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But I don’t go along with that. The memories I value most, I don’t ever see them fading.

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Academic year: 2021

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INTRODUZIONE

Memories, even your most precious ones, fade surprisingly quickly.

But I don’t go along with that. The memories I value most, I don’t ever see them fading.

Kazuo Ishiguro, Never Let Me Go

Nel primo periodo della sua carriera di scrittore, intorno agli anni ’80 del Novecento, quando la letteratura inglese si vedeva già investita di attributi multiculturali potenziati da autori provenienti dai diversi paesi appartenenti all’ex “British Empire”, attributi che convivevano con “[a] very powerful notion of Britain as the mother country, and the source of modernity and culture and education”

1

, Kazuo Ishiguro fornì una definizione chiara di se stesso come scrittore:

I am a writer who wishes to write international novels. What is an 'international' novel? I believe it to be one, quite simply, that contains a vision of life that is of importance to people of varied backgrounds around the world. It may concern characters who jet across continents, but may just as easily be set firmly in one small locality

2

.

L’orizzonte internazionale assume, quindi, una certa importanza per la figura di Ishiguro, sia come scrittore di libri capaci di ottenere un consenso mondiale, sia come uomo, nato a Nagasaki e cresciuto a Londra, all’interno di una “Japanese-speaking home”

3

che lo ha mantenuto in contatto con i valori giapponesi, immergendolo in un background peculiare, a confronto con prospettive diverse. Durante gli anni trascorsi alla University of East Anglia, dove prese parte ad un corso di scrittura creativa, e dopo la pubblicazione di alcune short stories – “Getting Poisoned”, ad esempio  basate, soprattutto, su una ripresa delle tematiche privilegiate da Ian McEwan, che al tempo era

1 Graham Swift, “Shorts: Kazuo Ishiguro” (1989), in Brian W. Shaffer and Cynthia F. Wong (eds.), Conversations with Kazuo Ishiguro, University Press of Mississippi, Jackson 2008, p. 36.

2 Wai-chew Sim, “Kazuo Ishiguro” (2010), https://literature.britishcouncil.org/writer/kazuo-ishiguro [consultato in data 1/11/2015].

3 Graham Swift, “Shorts: Kazuo Ishiguro”, in Conversations with Kazuo Ishiguro, cit., p. 35.

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“all that kind, adolescent sex and violence”

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, Ishiguro fece del suo Giappone il comune denominatore dei primi romanzi, A Pale View of Hills (1982) e An Artist of the Floating World (1986), in cui compare una visione del tutto personale conferita al paese natale.

Come Ishiguro ha sottolineato in un’intervista rilasciata a Kenzaburo Oe, il Giappone che si affaccia nei suoi romanzi proviene sostanzialmente dall’universo della sua immaginazione ed è comunque legato ai ricordi dei primi sei anni di vita da lui trascorsi in quella terra:

So I grew up with a very strong image in my head of this other country, a very important other country to which I had a strong emotional tie. [..] When I reached the age of perhaps twenty-three or twenty-four I realized that this Japan, which was very precious to me, actually existed only in my imagination. [...] And so I think one of the real reasons why I turned to writing novels was because I wished to re- create this Japan. [..] I wanted to make it safe, preserve it in a book, before it faded away from my memory altogether

5

.

Ed è la memoria a diventare uno dei temi fondanti nei romanzi di Ishiguro, il quale ne enfatizza l’importanza richiamandosi appunto a “things like memory, how one uses memory for one’s own purposes, one’s own ends, those things interest me more deeply”

6

. A Pale View of Hills e An Artist of the Floating World accompagnano il lettore attraverso un viaggio nella memoria dei protagonisti, Etsuko e Ono, i cui ricordi si intrecciano agli eventi devastanti che fanno da cornice alle storie. L’ambientazione in un Giappone degli anni ’40 del secolo scorso, in un contesto post-apocalittico, diviene un’occasione per Ishiguro di addentrarsi in aspetti che lo coinvolgono maggiormente:

I tend to be attracted to pre-war and post-war settings because I’m interested in this business of values and ideals being tested, and people having to face up to the notion that their ideals weren’t quite what they thought they were before the test came

7

.

Per questo motivo è possibile affermare come, sotto la veste di “historical novels”, si celino invece due romanzi volti ad indagare la psicologia dei personaggi e il modo in cui essi si trovano ad affrontare eventi traumatici. Molti critici hanno osservato come i personaggi di Ishiguro tendano a “deceive, rather than reveal themselves through

4 David Sexton, “Interview: David Sexton Meets Kazuo Ishiguro” (1987), in Conversations with Kazuo Ishiguro, cit., p. 27.

5 Kazuo Ishiguro and Kenzaburo Oe, “The Novelist in Today’s World: A Conversation” (1989), in Conversations with Kazuo Ishiguro, cit., p. 53.

6 Gregory Mason, “An Interview with Kazuo Ishiguro” (1986), in Conversations with Kazuo Ishiguro, cit., p. 14.

7 Graham Swift, “Shorts: Kazuo Ishiguro”, in Conversations with Kazuo Ishiguro, cit., p. 36.

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storytelling”

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, in un gioco fatto di flashbacks e digressioni, fuggendo dalla “tyranny of a linear plot”

9

e facendo così sembrare “migliore” il loro passato.

Sebbene Ishiguro conferisca importanza a un Giappone idealizzato, inteso come una Neverland da preservare e custodire nella memoria, la conoscenza che veicola della sua terra originaria è, di fatto, minima e ristretta agli anni immediatamente post-bellici. Egli confessa di non avere un’idea chiara del Giappone nella contemporaneità: dopo il trasferimento a Londra con i genitori, in seguito ad un’offerta di lavoro al padre, un oceanografo, Ishiguro si stabilì definitivamente in Gran Bretagna, con una svolta rispetto alle conoscenze acquisite fino ad allora, basate sull’apprendimento del giapponese. In Inghilterra, egli avrà una formazione culturale di stampo, appunto, britannica, senza tralasciare l’interesse nei confronti della letteratura e della cinematografia del paese originario, egli è tuttavia consapevole delle varie sinergie con la cultura occidentale:

People like Mishima and Tanizaki are the people who are most accessible to the West, and that’s because they were partly themselves very much influenced by western culture and thought. […] Japanese movies are another matter. Almost by definition, Japanese film directors were quite concerned about western influence.

[…] I think Japanese cinema grew up very much in a tradition of its own, alongside the overwhelming Hollywood tradition […]. Particularly directors like Kurosawa and Ozu became people that Hollywood learned from

10

.

L’influenza culturale di marca occidentale coinvolge non solo le arti orientali giapponesi, ma anche la formazione di Ishiguro in quanto scrittore. L’autore stesso, in un’intervista con Gregory Mason nel 1986, affermò di sentirsi “very much of the Western tradition”

11

e di essere cresciuto leggendo “Western fiction”, ovvero autori come Charlotte Brontë, Charles Dickens ma, soprattutto, Dostoevskij e Cechov, “two god-like figures”

12

a cui maggiormente si sarebbe ispirato durante la stesura dei suoi romanzi:

So far, in my writing career, I’ve aspired more to Chekhov: the spare and the precise, the carefully, controlled tone. But I do sometimes envy the utter mess, the chaos of Dostoevsky

13

.

8 James Procter, “Kazuo Ishiguro: Critical Perspective” (2013), http://literature.britishcouncil.org/kazuo- ishiguro [consultato in data 1/11/2015].

9 Gregory Mason, “An Interview with Kazuo Ishiguro”, in Conversations with Kazuo Ishiguro, cit., p. 9.

10 Suanne Kelman, “Ishiguro in Toronto” (1989), in Conversations with Kazuo Ishiguro, cit., pp. 47-48.

11 Gregory Mason, “An Interview with Kazuo Ishiguro”, in Conversations with Kazuo Ishiguro, cit., p. 4.

12 Graham Swift, “Shorts: Kazuo Ishiguro”, in Conversations with Kazuo Ishiguro, cit., p. 41.

13 Ibidem.

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La peculiarità della crescita all’interno di un ambiente quantomeno bi-culturale ha fatto scaturire in lui un senso acuto di non-appartenenza, di una “uprootedness” poi convogliata nel profilo di un “homeless writer”

14

:

And so I had no clear role, no society or country to speak for or write about.

Nobody’s history seemed my history. And I think this did push me necessarily into trying to write in an international way

15

.

L’approccio transculturale e l’idea di una sospensione tra mondi diversi e lontani lo faranno apprezzare da una varietà di noti autori contemporanei, come Margaret Atwood e Graham Swift, i quali mostreranno un forte interesse nei confronti della sua tecnica di scrittura e del processo di costruzione dei personaggi – aspetti che saranno discussi successivamente – al punto da fargli guadagnare l’epiteto di “writer’s writer”

16

.

Al contempo, nonostante il frequente accostamento con autori considerati da lui meritevoli per aver “open[ed] up English fiction to non-ethnically British writers”

17

, come Salman Rushdie, Timothy Mo e Ben Okri, Ishiguro preferisce non avallare la tendenza critica di assimilare uno scrittore ad uno specifico gruppo culturale e letterario.

Pur riconoscendo la vicinanza a lui attribuita all’ambito dell’episteme post-coloniale, Ishiguro sottolinea ad esempio il senso della propria differenza rispetto a Rushdie, soprattutto per quanto concerne il linguaggio:

Rushdie’s language always seems to be reaching out – to express meaning that can’t usually be expressed through normal language. Just structurally his books have this terrific energy. They just grow in every direction at once and he doesn’t particularly care if the branches lead nowhere. He’ll let it grow anyway and leave it there and that’s the way he writes. […] The language I use tends to be the sort that actually suppresses meaning and tries to hide away meaning rather than chase after something just beyond the reach of words. I’m interested in the way words hide meaning

18

.

Sebbene, dal punto di vista stilistico-letterario, ci siano pochi aspetti in grado di avallare un paragone tra Rushdie, Mo ed Ishiguro, quest’ultimo rende merito alla consapevolezza che essi hanno maturato, nel corso degli anni, riguardo il ruolo rivestito dalla Gran Bretagna, vista non più come centro del globo e sede di un imponente

14 Kazuo Ishiguro and Kenzaburo Oe, “The Novelist in Today’s World: A Conversation”, in Conversations with Kazuo Ishiguro, cit., p. 58.

15 Ibidem.

16 Brian W. Shaffer and Cynthia F. Wong, “Introduction”, in Conversations with Kazuo Ishiguro, cit., p.

IX.

17 Ibidem.

18 Allan Vorda and Kim Herzinger, “An Interview with Kazuo Ishiguro” (1990), in Conversations with Kazuo Ishiguro, cit., pp. 70-71.

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impero, bensì come un paese (seppur potente) tra molti. A differenza dei loro predecessori, indotti a riconoscere il ruolo dominante dell’Inghilterra nel mondo, gli scrittori appartenenti alla generazione più giovane si sarebbero finalmente liberati da tale sudditanza culturale: tuttavia, le contraddizioni, il relativismo e la crisi dei valori che caratterizzano il periodo in cui vivono hanno al contempo spinto alcuni di loro a guardare al passato per ricomporre l’immagine ormai perduta di una “vecchia Inghilterra” idilliaca e prosperosa.

Secondo Ishiguro, questi ultimi non avrebbero cessato di nutrire un complesso di inferiorità o un disagio che li ha portati a far leva sulla propria immaginazione per creare ambientazioni mitiche, ma anche ironicamente trasversali e “alternative”

all’interno dei loro romanzi. Questo è accaduto a Ishiguro stesso, quando ha deciso di ambientare The Remains of the Day (1989) in una mistificata Inghilterra di metà Novecento, in un’opera dove traspare un senso di sottile ironia, strumento che, nelle mani dello scrittore, passa criticamente al vaglio il mito “about an England with sleepy, beautiful villages with very polite people and butlers and people taking tea on the lawn”

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. The Remains of the Day, quindi, si distacca dal paradigma dell’orientalismo intorno al quale Ishiguro aveva costruito i primi due romanzi, e rappresenta il raggiungimento di un traguardo importante, testimoniato dal riconoscimento del Booker Prize, segnalando così una svolta nella sua produzione letteraria.

Anche dopo la pubblicazione del terzo romanzo, l’autore ha ritenuto opportuno chiarire come l’ambientazione nell’Inghilterra dei primi anni ’30 del secolo passato fosse poco più che un espediente per porre al centro della vicenda un maggiordomo

20

, tipologia sociale con cui Ishiguro non si era mai confrontato ma che, specialmente nel contesto britannico, ha assunto a lungo i connotati di “[a] ridiculous, pompous, stiff, emotionally constipated caricature of a human being”

21

. Mr Stevens, quindi, si

19 Ivi, p. 74.

20 Cfr. ivi, p. 83. Spesso Ishiguro ha riflettuto su come, a suo avviso, la maggior parte dei lettori abbia posto troppa attenzione sull’ambientazione storica di The Remains of the Day, piuttosto che sulla parabola che esso traccia, o la valenza metaforica legata ad un determinato personaggio:

The one point I still feel an element of frustration about, and I mentioned this before, is that people have a tendency to say that The Remains of the Day is a book about a certain historical period in England or that it is about the fall of the British empire or something like that. They don’t quite read it as a parable or see it take off into a metaphorical role.

(Allan Vorda and Kim Herzinger, “An Interview with Kazuo Ishiguro”, in Conversations with Kazuo Ishiguro, cit., pp. 83-84)

21 Don Swaim, “Don Swaim Interviews Kazuo Ishiguro” (1990), in Conversations with Kazuo Ishiguro, cit., p. 101.

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configura come la metafora vivente di un eccessivo autocontrollo, di un soffocamento delle emozioni, tratto che si riscontra, come conferma l’autore, sia nella società inglese che in quella giapponese:

He’s a man very, very scared of love, and that’s why he puts up this incredible alibi really, saying that he is this dedicated professional butler. […] but what I’m suggesting, what Stevens comes to realize at the end of the book is that it’s a very hollow achievement, and in fact, it’s not an achievement at all; it’s just cowardice, it’s just a way of running away from the really challenging, really scary part of being a human being

22

.

Paradossalmente, l’aridità emozionale affiora proprio tramite il ricorso a una voce narrante in prima persona, modalità che Ishiguro predilige in tutta la sua produzione romanzesca, e attraverso la quale il personaggio indaga i ricordi, ricostruendoli a modo proprio. Ciò avviene però senza adottare sperimentali tecniche metanarrative e autoreferenziali tipiche della postmodernità, come è stato sottolineato:

it [language] is not there as a meaningful tool of creating reality or truth, it is only there to create somebody’s version of reality. Unlike other postmodernists, Ishiguro does not experiment with form, his novels do not contain intertextuality, framing, etc. They are not metafictions, they do not discuss the nature of fiction, they are not concerned with the art of writing fiction. On the contrary, he tries to hide the elements that could be experimental

23

.

Ciò su cui Ishiguro si concentra è altresì il modo di affrontare e rappresentare il vissuto, perché “we all use fiction in our daily lives”

24

: la sua narrativa gioca sull’implicito e il campo inferenziale, evidenziando i “vuoti di informazione” presenti nei racconti dei personaggi. Questo offre la possibilità di indagare “the way people can’t face certain things, when people resort to self-deception and tell themselves stories that aren’t quite complete about what happened in their past”

25

.

Ishiguro crea i suoi personaggi con attenzione, diversificandoli per provenienza e cultura, ma tutti presentano la tendenza alla repressione e all’inazione: si nascondono nelle intercapedini dei silenzi, lasciando trapelare implicitamente i propri difetti e stabilendo tuttavia, al tempo stesso, un rapporto empatico con il lettore, tra le pagine di romanzi scritti con cura e precisione, quasi fossero opere architettoniche in cui ogni

22 Ivi, p. 102.

23 Nasiha Gorancic, “Kazuo Ishiguro” (2012), http://newenglishliterature.blogspot.it/2012/02/kazuo- ishiguro.html [consultato in data 2/11/2015].

24 Don Swaim, “Don Swaim Interviews Kazuo Ishiguro”, in Conversations with Kazuo Ishiguro, cit., p.

97.

25 Ibidem.

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parte si incastra perfettamente con l’altra. Il percorso di filtrazione e ricerca che Ishiguro ha intrapreso durante la genesi di un dato romanzo ha fatto sì che Brian W. Shaffer e Cynthia F. Wong e, soprattutto, Margaret Atwood, lo abbiano definito un “craftsman”

26

, un artigiano che impiega molte energie nel progettare l’impalcatura e gli assi portanti dell’opera. Così si è espresso l’autore:

[…] I actually have to research that fictional landscape in my mind. I have to know

 I find I have to know fairly thoroughly what the characters are going to be like,

what their relationships are like, what the moods and the atmospheres of the fictional world I’m going to be writing about are like. I have to get all that right. I spend often two years planning a book, filling up folder after folder with notes and diagrams before I start to write the actual prose

27

.

La cura della fase progettuale è una costante marcata dei suoi primi dieci anni di carriera. In un’intervista con Graham Swift, egli ha sostenuto di essere un “very cautious writer […] [who] can’t do the business of shoving blank piece of paper in the typewriter and having a brain-storming session to see what comes out. I have to have a very clear map next to me”

28

. È interessante notare come in tutto questo sia stata di grande importanza la fascinazione maturata con la lettura di autori russi quali Cechov e Dostoevskij, ispiratore di toni sobri e concisi il primo, guida nella scrittura più creativa e, al tempo stesso, stratificata il secondo, il cui stile “messy and saggy and brilliantly imperfect”

29

lo ha stimolato a misurarsi con esperimenti letterari più audaci.

La pubblicazione di The Unconsoled (1995) segna, d’altro canto, un turning point fondamentale nella produzione di Ishiguro, sotto la cifra di un distacco dai temi e dallo stile delle opere precedenti in direzione di slittamenti spazio-temporali e voli

“fantasiosi”, con una messa in primo piano, ancora una volta, della voce della memoria.

L’ambientazione surreale del romanzo, definita dall’autore “landscape of imagination”

30

, ne segnala la volontà di allontanarsi dalla tecnica realista: in un’intervista con Maya Jaggi, egli ha ripercorso i vari “settings” delle proprie opere con

26 Brian W. Shaffer and Cynthia F. Wong, “Introduction”, in Conversations with Kazuo Ishiguro, cit., p.

IX.

27 Don Swaim, “Don Swaim Interviews Kazuo Ishiguro”, in Conversations with Kazuo Ishiguro, cit., p.

105.

28 Graham Swift, “Shorts: Kazuo Ishiguro”, in Conversations with Kazuo Ishiguro, cit., p. 40.

29 Brian W. Shaffer and Cynthia F. Wong, “Introduction”, in Conversations with Kazuo Ishiguro, cit., p.

IX.

30 Dylan O. Krider, “Rooted in a Small Place: An Interview with Kazuo Ishiguro” (1998), in Conversations with Kazuo Ishiguro, cit., p. 131.

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il fine di chiarire come The Unconsoled si collochi su un diverso livello interpretativo da questo punto di vista:

I thought that by dropping Japan, people would focus on the more abstract themes, the emotional story. And by and large, The Remains of the Day was read more for the inner story, a recreation of life for servants between the wars. […] I was working in the realist mode, trying to make the setting as convincing as possible.

But there was a problem that people thought it was about the 1930s, or was some parable of the fall of the British empire. […] I thought I should try to set a novel in a world that is so odd, so obviously constructed according to another set of priorities that it must be obvious we’re not trying to faithfully recapture what some real place is

31

.

Il paesaggio “alternativo” in cui è calata la storia risulta essere uno dei vari elementi innovativi che Ishiguro inserisce in The Unconsoled. Dopo aver sperimentato una tecnica narrativa legata ad archi temporali particolarmente lunghi, corredati da una ricerca minuziosa dei temi e da una definizione dei personaggi, con gli anni ’90 Ishiguro ha avvertito la necessità di tracciare un cammino diverso, mettendo da parte, anche se momentaneamente, la tendenza alla pianificazione “architettonica” e dando spazio ad una sorta di improvvisazione. Egli si sarebbe così arrogato una libertà precedentemente sconosciuta che gli ha permesso di adottare nuove tecniche stilistiche, distaccandosi dal realismo:

Up to this book, I’d worked in a more or less traditional way, using suspension of disbelief on the reader in a particular setting, then moving the characters around. I wanted to move away from a recognizably real setting, but you can’t then proceed as you did before. If you create an alternative world where alternative rules exist – physical, temporal, behavioural  there has to be a consistency, a new set of rules

32

.

A differenza delle opere precedenti, in cui l’autore ricorreva ai flashbacks per permettere ai protagonisti di addentrarsi nel loro vissuto e comunicarlo al lettore

33

, in The Unconsoled il personaggio di Ryder è calato in un “dream world where he bumps

31 Maya Jaggi, “Kazuo Ishiguro with Maya Jaggi” (1995), in Conversations with Kazuo Ishiguro, cit., p.

111.

32 Ivi, p. 113.

33 Cfr. Dylan O. Krider, “Rooted in a Small Place: An Interview with Kazuo Ishiguro”, in Conversations with Kazuo Ishiguro, cit., p. 132. In questa intervista successiva all’uscita di The Unconsoled, Ishiguro fornisce un ulteriore commento al riguardo, distinguendo tra l’impiego dei flashbacks e una nuova forma di indagine della memoria:

“If the flashback method is like shining a flash light into the darkness of your past, and illuminating bits of it to decipher, then this is more like a completely dark room where someone moves along with a torch like this […]. See, there’s a little patch of light you can see, but you can’t see what’s before it unless you move back to see what you just passed.”

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into earlier, or later, versions of himself”

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, in un racconto che sfrutta la dimensione onirica e in cui il protagonista si rivolge alle vite di soggetti estranei per interpretare fasi del proprio passato

35

. A tal proposito, Barry Lewis sottolinea come Ishiguro non si ispiri tanto ai processi di condensazione e spostamento tipici della teoria freudiana, quanto a un’immagine della città come proiezione dell’inconscio (di Ryder stesso o di un’entità ignota)

36

. Ciò che viene meno è il momento in cui il personaggio, voltandosi indietro, compie un’autovalutazione e tira le somme; il musicista Ryder sembra piuttosto rappresentare un altro lato di Ishiguro, il quale, vent’anni dopo An Artist of the Floating World, avverte l’esigenza di dar voce ad un sentimento di insicurezza in una fase critica dell’esistenza:

As I got older (I’m forty now) I wanted something that would reflect the uncertainty and chaos I started to feel. Life didn’t feel to me like a process whereby episodes came at you and you didn’t live up to the moment or you did. It wasn’t as clear as that; things seem messier. I wanted to write a book not from the viewpoint of someone looking back and ordering his experience, but of someone in the midst of chaos, being pulled in different directions at once, and not realizing why

37

.

La componente disgregante del caos che si abbatte su una vita intesa, precedentemente, come “a kind of clear path where you took a few wrong turns”

38

, consente ad Ishiguro di confrontarsi in The Unconsoled con l’idea di un’esistenza priva di equilibrio e dominata, invece, da forze deterministiche che spesso prendono il sopravvento sulle decisioni degli esseri umani. Questa coscienza si rispecchia nella definizione di Ryder come l’“inconsolabile” e un soggetto deluso, soprattutto,

34 Ivi, p. 114.

35 Cfr. ibidem. Con Maya Jaggi, Ishiguro aveva offerto chiarimenti sullo strano mondo di The Unconsoled, ma, soprattutto, sulla tecnica alternativa utilizzata per far affiorare il passato del protagonista, facendo luce su alcuni aspetti del suo vissuto rimasti irrisolti. Nello stesso anno, in un’intervista con Peter Oliva, Ishiguro ha definito le digressioni di Ryder come una modalità di

“appropriation” ed è tornato sulle strategie di narrazione che aveva già illustrato alla Jaggi:

“These people that he runs into, they do exist in their own right, in this city, to some extent, but he’s using them, in this kind of strange way, to tell you the story, about his own life, so you really learn about him, and his parents and his childhood and indeed what he fears he might become” (Peter Oliva, “Chaos as Metaphor: An Interview with Kazuo Ishiguro”

(1995), in Conversations with Kazuo Ishiguro, cit., p. 123).

36 Barry Lewis, Kazuo Ishiguro, Manchester University Press, Manchester 2000, p. 124. Lewis prosegue, all’interno del saggio, la riflessione riguardo la “dream technique” di Ishiguro, considerando l’esperienza di Ryder in The Unconsoled una potenziale versione aggiornata di Finnegans Wake e affermando che

“Ryder is not dreaming within his life; he is living within a dream. Whose dream it is, is not clear”.

37 Maya Jaggi, “Kazuo Ishiguro with Maya Jaggi”, in Conversations with Kazuo Ishiguro, cit., p. 117.

38 François Gallix, “Kazuo Ishiguro: The Sorbonne Lecture” (1999), in Conversations with Kazuo Ishiguro, cit., p. 154.

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dall’impossibilità di tornare indietro nel tempo per poter “sistemare” ciò che è andato storto:

He is the Unconsoled. He’s got the idea that if he becomes a great enough pianist, if he gives the greatest concert ever, one day, everything that went wrong in the past will get healed. He has this kind of irrational idea. And I think this is a time when he discovers that you can’t go back to fix things. Sometimes things are broken forever

39

.

Nonostante i numerosi commenti negativi sull’ambiguità e il carattere eccessivamente astratto del romanzo, definito da un recensore “a difficult, perplexing and uniquely challenging book”

40

, The Unconsoled si configura come uno straordinario esperimento attraverso cui Ishiguro dà espressione a una nuova concezione dei metodi stilistici, un nuovo modo di elaborare l’opera e un procedimento alternativo per indagare i processi della memoria, che risulta essere il tema e filo rosso che lega i vari romanzi.

Dopo un voluto distacco dalla tendenza ad esercitare un forte controllo sull’opera, Ishiguro torna al realismo minimalista delle origini con When We Were Orphans (2000), in cui si appropria del detective genre per raccontare la storia di Christopher Banks.

Nonostante si percepisca immediatamente la presenza di tematiche come quella cruciale della memoria, il quinto romanzo ripropone altresì la nuova, a tratti disincantata e amara, visione della vita maturata in età adulta e affiorante, per la prima volta, in The Unconsoled, con il dissolversi dell’ottimismo tipicamente giovanile che lo aveva animato nei primi anni della sua carriera. In un’intervista con Brian W. Shaffer, Ishiguro tratta questa sua linea di pensiero, soffermandosi sul concetto di “nostalgia”, e associandolo a un sentimento di positivo idealismo:

The pure emotion of nostalgia is actually quite a valuable thing that we all feel at times. And in my books, particularly the more recent ones, I feel that the kind of nostalgia I’m trying to get at could actually be a positive thing in that it’s a kind of emotional equivalent to idealism. It’s a remembering of a time in your childhood before you realized that the world was as dark as it was

41

.

39 Peter Oliva, “Chaos as Metaphor: An Interview with Kazuo Ishiguro”, in Conversations with Kazuo Ishiguro, cit., p. 123.

40 Sam Jordison, “Kazuo Ishiguro’s The Unconsoled: Unanswered Questions” (2015),

http://www.theguardian.com/books/booksblog/2015/jan/13/kazuo-ishiguro-the-unconsoled-questions [consultato in data 23/11/2015].

41 Brian W. Shaffer, “An Interview with Kazuo Ishiguro” (2001), in Conversations with Kazuo Ishiguro, cit., p. 166.

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Il punto chiave di When We Were Orphans si rintraccia in Christopher, orfano concepito come metafora di quella parte di umanità costretta a lasciarsi alle spalle la spensieratezza dell’infanzia, ritrovandosi, quasi improvvisamente, a sopravvivere in un mondo che si rivela spietato e privo di compassione. Ishiguro si sofferma sulla condizione del soggetto privo delle figure genitoriali per amplificare il sentimento di solitudine e di impotenza che si avverte in età adulta, in un momento esistenziale in cui emerge inevitabilmente la nostalgia di un nido protettivo:

There was a metaphorical direction in this condition of being orphaned. What I was interested in exploring here was the journey that we all must have made out of a protective childhood bubble where we didn’t know about the harsher world. As we get older we come into the wider world and learn that bad things happen. […] So Christopher Banks, the main character, lives in this relatively sheltered cocoon or childhood. […] Suddenly, he is plunged into the big world. It’s that question: when we go out into the harsher world do we perhaps carry with us some sense of nostalgia, some sense of memory of that time when we believed the world to be a nicer place? Perhaps we were misled by adults; perhaps, quite rightly, we were sheltered from these things

42

.

La trama poliziesca si snoda in sintonia con una storia incentrata sulla ricerca di un’identità perduta, ricostruita tramite il racconto di Christopher riguardo il proprio passato. È interessante notare come, contravvenendo alle convenzioni della detective fiction, Ishiguro dia voce ad un narratore ancora una volta unreliable, che setaccia i ricordi e, gradualmente, inizia a maturare una maggiore consapevolezza su alcuni aspetti relegati troppe volte in secondo piano. Come ha spiegato l’autore a Ron Hogan, Christopher “still lives in the childhood vision of the world that’s frozen since the time that he lost his parents when he was a little boy; it’s remained arrested at that point and now it’s applied to the adult world that he encounters”

43

. Per questo motivo, lo scontro tra l’idealismo infantile e la crudeltà del mondo impedisce di ristabilire l’ordine, obbligando Christopher ad accettare l’impossibilità di un cambiamento.

I primi cinque romanzi, antecedenti alla pubblicazione di Never Let Me Go (2005)

44

, disegnano in maniera chiara la poetica di Kazuo Ishiguro: i suoi protagonisti, malgrado

42 Cynthia F. Wong, “Like Idealism Is to the Intellect: An Interview with Kazuo Ishiguro” (2001), in Conversations with Kazuo Ishiguro, cit., p. 183.

43 Ron Hogan, “Kazuo Ishiguro” (2000), in Conversations with Kazuo Ishiguro, cit., p. 159.

44 Dopo Never Let Me Go, Ishiguro ha sperimentato con il genere della short story in Nocturnes: Five Stories of Music and Nightfall (2009). Si tratta di storie concepite in chiave polifonica, al pari di un pezzo musicale scandito in cinque movimenti che, come un ciclo, si aprono e chiudono nella stessa ambientazione, in Italia. La musica, vecchia passione dell’autore, fa da collante alle storie perché, come spiega Ishiguro, “nelle canzoni si lavora in sottrazione, delegando alla musica gli aspetti emozionali. Così

(12)

16

l’apparente intenzione di comunicare i propri pensieri, si sforzano di celare aspetti e circostanze delle loro vite passate. Infatti, ogni narratore autodiegetico – da Etsuko ad Ono, da Stevens a Ryder e, infine, a Christopher – racconta una storia che maschera o distorce l’essenza del proprio vissuto.

Altri aspetti che spiccano sono la condensazione e l’attenzione rivolta alla strutturazione delle opere, che risultano stimolanti e suggestive, rivelando non solo l’interesse dell’autore nei confronti della tradizione del romanzo realista europeo, ma pure un coinvolgimento nella psicologia dei personaggi. In ogni opera, la narrazione oscilla tra passato e presente in maniera fluida e scorrendo i numerosi eventi che hanno segnato le esistenze dei protagonisti, creando un intreccio di traumi personali e prestando una particolare attenzione all’“interior landscape upon which the most compelling drama is being enacted”

45

.

nel flusso dei racconti, dove il significato respira tra le righe” (Leonetta Bentivoglio, “I Notturni di

Ishiguro: le mie storie sono canzoni” (2009),

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2009/05/19/notturni-di-ishiguro-le-mie-

storie.html [consultato in data 4/2/2016]). Nonostante il genere (la narrativa breve) differisca dal resto della sua produzione, l’Io narrante vi fa la sua comparsa veicolando una prospettiva “altra”, esplorando intrecci temporali e mnestici e decretando un allontanamento dallo sguardo cinematografico che aveva caratterizzato, a metà degli anni ’80, la scrittura ishiguriana di sceneggiature quali A Profile of Arthur J.

Mason (1984) e The Gourmet (1986). Esattamente dieci anni dopo la pubblicazione di Never Let Me Go, Ishiguro tornerà sulla scena letteraria angloamericana con il romanzo The Buried Giant, misurandosi per la prima volta con il genere fantasy e tornando a evidenziare la componente della memoria. Ambientato nel VI secolo a.C., in un’Inghilterra reduce da un sanguinoso conflitto tra britanni e sassoni, The Buried Giant ha come protagonisti Axl e Beatrice, parte di “un gruppo di persone afflitte da un male incombente sulla loro memoria e costrette a decidere se recuperarla o no” (Leonetta Bentivoglio, “Kazuo Ishiguro:

‘Racconto l’importanza della memoria con un fantasy’” (2015),

http://www.repubblica.it/cultura/2015/09/05/news/kazuo_ishiguro_racconto_l_importanza_della_memori a_con_un_fantasy_-122352184/ [consultato in data 4/2/2016]). Entrambi nutrono il desiderio di recuperare i ricordi di una vita trascorsa insieme, ma poco a poco emergono reminiscenze di passati dissapori. Questa ambivalenza si manifesta anche sul piano collettivo: “ogni comunità è selettiva con le proprie rimembranze. A volte scansarle aiuta a mantenere la pace” (ibidem). Nel testo, i vuoti di memoria collettiva provocati dall’alito avvolgente del drago Querig portano inesorabilmente la comunità a domandarsi se sia più giusto uccidere o proteggere l’animale: spesso i personaggi di Ishiguro sono divisi tra la “beatitudine” dell’ignoranza e l’agonia legata al recupero di certi aspetti del loro passato come, in questo caso, antichi massacri di innocenti che potrebbero mettere a rischio la fragile pace istituitasi tra britanni e sassoni. Secondo Nathaniel Rich, ogni romanzo di Ishiguro contiene un gigante sepolto, “a monstrous secret that is gradually exhumed, with unsettling consequences” (Nathaniel Rich, “The Book of Sorrow and Forgetting” (2015), http://www.theatlantic.com/magazine/archive/2015/03/the-book-of- sorrow-and-forgetting/384968/ [consultato in data 4/2/2016]). Tale gigante assume nel libro omonimo le valenze di una metafora universale espressa tramite la tipica tecnica basata su piccole rivelazioni che mostrano e, al tempo stesso, nascondono la realtà dei fatti. Richiamandosi a personaggi storico-letterari come il vetusto cavaliere Galvano, Ishiguro si ricollega altresì alle leggende arturiane, ambientate in un territorio (con)diviso tra gruppi etnici: ispiratosi ai conflitti in Bosnia e in Rwanda, in The Buried Giant l’autore ha cercato di dar voce a tragedie collettive in una cornice dove la presenza di orchi e folletti appare, a sua volta, reale.

45 Brian W. Shaffer, “An Interview with Kazuo Ishiguro”, in Conversations with Kazuo Ishiguro, cit., p.

162.

(13)

17

Capitolo 1

From Outer to Inner Space:

una panoramica sulla science fiction contemporanea

“You mean old books?”

“Stories written before space travel but about space travel.”

“How could there have been stories about space travel before ?”

“The writers,” Pris said, “made it up.”

Philip K. Dick, Do Androids Dream of Electric Sheep?

Un primo sguardo alla produzione di Kazuo Ishiguro lo ha ricondotto principalmente all’alveo degli autori improntati alla tradizione umanistica. Al contempo, un closer look ha finito inevitabilmente col sottolinearne la capacità di esplorare in maniera innovativa la narrativa di genere, in un viaggio trasversale across genres che abbraccia il detective novel, come accade in When We Were Orphans (2000), e la science fiction all’interno del suo attualmente penultimo romanzo, Never Let Me Go (2005).

Ciò suggerisce come le opere di Ishiguro tendano a sottrarsi ai tipici processi di categorizzazione: infatti, numerose letture critiche di Never Let Me Go, che sarà il centro dell’analisi di questa tesi, hanno sottolineato la difficoltà del definire con esattezza il genere di appartenenza dell’opera, che, secondo Barry Lewis, può essere descritta come un romanzo “that meshes the science fiction and dystopian genres”

1

. Nonostante Ishiguro cerchi costantemente di sfuggire alle classificazioni riguardanti la sua variegata produzione letteraria, la matrice di Never Let Me Go ha portato comunque a individuare una collocazione all’interno di quei sub-genres che costituiscono il vasto universo della narrativa fantascientifica.

1 Barry Lewis, “The Concertina Effect: Unfolding Kazuo Ishiguro’s Never Let Me Go”, in Sebastian Groes and Barry Lewis (eds.), Kazuo Ishiguro: New Critical Visions of the Novels, Palgrave Macmillan, London 2011, p. 200.

(14)

18

Ambientato in un’Inghilterra “alternativa” del tardo Novecento, Never Let Me Go presenta un mondo distopico in cui lo sviluppo scientifico post-bellico è andato concentrandosi sul progresso della biogenetica. In particolare, il romanzo immagina un setting in cui l’allevamento e la cura di cloni, introdotti con il fine di fornire organi ad umani malati, sono diventati ormai una pratica socialmente accettata. Dal punto di vista della science fiction, perciò, l’opera prospetta una realtà parallela che si ispira ai topoi del genere con l’obiettivo di produrre un effetto di “cognitive estrangement”

2

, una delle caratteristiche tipiche dei romanzi inerenti alla sfera fantascientifica, con un conseguente divario tra il mondo “reale” e quello finzionale. Questo aspetto accomuna numerose opere di autori contemporanei molto noti  come The Handmaid’s Tale (1985) di Margaret Atwood o The Road (2006) di Cormac McCarthy, ad esempio  che entrano virtualmente a far parte di ciò che Andy Sawyer ha chiamato outsider science fiction, “a popular term to describe those works by mainstream writers who are not adherents of the genre, but who nevertheless use science fiction motifs, settings or concepts to convey their ideas”

3

. Molti di questi autori hanno accettato, con il passare del tempo, l’accezione del termine science fiction in riferimento alle loro opere; altri, come la Atwood stessa (che preferisce parlare di “speculative fiction”) e come Ishiguro, appaiono meno entusiastici e non considerano la parentela come assolutamente imprescindibile:

These labels [science fiction] don’t worry me too much [...]. You can call it science fiction if you like, in that I’ve used a scientific framework, or landscape, in which there are scientific possibilities that don’t exist right now […]. I’ve just imagined a world where there have been breakthroughs in science that haven’t in fact taken place. I worry less about genres and categories. I use whatever I can

4

.

La science fiction è in generale un tipo di narrativa che ha come tema centrale e caratterizzante l’impatto che una metodologia scientifica o una tecnologia, attuale o immaginaria, potrebbe avere sulla società o sull’individuo:

2 Cfr. Patrick Parrinder, Science Fiction: Its Criticism and Teaching, Methuen & Co., New York 1980, p.

72. Secondo Darko Suvin (“Estrangement and Cognition”, in Metamorphoses of Science Fiction, Yale University Press, New Haven and London 1979), la struttura semantica della science fiction è alimentata esattamente da questo “straniamento cognitivo”, che, al di là delle connessioni con la scienza e la razionalità, evoca un mondo alternativo e nuovo rispetto alla realtà empirica. Inoltre, tale effetto non soltanto permetterebbe all’autore e al lettore di evadere, ma consentirebbe di gettare le basi per un’eventuale trasformazione.

3 Andy Sawyer, “Kazuo Ishiguro’s Never Let Me Go and ‘outsider science fiction’”, in Kazuo Ishiguro:

New Critical Visions of the Novels, cit., p. 237.

4 Rick Kleffel, “Interview with Kazuo Ishiguro”, Interzone, 2005, n. 198, pp. 62-63.

(15)

19

Science fiction stories are those in which some aspect of future science or high technology is so integral to the story that, if you take away the science or technology, the story collapses

5

.

Sin dai primi anni dell’Ottocento, momento in cui gli scrittori europei iniziarono a rappresentare in modo più pervasivo società del futuro e mondi alternativi, la letteratura scientifica è sempre stata dominata, da una parte, da un’utopia futuristica che vedeva nella tecnologia il mezzo necessario per combattere l’ignoranza; dall’altra, da una tradizione di “pseudoalchemical fantasy”

6

che, unita alla letteratura gotica, scorgeva negli orizzonti scientifici una sorta di piattaforma o lente in grado di sollecitare riflessioni sullo statuto etico dei singoli protagonisti.

Quando Hugo Gernsback, nel 1926, coniò la parola che avrebbe connotato il genere  prima scientifiction e, successivamente, la più facilmente pronunciabile science fiction – , si assistette ad un momento della storia letteraria in cui la fantascienza si caricò della portata di un fenomeno di massa ed acquisì, di conseguenza, uno statuto in grado di dialogare con il presente così come con una tradizione che affondava le radici in un passato talora lontanissimo. La volontà, da parte di Gernsback, di ripubblicare sulla rivista Amazing Stories

7

opere di Jules Verne, Edgar Allan Poe e H. G. Wells  considerati da lui stesso i veri precursori del genere – stabilì, di conseguenza, un rapporto di continuità tra la science fiction novecentesca e la tradizione ottocentesca del scientific romance, che consisteva in “the use of scientific (or, more often, quasi- scientific) elements in highly coloured romantic fiction”

8

. A questo filone è possibile

5 Ben Bova, The Craft of Writing Science Fiction that Sells, Writer’s Digest Books, Cincinnati 1994, p. II.

6 Istvan Csicsery-Ronay, Jr., “Science Fiction/Criticism”, in David Seed (ed.), A Companion to Science Fiction, Blackwell Publishing, Oxford 2005, p. 44.

7Cfr. Ivi, pp. 46-47. Le condizioni socio-culturali del primo trentennio del ʼ900 americano hanno favorito la fondazione della rivista Amazing Stories e la conseguente istituzione delle pulp magazines da parte di Hugo Gernsback, il quale stilò un vero e proprio manifesto della science fiction all’interno di una cultura nuova, dove l’avanzamento sociale appariva strettamente correlato alla tecnologia. Le riviste di Gernsback offrivano un impianto nutrito di ideologia liberale e basi tecnocratiche e fornivano una

“definizione guida” della scientifiction, affinché i futuri collaboratori della rivista potessero farne buon uso

:

“(It) had three functions: the narrative could provide ‘entertainment,’ the scientific information could furnish a scientific ‘education,’ and the accounts of new inventions could offer ‘inspiration’ to inventors, who might proceed to actually build the proposed invention or something similar to it. Correspondingly, there were three natural audiences for SF: the general public, seeking to be entertained; younger readers, yearning to be educated about science; and working scientists and inventors, anxious to find some stimulating new ideas”

(Gary Westfahl, “The Popular Tradition in Science Fiction Criticism, 1926-1980”, in A Companion to Science Fiction, cit., p. 47).

8 Patrick Parrinder, Science Fiction: Its Criticism and Teaching, cit., p. 4.

(16)

20

ascrivere il romanzo di Nathaniel Hawthorne The Birthmark (1843) e Frankenstein (1818) di Mary Shelley, considerata da Aldiss e Wingrove “the author whose work marks her out as the first science fiction writer”

9

. Nonostante ciò, negli anni successivi la narrativa fantascientifica americana avrebbe perso alcune delle sue marche distintive, in un processo accelerato dagli scrittori stessi, i quali non si ritenevano autori di romanzi fantascientifici in senso stretto ma, semplicemente, “just writers who occasionally happened to write scientific romance”

10

: uno tra questi fu John Wyndham, la cui opera ha fornito secondo Ian Ousby, “a bridge between traditional British scientific romance and the more varied science fiction which has replaced it”

11

.

L’entusiasmo nei confronti di questo nuovo genere condusse comunque alla pubblicazione di numerose storie nutrite di un forte interesse per le scienze umane e sociali, oltre alla parallela tendenza a mettere il lettore di fronte alle possibili ripercussioni del progresso scientifico sulla società del presente. In questo momento non si esitò ad affiancare il fascino esercitato dalla tecnologia del futuro ai possibili condizionamenti sul piano sociale, connubio che condusse a una rivisitazione del termine science fiction da parte di Robert A. Heinlein, il quale, nel 1947, optò per l’espressione realistic future-scene fiction, sottolineando il carattere “speculativo” della fantascienza stessa:

[It is a] realistic speculation about possible future events, based solidly on adequate knowledge of the real world, past and present, and on a thorough understanding of the nature and significant of the scientific method

12

.

Compare, nella definizione di Heinlein, un accenno al carattere “didattico” della science fiction, concepita all’insegna di un impegno maggiore da parte dell’autore verso logiche “predizioni” del futuro estrapolate dalle tendenze scientifiche del presente, con una messa a fuoco sui problemi sociali connessi al cambiamento tecnologico.

In un mondo in continua evoluzione, la tecnologia e le scienze forniscono una miniera di elementi ispiratori per coloro che ambiscono a comporre science fiction novels: John Campbell, fondatore della rivista Astounding e designato successore di

9 Brian Aldiss and David Wingrove, “On the Origin of Species: Mary Shelley”, in James E. Gunn and Matthew Candelaria (eds.), Speculations on Speculation: Theories of Science Fiction, The Scarecrow Press, Maryland 2005, p. 164.

10 https://en.wikipedia.org/wiki/Scientific_romance#cite_note-20 [consultato in data 23/3/2016].

11 Ian Ousby, The Cambridge Guide to Literature in English, Cambridge University Press, Avon 1993, p.

433.

12 Robert A. Heinlein, “Science Fiction: Its Nature, Faults and Virtues” (1947), in Basil Davenport (ed.), The Science Fiction Novel: Imagination and Social Criticism, , Advent, Chicago 1969, p. 22.

(17)

21

Gernsback, incentivò la cosiddetta Golden Age della fantascienza, da lui considerata un’espressione moderna di menti inventive, capaci di partorire idee per trasformare il mondo. Particolarmente affascinato dalle teorie tecnologiche e dal loro impatto potenzialmente radicale sulla società e sulla cultura, Campbell, sempre richiamandosi al motto “write me a creature that thinks as well as a man or better than a man, but not like a man”

13

, incoraggiava i giovani scrittori afferenti al genere  Isaac Asimov e lo stesso Heinlein – a costruire storie connesse a tecnologie cruciali per l’evoluzione umana (viaggi spaziali, controlli sui processi mentali, energie nucleari e avventure nell’outer space), nonostante si finisse poi, necessariamente, con l’indagare le conseguenze sociali anche negative di tali metodologie. Più di Gernsback, Campbell concepiva la science fiction come una sorta di pratica sociale e considerava gli autori dei “portatori sani” di affinità professionali con ingegneri e scienziati, l’audience più competente in relazione al genere fantascientifico e più pronta a intuire come le meraviglie tecnologiche sarebbero diventate in breve tempo parte dell’esperienza quotidiana di tutti. Nelle parole di Albert Berger:

Science is rapidly – so rapidly we can scarcely realize those dreams are coming true – ruling out one after another of the mighty wonders to be accomplished by SF heroes. They aren’t mighty wonders anymore; they’ve become the world’s daily work

14

.

Verso la fine della Seconda Guerra Mondiale, la science fiction raggiunse una dimensione tale da profetizzare le innovazioni tecnologiche e le trasformazioni sociali, mentre l’industria dell’intrattenimento fu entusiasmata dal genere. Un panorama ben più buio si spalancò invece con la Guerra Fredda, evento che inciderà su questo immaginario letterario fino agli anni ’90, con visioni distopiche di società future e numerose narrazioni di carattere post-apocalittico. In questo periodo, una nuova generazione di scrittori “dissidenti” iniziò a distaccarsi da una concezione più

“mainstream” della science fiction, potenziandone la carica eversiva, il desiderio di misurarsi con tabù come l’incesto, con le dimensioni dell’ateismo e dell’anti- imperialismo, precedentemente assenti nei testi pubblicati sulle riviste di fantascienza.

Questi scrittori si posero anche in maniera apertamente avversa alla politica della

13 Si veda Theodore Sturgeon, “Introduction”, in Arkady and Boris Strugatsky (eds.), Roadside Picnic and Tale of the Troika, Macmillan, New York 1977, p. VIII.

14 Albert I. Berger, The Magic That Works: John W. Campbell and the American Response to Technology, Borgo Press, San Bernardino 1993, p. 53.

(18)

22

Guerra Fredda, avente come perno una tecnologia di distruzione di massa e nutrita di un manicheismo semplicistico.

I componenti della New Wave  tra i quali Michael Moorcock, redattore della rivista inglese New Worlds, punto di raccolta delle tendenze più eversive della fantascienza di questo periodo, e Harlan Ellison, curatore dell’antologia Dangerous Visions  incentivarono una svolta nel genere in questione che, per la prima volta, ne marginalizzava i temi finora centrali, ovvero gli elementi dell’outer space, a favore di un approccio più marcatamente rivolto agli abissi della mente, che, in un articolo, J. G.

Ballard chiamò inner space:

I've often wondered why s-f shows so little of the experimental enthusiasm which has characterized painting, music and the cinema during the last four or five decades, particularly as these have become wholeheartly speculative, more and more concerned with the creation of new states of mind, constructing fresh symbols and languages where the old cease to be valid. […] The biggest developments of the immediate future will take place, not on the Moon or Mars, but on Earth, and it is inner space, not outer, that need to be explored. The only truly alien planet is Earth. In the past the scientific bias of s-f has been towards the physical sciences – rocketry, electronics, cybernetics – and the emphasis should switch to the biological sciences. Accuracy, that last refuge of the unimaginative, doesn't matter a hoot. […] It is that inner space-suit which is still needed, and it is up to science fiction to build it!

15

Si assiste, di conseguenza, ad un concreto cambiamento all’interno dei filoni della fantascienza: all’atteggiamento fiducioso ed ottimistico nei confronti della scienza, al trauma legato a eventi catastrofici come la bomba atomica, la Guerra Fredda, ai disagi della società dei consumi e alla paura del “diverso” – sia esso il comunista o il nero, in seguito alle lotte per i diritti civili , va subentrando un sentimento parallelo di

“angoscia” che anima la corrente New Wave, con autori che si rendono portavoce di una generale disillusione verso lo sviluppo scientifico. Negli anni ’60, più specificamente, i movimenti americani per i diritti civili e contro la guerra in Vietnam, insieme alle proteste antinucleari europee, originarono una spinta “utopica” tra le nuove generazioni, ed opere come Dune (1965) di Frank Herbert, Cat’s Cradle (1965) e Slaughterhouse Five (1969) di Kurt Vonnegut si trasformarono in cults grazie a una critica del mito del progresso e dell’etnocentrismo connesso alla cultura tecno-scientifica occidentale.

15 James G. Ballard, “Which Way To Inner Space?” (1962), in J. G. Ballard (ed.), A User’s Guide To the Millennium, Harper-Collins, London 1996, p. 197.

(19)

23

La science fiction va quindi intrecciandosi ad ampio raggio con l’episteme della società contemporanea, mostrando il suo potenziale di espressione della condizione umana e uno sviluppo di temi, come l’alienazione e il future shock, riconducibili a “real aspects of the contemporary world in which science fiction is produced and on which it reflects”

16

.

È importante ricordare nuovamente come la science fiction divenga uno strumento letterario di critica sociale affinatosi sull’onda degli sviluppi tecnologici successivi alle guerre mondiali: alcune figure di intellettuali importanti del Novecento hanno espresso opinioni chiare sul genere, in grado di rivelare “the social unconscious of the postwar world”

17

; tra queste, si registra pure Kingsley Amis, il quale, in New Maps of Hell (1961), lo descrive come “a means of dramatising social inquiry, […] a fictional mode in which cultural tendencies can be isolated and judged”

18

, individuando nella science fiction la quintessenza della distopia letteraria.

Malgrado il mancato sostegno da parte di Amis nei confronti della corrente fantascientifica New Wave, i cui effetti egli considerò “uniformly deleterious”

19

, l’impatto che essa ebbe sulla science fiction fu rilevante e segnò, secondo Isaac Asimov, l’inizio della “Second Revolution”

20

(dopo il primo periodo aureo). Se, da un lato, il lancio del satellite artificiale russo Sputnik ravvivò l’immaginario dei viaggi interspaziali, suscitando un generale entusiasmo tra le fila della “comunità fantascientifica” che coltivava il sogno della Golden Age Fantasy, dall’altro, il fallimento della missione lunare Apollo catalizzò un improvviso ritorno alla realtà, offrendo la possibilità agli affiliati della New Wave di decostruire le convenzioni tradizionali della science fiction. Come ricorda Adam Roberts in The History of Science Fiction, “what the New Wave did was to take a genre that had been, in its popular mode, more concerned with content and ‘ideas’ than form, style or aesthetics, and reconsider it under the logic of the latter three terms”

21

, aprendo la strada che dalla consolidata Hard Science Fiction – incentrata su storie caratterizzate da una particolare attenzione ai dettagli tecnici e da una marcata accuratezza scientifica , conduce alla

16 Patrick Parrinder, Science Fiction: its Criticism and Teaching, cit., p. 31.

17 Istvan Csicsery-Ronay, Jr., “Science Fiction/Criticism”, in A Companion to Science Fiction, cit., p. 51.

18 Kingsley Amis, New Maps of Hell, Gollancz, London 1961, p. 71.

19 Ivi, p. 22.

20 Isaac Asimov, “Foreword 1: The Second Revolution”, in Harlan Ellison (ed.), Dangerous Visions, Doubleday, New York 1967, p. XXXIII.

21 Adam Roberts, The History of Science Fiction, Palgrave Macmillan, Hampshire 2006, p. 231.

(20)

24

nuova Soft Science Fiction, una tendenza in cui si registra un’attitudine “more concerned with the social and political ramifications of technological developments than with the technologies themselves”

22

. Il termine comparve per la prima volta negli anni ’70, indicando una qualità della science fiction che mira ad esplorare le scienze sociali – come la psicologia, la sociologia o l’antropologia, ad esempio , con uno sviluppo registrato a partire dal decennio successivo alla fine del secondo conflitto mondiale, quando autori come Ray Bradbury e Alfred Bester si staccarono per primi dalla tradizione della hard science fiction e “[took] extrapolation explicitly inward”

23

, anticipando l’immergersi nei meandri della psicologia sperimentale attuato da Ballard:

I’d like to see more psycho-literary ideas, more meta-biological and meta-chemical concepts, private time-systems, synthetic psychologies and space-times, more of the somber half-worlds one glimpses in the paintings of schizophrenics, all in all a complete speculative poetry and fantasy of science

24

.

L’obiettivo prefissato, perciò, era quello di aggiornare il corpus di temi informanti il genere e, al tempo stesso, migliorare la qualità letteraria attraverso un dialogo con il cinema e la musica, che, connotandosi sempre più di toni “speculativi”, si andavano concentrando maggiormente sulla messa a fuoco di nuovi stati mentali. Secondo l’avanguardia New Wave era necessario “svecchiare” il genere dalle passate influenze della pulp-fiction, così come dalle sue trame e forme narrative ormai banali, all’insegna di un processo di “rinnovamento” che lo rendesse più moderno e prevalentemente incentrato sulla condizione umana. Durante gli anni della counterculture revolution occidentale, che vide le nuove generazioni rifiutare il sistema ideologico valoriale dei padri e volgere lo sguardo verso forme di espressione alternative, la science fiction andò incontro ad una metamorfosi e, nel 1963, Michael Moorcock ne sottolineò gli aspetti che dovevano essere sviluppati:

Let’s have a quick look at what a lot of science fiction lacks. Briefly, these are some of the qualities I miss on the whole

 passion, subtlety, irony, original

characterization, original and good style, a sense of involvement in human affairs, colour, density, depth and, on the whole, real feeling from the writer […] adult writers are beginning to write adult stories and […] the day of the boy-author

22 M. Keith Booker and Anne-Marie Thomas, The Science Fiction Handbook, Wiley-Blackwell, Malden 2009, p. 9.

23 Carol McGuirk, “The ‘New’ Romancers”, in George E. Slusser and Tom A. Shippey (eds.), Fiction 2000: Cyberpunk and the Future of Narrative, University of Georgia Press, Georgia 1992, p. 115.

24 James G. Ballard, “Which Way To Inner Space?” (1962), in A Companion to Science Fiction, cit. p.

208.

(21)

25

writing boys’ stories got up to look like grown-ups’ stories will soon be over once and for all

25

.

All’interno di questa nuova ondata di fantascienza soft o sociologica, accompagnata da forti polemiche che lamentavano la “morte” della science fiction, decretata dai percorsi soggettivi della soft sci-fi, si inserirono autori del calibro di Ursula K. Le Guin e Philip K. Dick, capaci di sfruttare la flessibilità del genere per esplorare la dimensione sociale e la psicologia dell’individuo.

Oltre all’interesse per l’antropologia culturale, trasmessole dal padre Alfred Kroeber, antropologo di fama internazionale dal quale “she acquired the ‘anthropological attitude’ necessary for the observation of another culture – or for her, the invention of another culture”

26

, nel caso di Ursula Kroeber Le Guin (1929) occorre tener presente il pensiero femminista, al quale l’autrice ha dato voce dopo che, nel 1967, “[she] began to want to define and understand the meaning of sexuality and the meaning of gender, in my life and in our society”

27

.

Nonostante la science fiction fosse un campo principalmente dominato da autori di sesso maschile e rivolto a un’audience dello stesso genere, molte scrittrici – come Joanna Russ, dichiaratamente omosessuale ed autrice di Picnic on Paradise (1968)  fecero la loro comparsa sulla scena in un’epoca che vide anche il diffondersi di una filosofia femminista più matura che, al di là della gender equality, si proponeva di indagare il ruolo sociale della donna e altri aspetti dell’identità femminile. Grazie alla sua esplorazione di mondi alternativi, la science fiction si configurava come un mezzo di espressione ideale per le femministe “who wanted to examine different possibilities through worlds of alternate gender formations, alternate sexualities, and, in the end, alternate lifestyles”

28

.

Il pensiero femminista, nel suo tentativo di combattere le discriminazioni di genere,

“posits a gender-free alternative world that does not now exist but which is possible

25 Michael Moorcock, “Guest Editorial” (1963), in Edward James (ed.), Science Fiction in the 20th Century, Oxford University Press, Oxford 1994, p. 168.

26 Warren G. Rochelle, “Ursula K. Le Guin”, in A Companion to Science Fiction, cit., p. 410.

27 Ursula Le Guin, “Is Gender Necessary?”, in Ursula Le Guin and Susan Wood (eds.), The Language of the Night: Essays on Fantasy and Science Fiction, G. P. Putnam’s Sons, New York 1980, p. 161.

28Ibidem.

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