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Si fa presto a direSi fa presto a dire GALASSIA...GALASSIA...

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Si fa presto a dire Si fa presto a dire

GALASSIA...

GALASSIA...

di Claudio Elidoro di Claudio Elidoro

Abituati come siamo alle fantastiche immagini di sistemi stellari di ogni Abituati come siamo alle fantastiche immagini di sistemi stellari di ogni

foggia, dimensione e distanza che le attuali tecnologie osservative ci mettono foggia, dimensione e distanza che le attuali tecnologie osservative ci mettono a disposizione, ci risulta molto difficile pensare che, neppure un secolo fa, gli a disposizione, ci risulta molto difficile pensare che, neppure un secolo fa, gli astronomi non avevano affatto chiaro cosa fossero quelle macchioline

astronomi non avevano affatto chiaro cosa fossero quelle macchioline luminose che oggi chiamiamo galassie. Proviamo dunque a ripercorrere luminose che oggi chiamiamo galassie. Proviamo dunque a ripercorrere

alcune tappe del cammino che ha portato gli astronomi a riconoscere la vera alcune tappe del cammino che ha portato gli astronomi a riconoscere la vera natura di quei piccoli batuffoli di luce, tappa fondamentale della nostra

natura di quei piccoli batuffoli di luce, tappa fondamentale della nostra attuale concezione dell’Universo.

attuale concezione dell’Universo.

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https://view.joomag.com/coelum-astronomia-215-2017/0972652001505464100/p40

Fastidiosi abbagli

Le prime annotazioni relative a una galassia possiamo trovarle nel Libro delle stelle fisse,

l’accurata opera scritta in arabo con cui, intorno al 964, l’astronomo persiano 'Abd al-Rahman al-Sufi (903-986) provava a riunire le conoscenze

astronomiche presenti nell’Almagesto di Tolomeo con quelle raccolte dalla ricca tradizione degli astronomi arabi (ne abbiamo parlato anche nell’articolo “I Nomi delle Stelle” di Stefano

Schirinzi, pubblicato su Coelum Astronomia 221).

È in quest’opera che al-Sufi parla sia della Grande Nube di Magellano, che chiama “Bue bianco”, sia della galassia di Andromeda, che descrive come una piccola nube. Assolutamente nessuna idea sulla loro natura: perché qualcosa si muovesse in tal senso bisognava attendere il 1609 e la

fantastica intuizione di Galileo Galilei (1564-1642) di puntare verso il cielo quel giocattolo inventato dagli occhialai olandesi di Middelburg assemblando opportunamente le lenti da loro fabbricate.

Impossibile, vista la scarsa potenza dello strumento, riuscire a distinguere nella nube

lattiginosa di Andromeda le singole stelle. Puntato verso la fascia della Via Lattea, però, mostrò a un sorpreso Galileo «un ammasso di innumerevoli stelle disseminate a mucchi, tanto che, in

qualunque parte di essa si diriga il cannocchiale, si offre subito alla vista un grandissimo numero di stelle, molte delle quali appaiono grandi e ben distinte, mentre la moltitudine delle piccole è del tutto inesplorabile» (Sidereus Nuncius – 12 marzo 1610). Veniva di fatto confermata l’ipotesi

espressa da Anassagora intorno al 450 a.C., e ripresa da Democrito cinquant’anni dopo di lui, che la Via Lattea fosse una scia di stelle molto distanti. Un’idea che, molti secoli più tardi, venne suggerita anche dall’astronomo e matematico persiano Abu Rayhan al-Biruni (973-1048).

Per quanto scarsi, gli ingrandimenti di cui disponeva il cannocchiale di Galileo erano

comunque sufficienti a mostrare come anche altre nubi evanescenti fossero in realtà composte da

astri dei quali, osservando a occhio nudo, neppure si sospettava l’esistenza. Questa scoperta e il dato innegabile che la nebulosità della Via Lattea fosse dovuta a miriadi di stelle fecero sì che, per gli astronomi di quel periodo, tutti quanti gli oggetti celesti di aspetto nebulare dovessero essere necessariamente costituiti da stelle.

Non ci si deve dunque stupire se Giovanni Battista Hodierna (1597-1660), eccellente astronomo siciliano, fosse profondamente convinto che tutti gli oggetti nebulari che si potevano osservare, compresa la Nebulosa di Andromeda, avrebbero prima o poi mostrato la loro natura di

aggregazione stellare. Si trattava di poter disporre di uno strumento sufficientemente potente. Non è un caso, dunque, che la sua classificazione delle Nebulae in tre classi (Luminosae, Nebulosae e

Occultae) risenta sostanzialmente del loro grado di risolvibilità in singole stelle.

L’osservazione di quelle elusive macchie biancastre, complice la strumentazione

disponibile, non era certo al primo posto negli interessi degli astronomi. Eppure, a metà

Sopra. Ritratto di Giovanni Battista Hodierna (1597-1660).

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https://view.joomag.com/coelum-astronomia-215-2017/0972652001505464100/p40

Settecento già si era aperto un interessante dibattito proprio sulla natura della Nebulosa di

Andromeda.

Nel 1750 l’astronomo inglese Thomas Wright

(1711-1786) aveva pubblicato a Londra il suo libro An original theory or new hypothesis of the Universe, un’opera in cui suggeriva che l’aspetto della Via Lattea fosse dovuto a un effetto ottico legato al fatto di trovarci immersi in una struttura piatta composta da innumerevoli stelle, un immenso disco rotante in cui trovavano posto la Terra, il Sole, i pianeti, le stelle e gli altri oggetti celesti. Il grande filosofo prussiano Immanuel Kant (1724-1804) fu

talmente impressionato da quella teoria che la impiegò quale punto di partenza per giungere a formulare la sua ipotesi dell’esistenza di altre galassie come la Via Lattea. L’idea di Kant era che alcune di quelle deboli nebulose che

punteggiavano il cielo potessero essere sistemi stellari in tutto simili alla nostra Via Lattea, veri e propri Universi come quello costituito dalla nostra galassia, isole sperdute nel mare del Cosmo.

L’idea delle galassie come Universi Isola nasce dunque in questo periodo. Qualche anno più tardi ci avrebbero pensato le magistrali osservazioni astronomiche di William Herschel (1738-1822) e le sue scoperte di numerose altre nebulose a dare ulteriore peso alla brillante intuizione di Kant, la cui consacrazione definitiva, però, sarebbe giunta solamente molto più tardi.

Ovviamente, non tutti la pensavano così. Pierre- Simon Laplace (1749-1827), per esempio,

considerava le nebulose come la prova evidente della cosiddetta teoria nebulare, lo scenario inizialmente suggerito per la formazione delle stelle e dei pianeti dallo stesso Kant nel 1755

(Storia universale della natura e teoria del cielo) al quale lo scienziato francese diede la veste

matematica che gli mancava. Per Laplace,

insomma, quelle misteriose nebulose altro non erano che sistemi stellari in formazione, veri e propri vivai di stelle. L’idea era sostenuta anche dallo stesso Herschel, che considerava le

differenti nebulose come diversi stadi del collasso gravitazionale di una o più stelle dal gas

circostante.

In quel Secolo dei Lumi, però, una discreta parte degli astronomi sembrava più interessata ad altri lattiginosi batuffoli celesti. Complice la grande risonanza delle previsioni di Edmond Halley sul ritorno nel 1758 della grande cometa che poi porterà il suo nome, molti strumenti erano

dedicati a scrutare il cielo alla ricerca di nuovi astri chiomati. Una ricerca delicata, nella quale gli

abbagli erano sempre in agguato appena dietro l’angolo. Fu proprio uno di questi pazienti e

instancabili cacciatori celesti che, probabilmente stanco di scambiare per una nuova cometa una di quelle piccole nebulose che costellavano il cielo, decise di stilare un apposito catalogo. La prima versione della sua particolarissima lista di possibili abbagli, il cui nome originale era Catalogue des nébuleuses et des amas d'étoiles, Charles Messier (1730-1817) la pubblicò nel 1774 e comprendeva 45 oggetti. Nelle edizioni

successive il catalogo si arricchì di altri oggetti e, nella

versione finale

pubblicata nel 1781, comprendeva i 110 oggetti ben noti ancora oggi agli

appassionati che scrutano il cielo.

Sopra. Charles Messier (1730-1817).

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La Galassia prende forma

La Scoperta

Giusto per fare chiarezza sull’imponente lavoro osservativo di Herschel al quale abbiamo

accennato poco fa, bisogna sottolineare come tra il 1786 e il 1802 pubblicò tre successivi cataloghi nei quali riportava la scoperta di ben 2.500

nebulose – già abbiamo avuto modo di accennare come il termine, a quei tempi, fosse molto

generico – molte delle quali oggi sappiamo essere galassie.

Da grande ed eclettico astronomo qual era,

Herschel non si dedicò solamente a scrutare i cieli alla ricerca di nuove nebulose, ma volle anche provare a dare una forma concreta all’elusiva struttura del nostro sistema stellare.

Attraverso rigorose osservazioni stellari in 700 differenti regioni del cielo, provò dunque a

ricostruire la reale struttura della Via Lattea. Per quanto approfondito, però, lo studio di Herschel si fondava su tre assunti che, più tardi, si sarebbero dimostrati completamente sbagliati. Anzitutto riteneva che le stelle avessero tutte quante la stessa luminosità; secondariamente, che la loro distribuzione nello spazio fosse uniforme; infine,

che non vi fosse alcun limite alla loro

osservabilità, vale a dire che si potessero scorgere gli astri fino ai bordi esterni del sistema.

Sotto queste ipotesi, nel 1785 propose la sua idea della possibile struttura della Via Lattea,

suggerendo che avesse più o meno la forma di un disco appiattito e che le stelle che la popolavano si estendessero cinque volte di più lungo il piano rispetto alla direzione ad esso perpendicolare.

Inoltre, il Sole (e la Terra) occupavano una

posizione centrale in questo disco appiattito, in una sorta di riproposizione dell’antica visione geocentrica del cosmo. Questo modello, tranne che per alcuni aggiustamenti marginali, rimase in auge per oltre un secolo.

Sotto. La figura di William Herschel ha dominato tutta l'astronomia dei decenni a cavallo tra Settecento e Ottocento, influenzando profondamente con il suo ingegno, le sue scoperte e la sua dedizione le menti dei giovani europei desiderosi di coltivare la via positivista alla conoscenza.

Tra tutto ciò, l'astronomo anglo tedesco si dimostrò anche un avveduto venditore di “se stesso” e dei suoi strumenti, che vendette a centinaia in molti paesi.

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Sopra. Un disegno tratto dagli appunti di W. Herschel sulla modellizzazione della Via Lattea. L’impresa forse più ambiziosa dell’astronomo anglo-tedesco fu proprio il tentativo di determinarne la struttura. Ciò implicava una tecnica che Herschel chiamò “star gauging”, che consisteva nell’ottenere un campione rappresentativo della Galassia contando in tutte le direzioni le stelle che andava osservando nel campo del suo telescopio. In circa 20 anni di lavoro contò quasi 100.000 stelle in 2.400 aree campione! Il modello di Via Lattea che ne derivò era tormentato da molte irregolarità, ed il Sole fu localizzato vicino al suo centro.

Basti pensare che nel 1906 l’astronomo olandese Jacobus Kapteyn (1851-1922) si fece promotore di un progetto che, come quello di Herschel, si proponeva di definire la distribuzione delle stelle della Galassia ricorrendo a conteggi stellari in differenti direzioni. Il progetto era comunque di gran lunga più ambizioso di quello condotto oltre un secolo prima dall’astronomo inglese.

Prevedeva infatti la misurazione della

magnitudine apparente, del tipo spettrale, della velocità radiale e del moto proprio delle stelle in 206 zone celesti.

Si trattò della prima analisi statistica coordinata in astronomia e coinvolse oltre quaranta diversi Osservatori. Ebbene, il cosiddetto Universo di Kapteyn non era poi così differente da quanto aveva proposto Herschel. Nel suo modello, infatti, ipotizzava che il nostro Universo Isola avesse una

forma lenticolare, con la densità che gradualmente diminuiva man mano ci si

allontanava dal suo centro; il sistema si estendeva per 40 mila anni luce e il Sole si trovava a soli 2000 anni luce dal suo centro.

È evidente come il problema della determinazione delle distanze fosse cruciale: senza conoscere le distanze non era possibile ipotizzare quale fosse l’estensione della Galassia. Kapteyn e il suo

collaboratore, l’astronomo olandese Pieter van Rhijn, furono in grado di stimare le distanze di stelle caratterizzate da differente luminosità apparente, riuscendo in tal modo a ricostruire correttamente la loro distribuzione nello spazio. I due astronomi, inoltre, intuirono che il mezzo interstellare potesse assorbire parzialmente la radiazione delle

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stelle rendendo la loro luce più debole di quanto non fosse in realtà. Un sospetto fondato, peccato che di

quell’assorbimento non riuscirono a dimostrarne concretamente l’esistenza.

Solamente nel 1930, infatti, lo svizzero Robert Trumpler avrebbe scoperto la polvere interstellare e il suo effetto di arrossamento del colore delle stelle lontane.

Per quanto frutto di un lungo e attento lavoro, ancor prima che, nel 1920, il modello di Universo di Kapteyn venisse

Sotto. Questa immagine illustra più di mille parole l’incomparabile bellezza degli ammassi globulari, oggetti che proprio in questi ultimi anni stanno rivelando una varietà di componenti davvero inaspettata (pulsar, buchi neri, planetarie). Gli ammassi globulari offrono infatti alcuni dei panorami più spettacolari del cielo notturno. Questi oggetti contengono centinaia di migliaia di stelle e risiedono alla periferia delle galassie. La Via Lattea ne contiene oltre 150. Sebbene la maggior parte dei cluster globulari siano molto più vecchi della maggior parte delle stelle nella loro galassia ospite, NGC 362 ha un andamento negativo, con un'età compresa tra 10 e 11 miliardi di anni. Per riferimento, l'età della Via Lattea è stimata in circa 13 miliardi di anni. Questa immagine è stata realizzata grazie alla Advanced Camera for Surveys (ACS) del Telescopio Spaziale Hubble. Crediti:

NASA/ESA/Hubble.

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ufficialmente pubblicato, vi fu chi ne mise pesantemente in dubbio la correttezza. In una serie di studi pubblicati tra il 1915 e il 1919, infatti, l'astronomo americano Harlow Shapley (1888-1972) aveva proposto che il Sole non occupasse affatto quella posizione centrale della Via Lattea suggerita da Kapteyn. Alla base della sua convinzione vi era lo studio degli ammassi globulari della Galassia, che non solo erano facilmente individuabili anche a grandi distanze dal Sole, ma erano posizionati a sufficiente

distanza dal piano galattico da renderli

praticamente immuni dall’eventuale presenza di assorbimento dovuto al mezzo interstellare. Se, come egli riteneva, gli ammassi globulari erano i costituenti principali della nostra galassia e la loro distribuzione era uniforme rispetto al centro del sistema, allora quel centro non poteva

coincidere neppure lontanamente con la

posizione del Sole. Secondo le stime di Shapley, il raggio della distribuzione degli ammassi globulari era di circa 100 kpc (326 mila anni luce) e il Sole distava circa 18 kpc (59 mila anni luce) dal centro del sistema, collocato in direzione della

costellazione del Sagittario. Un modello

sostanzialmente corretto, anche se oggi sappiamo che le valutazioni di Shapley erano notevolmente sovrastimate: i dati attuali, infatti, indicano che la nostra stella dista dal centro galattico 8,5 kpc e che la nuvola costituita dai circa 160 ammassi globulari della Via Lattea ha un raggio di circa 40 kpc (130 mila anni luce).

Le valutazioni delle reali dimensioni del nostro sistema stellare, sostenute dalle differenti scuole di pensiero, erano comunque troppo distanti tra loro per non costituire un enorme problema astronomico la cui soluzione non si poteva più rimandare. Ancora non lo si sapeva, ma era alle

Harlow Shapley (1885-1972) era figlio di modesti agricoltori di Nashville, ma era riuscito a frequentare la scuola e, dopo aver fatto per un paio d’anni il cronista, si era iscritto al corso di Astronomia all’Università del Missouri. Diplomatosi nel 1910, aveva ottenuto il Ph.D. a Princeton nel 1913, collaborando con H. N. Russel allo studio delle variabili ad eclisse. Nel 1914 sposò Martha Betz, dalla quale ebbe in seguito cinque figli, che lo sostenne e collaborò sempre con lui. Nello stesso anno entrò all’Osservatorio di Mount Wilson

(dove quattro anni più tardi sarebbe stato inaugurato il telescopio da 2,5 m, allora il più grande del mondo) e pubblicò un importante

lavoro sulle Cefeidi, che in quell’epoca erano considerate sistemi doppi in rapida rivoluzione.

Shapley propose un nuovo modello, basato su pulsazioni del diametro periodiche e regolari, oggi universalmente accettato. Le ricerche sulle

Cefeidi condussero Shapley alla sua più

importante scoperta. Usando la legge periodo/

luminosità, scoperta da Henrietta Leavitt per le Cefeidi nelle Nubi di Magellano, e supponendola valida per tutte le Cefeidi, riuscì a ricavare le distanze di quelle appartenenti a molti ammassi globulari, e quindi degli ammassi stessi. Gli sviluppi di queste ricerche gli permisero di tracciare la struttura e le dimensioni della

Galassia, di fornire la distribuzione degli ammassi globulari rispetto ad essa e di scoprire che il Sole non si trovava al centro della Galassia ma a circa 2/3 del raggio. Anche se la successiva scoperta di due popolazioni stellari (Bade, 1952) avrebbe invalidato l’ipotesi di unicità della legge periodo/

luminosità, questo condusse solo ad un

cambiamento dei valori numerici, senza nulla togliere all’essenza della scoperta, ma

confermandone anzi l’importanza.

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porte un’autentica rivoluzione nella concezione stessa di Universo, una rivoluzione che non solo avrebbe spazzato ogni incertezza sulle dimensioni

dei sistemi stellari e sulla vera natura di molte nebulose, ma avrebbe anche messo sul tappeto problemi molto più intriganti e complicati.

Il Grande Dibattito

Heber Doust Curtis (1872-1942) di estrazione abbastanza agiata, aveva seguito gli studi classici e si era dedicato per un certo tempo allo studio e all’insegnamento delle lingue antiche. Nel 1987 incominciò ad insegnare matematica e a

frequentare l’Osservatorio di Lick nelle vacanze estive. Qui nel 1902 conseguì il Ph.D. e mosse i primi passi della sua carriera, rimanendovi fino al 1920, anno in cui fu chiamato a dirigere

l’Osservatorio di Allegheny. Dei numerosi studi di Curtis, eseguiti al Lick con il telescopio Crossley da 90 cm, possiamo ricordarne soprattutto tre:

una descrizione di 762 nebulose e ammassi, uno studio della materia assorbente nelle galassie a spirale e una ricerca su tutte le nebulose

planetarie allora note a Nord di –34°. Attraverso queste ricerche Curtis era giunto alla convinzione che le nebulose a spirale erano oggetti

extragalattici o, come allora si diceva, “universi

isole”. Provò questa sua tesi anche scoprendo, in alcune di esse, diverse novae che usò come indicatori di distanza.

Per un certo tempo egli fu il solo a

sostenere questa idea, che fu definitivamente dimostrata solo nel 1924 da Edwin P. Hubble con il riflettore da 2,5 m di Mount Wilson. Nel 1918 fu il primo ad osservare il getto luminoso nel nucleo di M87.

Il termine è ben noto a quanti, anche solo marginalmente, si interessano di storia

dell’astronomia e si riferisce a una particolare sessione dell’incontro annuale della National Academy of Sciences tenutasi nel Baird Auditorium dello Smithsonian Museum of Natural History a Washington nella serata del 26 aprile 1920.

In quell’occasione Harlow Shapley – che era astronomo di Mount Wilson – e Heber Doust Curtis (1872-1942) – astronomo del Lick

Observatory – furono invitati a presentare il loro punto di vista sul tema delle dimensioni

dell’Universo. Entrambe le conferenze avevano come titolo The Scale of the Universe, ma i punti di vista erano molto distanti tra loro. Nel maggio dell’anno seguente sul Bulletin of the National Research Council verranno pubblicati due studi che, in forma più estesa e completa, riporteranno

quei due differenti punti di vista.

Secondo un’analisi di Michael Hoskin (Churchill College) pubblicata nel 1976, le argomentazioni dei due articoli erano sicuramente più articolate e approfondite di quelle che potevano essere state presentate oralmente l’anno prima, il che lo porta a concludere che l’alone di battaglia epica che da sempre circonda l’evento debba essere in parte rivisto. Secondo Hoskin, insomma, la maggior parte degli storici, trattando i documenti pubblicati come il resoconto integrale di una

drammatica prova di forza scientifica, ha finito col creare una sorta di romanzo storico.

Non è certo nostra intenzione entrare nel merito di questa valutazione: quello che a noi interessa, infatti, è il contenuto di quel dibattito. Proviamo dunque a sintetizzare i due punti di vista.

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Da un lato vi era Shapley e la sua idea che la Via Lattea costituisse tutto quanto l’Universo. Di

questo sistema facevano parte integrante tutte le nebulose, comprese quelle spiraliformi come la nebulosa di Andromeda. Come prova concreta di questo modello, Shapley mise sul tappeto il lavoro dell’astronomo olandese naturalizzato statunitense Adriaan van Maanen riguardante la nebulosa a spirale M101 nell’Orsa Maggiore (la ben nota Galassia Girandola) e la stessa nebulosa di Andromeda.

Poiché Van Maanen sosteneva di aver rilevato la rotazione di quei sistemi stellari, ipotizzare che fossero separati dalla Via Lattea comportava per quei sistemi una velocità di rotazione troppo elevata, addirittura superiore al limite naturale costituito dalla velocità della luce. A corroborare ulteriormente questo modello, l'astronomo

presentò il caso di una nova particolarmente

brillante osservata in Andromeda la cui luminosità aveva temporaneamente superato quella del

nucleo stesso della nebulosa. Una quantità di energia già problematica per una nova, ma che diventava semplicemente assurda se si fosse

collocata la nebulosa di Andromeda ben al di fuori della Via Lattea (ricordiamo che ancora doveva apparire il concetto di supernova, per il quale si sarebbero dovuti attendere gli studi condotti da Walter Baade e Fritz Zwicky all'Osservatorio di Monte Wilson negli anni Trenta).

Curtis era di idee completamente differenti. Egli riteneva che Andromeda e le altre nebulose dalle caratteristiche simili fossero strutture stellari distinte dalla Via Lattea ma ad essa

strutturalmente simili, le isole stellari ipotizzate da Kant. A sostegno della sua tesi sottolineava come Andromeda apparisse particolarmente ricca di novae, più ricca dell’intera Via Lattea. Una

Sopra. Un incredibile mosaico della bella galassia M 101, la Pinwheel Galaxy (Galassia Girandola). L'immagine è il frutto dell'elaborazione di numerose immagini realizzate dal Telescopio Spaziale Hubble. Crediti: NASA/

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Le posizioni di Shapley

1. La distanza degli ammassi globulari

determinata con il metodo delle Cefeidi mostra che la Via Lattea è molto grande. La loro

distribuzione indica che il Sole è situato in una posizione molto decentrata.

2. Le accurate osservazioni di Adriaan Van Maanen, del Mount Wilson

Observatory, mostrano per le

“nebulose a spirale” come M 101 delle rotazioni misurabili in un periodo di alcuni anni.

La velocità che se ne deduce è così grande che in qualche caso dovrebbe superare quella della luce e rendere la nebulosa completamente instabile.

L’unica spiegazione plausibile è allora che esse

siano molto piccole, a composizione gassosa e non stellare, e all’interno della nostra Galassia.

3. L’esistenza di una regione di cielo nella quale non si vedono nebulose a spirale (la cosiddetta

“zone of avoidance”) indica che esse fanno parte della Via Lattea.

1. Le rilevazioni di Van Maanen hanno un’approssimazione dello stesso ordine degli errori strumentali.

2. L’analisi statistica condotta su posizioni, spettri e magnitudine intrinseca delle stelle indica che la nostra Galassia è di dimensioni contenute e il Sole ne occupa una posizione piuttosto centrale. Ancora incerta è l’attendibilità delle distanze dedotte con il metodo delle Cefeidi.

3. Lo spettro delle nebulose a spirale mostra righe di assorbimento di tipo stellare, ciò indica che le nebulose stesse devono essere composte da stelle non risolte e che quindi sono da considerarsi degli “Universi Isola” come la Via Lattea.

In esse compaiono spesso delle stelle Novae, del tutto simili a quelle che si accendono nella nostra galassia.

4. La grande velocità di recessione delle nebulose a spirale scoperta da Slipher indica che esse non sono associate con la Via Lattea.

5. La tesi (3) di Shapley potrebbe essere interpretata con la presenza di uno strato di polvere interstellare posizionata sul piano della

Via Lattea, tale da impedire l’osservazione di oggetti posti al di fuori della Galassia.

... e quelle di Curtis

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situazione statisticamente inaccettabile, per la quale non vi poteva essere spiegazione se non ipotizzando di trovarsi dinanzi a un sistema stellare autonomo in tutto simile alla Via Lattea, dunque caratterizzato da un tasso di produzione di novae che poteva essere differente dal nostro.

Tutto da spiegare, inoltre, l’anomalo effetto

Doppler che affliggeva, arrossandoli, gli spettri di molte galassie.

È fuori strada chi pensa che quel dibattito

(virtuale) sfociò nella proclamazione unanime di un vincitore. Come talvolta accade, infatti,

ciascuna delle due posizioni conteneva sia concetti corretti che idee sbagliate. Oggi

sappiamo che le dimensioni del disco della Via Lattea si aggirano intorno ai 100 mila anni luce, il che significa che sia Shapley che Curtis erano fuori strada, il primo per eccesso e il secondo per

difetto. Riguardo poi alla posizione del Sole, Curtis lo collocava in prossimità del cuore del sistema,

mentre per Shapley era molto

decentrato.

Il nodo profondo del problema, però, era la vera natura delle nebulose.

Fortunatamente la soluzione del dilemma era a portata di telescopio. Si trattava

solamente di

attendere, neppure un lustro dopo il Grande Dibattito, l’entrata sulla scena di Edwin Powell Hubble (1889-1953).

Il Grande Dibattito: l’epilogo

Pochi anni dopo il “Grande Dibattito”, finito senza vinti né vincitori per la mancanza di dati

osservativi capaci di risolvere la questione delle distanze, Edwin Hubble (1889-1953) risolve in stelle i bracci della nebulosa di Andromeda e, trovate delle variabili Cefeidi, applica la relazione periodo-luminosità per calcolarne la distanza in 800.000 anni luce.

Era la prova definitiva a favore di quanto asseriva Curtis: le “nebulose a spirale” sono sistemi esterni alla nostra Galassia. Tutto questo fu possibile

soltanto grazie al nuovo grande strumento da 2,5 metri di Mount Wilson (il famoso 100 pollici, battezzato con il nome del mecenate John Hooker), inaugurato nel 1918.

Sopra. Edwin Powell Hubble (1889-1953)

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www.coelum.com 55

Quella rivoluzionaria Cefeide

Due importanti fattori contribuirono alle decisive scoperte di Hubble. Anzitutto, grazie al

fondamentale lavoro di Henrietta Swan Leavitt (1868-1921) relativo alle stelle Cefeidi – stelle giganti pulsanti il cui battito era strettamente legato alla loro luminosità assoluta – dal 1908 gli astronomi potevano disporre di un ulteriore

prezioso strumento per valutare le distanze

cosmiche. Secondariamente, ma solo in ordine di tempo, quando Hubble prese servizio

all’Osservatorio di Monte Wilson, nel 1919, era in fase di ultimazione il telescopio Hooker, il

riflettore dallo specchio del diametro di due metri e mezzo che avrebbe tolto il primato di telescopio più grande del mondo al Leviatano di William Parson (vedi Coelum Astronomia 203). Un primato che l’Hooker manterrà fino al 1948, quando

entrerà in servizio a Monte Palomar il ben noto telescopio Hale da 5 metri di diametro.

Fu proprio utilizzando il nuovo telescopio che Hubble riuscì a individuare la presenza di una Cefeide su una lastra della Nebulosa di

Andromeda (M 31) acquisita nella notte tra il 5 e il 6 ottobre 1923. Una Cefeide alla quale, sia in M 31 che in M 33 (galassia del Triangolo), se ne

aggiunsero numerose altre. L’accurata analisi delle lastre fotografiche, infatti, permise a Hubble di determinare le variazioni di luce di 22 Cefeidi in M 33 e altre 12 in M 31. Oltre a queste, altre Cefeidi erano state individuate in M 81, M 101 e NGC 2403, ma il numero di lastre acquisite non consentiva un adeguato studio della loro variazione di luminosità.

Benché di quella scoperta e delle sue

conseguenze il primo a parlarne fu il New York Times il 23 novembre 1924 (chiamando

In alto. Henrietta Swan Leavitt (1868-1921).

A destra. Il Telescopio Hooker da 100 pollici dell’Osservatorio di Mount Wilson. Crediti:

Ken Spencer Continua a pagina 58 »

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Henrietta Leavitt e le Cefeidi

Nel 1922 l’astronoma americana Henrietta Leavitt (1868-1921) dell’Osservatorio di Harvard – la prima donna a ottenere una cattedra in campo astronomico in un’università americana – aveva scoperto che il periodo di variazione di luminosità delle Cefeidi, una particolare classe di stelle

variabili, era strettamente legato alla loro magnitudine assoluta. Trovò dunque una relazione tra i periodi di variabilità e le

magnitudini apparenti delle cefeidi appartenenti alla Grande Nube di Magellano – una delle

galassie più vicine alla nostra Via Lattea. Il fatto che quelle stelle potessero essere considerate tutte alla stessa distanza dalla Terra – essendo situate in un sistema così lontano – autorizzava però a ipotizzare che la vera relazione sussistesse tra periodo di variabilità e magnitudine assoluta.

Tramite la determinazione empirica di questa, e il valore della magnitudine apparente ricavata per via osservativa, divenne facile ricavare la distanza delle stelle, legata ai primi due valori dalla nota relazione: M = m–5 Log D+5

Da allora le Cefeidi sono considerate uno degli indicatori primari per la determinazione delle distanze.

La cosa si complicò quando l’astronomo tedesco Wilhelm Baade, emigrato negli Stati Uniti, scoprì che esistevano due diversi tipi di Cefeide, e che la Leavitt aveva costruito la relazione su delle

Cefeidi di popolazione II (in rosso nel grafico), intrinsecamente meno luminose di quelle di

popolazione I (in giallo). Baade rilevò che le stelle di Popolazione I, più giovani e situate sul disco lungo i bracci della Via Lattea, erano associate alla presenza di gas e polveri. Al contrario le stelle appartenenti alla Popolazione II, molto più

vecchie, si trovavano essenzialmente nel bulge e nell’alone galattico.

A sinistra. Una splendida fotografia della Galassia di Andromeda realizzata con una strumentazione

amatoriale (camera CCD abbinata ad un rifrattore da 125 mm, f/4,9). Cortesia Kiyoshi Miyamoto.

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erroneamente l’astronomo Dr. Hubbell),

l’annuncio scientifico ufficiale venne dato il 1°

gennaio 1925 nel corso del Congresso dell’American Astronomical Society.

Nello studio Hubble non prendeva posizione sulla portata della scoperta, quasi volesse mantenere le distanze dallo spinoso tema del Grande Dibattito.

Diceva comunque esplicitamente che non solo quelle variabili erano connesse con le nebulose a spirale, ma anche che le variazioni osservate

mostravano come il comportamento delle Cefeidi apparisse uniforme nelle differenti porzioni di Universo prese in esame.

Da questi assunti, però, derivava in modo

immediato una dirompente conclusione: poiché la luminosità assoluta delle Cefeidi osservate in quelle spirali era affidabile, la loro distanza imponeva che i sistemi stellari ai quali

appartenevano non potessero essere interni alla Via Lattea (si sarebbero dovute gonfiare le sue dimensioni in modo assolutamente inaccettabile).

Complice la necessità di raffinare la relazione periodo-luminosità delle Cefeidi, le distanze in gioco andavano certamente riviste. Secondo Hubble, per esempio, Andromeda distava 900 mila anni luce: quasi il doppio delle stime di Curtis (500 mila anni luce), ma decisamente pochi

rispetto ai due milioni e mezzo di anni luce che oggi conosciamo.

Le nebulose a spirale, insomma, dovevano

necessariamente essere sistemi stellari autonomi, autentici Universi Isola proprio come era stato suggerito da Kant. Quel pugno di stelle variabili aveva risolto la diatriba che divideva gli

astronomi, obbligando anche i più scettici a estendere in modo decisivo e imprevisto le dimensioni dell’Universo.

Il contributo di Hubble all’astronomia non si riduce certo alla sua scoperta delle Cefeidi in alcune galassie a spirale. C’è ben altro! Tra il 1926 e il 1936, infatti, scoprì come la distribuzione delle galassie, facendo la media dei valori tra differenti angoli di vista, fosse omogenea alle varie distanze. Utilizzò quindi i conteggi delle galassie fino alla magnitudine limite del

telescopio Hooker per tentare una misurazione del raggio di curvatura dello spazio.

Il contributo più noto resta comunque la scoperta, in collaborazione con il fidato assistente Milton Humason, che gli spostamenti verso il rosso della luce emessa dalle galassie, sempre più grande man mano ci si addentrava nello spazio profondo,

erano strettamente correlati con la distanza stessa.

La relazione, oggi nota come Legge di Hubble, venne pubblicata nel 1929 e ad essa si deve il rivoluzionario concetto che l’Universo si stia espandendo, uno dei cardini irrinunciabili della moderna Cosmologia.

A sinistra. Milton Humason nel suo studio di Mount Wilson (1955).

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Legge di Hubble o Legge di Lemaître?

La "Costante di Hubble", che indica la velocità con la quale l’universo si espande, riveste com’è noto un ruolo fondamentale in cosmologia per la stima delle dimensioni e dell’età dell’universo, e alla sua determinazione si è giunti a conclusione di un ventennio di grandi scoperte.

In modo pressoché unanime, oggi gli astronomi chiamano questa relazione “Legge di Hubble”.

Siamo però certi che la scoperta della legge, che

porta il nome di Hubble, sia indiscutibilmente opera del grande astronomo americano?

Considerando la storia, potrebbe essere più

corretto riconoscere la paternità della sopra citata legge a un poco noto cosmologo belga di nome Georges Lemaître.

Leggi l’articolo completo su Coelum Astronomia 216

Il diagramma a diapason

Per il cammino che stiamo facendo in queste pagine, però, è forse più importante sottolineare un altro contributo di Hubble alla nostra

conoscenza delle galassie. Tra il 1922 e il 1926, infatti, l’astronomo statunitense ideò e propose una sua classificazione delle galassie (o nebulose, come si usava chiamarle allora). La proposta era la logica conseguenza del crescente numero di

oggetti scoperti e della necessità di provare a rendere più sistematico il loro studio. Spesso ci si riferisce a questo modello con il nome di

Diagramma a diapason, termine che sintetizza egregiamente l’aspetto dello schema, oppure con il nome di Sequenza di Hubble. In esso le galassie erano catalogate in quattro grandi famiglie: le spirali, le spirali barrate, le ellittiche e le

irregolari.

Nel lato sinistro del diagramma si collocano le galassie ellittiche (E), catalogate in sette classi contraddistinte ciascuna da un valore numerico che indica il grado di ellitticità (sostanzialmente è il rapporto tra le due dimensioni dell’ellisse).

Dalle galassie E0, pressoché tondeggianti, si giunge fino alle galassie E7, dall’aspetto

decisamente ellittico. A quel punto il diagramma si divide in due rami: quello superiore comprende le galassie a spirale (S) e quello inferiore le spirali barrate (SB). Nel punto di biforcazione trovano collocazione le galassie che hanno una struttura lenticolare (S0), sistemi stellari con una regione centrale sferoidale circondata da una struttura a disco più appiattita, una sorta di transizione tra le galassie ellissoidali e quelle a spirale.

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Sotto. Una magnifica immagine della galassia NGC 1300, situata nella costellazione dell’Eridano, a circa 69 milioni di anni luce di distanza. Come si può notare, la galassia è “barrata” ovvero è una galassia composta da un nucleo attraversato da una struttura a forma di barra dalla quale si dipartono i bracci di spirale. Secondo gli studi più recenti, anche la morfologia della nostra galassia, la Via Lattea, è del tipo “a spirale barrata”.

La ripresa è stata effettuata nel 2004 con il Telescopio Spaziale Hubble. Crediti: ESA/NASA/STScI/AURA I due rami del diapason, dunque, sono dedicati

alle due differenti tipologie di galassie in cui è presente il caratteristico avvolgersi dei bracci di spirale. Mentre nelle galassie a spirale la struttura dei bracci si diparte direttamente dalla regione centrale (il cosiddetto bulge), nelle spirali barrate è presente una barra di stelle che si sovrappone al bulge e i bracci si dipartono dalle due estremità di tale struttura. Per entrambi i gruppi sono previste tre classi, contraddistinte con le lettere dalla “a”

alla “c”, che descrivono quanto appaia stretto e compatto l’avvolgimento dei bracci. Insomma, una galassia catalogata come Sa sarà dunque una

galassia a spirale con i bracci molto ravvicinati, mentre una galassia SBc sarà una galassia barrata con i bracci pochissimo avviluppati tra loro.

Il diagramma è completato dal gruppo delle galassie irregolari, destinato ad accogliere quei sistemi stellari che Hubble non riusciva a

inquadrare nelle precedenti tipologie. Del gruppo facevano parte le galassie caratterizzate da forme irregolari, si pensi per esempio alle Nubi di

Magellano e ad altre galassie nane, e sistemi

stellari nei quali la struttura a spirale appariva pesantemente interrotta, quasi fosse stata

profondamente disturbata da qualche misterioso cataclisma. Con gli anni avremmo scoperto che in molti casi quei cataclismi altro non erano che la reciproca interazione di due galassie, capace di distruggere la regolarità della struttura e generare giganteschi e caotici ingorghi stellari, ma anche di innescare la produzione di nuove stelle.

Per un breve periodo, vi fu chi alla classificazione di Hubble attribuì anche un significato evolutivo.

Con il passare del tempo, cioè, una galassia si trasformava passando da una classe all’altra

procedendo nel diagramma a diapason da sinistra verso destra. A questa idea è legato il fatto che, talvolta, ci si riferisca alle galassie Sa e SBa chiamandole precoci (early-type), mentre le

galassie Sc e SBc vengono chiamate tardive (late- type). L’interpretazione evolutiva, però, si mostrò ben presto non percorribile e venne dunque abbandonata assegnando al diagramma

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solamente il significato di utile strumento per la classificazione morfologica delle galassie.

Oggi sappiamo che il percorso evolutivo di una galassia è di gran lunga più complesso di quanto si potesse immaginare ai tempi di Hubble: in esso giocano un ruolo chiave non solo le condizioni che hanno portato al suo collasso iniziale, ma anche l’interazione con altre galassie, il merging con sistemi stellari più piccoli, l’influenza del buco nero supermassiccio che solitamente si nasconde nel suo nucleo, l’interazione reciproca tra le sue stelle, il tasso di formazione stellare che la caratterizza, ...e molto altro...

Negli anni successivi l’idea di Hubble sarebbe stata ampliata e approfondita da altri astronomi.

Alla fine degli anni Cinquanta, per esempio,

Gérard de Vaucouleurs propose un ampliamento della sequenza di Hubble specificando in modo più dettagliato le caratteristiche morfologiche di

barre e bracci di spirale e integrando tra gli

elementi morfologici anche la presenza di anelli.

Un altro modello di classificazione spesso usato è il cosiddetto schema di Yerkes, ideato da William W. Morgan, astronomo dell’Osservatorio di

Yerkers, in modo che contemplasse, oltre alla forma della galassia, anche la tipologia spettrale preminente delle sue stelle.

Nonostante le integrazioni e le proposte alternative, la struttura della classificazione proposta da Hubble nel 1926 resta validissima ancora oggi. Con l’incredibile aumento del

numero di galassie conosciute, scoperte fin nelle più remote regioni dell’Universo in epoche nelle quali tali sistemi stellari si erano appena formati, sono aumentate anche le nostre conoscenze.

Peccato però che, col crescere del numero delle galassie, siano anche cresciuti i problemi legati alla loro classificazione.

A sinistra. NGC 6822, la “Galassia nana di Barnard”, posta nella costellazione del Sagittario. Si tratta di una galassia irregolare scoperta visualmente nel 1881 (con un rifrattore da 150 mm) dal famoso astronomo americano Edward E.

Barnard, distante solo 1,64 milioni di anni luce e appartenente al nostro Gruppo Locale.

La bassa luminosità superficiale

(mag. +14,4 per primo d’arco quadrato) e l’assorbimento della sua luce – che per arrivare a noi deve attraversare quasi per intero il diametro della nostra galassia – la rendono un oggetto non proprio facile da staccare al fondo cielo. Crediti: ESO.

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Sotto. Questa immagine, catturata dal Telescopio Spaziale Hubble nel 2017, mostra cosa succede quando due galassie si scontrano diventando una sola. Il contorto nodo cosmico qui ritratto è NGC 2623 che si trova a circa 250 milioni di anni luce di distanza, nella costellazione del Cancro. NGC 2623 ha assunto questa sua forma insolita in seguito alla grande collisione e successiva fusione tra due galassie separate. Questo

violento incontro ha causato la compressione delle nubi di gas all'interno delle due galassie originarie, che a loro volta hanno innescato un picco di formazione stellare: le nuove stelle risplendono di luce blu brillante.

Si nota la presenza di due lunghe code di polveri e gas (code di marea) che si estendono per circa 50.000 anni luce da un capo all'altro. Crediti: NASA/ESA/Hubble.

Classificazione problematica

Quando viene applicata alle galassie nei paraggi della Via Lattea, la classificazione di Hubble si comporta in modo ineccepibile. Oltre il 90%

delle galassie più luminose, infatti, trova perfetta collocazione nel diagramma. Ci sono notevoli problemi, però, nel collocare nella classificazione gran parte delle galassie nane del Sistema Locale.

Tali galassie, benché il loro contributo alla massa complessiva del sistema sia marginale, sono di gran lunga più numerose delle altre. Un vero peccato che sia terribilmente difficile riuscire a scorgere questa vasta popolazione di galassie a grandi distanze. Inevitabilmente, insomma, un gran numero di galassie si mantiene al di fuori della classificazione standard.

Teniamo inoltre ben presente che il numero di galassie da inquadrare in una classificazione è

passato da poche migliaia di elementi al milione e più di galassie considerate dal progetto Galaxy Zoo. Si è poi passati dalle classiche immagini in bianco e nero alle più sofisticate riprese a colori, elemento tutt’altro che secondario dato che permette di individuare le particolari

caratteristiche delle galassie riconducibili alle popolazioni di stelle che le compongono e alla presenza di emissioni delle nubi di gas in esse presenti.

Un altro enorme problema è costituito dal fatto che, fatalmente, man mano che ci addentriamo nell’Universo le dimensioni apparenti delle galassie si mostrino sempre più ridotte. A tal

proposito, in uno studio pubblicato su Science nel 2001 relativo all’evoluzione morfologica delle galassie, Roberto Abraham e Sidney van den

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Galaxy Zoo

Visionare centinaia di stupende immagini di galassie; gettare uno sguardo ai confini

dell’universo e poter dare un’enorme mano alla scienza con un unico click del mouse: questo è Galaxy Zoo. Si tratta di un progetto astronomico internazionale nel quale i membri sono chiamati a classificare milioni di galassie. Galaxy Zoo è

dunque un ottimo esempio di citizen science.

Grazie alla facilità di utilizzo e alla bellezza delle immagini da esaminare, ha subito avuto un

grandissimo successo, con decine di migliaia di iscritti e milioni di galassie catalogate.

Il lavoro da svolgere è comunque ancora lungo e veramente ambizioso, ma allo stesso tempo semplice e ricco di soddisfazioni, quindi vale sicuramente la pena partecipare a questa che è la più grande catalogazione astronomica mai fatta nella storia umana.

Per maggiori informazioni visitare il sito web del progetto.

Bergh, dell’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics, sottolineano come a distanze corrispondenti a un redshift uguale a 1, epoca in cui l’Universo aveva 5,8 miliardi di anni, il numero di pixel di una galassia possa essere inferiore anche di un fattore 100 rispetto alle immagini delle galassie più vicine. Classificare simili galassie diventa dunque già una notevole estrapolazione da analoghi studi effettuati a redshift intorno a 0.

A questa notevole difficoltà i due astronomi

canadesi ne affiancano un’altra: l’esiguo numero di galassie distanti di cui possediamo immagini utili per studiarne la morfologia. È vero che ciascuno dei fantastici Campi profondi catturati da Hubble (Hubble Deep Field) contiene circa 3.000 galassie, ma solamente poche centinaia di esse sono

grandi, luminose e vicine a sufficienza da poter procedere a un’affidabile classificazione. Di queste, poi, solamente per una settantina la

risoluzione e il favorevole orientamento lungo la linea di vista ci permettono di individuare la

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Sopra. A volte risulta piuttosto semplice identificare la tipologia a cui appartiene una certa galassia, altre volte, tuttavia, il compito si fa molto più difficile...

possibile presenza di bracci di spirale e barre centrali.

Un ulteriore grande ostacolo, infine, è costituito proprio dallo stesso redshift. È ben noto che l’aspetto esteriore di una galassia cambia

notevolmente a seconda della lunghezza d’onda alla quale la osserviamo. Ci basta confrontare due immagini di una galassia, una acquisita nel visibile e l’altra nell’infrarosso, per vedere quanto sia difficile rendersi conto che ci troviamo in presenza dello stesso sistema stellare.

Osservando nell’ultravioletto, infatti, la luce che disegna il profilo di una galassia è quella prodotta dalle stelle più giovani e calde, generalmente raggruppate in quegli addensamenti irregolari che caratterizzano le regioni di formazione stellare.

Se, invece, osserviamo alle lunghezze d’onda ottiche, la parte del leone la fanno le stelle della sequenza principale e il profilo che ci appare è quello famigliare delle galassie che ben

conosciamo. Spostandoci a lunghezze d’onda ancora maggiori, dunque nell’infrarosso, gran parte del flusso luminoso è quello generato dalle

stelle più vecchie ed evolute, la cui distribuzione nel sistema galattico è più omogenea delle altre.

Questo spiega perché la galassia assuma un aspetto quasi più morbido e regolare.

Sappiamo bene, però, che l’espansione dell’Universo agisce sulla radiazione aumentandone la lunghezza d’onda con

l’aumentare della distanza della sorgente, il che comporta che, per sorgenti sufficientemente distanti, i tratti che osserviamo nel visibile siano in realtà quelli che in origine descrivevano il panorama nell’ultravioletto. Questo significa che se potessimo osservare la medesima galassia a differenti redshift ci apparirebbe inevitabilmente differente.

Un effetto davvero sgradevole per chi aspira a operare una classificazione attendibile, ben noto agli astronomi che ne parlano in termini di

morphological K-correction. Peccato che rimediare a questo scherzo giocato dell’espansione

dell’Universo non sia affatto semplice.

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Sopra. Il video mostra in sequenza numerose riprese della famosa Galassia di Andromeda (M 31) ripresa dagli osservatori (spaziali e di terra) dell’ESA in differenti lunghezze d’onda. Si può notare come lo stesso soggetto, in questo caso una delle galassie più studiate e riprese anche dagli appassionati e astronomi amatoriali, possa apparire totalmente aliena e sostanzialmente sconosciuta se osservata in lunghezze d’onda differenti dal visibile. Crediti: ESA.

Tra i filtri in dotazione alla Advanced Camera for Surveys (ACS) del telescopio spaziale Hubble vi è, per esempio il filtro F814W, centrato a 8333 Å, nel vicino infrarosso. Ebbene, le riprese di

galassie caratterizzate da un redshift superiore a 0,8 effettuate con questo filtro ci restituiscono la radiazione emessa dalla galassia a lunghezze d’onda ultraviolette. Peccato però che, per colpa dell’opacità della nostra atmosfera, l’aspetto delle galassie nell’ultravioletto non sia accessibile dal suolo e sia noto solo in minima parte per le poche campagne osservative effettuate dallo spazio. Una lacuna che rende davvero problematica

l’interpretazione morfologia delle galassie.

A tutto questo non dimentichiamo comunque di aggiungere che, osservando indietro nel tempo, abbiamo inevitabilmente a che fare con galassie che si trovano in stadi meno evoluti, dunque

molto differenti da quelli delle galassie in epoche più prossime alla nostra. La peculiarità osservata in molti sistemi stellari remoti, insomma, può benissimo riflettere effettive irregolarità

strutturali di quei sistemi e non essere solamente imputabile alla correzione K.

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Chiudiamo questo articolo con una splendida immagine Chiudiamo questo articolo con una splendida immagine della galassia a noi più vicina, e più cara, ossia la ripresa della galassia a noi più vicina, e più cara, ossia la ripresa di un ramo della Via Lattea, la nostra casa.

di un ramo della Via Lattea, la nostra casa.

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