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369/2016 Michel de Certeau. Un teatro della soggettività

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369

marzo 2016

Michel de Certeau

Un teatro della soggettività

a cura di Diana Napoli

Premessa 3

Élisabeth Roudinesco Michel de Certeau

o l’erotizzazione della storia 9 Diana Napoli Il Don Coucoubazar 16 Gaetano Lettieri Storia come promessa del corpo

perduto 31

Silvana Borutti Tracce e resti. Forme dell’alterità

in Michel de Certeau 47

Rossana Lista Il soggetto in Michel de Certeau:

un’identità impossibile 64

François Dosse Michel de Certeau e l’archivio.

L’enigma irrisolto della storia 79 Alfonso Mendiola L’altro del sapere 95

CONTRIBUTI

Bruno Latour Affetti dal capitalismo 111 Edoardo Greblo Al di là del sangue e del suolo.

I dilemmi dell’appartenenza 128 Antonello Sciacchitano Certezza mitica vs

incertezza scientifica 153

Tiziano Possamai La ripetizione come processo di rimozione adattiva. Da Samuel Butler a

Peter Sloterdijk 164

DISCUSSIONI

Andrea Zhok Rileggere Heidegger alla luce dei

Quaderni neri 178

Pier Aldo Rovatti “Mettersi in gioco.” Qualche POST

istruzione per l’uso 191

(2)

rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti

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Finito di stampare nel febbraio 2016

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Premessa

R isulta difficile ricondurre la produzione di Michel de Certeau a una tematica, a un ambito di interesse e perfino a una disci- plina. Viaggiatore, come egli stesso si definiva, preferiva sempre praticare – rispetto alle istituzioni che autorizzano il “discorso ve- ro”, agli oggetti di indagine – un pas de côté. Proporne una lettu- ra significa semplicemente tracciarsi un cammino attraverso un’o- pera che non solo non appartiene ad alcuna disciplina ma che lui stesso ha costruito “in nome di un’incompetenza” (così recita l’incipit del suo capolavoro Fabula mistica). Prendendo in presti- to l’espressione che Robert Klein aveva usato a proposito di Aby Warburg, probabilmente questa “disciplina senza nome” costitui- sce la più importante eredità di Certeau.

Ma non si tratta solo di stabilire frontiere epistemologiche. A

essere in gioco, più profondamente, in questa disciplina senza no-

me, è un’autorizzazione a scrivere, un’appartenenza, una pratica

della soggettività (attraverso una scrittura in cui Certeau teorizza

sempre l’operazione che compie sdoppiando il livello dell’indagi-

ne) in equilibrio tra istituzione e invenzione, all’interno di un’o-

pera che gli studi filosofici non hanno percorso con sufficiente

radicalità e che invece ci interroga rispetto a uno dei nodi essen-

ziali proprio della tradizione filosofica: la domanda su cosa sia il

soggetto. E Certeau, inserendosi pienamente in questa tradizione,

dialogando con essa, attraversandola, rielabora e pratica tale que-

stione centrale: esiste un soggetto che possa essere riconosciuto

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4

senza essere autorizzato? Esiste uno spazio della soggettività, og- gi, in cui sia ancora possibile, come scriveva in La presa della pa- rola, “prendere la parola come, nel 1789, si è presa la Bastiglia”?

Michel de Certeau ha tentato di rispondere a questa domanda attraverso tutta la sua produzione, utilizzando la storiografia co- me uno strumento per interrogarsi non solo sul soggetto, ma sul suo altro, il suo specchio, il suo fantasma di cui tutta la sua ope- ra sembra una ricerca. Qualcuno ha detto in una conferenza che Certeau era un “cacciatore di frodo” e i suoi testi, mai attuali co- me in questi giorni, sono una caccia al fantasma: chi è l’altro?

È alle prese con le figure dell’alterità che si articola un’indagi- ne sulla soggettività che si dibatte tra la frontiera dell’accesso al simbolico (e dunque la possibilità di autorizzare un discorso ve- ro) e il tentativo di sabotarlo. Tra questi due confini, la soggetti- vità copre lo spazio della teatralità facendo segno, a prescindere dalle sfumature tragiche o commedianti che di volta in volta met- te in scena, alle risorse della finzione: quella necessaria a ricono- scerla e quella necessaria a “sopportarla”.

Michel de Certeau, muovendosi attorno alle fragili frontiere della soggettività (individuale, disciplinare, sociale), non ne ela- bora una teoria. A partire da questa problematica (la stessa per cui la psichiatria ha trasformato il folle in malato di mente) e al filtro dell’insegnamento lacaniano e del suo personale “ritorno a Freud”, egli interroga l’istituzione che ha reso “mistico” colui che la sabota e la storiografia che ha convertito l’altro in oggetto di studio facendone, come mostra il quadro che immortala Amerigo Vespucci nella pagina introduttiva di La scrittura della storia, “il corpo istoriato dei suoi blasoni e dei fantasmi”.

Ma la storiografia non ha semplicemente convertito l’altro in

corpo da scrivere con i propri fantasmi e si è trasformata, nel cor-

so della modernità, in una vera e propria grande opera di costru-

zione di “strutture dell’istituzione psichiatrica” (come si esprime

nell’ultima parte di La scrittura della storia), strutture di cui Cer-

teau ha osservato vertiginosamente da vicino le frontiere, di cui

ha svelato i trucchi e i passaggi ritrovandosi alla fine del suo per-

corso non con un sapere, ma con un “sapere a perdere”. In que-

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sta caccia di frodo viene infatti il momento in cui deporre le armi, in cui tutta la scienza si rivela impotente di fronte all’enigma del soggetto e del suo fantasma, di fronte al quale lo storico si ritro- va come di fronte alla Sfinge che domanda (come egli stesso scri- ve in Fabula mistica): “Cosa dici tu, di ciò che sei, credendo di di- re quello che io sono?”.

Qui vengono presentati alcuni contributi che cercano di indagare, ciascuno a suo modo, come la domanda su cosa sia il soggetto rappresenti un asse centrale attorno a cui si è costruita l’opera di Certeau. Ciò che li accomuna è l’idea che la sua produzione storiografica non possa essere scissa da una più profonda riflessio- ne filosofica che egli ha condotto sulla relazione tra verità, sogget- tività, modernità e scrittura della storia.

In questo senso Certeau può essere a pieno titolo inserito nel contesto filosofico della fine del XX secolo, con cui ha costante- mente dialogato ma che ha allo stesso tempo contribuito a de- finire. Il suo costante dialogo con la filosofia francese (basti so- lo pensare a Derrida, Foucault o Lévinas) e la sua vasta riflessio- ne sulla modernità costituiscono un ambito investigato solo par- zialmente e con questi contributi speriamo di iniziare a spostare l’asse di indagine finora predominante. In Italia le sue opere so- no state quasi tutte tradotte e l’interesse per la sua produzione si è fatto via via più articolato, tuttavia Certeau è stato accolto prin- cipalmente nelle università confessionali, dove ha trovato cittadi- nanza come il “gesuita scomodo”, o nel vasto ambito di studi che, prendendo in prestito i termini anglosassoni, potremmo definire come i cultural studies per i quali il testo di riferimento è L’inven- zione del quotidiano. Vorremmo allora mostrare anche un versan- te meno praticato, seppure non sconosciuto, quello della portata teoretica della sua riflessione, i cui nodi vengono qui ripresi pro- prio a partire dalla produzione spiccatamente storiografica: Fabu- la mistica, La scrittura della storia e La possessione di Loudun sono infatti i testi ai quali si fa maggiore riferimento.

Gaetano Lettieri e Silvana Borutti interpretano La scrittura

della storia come il luogo in cui Certeau ha meditato il valore on-

(6)

9

aut aut, 369, 2016, 9-15

Michel de Certeau o l’erotizzazione della storia

ÉLISABETH ROUDINESCO

S torico aperto a ogni tipo di trasversalità di- sciplinare, gesuita lucido e generoso, Mi- chel de Certeau è stato un innovatore nel campo di studi della mistica e, in virtù dell’interesse rivolto al- la necessaria ripresa del messaggio freudiano, uno dei fondato- ri, insieme a Jacques Lacan, dell’École freudienne de Paris nel 1964.

1

Grazie al suo insegnamento incisivo e alla sua capacità di ascoltare la parola altrui, ha lasciato una profonda impronta su molti giovani intellettuali degli anni settanta, me compresa, che sono stata una sua allieva e gli sono debitrice per avermi indiriz- zato verso il mestiere di storica.

Ho seguito i suoi corsi all’Università di Parigi VIII (situata al- lora all’interno del parco di Vincennes) dove era stato accolto nel Dipartimento di psicoanalisi fondato da Serge Leclaire e do- ve il suo insegnamento era seguito solo da quattro o cinque stu- denti. Nel contesto di accesi dibattiti riguardanti la “testualità”, il ritorno a Freud o la questione del “processo senza soggetto”, qualsiasi approccio storico era tacciato di “storicismo”. Molti dei

Élisabeth Roudinesco, storica e psicoanalista, direttrice di ricerca a Parigi

VII

e docente all’École normale supérieure di Parigi è una figura centrale nel panorama degli studi di storia della psicoanalisi. Tra le sue pubblicazioni: Histoire de la psychanalyse en France, 2 voll., Fayard, Paris 1994

2

; Dictionnaire de la psychanalyse (con M. Plon), Fayard, Pa- ris 2006

2

; Lacan, envers et contre tout, Seuil, Paris 2011; e recentemente la sua biografia di Freud: Freud, nel suo tempo e nel nostro (2014), Einaudi, Torino 2015.

1. Per quest’articolo ho ripreso alcuni elementi di una conferenza tenuta a Città del

Messico nell’ottobre del 2003 all’Università Iberoamericana.

(7)

miei colleghi filosofi diffidavano della storia invocando la neces- sità di studiare, al suo posto, il primato dell’elemento teorico o delle strutture. L’antistoricismo di Jacques Lacan e di Louis Al- thusser faceva scuola e ogni tentativo di storia della psichiatria veniva congedato, senza nemmeno conoscerlo, col pretesto che Michel Foucault aveva posto fine a questo genere di studi con la sua concezione della storia della follia come storia di un silenzio e di una separazione tra la ragione e la sragione.

Pur condividendo l’approccio foucaultiano così come le inno- vazioni dello strutturalismo, Certeau restava comunque uno sto- rico rigoroso e dedicò il suo corso allo studio di un testo magi- strale di Freud considerato minore dalla vulgata dell’epoca: Una nevrosi demoniaca nel XVII secolo.

2

Consapevole dell’interesse che suscitava in me una tale ri- flessione, Michel de Certeau mi incoraggiò, senza volermi tra- sformare in un’adepta, a occuparmi di storia della psicoanalisi e fu proprio questo fatto che mi permise di staccarmi dal teo- ricismo lacaniano e dal dogmatismo in cui si rinchiudevano le avanguardie.

Così, dopo avermi chiesto di commentare durante il suo cor- so l’articolo di Althusser su Freud e Lacan (1964), mi spinse a ri- flettere sul modo in cui i marxisti avevano trattato la psicoanalisi e, viceversa, sul modo in cui i freudiani avevano guardato al mar- xismo. Il risultato di quest’indagine fu per me una lunga pubbli- cazione su Wilhelm Reich e Georges Politzer e le differenti for- me del freudo-marxismo (russo e tedesco), prima tappa di uno studio che mi avrebbe poi condotto verso un più ampio orizzon- te storico. Certeau non solo mi ha iniziato alla storia del freudi- smo, ma è stato anche il primo a chiedermi di pubblicare un li- bro in una collana di scienze umane appena creata presso l’edi- tore Mame e nella quale egli stesso stava per pubblicare L’absent de l’histoire (1973).

3

2. S. Freud, Una nevrosi demoniaca (1922), trad. di C. Conterno, Il notes magico, Pa- dova 2010. [Tutte le note sono della traduttrice.]

3. M. de Certeau, L’absent de l’histoire, Mame, Paris 1973.

(8)

11

In una conversazione direi sorprendente che Certeau ebbe con Jean-Marie Benoist per un’emissione radiofonica, si scopre uno degli aspetti più sottili del suo percorso. Si tratta di una serie di interviste realizzate nel 1975, subito dopo la pubblicazione di L’écriture de l’histoire (1975),

4

in cui Michel de Certeau parlava essenzialmente della sua relazione con la storiografia, indicando anche ciò che lo accomunava e allo stesso tempo lo differenziava da altri autori, come Michel Foucault o Jacques Derrida, che pure si interessavano a oggetti di studio identici ai suoi.

Definendo il discorso della storia come una presa di potere del presente sul passato, egli mostrava come a partire dal XVII se- colo la storiografia occidentale avesse messo a debita distanza il vissuto soggettivo e sociale per farne l’oggetto di un sapere indis- sociabile dal destino della scrittura. Scrivere la storia sarebbe sta- to, per una società statuale, sostituire una razionalità coerente a un’esperienza eterogenea, affettiva o ineffabile con lo scopo di enunciare meglio che cosa devono essere e significare la norma e il progresso. Ma eliminando ciò che fonda la possibilità del suo sguardo, la storia non fa che assomigliare a un grande sforzo di esclusione nel senso che, come un racconto etnografico, esorciz- za le tradizioni orali che studia. La storia dunque onora gli atto- ri, gli eroi, i testimoni o i popoli come si onorano i morti: richiu- dendoli nelle tombe.

Tuttavia, allo stesso tempo e proprio attraverso queste ope- razioni di scrittura e presa del potere, la storia si confronta per forza di cose con un grande ritorno del rimosso. Utilizzando i concetti freudiani, Certeau sottolinea che il rimosso ritorna nel- le configurazioni inattese o impensate dagli storici: la parola dei posseduti nel XVII secolo o ancora il discorso mistico che rompe con gli enunciati dell’ordine stabilito.

Per non sprofondare né nello zelo dell’archivio – come fan- no gli eruditi – né nel rifiuto di qualunque tipo di relazione on- tologica con la traccia – come vorrebbero gli adepti di una storia

4. Id., La scrittura della storia, trad. di A. Jeronimidis, a cura di S. Facioni, Jaca Book,

Milano 2006.

(9)

Il Don Coucoubazar

DIANA NAPOLI

1. Il soggetto moderno: la perdita di sé

In un passaggio delle “Scritture freudiane”, nella quarta e ultima parte di La scrittura della storia, Michel de Certeau si riferisce all’ul- timo libro di Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica come a un “discorso di frammenti” paragonabile al Don Coucoubazar di Dubuffet.

1

Ma non è solo il testo a essere incarnato dalla maschera dell’ar- tista francese. Anche il soggetto della scrittura può essere descrit- to facendo riferimento a quest’opera d’arte: mai completamente compiuto, si ridetermina a ogni movimento inscenando di volta in volta la sua identità. Chi scrive? Del resto nella lettura certia- na il caso di Freud è paradigmatico: scrivendo di un’identità es- senzialmente divisa (Mosè che però è l’egizio) e strutturata come commedia, il padre della psicoanalisi dà luogo a un testo “diviso”

la cui scrittura può solo tracciarsi “un cammino in una lingua in- dissociabile da una disgrazia primitiva e da inganni permanenti”.

2

Attraverso di essa, Freud costruisce una finzione teorica che è in- nanzitutto, a tutti i livelli (da Mosè a Freud stesso) la finzione del

Diana Napoli si è addottorata all’École des hautes études en sciences sociales di Parigi con una tesi sulla storiografia contemporanea a partire dall’opera di Certeau. Ha poi svolto at- tività di ricerca in Francia, all’École pratique des hautes études, e in Messico, all’Universi- tà Iberoamericana. Su Certeau ha pubblicato in Italia Michel de Certeau. Lo storico smarri- to, Morcelliana, Brescia 2014.

1. M. de Certeau, La scrittura della storia (1975), trad. di A. Jeronimidis, a cura di S.

Facioni, Jaca Book, Milano 2006, p. 323.

2. Ivi, p. 330

(10)

17

soggetto “che si produce in quanto può solo inscriversi, analitica- mente, nella forma del qui pro quo”.

3

Certeau non ha esplicitamente messo al centro della sua ope- ra quella che Pier Aldo Rovatti in un testo ormai classico ha defi- nito “la posta in gioco”,

4

la questione del soggetto, eppure è pro- prio a partire da questa problematica che la sua produzione, con- sacrata a un’analisi della scrittura della storia (un lavoro di storico accompagnato da una riflessione teoretica sulla pratica della scrit- tura), potrebbe essere attraversata, tracciando un cammino che, mai compiuto una volta per tutte, assomiglia alle “lignes d’erre”

di Deligny.

5

Studiando i testi di alcuni personaggi centrali della storia della Compagnia di Gesù e riflettendo sul significato onto- logico della pratica scritturale della storia, analizzando l’enuncia- zione mistica in relazione alla modernità, la sua indagine si strut- tura attorno alla questione della relazione tra scrittura e soggetti- vità. È a partire da questo rapporto che Certeau si interroga a più riprese sul legame tra la strutturazione del soggetto e la possibilità di un discorso riconosciuto come vero e, ancor più specificamen- te, sul ruolo esercitato dall’Istituzione in questo riconoscimento.

In La scrittura della storia, la figura di Freud è emblematica, ul- timo capitolo di un percorso che problematizza la soggettività a partire dall’età moderna, quando la scoperta dell’altro (immortala- ta dal quadro di Van der Straet che vede Amerigo Vespucci e l’in- diana America) porta il “conquistatore” a scriverne il corpo trac- ciandovi la propria storia e facendone il corpo istoriato dei pro- pri blasoni e dei propri fantasmi. Ma se ci poniamo agli inizi del- la modernità – che è un luogo problematico di tutta la produzione certiana –, agli inizi della strutturazione della soggettività come as- se centrale del discorso filosofico, capiamo che sono altri i perso- naggi che Certeau ha scelto come i “Don Coucoubazar” di questo percorso rendendo la sua opera un luogo di indagine e problema- tizzazione non tanto della soggettività ma, come vedremo, del de-

3. Ivi, p. 348. Cfr. anche D. Napoli, Michel de Certeau. Lo storico smarrito, cit., cap.

I

.

4. P.A. Rovatti, La posta in gioco. Heidegger, Husserl, il soggetto, Mimesis, Milano 2010

2

.

5. Così descrive Certeau il suo itinerario in una conversazione con Régine Robin nel

1976 (M. de Certeau, R. Robin, Débat: l’histoire et le réel, “Dialectiques”, 14, 1976, p. 45).

(11)

siderio di essere un soggetto, questione completamente rimossa da una scrittura, quella storica, che si pretende scientifica.

6

Come ha sintetizzato efficacemente Michel Foucault, il sog- getto moderno si è delineato all’interno della pratica filosofica nel momento cui “l’essere del soggetto non è più rimesso in que- stione dalla necessità di avere accesso alla verità” inaugurando così “un’altra età nella storia dei rapporti tra la soggettività e la verità”.

7

In altri termini, il soggetto moderno è l’invenzione filo- sofica frutto della divaricazione tra due elementi che invece co- stituivano, almeno a partire da Socrate, la sfera della soggettivi- tà: il “conosci te stesso” e la “cura di sé” inquadrati all’interno della parresia. Tale divaricazione,

8

che ha avuto il suo apice teori- co con Cartesio, aveva portato alla definizione di un soggetto ca- pace di verità ma, allo stesso tempo, incapace di trovare in essa la salvezza nel senso che la conoscenza, strutturata oramai come obbedienza di un soggetto a una legge, non implicava alcuna tra- sformazione del sé.

9

Questo processo era stato il risultato non tanto della nuova vi- sione dell’universo inaugurata dalla cosiddetta scienza moderna, quanto di cambiamenti verificatisi più anticamente in tutt’altro ambito: quello della teologia dove si era assistito a un progressi- vo scontro, culminato nel Basso Medioevo, tra la teologia razio- nale e le forme di quella che Foucault definisce la “spiritualità”, la cura di sé.

Foucault rimarca la derivazione di questa “nuova” soggettività moderna da una matrice cristiana, sottolineando come il legame tra la cura di sé e il “conosci te stesso” si fosse logorato, facendo

6. M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 3.

7. M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France, 1981-1982 (2001), trad. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2003, p. 20.

8. Foucault sottolinea comunque come il legame tra l’accesso alla verità e l’esigenza di una trasformazione del soggetto non sia mai stato spezzato una volta per tutte e anzi, nel- lo sviluppo che egli traccia, lo troviamo come filo rosso in tutta la filosofia moderna e oltre, fino a Heidegger (ivi, p. 24 sgg.). Su questa tematica, si veda anche M. Foucault, Sull’ori- gine dell’ermeneutica del sé (1980), trad. a cura di “Materiali foucaultiani”, Cronopio, Na- poli 2012.

9. È questa trasformazione, scrive Foucault, a rendere possibile l’istituzionalizzazione

della scienza moderna.

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31

aut aut, 369, 2016, 31-46

Storia come promessa del corpo perduto

GAETANO LETTIERI

Q ueste pagine vorrebbero rilevare, trami- te la rilettura di poche e brevi citazio- ni, l’intima relazione certiana tra teoria e pratica della storia come eterologia e interpretazione delle ori- gini cristiane, incentrate sulla memoria della perdita del corpo di Cristo, sulla reviviscenza eucaristica del corpo morto, risorto e asceso/sottrattosi, quindi sul farsi presente di un’assenza irre- cuperabile, di cui pure si vive nell’attesa dell’avvento promesso.

La scrittura della storia, se capace di autentica eterologia, dipen- derebbe da una storicamente determinata fabula mistica. Essa ri- peterebbe o manterrebbe, pure con tutta l’autonomia e il rigore della scienza che indaga eventi del passato, una traccia memoria- le cristiana, capace di distendere la presenza del soggetto – che assume il ruolo e il luogo dello storico scrittore/narratore – nel- la a) memoria di un passato che è lacuna, assenza cifrabile, ep- pure in sé irrecuperabile, e b) ferita che si converte in proten- sione verso un avvento indisponibile.

1

In questa prospettiva, la

Gaetano Lettieri è professore ordinario di Storia del cristianesimo e delle chiese e di Sto- ria delle dottrine teologiche presso l’Università La Sapienza di Roma. Dal 2012 è presiden- te nazionale della Consulta universitaria per la storia del cristianesimo e delle chiese. Ha pubblicato, tra gli altri, saggi sulle origini cristiane, lo gnosticismo, Origene, Agostino e la loro fortuna sino alla contemporaneità, Machiavelli, Pascal e il giansenismo, il pensiero teologico contemporaneo, la storia della mistica cristiana, il rapporto tra cristianesimo e democrazia, la teologia politica.

1. “La figura del passato conserva il suo valore originario, che consiste nel rappresen-

tare ciò che fa difetto. Con un materiale che, per il fatto di essere oggettivo, si trova neces-

(13)

stessa spiazzante conclusione di La scrittura della storia, con due densissimi capitoli dedicati a Freud e al rapporto tra psicoanali- si, storia e interpretazione del religioso, restituirebbe come leg- ge della coscienza l’affermazione, rintracciata a partire dal Mosè freudiano, ma enunciata come segreto dello stesso annuncio cri- stiano, secondo la quale: “L’identità non è uno, ma due”.

La scrittura della storia, pertanto, si costituirebbe a partire da questa verità davvero “apocalittica”, in quanto decostruttiva di qualsiasi identità: cristologicamente, il soggetto vive della sua morte, si identifica nel suo rapporto con un’alterità irriducibi- le, è aperto progettualmente soltanto a partire dalla memoria di un’assenza. Sicché un accenno, almeno, sarà dedicato a indicare un possibile legame – lacaniano? – tra Freud e Agostino (il qua- le è una strana lacuna nella documentazione della produzione di Certeau, forse presto colmata attraverso la pubblicazione di al- cuni inediti), tra analisi e confessio, decostruzione dell’io padro- ne di sé e apertura all’evento dell’Altro, che sola costituisce la soggettività come temporalità consapevole, crisi e decisione, per- dita e protensione, quindi come storicità.

1. La matrice dell’opera di Certeau: il differire dell’origine cristiana

La storia delle origini cristiane dipende da due perdite irreparabili:

la perdita di Gesù, il Messia, l’Amato, il porta Parola di Dio, in particolare la perdita del suo corpo come oggetto storico d’amore;

la perdita dell’identità religiosa, culturale, nazionale subita dagli ebrei assolutamente erranti, che perdono Israele, inseguendo colui che è ri-apparso sottraendosi:

sariamente lì, ma in forma tale da connotare un passato nella misura in cui rinvia innanzi-

tutto a un’assenza, l’operazione storica introduce anche la faglia di un futuro. Come è no-

to, un gruppo può esprimere quello che gli si trova di fronte – quello che ancora manca –

soltanto tramite una ridistribuzione del suo passato. Così la storia è sempre ambivalente: il

suo ritagliare un posto per il passato è anche un modo per far posto a un avvenire” (M. de

Certeau, L’écriture de l’histoire, Gallimard, Paris 1975; trad. di A. Jeronimidis, La scrittura

della storia, a cura di S. Facioni, Jaca Book, Milano 2006

2

, cap. “L’operazione storiografi-

ca”, pp. 62-120, in particolare p. 100).

(14)

33

In effetti il cristianesimo si è istituito su la perdita di un corpo – perdita del corpo di Gesù, raddoppiata dalla perdita del “corpo”

d’Israele, di una “nazione” e della sua genealogia. Una scomparsa effettivamente fondatrice. Essa specifica l’esperienza cristiana rispetto alla certezza che mantiene il popolo ebraico ancorato alla sua realtà biologica e sociale, dunque a un corpo presente, distinto e localizzato, separato in mezzo agli altri dall’elezione, ferito dalla storia e inciso dalle Scritture. La parola cristiana as- sume forma “cattolica” (universale) e “pentecostale” (spirituale) solo grazie al distacco che la separa dalla sua origine etnica e da un’eredità. […] Nel Vangelo di Giovanni, il corpo di Gesù è strutturato dalla disseminazione, come una scrittura. Da allora i credenti continuano a interrogarsi – “Dove sei?” – e, di secolo in secolo, domandano alla storia che passa: “Dove l’hai messo?”.

2

Questo significa identificare la scaturigine “mistica” di qualsiasi discorso cristiano, ove per “mistica” si intende qui non una tec- nica spirituale o la definizione oggettiva di una disciplina, bensì la struttura paradossalmente aperta, per questo irriducibilmente soggettiva, confessiva, narrativa del vivere/pensare/parlare di Dio e del sé come eterologico.

3

Proprio in quanto fondato sul corpo di Gesù, “luogo” storico irrinunciabile di rivelazione e oggetto assolutamente privilegiato di amore, il discorso mistico non può essere che eterologico, fratto, differente, quindi inconcludente.

2. Id., La fable mystique, 1.

XVIe

-

XVIIe

siècle, Gallimard, Paris 1982; trad. di S. Facioni, Fabula mistica.

XVI

-

XVII

secolo, Jaca Book, Milano 2008, cap. “La scienza nuova”, pp. 85- 127, in particolare pp. 87-88.

3. Cfr. P. Royannais, Michel de Certeau: l’anthropologie du croire et la théologie de la fai-

blesse de croire, “Recherches de science religieuse”, 91, 2003, pp. 499-533: “Plutôt que de

partir à la recherche d’un dit qui caractériserait la mystique, Certeau, comme Foucault et le

structuralisme, repère une structure de la parole mystique. Plutôt que de comparer la perti-

nence dogmatique des énoncés, il se met à l’écoute des textes comme l’analyste à celle de l’a-

nalysant. La mystique étudiée apparaît comme un discours nouveau, à la première personne,

qui tente d’arracher à l’objectivité du discours de la théologie devenue scientifique une pos-

sibilité de parler de Dieu autrement qu’à le réduire à un savoir. Là où le discours scientifique

objectivise, rend présent en représentant, assigne à résidence, la stratégie des mystiques pour

parler de l’autre, sans le réduire à ce que l’on en peut connaître, consiste à inscrire le manque

dans le discours; inscrire le manque au cœur du discours c’est, pour les mystiques, la possibi-

lité de recueillir, évanescent, le discours de l’autre” (ivi, p. 500).

(15)

Tracce e resti. Forme dell’alterità in Michel de Certeau

SILVANA BORUTTI

1. Dall’epistemologia all’ontologia storica

Storiografia ed etnografia sono per Michel de Certeau le forme fondamentali secondo cui l’Occidente organizza il proprio rapporto con l’alterità: ma non perché questi saperi realizzino ermeneutiche degli “altri” attraverso ricostruzione e interpretazione scritturale di resti e di tracce. Con una vera e propria inversione di prospettiva, Certeau studia resti e tracce non come condizioni della scrittura savante, ma come suoi prodotti: il lavoro presente della storia e dell’etnografia come produzione dell’altro, della sua assenza e delle sue tracce. “La ricerca – egli scrive in La scrittura della storia – par- te non più da ‘rarità’ (resti del passato) per giungere a una sintesi (comprensione presente), ma da una formalizzazione (un sistema presente)

1

per dar luogo a ‘resti’ (che sono indizi di limiti e quindi di un ‘passato’ che è il prodotto del lavoro).”

2

Egli fonda in questo modo l’epistemologia dei saperi del passato e dell’alterità su temi on- tologici e politici. Nel mio intervento, considererò una declinazione

Silvana Borutti insegna Filosofia teoretica all’Università di Pavia. Le sue ricerche riguarda- no le categorie delle scienze umane, il rapporto tra immaginazione e conoscenza, la tradu- zione. Tra le sue pubblicazioni: Filosofia delle scienze umane. Le categorie dell’antropologia e della sociologia, Bruno Mondadori, Milano 1999; Filosofia dei sensi. Estetica del pensiero, tra filosofia, arte e letteratura, Raffaello Cortina, Milano 2006; Leggere il Tractatus logico- philosophicus di Wittgenstein, Ibis, Como-Pavia 2010; con U. Heidmann, La Babele in cui viviamo. Traduzioni, riscritture, culture, Bollati Boringhieri, Torino 2012.

1. Con “formalizzazione” Certeau si riferisce al modo di funzionamento della prati- ca storiografica.

2. M. de Certeau, L’écriture de l’histoire, Gallimard, Paris 1975; trad. di A. Jeronimidis

La scrittura della storia, Jaca Book, Milano 2006, p. 91.

(16)

48

specifica del tema della traccia, considerata da Certeau non come semplice luogotenenza, ma come revenance dell’altro, che ritorna come un rimosso. Mi baserò sull’analisi di immagini considerate da Certeau come produzione di tracce: tracce che finiscono per defi- nire il regime ontologico e il regime di parola dei soggetti implicati.

Questo procedimento viene in primo piano soprattutto nell’a- nalisi della storia come scrittura. In La scrittura della storia, Cer- teau afferma che l’operazione storica si riferisce al “combinarsi di un luogo sociale, di pratiche ‘scientifiche’ e di una scrittura”.

3

Se pur sinteticamente, questa definizione presenta in modo ef- ficace la strutturazione triangolare della storiografia, intesa non come sapere codificato di cui dare le regole, ma come un atto, o, meglio, un’operazione che viene realizzando l’unione tra gli am- biti costituiti dal lavoro tecnico (le pratiche documentarie, la rac- colta di informazioni e la formazione degli archivi), dal rapporto con un interesse pubblico e con i suoi luoghi sociali e le sue pra- tiche (ieri il potere del principe, oggi l’istituzione scientifica, non disgiunta da interessi e strategie di potere), e dalla scrittura co- me separazione che istituisce il tempo presente proprio in quan- to definisce il tempo del soggetto passato.

Le fonti di questa strutturazione triangolare sono facilmente riconoscibili: sono, per dirlo in sintesi, il tema foucaultiano del sapere come pratica; la storiografia delle “Annales” e la rivolu- zione introdotta dalla “nuova storia” nelle tecniche documenta- rie e nell’analisi delle forme temporali; la psicoanalisi freudiana e lacaniana, e in particolare la questione del rapporto tra l’ordi- ne simbolico e la mancanza.

4

Con il tema della scrittura della sto- ria, Certeau offre una concezione insieme ontologica, politica ed epistemologica dell’operazione che è la storia. Se epistemologica- mente la storia è un fare e un insieme di operazioni che produ- cono un oggetto attraverso una costruzione testuale, ontologica- mente la storia organizza per la nostra autocomprensione le for-

3. Ivi, p. 63.

4. Per il rapporto di Certeau con la nuova storiografia, cfr. F. Dosse, Michel de Certeau.

Le marcheur blessé, La Découverte, Paris 2002, cap. 17.

(17)

me della distanza spazio-temporale dell’altro, ma in questo mo- do compie anche un gesto a efficacia politica, poiché esclude l’al- tro per darne una comprensione a partire dalla progettualità, che non è mai neutra, del presente dello storico.

5

Nella sua interpretazione della complessità della scrittura sto- rica, Certeau ricorre allo sguardo psicoanalitico per smaschera- re la strategia del tempo messa in atto dalla storiografia: lo sguar- do psicoanalitico insegna a riconoscere il passato nel presente e a portare in luce i rapporti di imbricazione, ripetizione, equivo- co, con cui un soggetto si istituisce su un’assenza.

6

La storia pone a distanza un altro (qualcosa che è stato vissuto in un corpo e in un tempo, in un altro presente), e ne fa un “passato” costruen- done una ragione nel presente. La storia tratta così il tempo, isti- tuendo il passato con un gesto di esclusione (di messa a distan- za), che è insieme una forma di auto-comprensione: un’auto- comprensione che sfrutta la relazione con l’altro. Non si va dai resti alla loro comprensione, ma dal lavoro presente alla produ- zione del passato, della sua assenza e delle sue tracce. “Assenza”

e “traccia” non come condizione, ma come prodotti della scrittu- ra storica (ed etnografica), dunque: sono questi i concetti centrali dell’inversione di prospettiva operata da Certeau.

In questo senso, il lavoro presente della storia è visto da Cer- teau come produzione del passato e della sua assenza. Il tema dell’assenza, o, meglio, dell’“assente della storia” – dove il geni- tivo rimanda al ruolo performativo della scrittura storica,

7

che rende assente il suo oggetto – è la nozione centrale elaborata da Certeau, tema che analizzerò in primo luogo. Analizzerò poi il concetto di “traccia”, intesa non come resto, ma come ritorno dell’altro, un ritorno che ne altera l’identità. Considererò una de- clinazione specifica di questo tema, legata all’analisi di immagini.

5. Per un’analisi più articolata dell’epistemologia della storiografia di Certeau, mi per- metto di rinviare a S. Borutti e U. Fabietti, “Introduzione. Scrivere l’assente”, in M. de Certeau, La scrittura dell’altro, Raffaello Cortina, Milano 2005.

6. Cfr. M. de Certeau, Histoire et psychanalyse entre science et fiction, Gallimard, Pa- ris 1987; trad. di G. Brivio, Storia e psicoanalisi. Tra scienza e finzione, Bollati Boringhieri, Torino 2006, cap. 2.

7. Id., La scrittura della storia, cit., p. 120.

(18)

64

aut aut, 369, 2016, 64-78

Il soggetto in Michel de Certeau:

un’identità impossibile

ROSSANA LISTA

L a questione del soggetto è un asse portan- te e insieme trasversale, intorno al quale ruota la vasta opera storiografica ed epi- stemologica di Michel de Certeau. I passi in cui essa è esplicita- mente teorizzata, a partire dal problema della soggettività dello storico posto dal Marrou di De la connaissance historique (1954), sono numerosi. Eppure è inutile cercarvi una “definizione” del soggetto, nel tradizionale senso tecnico del termine. La ragione di ciò è immanente al modo o meglio ai modi in cui Certeau po- ne la questione stessa. Nel concetto di “definizione” prevale una dimensione sostanzialista e spaziale che tradisce l’origine “mili- tare” di un approccio epistemologico, in cui il soggetto e l’og- getto sono strategicamente schierati l’uno contro l’altro. Certeau segue tutt’altra strada. La coupure épistémologique consiste pre- cisamente nel fatto che egli sottrae la soggettività alla delimita- zione entro i ristretti confini del proprio e alla coincidenza con il luogo da essi circoscritto. Non si tratta solo di un’analogia con la concezione eraclitea dell’anima, i cui confini vai e non li trovi, tanto profondo è il suo logos (discorso?). Certeau va molto oltre:

per lui il soggetto esiste e si manifesta proprio nell’atto di travali- care i confini – in altre parole, esso è transito e quindi uscita dai

Rossana Lista è laureata in filosofia della storia e dottore di ricerca in letterature compara-

te. Ha tradotto di Certeau La possessione di Loudun (Clueb, Bologna 2012) e ha curato, in-

sieme a Barnaba Maj, il numero monografico di “Discipline filosofiche”, Sulla “traccia” di

Michel de Certeau. Interpretazioni e percorsi, 1, 2008.

(19)

confini. Poiché il soggetto nasce da un esilio, la sua identità con un luogo è impossibile. La sua esistenza assume perciò la forma costante e sfuggente di una extase ovvero alla lettera di una “ac- tion d’être hors de soi”.

Questa idea investe la soggettività nell’interezza delle sue ma- nifestazioni esterne e quindi è di volta in volta diversamente de- clinata. Essa concerne il “soggetto”, infatti, in quanto sogget- to del sapere, dell’agire, del credere e del volere. Nelle sue ri- cerche, Certeau ha esplorato a fondo tutte queste declinazio- ni. In apparenza distanti fra loro, esse sono invece riconducibi- li a un comune quesito di fondo, che è quindi il filo conduttore di opere su temi anche molto differenti. Dalla Prise de la pa- role alla Possession de Loudun, dalla Fable mystique all’Écriture de l’histoire, dall’Histoire et psychanalyse all’Invention du quoti- dien, la domanda sul soggetto resta sempre centrale. Esso è col- to nell’imprescindibile trama delle sue relazioni ovvero nel suo rapporto costitutivo con l’Altro – con la sua assenza e il suo de- siderio –, con il linguaggio, con le “finzioni dell’anima”, il nul- la, la morte.

1. Soggetto e oggetto: la differenza delle parti nella rimozione e inversione del tempo

La questione del soggetto è aurorale, si affaccia alla riflessione di

Certeau fin dai primi studi e dalle prime ricerche storiche su figure

importanti nella storia dell’Ordine dei gesuiti in Francia. L’incontro

con Pierre Favre e Jean-Joseph Surin pone di fatto Certeau dinanzi

alla sfida più grande che uno storico possa affrontare: accedere al

segreto di un’anima nella sua relazione con Dio. A prescindere dal

significato che si vuole dare ai singoli termini, qui l’oggetto dello

storico è la più radicale mise en abîme del suo stesso sforzo: egli

cerca di avvicinarsi all’altro, mentre questi è teso a raggiungere

ancora un altro – in questo caso: un assolutamente altro. Così,

l’indagine storica sulle forme dell’esperienza religiosa passata si

intreccia fin da subito con l’interrogazione sulla natura, il senso e

le condizioni di possibilità di una sfida posta nello scarto di diffe-

renti temporalità storiche. La singolarità dell’oggetto da conoscere

(20)

66

rimbalza sulla particolarità e peculiarità del soggetto conoscente.

A partire dalla Correspondence (1966) di Surin (1600-1665), il problema del soggetto si delinea tuttavia come questione dalla precisa matrice storica e dall’imprescindibile connessione con una fenomenologia del linguaggio.

Lo sgretolamento dell’insegnamento tradizionale, che va com- piendosi nella prima metà del XVII secolo, orienta il “dialogo spi- rituale” non più o non solo verso gli antichi autori, ma piutto- sto verso i contemporanei viventi. La “comunicazione spiritua- le” non si basa più su una “rilettura”, come lo era la lectio divi- na o l’esegesi spirituale praticata nei secoli precedenti, ma pren- de la forma di una scoperta reciproca che avviene nel corso di colloqui e corrispondenze epistolari. Costitutive dell’esperienza religiosa di Surin sono dunque le relazioni personali che pren- dono corpo in un nuovo linguaggio. La parola viva e le lettere non sono soltanto “l’esteriorizzazione di una presenza interiore, o il mezzo d’indicare e discernere le vie dello Spirito negli altri;

[…] costituiscono l’esperienza stessa, quella d’una Presenza in- teriormente riconosciuta grazie agli altri”.

1

La parola, la presen- za e l’Altro sono dunque i termini di una relazione nella cui ar- ticolazione si costituisce il soggetto stesso. Tuttavia, la lunga in- terrogazione dei mistici dei secoli XVI e XVII , simile al domanda- re dell’uomo di campagna fermo sulla soglia di Davanti alla legge di Kafka, porta Certeau a non parlare più di “presenza”, poiché essa non è più: i mistici vivono l’intima esperienza di una separa- zione da un essenziale, da un Uno, la cui mancanza mette in cam- mino e dà inizio a un’erranza, a un Wandern: “Il necessario, di- venuto improbabile, è di fatto l’impossibile. È questa la figura del desiderio”.

2

Si tratta di una fenomenologia dello spirito ma colta nelle sue determinazioni storiche, una fenomenologia trascendentale alla quale Certeau riconduce tanto il nuovo soggetto mistico, quanto

1. M. de Certeau (a cura di), Correspondance de Jean-Joseph Surin, Desclée de Brouwer, Paris 1966, p. 52.

2. Id., La fable mystique.

XVIe

-

XVIIe

, Gallimard, Paris 1982; trad. a cura di S. Facioni, Fa-

bula mistica.

XVI

-

XVII

secolo, Jaca Book, Milano 2008, p. 1.

(21)

Michel de Certeau e l’archivio.

L’enigma irrisolto della storia

FRANÇOIS DOSSE

I l passato “mi sfuggiva o piuttosto comin- ciavo a capire che mi sfuggiva. È in que- sto momento, sempre differito nel tempo, che nasce lo storico. È questa assenza che costituisce il discor- so storico”.

1

Con queste parole, Certeau definisce la scoperta dell’altro, dell’alterità come costitutiva non solo del genere sto- rico, ma dell’identità dello storico, del suo mestiere. Egli insiste sulla distanza temporale che permette l’implicazione della sog- gettività dello storico, spingendolo a non accontentarsi di resti- tuire il passato “così com’è stato”, ma a ricostituirlo, a riconfigu- rarlo in una dialogica che si articola a partire dall’insuperabile scarto con il presente.

Lo storico, nel suo lavoro, si trova in una posizione incerta, preso in un incessante movimento tra ciò che gli sfugge, che re- sta assente e la volontà di mostrarlo nel presente a cui egli stes- so appartiene. Ma è proprio questa tensione a generare la sensa- zione di una mancanza e a mettere in movimento la conoscenza storica, come mostra il percorso dello stesso Certeau che diven- ta uno storico di mestiere solo nella misura in cui i cristiani del

François Dosse, storico, insegna all’Università di Parigi

XII

e all’Institut d’études politiques de Paris, oltre a svolgere attività di ricerca presso l’Institut d’Histoire du temps présent e presso il Centre d’histoire culturelle des sociétés contemporaines dell’Università Saint- Quentin-en-Yvelines. Su Michel de Certeau ha curato diversi numeri monografici di riviste e ha pubblicato la sua biografia: Michel de Certeau. Le marcheur blessé, La Découverte, Pa- ris 2002, di cui questo articolo è un estratto.

1. M. de Certeau, Histoire et structure, “Recherches et Débats”, 68, 1970, p. 168.

(22)

80

XVII secolo gli divengono estranei, resistendo alla sua compren- sione. La storia “suppone uno scarto che altro non è se non l’at- to stesso di costituirsi come esistente e pensante nel presente. La mia ricerca – scrive – mi ha insegnato che studiando Surin mi di- stinguevo da lui”.

2

Lungi dall’essere un semplice gioco di spec- chi tra un autore e un insieme di documenti, la storia si fonda su una serie di operatori propri dello spazio tra passato e presente, uno spazio entre-deux mai veramente stabilizzato.

Nella ricerca, troviamo da un lato colui che fabbrica la storia in un rapporto di urgenza verso il suo tempo, rispondendo alle sue sollecitazioni. Ma d’altro canto il soggetto storico si può ri- conoscere come tale solo a causa dell’alterazione frutto dell’in- contro con diverse forme di alterità, alla maniera di Surin che scopre, meravigliato, la parola del povero di spirito: “Si scopre sulla scena dell’altro. Parla in questa parola venuta d’altrove e della quale non si tratta più di sapere se appartenga all’uno o all’altro”.

3

Per Certeau, lo storico si trova all’interno di questo universo mobile del pensiero, in una posizione di costante inter- rogazione, conscio che “la storia non è mai sicura”.

4

L’“altro” re- siste nonostante il dispiegarsi di molteplici modalità di interpre- tazione, facendo sì che del passato resti sempre vivo un elemento enigmatico contro l’illusione di poterlo rinchiudere nei dossier d’archivio una volta per tutte.

Definendo l’operazione storiografica, Michel de Certeau l’ar- ticola attorno a tre dimensioni inseparabili e che insieme assicu- rano la pertinenza di un genere specifico. In primo luogo, essa è il prodotto del luogo sociale da cui proviene, proprio come i be- ni di consumo che sono prodotti nelle fabbriche. Certeau insiste sulla parola “fabbricazione” e soprattutto sulla dimensione stru- mentale che essa connota. L’opera dello storico è concepita come il prodotto di un luogo istituzionale che la sovradetermina come relazione a un corpo sociale. Questo elemento tuttavia resta im-

2. Id., L’absent de l’histoire, Mame, Paris 1973, p. 158.

3. Id., Fabula mistica.

XVI

-

XVII

secolo (1982), trad. di S. Facioni, Jaca Book, Milano 2008, p. 271.

4. Id., La possessione di Loudun (1970), trad. di R. Lista, Clueb, Bologna 2011, p. 27.

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plicito e costituisce il non-detto del dire storico: “Viene definita astratta, in storia, ogni ‘dottrina’ che rimuove il suo rapporto con la società […]. Il discorso ‘scientifico’ che non parla della sua re- lazione con il corpo sociale non può articolare una pratica. Ces- sa di essere scientifico. Si tratta di un problema centrale per lo storico. Questa relazione con il corpo sociale è proprio l’ogget- to della storia”.

5

In secondo luogo la storia è una pratica, mediata dalla tecni- ca e i confini del suo ambito si spostano continuamente tra il da- to e il creato, tra il documento e la sua costruzione, tra il suppo- sto reale e le infinite maniere di dirlo. E infatti lo storico è colui che padroneggia una serie di tecniche, dall’operazione attraver- so cui stabilisce le fonti, alla loro classificazione, fino alla loro re- distribuzione in funzione di un altro spazio utilizzando un cer- to numero di operatori. A quest’ultimo livello, si dispiega tutta una dialettica singolarizzante del soggetto storico costretto tra la quantità di documenti e la necessità di dover operare delle scelte dato che in storia tutto inizia “con il gesto di mettere da parte, di raccogliere e quindi di trasformare in ‘documenti’ alcuni oggetti suddivisi in altro modo”.

6

In terzo luogo, e questo spiega il titolo del suo lavoro di epi- stemologia storica del 1975, la storia è scrittura. L’attenzione che Certeau porta alle modalità di scrittura della storia non significa affatto che egli la riduca, come disciplina, alla sua sola dimensio- ne discorsiva dato che essa resta controllata dalle pratiche di cui è il risultato ed è essa stessa una pratica sociale. La scrittura sto- rica tuttavia, come luogo in cui si realizza e si concretizza la sto- ria, è anche il luogo di un’ambivalenza, a causa della sua natu- ra doppia, di scrittura allo specchio che rinvia al presente, di fin- zione che fabbrica da un lato il segreto e la menzogna, dall’altro la verità, ma anche di scrittura performativa in virtù del suo ruo- lo più importante che è quello di costruire un “tombeau” per i

5. Id., La scrittura della storia (1975), trad. di A. Jeronimidis, Jaca Book, Milano 2007, p. 70.

6. Ivi, p. 83.

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95

aut aut, 369, 2016, 95-109

L’altro del sapere

ALFONSO MENDIOLA

1. Un “passo di lato”

Nelle ultime pagine di La scrittura della storia troviamo un paragrafo che ci aiuta a riflettere sul modo di procedere di Michel de Certeau:

Freud vuol dire che ogni scienziato prende in giro la propria scienza così come Haitzmann prende in giro la legge della sua Congregazione? Ci sarebbe un’ebbrezza del “tatto”, una follia dell’atto […]. A una follia che viene prima della scienza si op- pone, in Freud, una “follia” che parla la scienza; alla scienza che

“permette”, si unisce lo scienziato che “si permette”.

1

Come lo studioso che si prende gioco della propria scienza, anche lo storico attraverso “la follia dell’atto” arriva a prendersi gioco della storia (sono tuttavia in pochi a compiere questo esercizio, dato che in generale si continua a parlare della conoscenza storica con grande serietà).

Certeau prende come esempio di questo genere di follia il personaggio di Haitzmann vissuto nel XVII secolo (a cui Freud aveva dedicato un saggio

2

), che stipulava patti con il diavolo ogni

Alfonso Mendiola è docente di storiografia contemporanea e teoria della storia all’Univer- sità Iberoamericana e all’Istituto nazionale di antropologia storica di Città del Messico. Di- rettore della rivista “Historia y Grafía”, ha pubblicato su Certeau: Michel de Certeau. Epi- stemologia, erótica y duelo, Navarra, México City 2013.

1. M. de Certeau, La scrittura della storia (1975), trad. di A. Jeronimidis, a cura di S.

Facioni, Jaca Book, Milano 2006, pp. 317-318.

2. S. Freud, Una nevrosi demoniaca (1922), trad. di C. Conterno, Il notes magico, Pa-

dova 2010.

(25)

volta che sentiva il bisogno della sicurezza di un padre. Al so- pravvenire degli attacchi di panico, invece di prendere una me- dicina, offriva la sua vita al diavolo e risolveva il suo problema.

La sapienza di Haitzmann era tale da permettergli di conoscere il momento in cui rompere il patto: il momento in cui il diavolo era sul punto di condurlo all’inferno. Alla fine della propria vi- ta, egli sostituì il diavolo con una congregazione religiosa, anche se non sempre la sua saggezza lo seguiva dato che, come scrisse il superiore del suo monastero, ogni tanto rompeva il patto con la congregazione con un bicchiere di troppo. Haitzmann aveva bi- sogno del padre come di una figura attraverso cui strutturare la propria personalità, ma necessitava anche di separarsene, facen- do, ogni tanto, “un passo di lato”.

Certeau, per certi versi, aveva questo stesso modo di proce- dere: sapere sempre quando fare “un passo di lato”. Si ha biso- gno di una figura paterna, quel che Freud ha definito la legge dell’allontanamento erotico dalla madre che consente all’indivi- duo di socializzarsi; tuttavia è anche necessario sapere, di quan- do in quando, ridere della legge, prendendosi gioco, per usare un linguaggio certiano, della scienza che si pratica. La storia im- pone, in quanto disciplina, una legge, cioè una serie di proce- dimenti che è necessario seguire per fabbricare (come si espri- me Certeau) il passato, ma dev’essere accompagnata dal “tatto”

– dal “fiuto” – di sapere che ciò che fabbrichiamo come passato è in fin dei conti un artificio. Non c’è alcun dubbio che esso ri- spetti tutte le regole assai stringenti che impone l’istituzione sto- rica, ma è importante non dimenticare che fabbrichiamo un pas- sato “di carta”, conservato in testi scritti che non ritorneranno mai come vita o come esistenza.

Fare un “passo di lato” è l’idea che guida l’insieme dell’opera

e della vita di Michel de Certeau, che ebbe sempre il “tatto” di

ridere dei suoi libri e delle istituzioni a cui apparteneva (forse il

suo trucco era, di tanto in tanto, bere un bicchiere di troppo co-

me Haitzmann). Tutti i suoi studi cominciano interrogandosi su

ciò che deve essere o essere stato rimosso per istituire un’identità

cosciente e prossima alla stabilità.

(26)

97

Prendersi gioco della scienza è una necessità frutto di una do- manda chiave del percorso certiano, ovvero quale sia il contenu- to che la modernità ha dovuto rimuovere per esistere, con quale diavolo essa ha dovuto combattere per non essere portata all’in- ferno. L’identità della scienza si costituisce rimuovendo la finzio- ne, ma Certeau sa bene, con la lucidità del suo “tatto”, che il ri- mosso ritorna sempre, anche se come fantasma. La sua opera è infatti dedicata a cacciare i fantasmi, alla ricerca di cosa abbiamo dovuto occultare per costruire un territorio di cui appropriar- ci – in questo caso un territorio scientifico. Quest’operazione è ciò che produce l’identità, ma l’identità di una differenza che si percepisce solida e ordinata solo nei termini di un’illusione. L’il- lusione che la finzione sia ciò che manca di “verità” e di “legge”, mentre la scienza sia il “vero” che si oppone al falso.

Contrariamente a questo inganno, per Certeau lo storico che cerca la verità del passato lo fa solo utilizzando la struttura nar- rativa della letteratura, nel senso che la storia trae la sua capaci- tà esplicativa proprio da ciò da cui si vuole differenziare: la let- teratura. Come la follia è ciò che rende possibile la ragione, la finzione è l’armamentario argomentativo del reale. Quest’analisi ci invita a un’esperienza limite – ubriacatura, follia – per arriva- re al sapere in cui tutto dipende da una questione di tatto, tatto che non ha nulla a che vedere con l’apprendimento della scien- za perché consiste nel comprendere proprio ciò che essa rimuo- ve, da cui desidera differenziarsi per poter esistere. Ma che ti- po di conoscenza può essere il “tatto”? Per Certeau la risposta è chiara: la conoscenza del corpo. Per l’autore di L’invenzione del quotidiano la conoscenza non appartiene alla scienza, ma al cor- po: la gestualità, il toccare, il muoversi, il sentire, l’odorare. Cer- teau muove una critica alla scienza a partire dalla corporeità co- me sapere. Il saper fare resta iscritto nella memoria corporea co- me le “arti manovriere” che

[…] estranee ai “linguaggi” scientifici, costituiscono tuttavia

al di fuori di essi un assoluto (ab-solutus) del fare (un’efficacia

che, slegata dal discorso, testimonia nondimeno del suo ideale

(27)

Affetti dal capitalismo

BRUNO LATOUR

“S e il mondo fosse una banca, loro l’a- vrebbero già salvato.” È lo slogan di- pinto dai militanti di Greenpeace in una delle loro recenti campagne. Il fatto che troviamo la battuta non solo ironica, ma anche tragicamente realistica, la dice lunga sul livello di decadenza in cui ci troviamo. Lo slogan ha lo stes- so desolante realismo della famosa battuta di Frederick Jameson:

“Al giorno d’oggi pare più facile immaginare la fine del mondo che immaginare la fine del capitalismo”.

Se chiamiamo il mondo, il mondo in cui viviamo, “prima natu- ra” e il capitalismo “seconda natura” – nel senso di ciò a cui sia- mo totalmente abituati e che si è del tutto naturalizzato –, allora ciò che questi aforismi ci dicono è che la seconda natura è più soli- da, meno transitoria e meno deperibile della prima. Non c’è da stu- pirsi: il mondo trascendente dell’aldilà è sempre stato più duratu- ro del povero mondo di quaggiù. La novità sta nel fatto che il mon- do dell’aldilà non è più una dimensione di salvezza e di eternità, ma è il mondo dell’economia. Per dirla con Karl Marx, le banche si so- no pienamente appropriate del mondo della trascendenza! Con un colpo di scena inaspettato, il mondo dell’economia, lungi dal rap- presentare un materialismo solido e con i piedi per terra, un robu- sto appetito di beni terreni o di dati di fatto tangibili, ora costitui- sce invece il mondo ultimo e assoluto. Non avevamo capito nien-

Lezione tenuta all’Accademia Reale di Copenhagen il 26 febbraio 2014. Titolo originale:

On Some of the Affects of Capitalism.

(28)

112

te. Evidentemente erano le leggi del capitalismo che Gesù aveva in mente quando avvertiva i suoi discepoli che “il cielo e la terra pas- seranno, ma le mie parole non passeranno” (Matteo 24,35).

Questo rovesciamento di ciò che è transitorio e di ciò che è eterno non è più uno scherzo, specialmente da quando quella che potremmo chiamare “la strategia australiana di sonnambulismo volontario verso la catastrofe” dopo le ultime elezioni viene appli- cata a pieno regime.

1

Non pago di aver smantellato le istituzioni, le organizzazioni e gli strumenti scientifici grazie ai quali la sua le- gislatura avrebbe avuto l’occasione di prepararsi ad affrontare la nuova minaccia globale dei cambiamenti climatici,

2

il primo mini- stro Tony Abbott sta smantellando uno dopo l’altro anche la mag- gior parte dei dipartimenti di scienze sociali e di studi umanisti- ci.

3

Una strategia di questo tipo ha perfettamente senso: non pen- sare al futuro è probabilmente la cosa più razionale da fare, se sei australiano e hai dato un’occhiata a quello che sta per accadere.

“Non pensare” pare lo slogan del momento, se si considera che solo negli Stati Uniti vengono spesi qualcosa come un miliardo di dollari

4

per generare ignoranza riguardo alle origini antropiche dei cambiamenti climatici. In altri tempi gli scienziati e gli intellettua- li si lamentavano del poco denaro speso per l’istruzione, ma non si erano mai visti tanti fiumi di denaro spesi per disimparare ciò che si sapeva già. Mentre in passato il pensiero critico era associato al guardare avanti e all’emanciparsi da un vecchio passato oscuran- tista, oggi si spendono soldi per diventare più oscurantisti di ieri!

L’“agnotologia”, la scienza del generare ignoranza di cui parla Ro- bert Proctor, è diventata la disciplina più importante del momen- to.

5

È grazie a questa grande scienza che tante persone in cuor lo-

1. Il riferimento è alle elezioni federali australiane del 7 settembre 2013, vinte da Tony Abbott, rimasto in carica fino al 15 settembre 2015. [N.d.T.]

2. www.desmogblog.com/2013/10/09/australia-s-new-prime-minister-surrounded-cli- mate-science-denying-voices-and-advisors

3. www.australianhumanitiesreview.org/archive/Issue-November-2012/bode&dale.html 4. www.theguardian.com/environment/2013/dec/20/conservative-groups-1bn- against-climate-change

5. R. Proctor, L. Schiebinger, Agnotology: The Making and Unmaking of Ignorance,

Stanford University Press, Stanford (

CA

) 2008.

(29)

ro si sentono di poter dire: “Che crepi il mondo, basta che la mia banca sopravviva!”. Continuare a pensare è un compito dispera- to quando i poteri dell’intelligenza sono concentrati a far cessare ogni attività di pensiero per procedere a occhi ben chiusi.

Che cos’è che genera, in questa seconda natura, una tale mancanza di sensibilità per le condizioni mondane della nostra esistenza?

Questo è il problema che dobbiamo affrontare.

Propongo di considerare il capitalismo non come una cosa nel

mondo, ma come un particolare modo di essere affetti nell’atto

di sbrogliare l’inquietante matassa di miseria e lusso che ci tro-

viamo davanti, nel momento in cui affrontiamo il suo fumoso in-

treccio di “beni” e di “mali”. Il capitalismo è un concetto in-

ventato per tenere insieme questa strana miscela di entusiasmo

per la cornucopia dell’abbondanza, che ha risollevato miliardi

di persone dalla povertà più abbietta, e di indignazione, colle-

ra, furia in risposta alla miseria rovesciatasi su miliardi di altre

persone. Ciò che trovo particolarmente insopportabile è il sen-

timento di impotenza che accompagna ogni discussione di carat-

tere economico, e che trovo completamente inconciliabile con

ciò che considero gli effetti più importanti della scienza e della

politica, dal momento che queste ultime hanno proprio il com-

pito di aprire possibilità e margini di manovra. Come mai, quan-

do siamo chiamati in causa contro il capitalismo, ci sentiamo – e

anch’io mi sento – così impotenti? Trovatomi di fronte a ques-

ta questione, ho deciso di cominciare con quest’idea, vale a dire

che una delle affezioni del capitalismo, cioè del pensare in termi-

ni di capitalismo, è quella di generare, per la maggior parte delle

persone che non beneficiano della sua ricchezza un sentimento

di impotenza, e per le poche che ne beneficiano un immenso en-

tusiasmo e un ottundimento dei sensi. Quindi, quando usiamo il

capitalismo come chiave di interpretazione degli eventi, ottenia-

mo, da un lato, necessità imposte dalle quali non si scappa e un

sentimento di rivolta contro di esse che spesso finisce in impo-

tenza; e dall’altro, possibilità illimitate accompagnate da una to-

tale indifferenza per le conseguenze a lungo termine.

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128

aut aut, 369, 2016, 128-152

Al di là del sangue e del suolo.

I dilemmi dell’appartenenza

EDOARDO GREBLO

S e è vero, come ha scritto Michael Walzer, che l’idea stessa di giustizia distributiva implica un mondo delimitato, ovvero l’esi- stenza di un gruppo di persone che spartiscano, scambino e con- dividano beni sociali prima di tutto “fra di loro”,

1

è evidente che, almeno inizialmente, in ogni comunità politica la sfera dell’ap- partenenza è qualcosa di dato – alcuni vi rientrano, altri no. E a ogni comunità di appartenenza – aggiunge Walzer – dovrebbe essere riconosciuto il diritto di porre limiti all’ingresso allo sco- po di difendere la libertà, il benessere, la politica e la cultura di persone che sono e si sentono legate l’una all’altra e alla loro vi- ta in comune.

2

Le comunità politiche devono essere libere di de- finire le condizioni di primo ingresso “radicate nella concezione che una particolare comunità ha di se stessa”,

3

dal momento che l’ammissione e l’esclusione rappresentano il presupposto dell’au- todefinizione e dell’autocostituzione del sistema politico – altri- menti non avrebbe neppure senso porsi il problema di come di- stribuire il bene sociale che condiziona ogni ulteriore scelta di- stributiva, ovvero l’appartenenza. La distribuzione dell’apparte- nenza non è “completamente soggetta ai vincoli della giustizia”

4

poiché, per quanto possano apparire arbitrari i confini di una so-

1. M. Walzer, Sfere di giustizia (1983), Feltrinelli, Milano 1987, p. 41.

2. Ivi, p. 49.

3. Ivi, p. 60.

4. Ivi, p. 70.

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cietà dal punto di vista storico, senza il privilegio sovrano del po- polo democratico di definire le regole che determinano l’attra- versamento dei confini non sarebbe neppure possibile parlare di una comunità in senso proprio – ossia di un mondo delimitato in cui abbiano luogo delle distribuzioni.

In generale, la stragrande maggioranza delle persone acquisi- sce il bene dell’appartenenza, e quindi i privilegi della cittadinan- za, sulla base di un diritto di nascita territorialmente definito. Per questo Joseph Carens ha sostenuto, in modo volutamente provo- catorio, che “la cittadinanza, nelle democrazie liberali dell’Occi- dente, è l’equivalente moderno dei privilegi feudali”.

5

Nel bene e nel male, il luogo di nascita è, di norma, il fattore che più incide sulle possibilità e i progetti di vita delle persone.

6

Eppure, la filo- sofia contemporanea è stata singolarmente restia ad affrontare il problema. L’esempio di John Rawls è rivelatore di questa tenden- za omissiva. Se da un lato, infatti, Rawls ritiene necessario correg- gere, perché arbitraria dal punto di vista morale, quella che chia- ma la “lotteria naturale”, ossia una distribuzione sociale della ric- chezza e del reddito determinata dalla distribuzione naturale delle abilità e dei talenti,

7

dall’altro non ritiene invece necessario spen- dere una sola parola per affrontare i problemi posti dalla “lotte- ria della nascita”.

8

E cioè proprio per il principale fattore preditti- vo riguardo alle opportunità che gli individui trovano (o non tro- vano) a loro disposizione: i confini entro i quali è loro capitato di venire al mondo. Le opportunità che hanno (o non hanno) a di- sposizione dipendono da un fattore che non è meno arbitrario, da un punto di vista morale, della distribuzione naturale delle abili- tà e dei talenti. C’è qualcosa che non torna, in altre parole, nel fat- to che qualcuno debba essere condannato a una partenza a handi-

5. J. Carens, Aliens and Citizens: The Case for Open Borders, “The Review of Politics”, 2, 1987, p. 252; cfr. L. Ferrajoli, Dai diritti del cittadino ai diritti della persona, in D. Zolo (a cura di), La cittadinanza. Appartenenze, diritti, identità, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 288.

6. C. Offe, From Migration in Geographic Space to Migration in Biographic Time: Views from Europe, “The Journal of Political Philosophy”, 3, 2011, p. 261.

7. J. Rawls, Una teoria della giustizia (1971), Feltrinelli, Milano 1997, p. 76.

8. A. Shachar, The Birthright Lottery: Citizenship and Global Inequality, Harvard Uni-

versity Press, Cambridge (

MA

) 2009.

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