arono nelle p ia n u re poste tr a il Ticino e il fiume A dda occupando la sinistra del Po, dove fondarono la florida città di Milano. An. av. C. 600.
P arecchie altre m igrazioni si fecero in Italia dai b ar
b a ri provenienti dalla Gallia i quali ferm arono le loro stanze gli uni q u a gli altri là. I Boi ed i Lingoni venuti traversando le A lp i Pennine, cacciarono gli E tru sch i e p a rte degli U m bri occupando la d estra del Po, e qualche tem po dopo v i fondarono P arm a, Piacenza e Bologna.
Così nello spazio d i dugent’ anni mezza la Gallia si versò nell’Italia, e una gran p a rte di quel paese che si proponeva a tu tte le altre nazioni p e r m odello di ci
v iltà ricadde nella b arb a rie ; la sola forza b ru tale te
neva luogo della ragione, e quin d i i costumi decaddero nella condizione la p iù deplorabile.
T uttavia que’ pochi Italiani che sfuggirono alle spade nem iche, e che rim asero confusi coi b arb a ri, a poco a poco mansuefecero la rozzezza degli stran ieri. Però gran p arte dell’E tru ria si serbò illesa da questa peste, onde quando i Rom ani com inciarono a stendere sopra l ’Italia le loro conquiste, agli E tru sch i non m ancavano savie leggi, florido com mercio, ed avevano già fatto gran progresso nelle a rti e nelle scienze. La qual cosa m en tre ci m ostra essere pericolosissimo il mescola
m ento d e’ buoni coi cattivi, ci am m aestra altresì che i buoni ferm i nella v irtù possono spargere ottim i p rin cipii di m oralità n e ’ cuori rozzi e disordinati, e procu
ra re gran bene alla società.
IX.
SERVIO TULLO E TARQUINIO IL SUPERBO, ULTIMI RE D I ROMA.
D al 5 7 6 a l 509 a v a n ti C risto .
I figliuoli di Anco non poterono conseguire il trono come si aspettavano, ed in loro vece ottenne la corona Tullo detto Servio perchè figlio d i una serv a. Servio divenuto r e attese con grande zelo a m igliorare la sorte del popolo di Rom a, in grandì considerevolm ente quella città, riform ò grav i abusi nell’ am m inistrazione della giustizia togliendo al popolo i m ezzi di sentenziare in
torno agli affari di grande im portanza a p luralità di voti. Perciocché secondo le leggi di quel tem po avve
niva che uom ini rozzi e senza lettere profferivano sen
tenza intorno a questioni com plicatissime ; p e r lo che
S to ria d ’I ta lia . 3
spesso assolvevano quelli che dovevano condannare, e talora condannavano quelli che dovevano assol
vere. Stabilì una legge, la quale obbligava ciascun cit
tadino a p resentarsi ogni cinque anni nel cam po di Marte a dare ragguaglio della pro p ria famiglia e dei p ro p rii beni, dal che si poteva av ere u n giusto com puto delle persone atte alla gu erra. Questo censim ento os
sia registro d i cittadini fu chiam ato Lustro, la qual parola fu indi in poi usata ad esprim ere lo spazio di cinque anni.
Q uest’ottimo principe dopo parecchie g uerre term i
nate gloriosam ente, e dopo av e r fatto gran bene a ’ suoi su d d iti, fu vittim a d i un tradim ento tram atogli dalla sn a tu ra ta sua figlia chiam ata Tullia, ed effettuato da Tar
quinio di lei m arito. Questa m alvagia donna, volendo porre sul trono T arquinio suo m arito, procurò di gua
dagnarsi il favore del Senato, indi fece barb a ra m en te m assacrare il vecchio re suo pad re, p e r av e re la sod
disfazione di v ed e r il m arito sul trono. T arquinio so
prannom inato il Superbo, a cagione della grande sua crudeltà e superbia, dopo questo orrendo assassinio, regnò con una serie di misfatti. Egli si circondò di guar
die, si stabilì solo giudice di tu tti gli affari ; perseguitò, esiliò, m ise a m orte parecchi senatori e m olti fra i ricchi, confiscandone i beni. Faceva la g u erra, la pace, 1’ alleanza senza p iù consultare il Senato.
Ma egli senza saperlo aveva nella propria casa lo istrom ento con cui la Provvidenza voleva p u n ire tante scelleratezze.
A quel tem po vivea in Roma u n giovanetto chiam ato Giunio di cui T arquinio aveva fatto m orire il p ad re e il fratello spogliandoli di tu tti i loro beni. Giunio p e r
isfuggire alla sv e n tu ra d e’ suoi p a re n ti si finse pazzo, e gli fu dato il soprannom e di Bruto, il che voleva dire bestia. T arquinio credendo av e r nulla a tem ere dal povero Bruto perm ise che fosse tenuto in sua casa p er se rv ire d i trastullo ai fanciulli ed agli schiavi ; m a p re
sto v ed re te che sotto a quella vile apparenza stava nascosto u n animo forte e coraggioso.
Intanto T arquinio p e r cattivarsi in qualche m aniera l ’anim o dei Romani cominciò la costruzione di u n ma
gnifico tem pio sul m onte Tarpeo. M entre si scavavano le fondam enta fu trovata la testa di u n rom ano detto Tolo, m orto da alcuni anni ed iv i sepolto; onde quel tem pio ricevette il nom e di Capitolium vale a d ire te
sta d i Tolo che noi voltiam o in italiano Campidoglio, il qu al nom e fu poi dato a quel m onte che ancora og
gidì è così appellato. La fortezza del Campidoglio era fabbricata nel centro di Roma p e r se rv ire a difesa della città. D ietro al Campidoglio e ra v i la rocca T arpea, così d etta da quella fanciulla che sotto questa ru p e era stata u c c isa , e donde venivano precipitati i trad ito ri della p atria.
T arquinio tu tto intento alle cose che sollecitavano la sua am bizione trascurava indegnam ente l ’educazione di Sesto e di A runte suoi figliuoli ; i quali perciò di
v ennero malvagi quanto il loro pad re. Ma ricordatevi che spesso Iddio punisce nella vita presente i figli in
disciplinati e la negligenza dei genitori.
Il peggiore d e’ figli di T arquinio era Sesto. Un giorno avendo egli veduto una sua cugina di nome Lucrezia ebbe la sfacciataggine di farle una grave in
giuria. Ma Lucrezia fece chiam are Collatino suo ma
rito, il quale condusse seco Bruto suo amico. Lucrezia 55
espose loro l ’insulto ricevuto e n ell’eccesso del suo do
lore piangendo e chiedendo che le fosse rip arato l’onore, quasi fuor di senno si trafisse con un pugnale.
A llora Bruto, deposta l ’app aren te s tu p id ità , fece g iurare al p ad re ed al m arito d i Lucrezia d i sterm i
n are T arquinio e tu tta la sua fam iglia: p rese q uindi le arm i, si diè a correre p e r Roma gridando ; « chi am a la p atria a m e si unisca p e r iscacciare T arqui
nio e gl’infami suoi figli autori di tanti m ali. » La sollevazione fu generale e Tarquinio, il quale allora tro- vavasi all’assedio di A rdea città del Lazio, s’avviò tosto verso Rom a, che gli chiuse le p orte in faccia. A quel p unto scorgendo inutile ogni ulterio re attentato risolse di p ren d e re la fuga p e r ricoverarsi colla sua famiglia presso gli E truschi. Ecco, m iei cari, una storia la quale deve insegnarci che i m alvagi sono sem pre p uniti del male che fanno, e tanto p iù severam ente quanto p iù sono ricchi e potenti.
Sette re governarono Roma nello spazio di 240 anni;
l ’ultim o fu T arquinio detto il superbo p e r distinguerlo dall’altro T arquinio soprannom inato il vecchio.
X .
L’ ITA LIA AI TEM PI DELLA REPUBBLICA ROMANA.
Di mano in mano che i Rom ani crescevano in nu
m ero ed in p o te n z a , estendevano il loro dom inio sopra m olti paesi d ’ Italia, di modo che i p iù vicini ai Ro
m ani o spontaneam ente o p e r forza si erano con loro uniti. Però il dom inio dei Rom ani si estendeva solo sopra una piccola p arte della nostra p en iso la, il resto dell’ Italia era in pace, si coltivavano le cam pagne, pro- m uovevansi il com mercio e l’industria : i popoli erano
governati da un capo , cui davano il nom e di Re.
E rano però g u errieri, coraggiosi, fo rti; e com batte
vano con incredibile ardore. Da ciò potete facilm ente com prendere quali grandi fatiche e quanto tem po i Rom ani abbiano dovuto im piegare p e r ren d e rsi pa
droni di tutto questo paese.
Intanto cacciato T arquinio, dichiarato reo di trad i
m ento chiunque ardisse proteggere il rito rn o di lui, i Rom ani decisero d i governarsi a repubblica, la quale form a di governo differiva solo dal m onarchico in que
sto, che i re governavano a v ita , e nella rep u b b lica e - rano eletti due m agistrati con autorità su p rem a , la quale poteva conservarsi solam ente un anno.
I due m agistrati prendevano il nome di Consoli da una parola latina, che significa provvedere, poiché il loro uffizio era appunto di p rovvedere alla salute della re
pubblica , parola che significa gli affari pubblici o com uni.
Giunio Bruto e Collatino autori della cacciata di T ar
quinio furono i p rim i ad essere investiti della nuova carica consolare ; m a Collatino, come parente d e’ T ar
q u in ii, divenne sospetto al popolo, e dovette rinunciare il consolato a V alerio P ubblicola, uomo tenuto da tu tti in grandissim o credito.
I T arquinii, avendo invano provato la via delle ne
goziazioni p e r risalire sul tro n o , tentarono u n a nuova rivoluzione in Roma. I due figli di Bruto degeneri in ciò dalla v irtù p atern a, si lasciarono adescare a quella rivolta. Ma scoperti e condotti in Senato furono con
d an n ati a m orte dallo stesso Giunio B ru to , il q u a le , obbligato dalle le g g i, dovette con grande suo dolore condannare a m orte i suoi due figliuoli di molto buona speranza, ed essere spettatore del loro supplizio.
T arquinio vedendosi fallito questo colpo suscitò al
tri popoli ad aiutarlo, e si venne ad u n ’accanita b atta
glia. Bruto avendo ravvisato nelle schiere nem iche A ru n te , secondo figlio di T a rq u in io , si gittò contro di lui; lo stesso p u re fece A ra n te contro di B ru to , onde si scontrarono insiem e con tale im p e to , che am bidue caddero m orti nel m edesim o istante l ’uno d all’altro trafitti. T utti piansero B ru to , e la m orte di lui fu ri
guardata come una calam ità pubblica.
XI.
PORSENNA A ROMA.
D a ll’a n n o 5 0 7 a l 4 9 3 a v a n ti C risto .
T arquinio respinto dai Rom ani eccitò l ’Italia tutta contro di Roma. Porsenna, re di Chiusi, città dell’E - tru ria , fu il prim o a porgergli aiuto, non perch è amasse l ’iniquo T arquinio, m a p e r av ere occasione di d ic h iarar g u erra ai R o m an i, i quali divenendo ogni giorno p iù potenti e fo rm id ab ili, destavano la sua gelosia. Por
senna p ertanto con u n esercito num eroso e m unito di ogni sorta di m acchine da g u erra venne a d assediare la città di Roma, persuaso di p oter costringere i citta
dini ad assoggettarsi alle sue arm i. L ’entusiasm o della lib e rtà spinse i R om ani a v a rii atti eroici. Io accen
nerò i principali.
T rovavasi sul T evere u n ponticello d i le g n o , pel quale era facile p en e tra re nella città. Porsenna se ne accorse e spedì tosto u n g ran num ero di soldati p e r im padronirsene. Quelli che stavano alla guardia di quel ponte fuggirono, e soli rim asero a contrastarne il passo tre rom ani, uno dei quali appellavasi Orazio, sopran
nom inato Coclite, perch è era cieco d ’un occhio.
Questo valoroso cittadino, quando vide gli stranieri avanzarsi sopra quel ponte, ordinò ai due com pagni di tagliarlo prontam ente dietro di lui, ed egli solo rim ase d all’altra p arte a com battere contro un intero esercito.
Come poi si accorse che era tagliato il p o n te , si gettò nel Tevere, e fra i d a rd i dei m aravigliati nem ici passò nuotando all’altra sponda.
S tupì P orsenna a tanto coraggio, e risolvette di sog
giogare i Romani colla fame, vale a dire facendo sì che niuna sorta di com m estibili potesse e n tra re in Roma.
P e r la qual cosa la scarsezza d e’ cibi si fece in b rev e sentire a segno, che u n cittadino di nom e Muzio, deli
berò di sacrificare la p ro p ria v ita p e r lib e ra re la pa
tria . Si travestì d a soldato etrusco, si avanzò fino alla ten d a del re p e r u cc id e rlo , ed invece uccise il segre
tario, credendo che fosse il re.
A rrestato e condotto alla presenza di P orsenna, ed interrogato che cosa lo avesse indotto a u n tanto m i
sfatto ; rispose : « Il desiderio d i salvare la m ia pa
tria , e sappi che trecento giovani rom ani hanno giu
ralo al p a r di me di uccidere il tiranno. » E in ciò dire corse a p orre la sua destra sopra u n ardente fuoco, la
sciando che si abbruciasse p e r castigare quella mano, la quale erasi ingannata nell’ uccidere il segretario in luogo del re. P orsenna stupefatto a tanto coraggio, ri
m andò Muzio libero a R o m a , il quale in m em oria di quella coraggiosa azione ricevette il soprannom e di Sce- vola, cioè monco.
F u p u re in questa occasione che si segnalò una giovane Rom ana di nom e Clelia. C ostei, fatta prigio
n ie ra dai n e m ic i, a rd ì gettarsi a nuoto nel T evere e to rn arsi fra i suoi. P orsenna am m irando l ’eroico
valore d i tanti prodi, am ò meglio esser loro alleato che nemico. Conchiuse perciò u n trattato di pace co’ Rom ani, e visse sem pre con loro in buon accordo, e n ’ebbe da loro segni d i g ratitudine. Poiché suo figlio A runte essendo stato sconfitto presso la città di A ric ia , le sue genti fuggiasche vennero con bontà accolte dai Rom ani.
P o rse n n a , ritornato nella città di C h iu si, si occupò a far rifiorire ne’ suoi stati le scienze e le a rti finché visse. T arquinio vedendosi da Porsenna abbandonato, andò a cercare ai Rom ani nuovi n em ici, i quali non ebbero m iglior riuscita dei p rim i. Finalm ente scor
gendo inutile ogni tentativo, si ritirò a Cum a, ove m orì di ram m arico. In quel frattem po m orì Valerio sopran
nom inato Pubblicola , cioè amico del popolo ; egli m orì così p o v e ro , che si dovette fargli la sepoltura a spese del pubblico. Tale deve essere il pensiero di chiunque am m inistra le cose pubbliche : pensare a di
rigere tu tto con rettitu d in e e con giustizia, e non solo ad accum ularsi ricchezze.
XII.
I D ITTA TO R I E I TRIBUNI DEL POPOLO.
D a ll’an no 4 9 3 a l 4 8 8 a v a n ti C risto .
R o m a , divenuta re p u b b lic a , lungi dal p ro v are le felicità di u n buon governo, si accorse che in luogo di u n padrone, doveva sopportarne m o lti, i quali la fa
cevano da tiran n i. Si professavano amici del popolo, m a giunti al potere non badavano che a farsi ricchi ed o pprim ere il povero p o p o lo , che carico d i d ebiti ve
deva i suoi cam pi, le sue case e la p ro p ria v ita posta in vendita. Spesso b enem eriti cittadini erano m altrattati,