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(1)1 1- INTRODUZIONE (2)2 1.1 - L’apicoltura nella storia L‟Apis mellifera è comparsa sulla Terra circa un milione di anni prima dell‟uomo

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1- INTRODUZIONE

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2 1.1 - L’apicoltura nella storia

L‟Apis mellifera è comparsa sulla Terra circa un milione di anni prima dell‟uomo. In Italia, il più antico ritrovamento fossile di una presunta ape è stato rinvenuto a S. Marina di Pesaro e risale al Miocene (Mazzone, Persano Oddo, 2002). I primi documenti di un effettivo rapporto fra l‟uomo e l‟insetto risalgono a circa 15.000 anni fa, come appare nelle pitture murali rinvenute nella “Cueva de la Araña” (Grotta del Ragno), situata presso Valencia in Spagna (Pinzauti, 2000).

All‟inizio si trattò certamente di una forma di sfruttamento degli sciami rinvenuti in natura piuttosto che di una vera e propria forma di allevamento. L‟apicoltura, intesa come l‟arte di allevare le api per trarne dei prodotti utili all‟uomo, ebbe inizio molti secoli dopo, quando si scoprì che gli sciami naturali accettavano di insediarsi in contenitori (arnie) appositamente predisposti allo scopo (Contessi, 1983).

L‟arnia non ebbe un‟unica origine, ma la sua evoluzione fu differente nelle varie zone di allevamento delle api. I primi apiari furono probabilmente costituiti da bugni villici, cioè tronchi cavi all‟interno dei quali le api avevano fatto il nido (Barbier, 1986), si passò poi all‟uso di strutture in sughero, ceste di paglia impermeabilizzate con la creta, vasi di terracotta, strutture tubolari in argilla ed altro (Crane, 1982).

Gli antichi Egizi sono stati i primi a lasciarci testimonianze inequivocabili di un‟apicoltura sviluppata. Sembra che lo sfruttamento domestico delle api nell‟Antico Egitto fosse in atto già dal 5000 a.C. (Apis mellifera fasciata) e gli stessi Egiziani sarebbero stati i primi a praticare una forma di nomadismo trasportando con le barche le loro arnie lungo il Nilo per seguire le fioriture (Pinzauti, 2000).

Presso questo popolo l‟Apis mellifera aveva anche un forte valore simbolico. Il mito del dio Ra e del suo occhio la fanno originare dalla disperazione della più importante divinità del pantheon egizio: sono le lacrime di Ra che, piangendo per la morte di Osiride, si mutano in ape: “Ra pianse di nuovo e l‟acqua del suo occhio cadde a terra e si mutò in ape. Appena creata l‟ape cominciò la sua opera nei fiori di tutti gli alberi e così produsse la cera mentre il miele veniva dalla sua acqua” (Süsstrunk-Meier, 2008).

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3 Figura 1: Apicoltore egizio che preleva il miele. Dipinto proveniente dalla tomba di Pabusa a Luxor (600 a.C.) (www.casaparrina.it/images/egitto.jpg).

Dalla prima dinastia faraonica (3200-2780) fino al periodo romano, i titoli dei re dell‟Egitto erano sempre associati al simbolo dell‟ape: infatti il “cartiglio” contenente il nome del re era preceduto dall‟icona di un‟ape, emblema di sovranità e di comando. L‟ape, stilizzata, era rappresentata in diverse tombe e sulle statue, essendo il simbolo stesso del re del Basso Egitto fino al 3200 a.C., e dal 3100 a.C. il profilo dell'ape operaia venne utilizzato nei geroglifici come simbolo topografico dell'Antico Egitto (D‟Amicone, 1982).

Le api erano conosciute anche nell‟antica Cina, in Palestina e nel mondo classico. Risale al 300 a.C. la “Storia naturale degli animali” di Aristotele in cui ci fornisce i primi dati sulla morfologia e le prime osservazioni sulla biologia delle api (Pinzauti, 2000).

Descrive la conformazione esterna del corpo, le cestelle delle zampe posteriori e la loro funzione nella raccolta del polline, la struttura della ligula, mentre rimangono incerte le nozioni sull‟anatomia interna e sulla riproduzione (sosteneva infatti l‟opinione assai diffusa che le api nascessero dai cadaveri dei giovenchi, secondo il mito di Aristeo, anche se già aveva supposto la possibilità di una riproduzione per partenogenesi anticipando così di 2000 anni gli studi di Dzierzon - 1815). Circa la composizione della famiglia Aristotele aveva già individuato le tre caste chiamando “re” la femmina fertile (la regina) e anche sull‟origine del miele esprimeva opinioni molto vicine alla realtà sostenendo che le api lo raccolgano sui fiori (mentre era opinione diffusa che la sostanza provenisse dal cielo), indicava inoltre la propoli come sostanza resinosa raccolta dalle api su talune piante (Pinzauti, 2000).

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4 Le osservazioni di Aristotele costituiranno per molto tempo l‟unica fonte attendibile d‟informazione apistica (Pinzauti, 2000).

È da notare che in quell‟epoca i Greci avessero già iniziato a usare delle arnie che potremmo definire le antesignane delle nostre moderne arnie a favi mobili. Ponendo i cesti rovesciati verso l'alto con una serie di legnetti ed una copertura di pietra o di corteccia si accorsero che i favi venivano spesso costruiti dalle api appesi ai legni mobili posti superiormente e la sfasatura delle pareti, analoga a quella naturale dei favi, non provocava la saldatura alle pareti tipica altrimenti dei bugni villici (Ruttner, 1980). Un altro tipo di arnia sicuramente diffuso nell‟età classica fu quello costituito da quattro assi poste a formare un parallelepipedo vagamente piramidale con un imbocco leggermente più piccolo rispetto alla parte terminale, quest'ultima veniva chiusa da uno sportellino removibile (Marchenay, 1979, a).

Dal periodo classico sono giunte fino a noi numerose testimonianze letterarie di apicoltura. In particolare era dedicato interamente a questo argomento il quarto libro delle Georgiche scritto da Virgilio nel 37 a.C., di cui risulta particolarmente interessante la prima parte in cui tratta la natura e l‟allevamento delle api: l‟alveare, gli sciami, le abitudini delle api, la protezione (Manino, 1982).

Delle api parla anche Plinio il Vecchio nel libro della Naturalis Historia (23-79 d.C.), dedicato in gran parte alla descrizione delle caratteristiche degli insetti, affermando proprio che a queste spetta una speciale ammirazione, dal momento che, uniche tra gli altri insetti, sono genitis hominum causa, create apposta per l‟uomo, meraviglia incomparabile prodotta dalla natura, alla cui razionalità, specialmente se paragonata alle piccole dimensioni, non potrebbe essere paragonata quella di nessun uomo, proprio perché non conoscono altro se non l‟interesse comune, nihil novere nisi commune (XI,11-12) (Adam, 1985).

Con la scomparsa delle grandi civiltà antiche e la caduta dell'impero romano, l'apicoltura praticata dai ricchi proprietari cessò e nel medioevo l'attività apistica fu praticata dai monaci nei conventi per ricavare il prezioso miele e la cera vergine che serviva per il culto (Barbattini, Fugazza, 2008).

Di questo periodo abbiamo numerose testimonianze di apicoltura: sono frequenti le raffigurazioni ritrovate nei Bestiari e negli Exultet fra il X e il XIV secolo (soprattutto provenienti dall‟Italia meridionale) (Camerini, 1998).

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5 Figura 2: Exultet, secolo XI, realizzato a Bari (Archivio del Capitolo Metropolitano di Bari) (www.cartantica.it/content/Api/exultet7.jpg).

Un Exultet risalente alla fine dell‟XI secolo (fatto a Bari e conservato presso l‟Archivio del Capitolo Metropolitano) riporta una vivace e realistica scena di apicoltura di quei tempi. Vi si vede un uomo che avanza ricurvo sotto il peso di un alveare pieno di api; nella mano destra tiene un legno con il quale ha probabilmente appena scosso i rami dell‟albero alle sue spalle per recuperare uno sciame. Sulla destra si vede un altro apicoltore che a sua volta sta scrollando la chioma della medesima pianta provocando la caduta dello sciame in un‟arnia che egli regge.

Sulla sinistra c‟è un terzo personaggio che con un coltello intaglia un tronco per ricavare un„arnia (Barbattini, Fugazza, 2008).

Il simbolismo cristiano di cui sono caricati questi testi non cessa di mettere in parallelo la vita delle api con quella dei santi, la regina con Dio e la dolcezza del miele con quella delle letture spirituali. Tutto questo non apporta praticamente niente alla conoscenza scientifica e si allontana molto dalle idee di Aristotele (Marchenay, 1979, a).

Con il Rinascimento si registrò in tutta Europa una ripresa degli studi sulla biologia dell‟ape e l‟invenzione del microscopio dette un contributo fondamentale allo sviluppo delle conoscenze in questo campo, consentendo descrizioni morfologiche e anatomiche sempre più precise e favorendo una sempre più corretta interpretazione della funzione dei vari organi dell‟ape (Pinzauti, 2000).

L‟ape regina fu descritta per la prima volta come femmina ovificatrice da Luis Mendez de Torres in una memoria pubblicata in Spagna nel 1586 (Mazzone, Persano Oddo, 2002).

Nell‟Apiarium di Federico Cesi e Francesco Stelluti, pubblicato a Roma nel 1625, si trovano le

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6 prime descrizioni precise sulla reale morfologia dell‟insetto. Reaumur (1740) getta le basi fondamentali della moderna apidologia sia nel campo dell‟anatomia che in quello dei comportamenti sociali: studia la struttura geometrica delle celle, la regolazione termica, i nemici delle api e altro. Le ricerche di Reamur verranno riprese da Huber (1802, 1814) che, impiegando originali arnie a libro (che consistevano in un certo numero di telai, uniti fra loro a cerniera ad un estremo, come le pagine di un libro, entro i quali le api costruivano i loro favi) effettuò delle precise osservazioni sulla vita di questo prezioso insetto (Pinzauti, 2000).

Nel 1845 Dzierzon pubblicò il suo sistema di apicoltura razionale a favo mobile e descrisse la partenogenesi delle api, consentendo di chiarire, in modo definitivo, l‟origine e la funzione di regina, fuchi ed operaie. In un primo tempo, egli usò un‟arnia aperta sia superiormente che inferiormente ed adoperò superficialmente dei listelli portafavi come nell‟arnia greca, ma, siccome difficilmente poteva estrarre i favi, ideò l‟apertura posteriore rendendo fisso il soffitto ed il fondo e facendo poggiare i listelli portafavo su due regoli (Pasini, Falda, 2003).

Nel 1851 Langstroth scoprì che i favi potevano essere incorniciati in telai mobili, rendendo così possibile la loro estrazione e la loro manipolazione e permettendo tutte quelle pratiche che oggi sono alla base della moderna apicoltura. Egli si servì dell‟arnia fornita di portafavi e di un basso melario, descritta da Bevan, e la migliorò approfondendo i solchi su cui appoggiavano, lasciando circa 9,5 mm fra soffitta e portafavi (cosiddetto spazio d‟ape), distanza esistente fra i favi nei nidi naturali, necessaria per evitare costruzioni supplementari di cera, rendendo i favi più facilmente estraibili. L‟alveare a telaino mobile entrò nell‟uso comune negli Stati Uniti già nel 1861, e venne poi introdotto in Inghilterra nel 1862 e successivamente grazie anche agli scritti di Charles Dadant (1869) si diffuse nel resto di Europa (Marletto, 1982).

L‟arnia di Langstroth diventava, così, quella di “tipo americano”. A questa era possibile aggiungere diversi corpi, per l'allevamento della covata o per l'immagazzinamento del miele. A differenza dell'arnia di antica concezione, la nuova struttura era costituita da un modulo base contenente favi mobili e un sistema modulare di melari, contenenti favetti, sempre mobili, per il periodo di raccolto (Guedes, Falda, Pasini, 2002). Nel frattempo in Europa il barone tedesco Berlepsch, modificando un‟arnia a listelli di Dzierzon, ideò, all‟insaputa dell‟invenzione di Langstroth, il telaino chiuso che lasciava, come quello di Langstroth, uno spazio tra l‟intelaiatura e la parete, ma questa volta di 7 mm. L‟arnia di Berlepsch diventava l‟arnia “di tipo tedesco” o a soffitta fissa (Alphandery, 1935).

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7 Quella che per prima venne introdotta e divulgata in Italia fu proprio quest‟ultima, che gli apicoltori sottoposero a numerosi adattamenti e migliorie: prese così origine una nutrita serie di modelli, tra i quali prevalsero ben presto le arnie “Sartori”, le più diffuse, che erano costituite da una cassa verticale nelle quali venivano appoggiati 3 ordini sovrapposti di 10 telaini ciascuno, 2 per la covata e 1 per il melario. L'arnia era apribile posteriormente per mezzo di uno sportello mobile su piccoli cardini, sulla parete anteriore dell'arnia si trovavano 3 porticine per l'uscita delle api: le prime 2 erano disposte, l'una accanto all'altra, appena sopra al fondo, la terza si trovava in corrispondenza della base del melario. L'arnia “Fumagalli”, più piccola, era caratterizzata dal fatto di avere i telai del nido uguali a quelli del melario. Notevole fu l'opera di divulgazione dell‟“Associazione Centrale di Incoraggiamento per l‟Apicoltura in Italia”, fondata a Milano nel 1867 e che, nel 1868, diede vita al primo periodico apistico “L‟apicoltore”, dalle cui pagine vennero attivamente promossi i principi teorici e pratici dell‟apicoltura moderna. Le arnie “Sartori” e Fumagalli” costituirono le basi dell‟apicoltura razionale italiana fino agli inizi del 1900, quando cedettero gradualmente il passo alle arnie di tipo americano (Mazzone, Persano Oddo, 2002).

A partire dall‟arnia Langstroth si svilupparono anche altri tipi di arnie: Quimby aumentò le dimensioni dei telaini e ne portò il distanziamento a 38 mm (Alphandery, 1935); Dadant ridusse l‟altezza del melario a circa la metà (Bailo, 1980).

L‟uso dei telaini mobili portò direttamente all‟invenzione di fogli cerei nel 1857, da parte di Mehring, il quale riuscì a fare dei fogli di cera faccettati incidendo i fondi delle cellette su tavolette di legno. Ciò faceva risparmiare cera e dava la certezza che le api avrebbero costruito favi regolari. Risale infine al 1865 l‟invenzione dello smielatore a opera del maggiore austriaco Hruschka: egli ebbe l‟idea di estrarre il miele dai favi, senza ricorrere all‟apicidio, applicando una forza centrifuga. Il perfezionamento dell‟escludi-regina da parte dell‟abate francese Collin permise all‟apicoltore di tenere la regina e quindi la covata fuori dal melario. Infine per mezzo dell‟apiscampo, costruito da Porter negli stati Uniti nel 1891, divenne possibile liberare il melario dalle api prima di togliere i telaini carichi di miele (Mazzone, Persano Oddo, 2002).

Al 1901 risale la pubblicazione dell‟opera “La vita della api” di Maeterlinck, primo trattato moderno di apicoltura. Infine estremamente importante e fondamentale per allargare le conoscenze sull‟ape è risultata tutta l‟opera di Karl von Frisch che dopo attente osservazioni e diversi esperimenti ha capito e decifrato il linguaggio delle api (1967) (Ravazzi, 1994).

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8 1.2 - L’apicoltura nel mondo, in Europa e in Italia

L‟apicoltura è praticata in tutto il mondo ad eccezione dei due poli. Quale risultato di una millenaria attività e delle differenti condizioni ambientali e sociali in ogni area si presenta con proprie caratteristiche. Nello stesso tempo l‟apicoltura assume un‟importanza e significati diversi in relazione a chi la esercita. Pur essendo finalizzata alla produzione di miele, gelatina reale, polline, propoli e altri prodotti pregiati, nei paesi ad agricoltura più evoluta o intensiva l‟apicoltura ha finito per essere molto più importante per l‟apporto che fornisce con l‟impollinazione delle colture agricole (Nardi, 1991).

Agli inizi degli anni ‟70 l‟IBRA (International Bee Research Association) stimava in oltre 50 milioni il numero di alveari nel mondo. La presenza di alveari era maggiormente concentrata in Europa, con una densità di circa 2,8 alveari per km2, un valore ben 7 volte superiore alla media mondiale. Il numero di apicoltori nel mondo in quegli anni veniva valutato sui 6,5 milioni con un numero di colonie per apicoltore orientativamente pari a 8 (Nardi, 1991). Grazie soprattutto ai paesi in via di sviluppo per tutti gli anni ‟70 si ebbe un primo importante trend positivo della produzione mondiale di miele. Al termine di tale decennio, infatti, i volumi prodotti superarono il milione di tonnellate. Allo stesso tempo si espanse anche il commercio mondiale del miele: le quantità trattate salirono dalle 115.000 tonnellate del 1970 alle 200.000 tonnellate del 1979.

Soltanto nella seconda parte degli anni ‟80 intervenne una nuova e marcata ripresa dei ritmi produttivi e i volumi realizzati a fine decennio sfiorarono 1,2 milioni di tonnellate. Più costante nel tempo fu invece il tasso di espansione del commercio internazionale, che infatti nel 1986 interessò circa 290.000 tonnellate (Salvini, 1998). Dall‟analisi dei dati relativi agli ultimi anni si evidenzia una costante crescita della produzione mondiale di miele che, secondo la FAO, nel 2003 è risultata pari a 1,3 milioni di tonnellate (Bertazzoli, 2004).

In tale contesto la produzione europea risulta sostanzialmente statica, avendo fatto registrare negli ultimi dieci anni un tasso di crescita medio annuo tendenzialmente inferiore all‟uno per mille (Bertazzoli, 2004). Nella Cee a 12 a metà degli anni 80 erano presenti, secondo stime di fonte Copa/Cogeca, 6,8 milioni di alveari in mano a poco più di 450.000 apicoltori e capaci di produrre all‟incirca 80.000 tonnellate di miele. E‟ difficile valutare quale fosse tra questi la percentuale di apicoltori professionisti ma può essere ragionevolmente stimata intorno all‟1%, e si può attribuire loro circa il 50% della produzione di miele effettivamente immessa sul mercato.

Secondo dati riferiti al 1987, in quegli anni il tasso di auto approvvigionamento nella Cee a 12

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9 era del 39%, con situazioni comunque molto diverse nei diversi paesi membri: l‟8-10% per Olanda e Regno Unito, 20% per la Germania occidentale, 75% per la Francia e 86% per la Spagna, solo Grecia e Portogallo risultavano autosufficienti. Per l‟Italia la produzione interna copriva a malapena la metà dei consumi (Nardi, 1991). Le importazioni europee provenivano in massima parte da paesi in cui la produzione di miele era ottenuta con costi assai inferiori grazie ad una abbondante manodopera, a condizioni pedoclimatiche favorevoli, ad una larga disponibilità di terreni e di vegetazione adatti, alla presenza di un‟agricoltura che meno si avvaleva dell‟uso di sostanze chimiche e quindi potenzialmente in grado di garantire una maggiore salubrità del prodotto. Tuttavia a quanto risulta questa potenziale salubrità in alcune aree geografiche era messa in discussione dai processi produttivi realmente adottati, non tanto nella fase strettamente produttiva del miele, quanto piuttosto nelle successive operazioni che vanno dalla smielatura alla lavorazione e conservazione del miele (Salvini, 1998).

Secondo quanto riportato nella Seconda Relazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento Europeo (23 Gennaio 2004) attualmente l‟Asia si confermerebbe come principale regione di produzione del miele a livello mondiale, seguita dall‟Europa e dall‟America settentrionale. La Cina sarebbe il primo esportatore mondiale mentre l‟Unione Europea si colloca al primo posto per le importazioni. Secondo le statistiche pubblicate dalla FAO nel 2002 la produzione mondiale di miele ha raggiunto 1.268.000 tonnellate, con un aumento del 6,8%

nel periodo che va dal 1998 al 2002. Nel 2002 l‟Unione Europea è stata, con le sue 112.000 tonnellate, il terzo produttore mondiale, dopo la Cina (258.000 tonnellate) e la Comunità di Stati Indipendenti (136.000 tonnellate). Tra gli altri principali produttori a livello mondiale figurano gli Stati Uniti (100.000 tonnellate) e l‟Argentina (85.000 tonnellate).

Nel 2001 le esportazioni mondiali di miele hanno raggiunto 360.000 tonnellate. In quell‟anno la Cina ha esportato circa il 41% del prodotto nazionale, pari al 30% di tutti gli scambi a livello mondiale. I principali mercati di destinazione delle esportazioni cinesi di miele sono Giappone, Stati Uniti e Germania. Tuttavia le restrizioni sanitarie imposte al miele cinese a seguito della scoperta di sostanze vietate nei prodotti di origine animale provenienti dalla Cina e la minore produzione delle ultime annate hanno contribuito alle variazioni nei flussi delle esportazioni mondiali.

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Grafico 1

Il principale mercato d‟importazione è l‟Unione Europea (nel 1998 pari al 44% delle importazioni mondiali). La Germania (con 92.000 tonnellate) e il Regno Unito (con 23.000 tonnellate) nel 2001 hanno totalizzato quasi il 75% del miele importato dall‟Unione Europea.

I tre principali produttori di miele dell‟Unione Europea sono la Spagna, la Germania e la Francia, rispettivamente con 33.000, 26.000 e 25.000 tonnellate nel 2001/02.

Tra il 1998 e il 2002 l‟Argentina è diventata il primo fornitore di miele dell‟Unione Europea con il 36% delle importazioni totali comunitarie nel 2002, mentre la Cina è scesa al quarto posto con il 9%, dietro al Messico (12%) e all‟Ungheria (10%).

Le esportazioni comunitarie ammontano a circa 8.000 tonnellate e rappresentano circa il 6%

della produzione nel 2002.

Secondo i dati forniti dagli stati membri in Europa nel 2003 il numero complessivo di apicoltori era pari a 470.000, di cui 15.270 apicoltori professionisti. Nel periodo 1999-2003 il numero di alveari è aumentato del 2,5%, raggiungendo un totale di 8.877.209 alveari. Gli apicoltori professionisti conducono più di 3.880.000 alveari pari al 43,7% del totale degli alveari europei.

Gli Stati membri in cui nel 2003 era presente il maggior numero di alveari sono stati Spagna, Grecia e Portogallo (in questi paesi è stato censito il 74% di alveari di apicoltori professionisti dell‟Unione Europea) (dalla Seconda Relazione della Commissione al Consiglio e Parlamento Europeo, Bruxelles 23-1-2004).

0 3 6 9 12 15 18 21

Cina Russia Unione Europea USA Argentina Messico Turchia Ucraina India Canada Australia Brasile Ungheria Altri

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Produzione di miele nel 2002: stima della produzione percentuale nei singoli paesi (dati FAO)

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11 Per quanto riguarda l‟Italia, nel nostro paese l‟apicoltura ha lunghe e gloriose tradizioni avendo sempre, anche nel lontano passato, contribuito al suo sviluppo tecnologico e al raggiungimento di importanti traguardi spesso di livello internazionale. Dopo le distruzioni della guerra che dimezzarono gli allevamenti, la ricostruzione del patrimonio è stata resa lenta e difficile da una serie di fattori concomitanti: l‟esodo dalla terra, la progressiva meccanizzazione e intensivazione dell‟agricoltura, l‟uso di pesticidi, o prezzi notevolmente bassi del miele (Cirone, 1987).

Negli anni che vanno dal 1968 al 1971 la produzione si aggirava intorno ai 72.000 quintali annui, media nettamente inferiore a quella del periodo precedente la guerra. Soltanto a partire dagli anni ‟70 si manifestò una presenza relativamente più importante dell‟apicoltura, che coincise con un crescente interesse dei consumatori, non soltanto italiani, verso il miele, con un mercato internazionale più attivo, con una politica comunitaria che fornì degli incentivi finanziari. Nonostante ciò nella seconda metà degli anni ‟70, secondo la Federazione Apicoltori Italiana (FAI) la produzione italiana di miele sarebbe oscillata fra i 65 e i 75.000 quintali (Salvini, 1998).

All‟inizio degli anni ‟80 l‟apicoltura italiana venne messa in difficoltà dalla diffusione di un acaro parassita, Varroa destructor (all‟epoca definito come Varroa jacobsoni). Segnalato in Italia per la prima volta nel 1981, già nel 1986 era presente in tutti gli alveari italiani causando perdite stimabili nel 40-50% del patrimonio allevato. Apparvero subito evidenti le difficoltà di controllo della parassitosi, la cui eradicazione è tuttora impossibile, ma le maggiori conoscenze sulla biologia dell‟acaro e l‟introduzione di acaricidi di semplice utilizzo consentirono, negli anni successivi, una convivenza meno problematica fra l‟ape e il suo parassita (Lombardi, 2000).

Purtroppo tale situazione di relativa tranquillità non durò a lungo: la diffusione di ceppi di Varroa destructor resistenti al più diffuso ed efficace acaricida, il piretroide fluvalinate, unita ad un abbassamento della soglia di danno, dovuta forse alla maggior diffusione di virus patogeni veicolati dallo stesso acaro, ha causato una recrudescenza della parassitosi. Negli anni 1993 e 1994 nuove ed estese morie colpivano gli alveari e, a differenza delle prime perdite che coinvolgevano soprattutto i piccoli e meno preparati allevatori, ora non venivano risparmiati neppure professionisti affermati ed esperti (Lombardi, 2000). Nonostante tutto ciò la ripresa dell‟apicoltura italiana proseguì anche negli anni ‟90, tanto che la produzione di miele raggiunse nel triennio compreso fra il 1992 e il 1994 i 123.000 quintali all‟anno (Salvini, 1998).

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12 Agli inizi del 2000 gli alveari in produzione venivano stimati dalla Federazione Apicoltori Italiani in un numero molto vicino al milione, posseduti da 75.000 apicoltori e la produzione di miele in quegli anni era stimata in 9.000-10.000 tonnellate dall‟Osservatorio nazionale sulla produzione e il mercato del miele (Lombardi, 2000). Tale valore si è mantenuto pressoché costante negli anni seguenti, facendo eccezione per gli anni 2002-2003 in cui si è registrato un forte calo nella produzione (Bertazzoli, 2004).

Negli anni 2005-2006 l‟osservatorio nazionale della produzione e del mercato del miele aveva fatto una stima degli alveari presenti in Italia secondo cui sarebbero stati 1.157.385 distribuiti su un totale di 50.000 apicoltori (di cui solo una piccola parte, circa 7.500, professionisti) e la produzione di miele si sarebbe aggirata intorno alle 14.000 tonnellate (dati riportati nel Rapporto Annuale 2006 dell‟Osservatorio Nazionale della produzione e del mercato del miele).

Questi risultati però non hanno avuto una conferma negli anni successivi 2007 e 2008.

Grafico 2

In particolare la produzione di miele nel 2007 è stata stimata intorno alle 10.000 tonnellate. A penalizzare la produzione sarebbero stati i gravi danni, specie nel Nord e in alcune aree dell‟Italia centrale, causati dai trattamenti insetticidi con la concia delle sementi ed anche per irrorazione su vigneti e colture (come mais e girasole), che hanno causato importanti fenomeni di spopolamento delle famiglie d‟api.

0 2 4 6 8 10 12 14 16

Lombardia EmiliaRom Piemonte Toscana Sicilia Lazio Calabria Veneto Campania Basilicata Abruzzo Bolzano Marche Umbria Sardegna Friuli Liguria Trento Puglia Molise Valled’Aosta

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Produzione di miele nel 2006 in Italia (percentuale di produzione nelle singole regioni)

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13 L‟andamento meteorologico poi, alquanto irregolare, ha causato prima l‟anticipo e la concentrazione delle fioriture in un limitato periodo di tempo, riducendo i giorni favorevoli alla raccolta di nettare, per poi addirittura arrivare al blocco pressoché totale delle varie produzioni (in luglio), a causa della siccità (dati riportati nel Rapporto Annuale 2007 dell‟Osservatorio Nazionale della produzione e del mercato del miele).

La produzione di miele nel 2008 è stata molto scarsa, stimabile intorno alle 7.000 tonnellate, inferiore di circa il 50% rispetto a quella media. Le cause sono state l‟elevata mortalità invernale delle famiglie, i successivi diffusi fenomeni di avvelenamento e il conseguente spopolamento degli alveari che hanno fortemente ridotto il patrimonio apistico italiano. Con una buona approssimazione si può stimare che poco più della metà degli alveari italiani abbiano prodotto (cioè 600.000 su 1.100.000 mediamente stimati in produzione). I restanti o sono stati persi per i problemi suddetti, oppure le famiglie di api sono risultate talmente deboli e poco sviluppate da non riuscire a produrre miele. A questa situazione si aggiungono le avversità metereologiche che hanno limitato fortemente il raccolto fino ad annullarlo per alcuni mieli e in alcune aree. Il calo produttivo nel complesso è stato evidentissimo (dati riportati nel Rapporto Annuale 2008 dell‟Osservatorio Nazionale della produzione e del mercato del miele).

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2- L‟APIS MELLIFERA L.

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15 2.1 - Sistematica delle api

Phylum: Arthropoda;

Classe: Insecta;

Ordine: Hymenoptera;

Sottordine: Apocrita;

Sezione: Aculeata;

Superfamiglia: Apoidea;

Famiglia: Apidae;

Sottofamiglia: Apinae;

Tribù: Apini;

Genere: Apis;

Specie: A. mellifera.

(Carpana, 2003)

L‟Apis mellifera è nativa in Europa, Africa e Asia occidentale. La diffusione in America, Australia e Nuova Zelanda è invece avvenuta in tempi recenti ad opera dell‟uomo. Le altre specie (A. andreniformis, A. dorsata, A. florea, A. laboriosa, A. koschevnikovi, A. nigrocinta, A.

nuluensis) vivono esclusivamente in Asia, nella parte meridionale del continente, avendo un habitat prevalentemente tropicale. Solo A. cerana estende il suo territorio anche verso il Nord, occupando gli ambienti temperati dell‟Asia centrale e orientale (Carpana, 2003).

Razze di maggiore importanza economica

1. Apis mellifera ligustica o ape italiana: è originaria del Nord dell‟Italia (Liguria, Piemonte) (Contessi, 1983) e si distingue dalle altre api europee per la pigmentazione gialla dei tergiti addominali (2°, 3° e 4°) e dello scutello (Carpana, 2003). Si tratta di una razza particolarmente operosa, molto docile, poco portata alla sciamatura, con regine precoci e prolifiche (Contessi, 1983).

2. Apis mellifera mellifera o ape nera: è originaria dell‟Europa nord-orientale e oggi è diffusa dalla Spagna alla Siberia. E‟ leggermente più grande della ligustica e ha il corpo completamente scuro; è caratterizzata dalla buona capacità di svernare in condizioni climatiche avverse (Contessi, 1983).

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16 3. Apis mellifera carnica: originaria delle Alpi austriache e dei Balcani settentrionali. Di

aspetto simile alla ligustica ma la fitta peluria le conferisce una colorazione grigiastra.

4. Apis mellifera caucasica: è un‟ape originaria delle alte vallate del Caucaso centrale molto simile nell‟aspetto all‟ape carnica (Contessi, 1983).

5. Apis mellifera adansonii o ape africana: è originaria dell‟Africa centro-occidentale, ottima produttrice di miele e di cera ma estremamente aggressiva, sciamatrice e particolarmente incline al saccheggio (Contessi, 1983).

Razze allevate in Italia

Tra le numerose razze di Apis mellifera la più diffusa in Italia è la ligustica che viene allevata in tutto il territorio nazionale (Contessi, 1983). La sua presenza in Sicilia è dovuta alle importazioni dal continente che, particolarmente intense negli ultimi 30 anni, hanno determinato la formazione di ibridi con la razza locale Apis mellifera sicula (Carpana, 2003). Oltre a questa sono presenti l‟Apis mellifera mellifera (ape nera), limitatamente ad alcune zone della Liguria, del Piemonte, della Toscana, del Trentino e della Venezia Giulia e l‟Apis mellifera carnica limitatamente ad alcune zone del Friuli (Contessi, 1983).

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17 2.2 - Morfologia e anatomia delle api

Come tutti gli insetti le api hanno il corpo diviso in tre parti ben distinte: testa, torace e addome (Zappi Recordati, 1980).

Testa

La testa è piccola, di forma subpiramidale, verticale e libera. Vi si trovano un paio di antenne, gli occhi composti, gli ocelli o occhi semplici e l‟apparato boccale (Zappi e Recordati, 1980).

Racchiude inoltre il cerebro e lo gnatocerebro (parti fondamentali del sistema nervoso centrale), le ghiandole mandibolari e ipofaringee (produttrici di feromoni e di gelatina reale), le ghiandole postcerebrali etc. (Frilli, Barbattini, Milani, 2001).

Le antenne, riccamente provviste di organi di senso (tattili e olfattivi), sono composte da una parte basale, lo scapo, e di una parte distale flessibile, il flagello, diviso in 11 segmenti nelle femmine e 12 nei maschi (Zappi Recordati, 1980).

Gli occhi composti, situati lateralmente alla testa e a forma di semiluna, mostrano una superficie faccettata, risultato dell‟aggregazione di tanti singoli elementi visivi, gli ommatidi, presenti in numero diverso nelle femmine e nei maschi (questi ultimi ne possiederebbero circa 7.000-8.000 per occhio composto, contro i 4.000-5.000 delle operaie e i 3.000-4.000 dell‟occhio della regina) (Celli, 2008). Esternamente ciascun ommatidio presenta una piccola cornea, attraverso la quale passano i raggi luminosi; gli stimoli della luce vengono percepiti da cellule recettrici che formano la retinula e da esse successivamente trasmessi al protocerebro (parte anteriore del cervello) (Frilli, Barbattini, Milani, 2001).

Gli ocelli sono tre piccoli occhi semplici disposti a triangolo; nelle femmine, regina e operaie, si trovano fra i lunghi peli del vertice della testa; nei fuchi, i cui occhi composti, assai voluminosi, vengono a contatto sul vertice, hanno una posizione frontale. Gli ocelli non forniscono un‟immagine netta ma, molto sensibili alle variazioni dell‟intensità luminosa, si comportano appunto come indicatori di quest‟ultima (Zappi Recordati, 1980).

L‟apparato boccale (detto lambente succhiante) è composto da: il labbro superiore, le mandibole, le mascelle e il labbro inferiore. Il labbro superiore, pressochè rettangolare, poco sclerificato, costituisce una sorta di copertura dell‟apertura boccale. Le due mandibole, appendici fortemente sclerificate, sono disposte ai lati della cavità boccale: nelle operaie sono munite di un bordo distale smussato, la regina invece presenta mandibole dentate (nonché

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18 mascelle e labbro inferiore più brevi). Alla base della superficie interna di ogni mandibola sbocca un piccolo canale dal quale fuoriesce il secreto della ghiandola mandibolare (Frilli, Barbattini, Milani, 2001). Le mandibole possono addossarsi fra loro, afferrare sostanze solide, aprire le antere dei fiori per estrarne il polline, lavorare la cera, raccogliere la propoli, afferrare altre api o insetti nemici, compiere in definitiva tutte le funzioni di organi di presa (Zappi Recordati, 1980).

Le due mascelle sono costituite da vari articoli ben distinti e differenziati (cardine, stipite, galea e un piccolo palpo). La loro funzione principale consiste nel contribuire insieme alle altre appendici a formare, al momento dell‟uso, un canale per la suzione di alimenti liquidi (Frilli, Barbattini, Milani, 2001).

Il labbro inferiore, originato dalla fusione di un secondo paio di mascelle, è formato da vari articoli in parte impari, come il postmento, premento e ligula, e in parte pari, come le paraglosse e i palpi labiali. Paraglosse e palpi labiali concorrono con le mascelle a formare il canale di suzione, mentre la ligula è percorsa ventralmente da un solco lungo il quale scorre la saliva. La ligula termina con un‟espansione a cucchiaio detta labello (Frilli, Barbattini, Milani, 2001).

Torace

Negli insetti il torace è costituito da tre metameri: il prototorace, il mesotorace e il metatorace.

Nel caso dell‟ape si indica comunemente come torace quella regione del corpo che appare nettamente delimitata tra testa e addome e che comprende anche un quarto segmento, chiamato propodeo, corrispondente alla parte dorsale del primo segmento addominale. Pertanto quando si descrive il corpo dell‟ape è preferibile parlare di torace apparente (Frilli, Barbattini, Milani, 1989).

Un breve peduncolo (peziolo), rappresentato da parte del secondo segmento addominale, collega il torace apparente alla rimanente parte dell‟addome (gastro) (Frilli, Barbattini, Milani, 1989).

Le delimitazioni fra un segmento toracico e l‟altro non sono facili da individuare perché tutta la regione è fittamente ricoperta da setole e peli. La regione dorsale è chiamata tergo, quella ventrale sterno e quelle laterali pleure (Frilli, Barbattini, Milani, 2001).

Il torace è la sede degli organi del movimento rappresentati da due paia di ali (anteriori e posteriori) e dalle tre paia di zampe (anteriori, medie e posteriori) (Frilli, Barbattini, Milani, 2001).

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19 Le ali, che si inseriscono mediante piccoli scleriti articolari ai processi alari del meso e metatorace, sono adatte al volo veloce e prolungato. Quelle anteriori sono più grandi e lunghe delle posteriori alle quali durante il volo si uniscono mediante una serie di piccoli uncini, hamuli, posti nella parte distale del margine anteriore delle ali del secondo paio, i quali si aggrappano a un corrispondente ispessimento del margine posteriore dell‟ala anteriore (Gauld, Bolton, 1988). Le ali sono provviste di nervature, che oltre a costruire una rigida armatura fondamentale per il volo, definiscono sulla superficie alare delle aree, celle, la cui forma può essere utilizzata per caratterizzare e definire le razze (Zappi Recordati, 1980).

Le zampe sono costituite da diversi articoli: l‟anca (o coxa) che è la parte prossimale, e successivamente il trocantere, il femore, la tibia e il tarso (quest‟ultimo comprende a sua volta cinque articoli di cui l‟ultimo termina con due unghie bilobe che permettono all‟ape di attaccarsi alle superfici scabre, e un empodio mediano che aderisce alle superfici lisce). Le zampe, che diventano progressivamente più robuste procedendo dal primo al terzo paio, assolvono, oltre alla locomozione, altre funzioni e sono per questo provviste di apparati diversi. Nel primo paio, il primo articolo del tarso (basitarso) reca subprossimalmente e ventralmente un incavo semicircolare che, insieme con uno sperone bilobo distale della sovrastante tibia forma la cosiddetta stregghia delle antenne. Quando la zampa si piega lo sperone viene a chiudere l‟apertura dell‟incavo delimitando così un foro attraverso il quale l‟ape fa passare le antenne per pulirle e liberarle dalla polvere, dai granuli di polline etc. Nel secondo paio di zampe in corrispondenza del margine distale interno della tibia si trova invece una lunga spina; servirebbe a staccare le lamelle di cera dall‟addome, a ripulire ali e spiracoli tracheali, a facilitare lo scarico del polline dalle cestelle (Zappi Recordati, 1980). Il terzo paio di zampe è fornito del complesso apparato per la raccolta e il trasporto del polline. La tibia di queste zampe presenta nella superficie esterna una depressione liscia, la cestella, circondata da lunghi peli ricurvi; la faccia interna del basitarso porta file traverse di piccole setole, fitte e rigide, che costituiscono nell‟insieme la cosiddetta spazzola (Von Frish, 1951), mentre l‟articolazione tibio-tarsale forma una specie di pinza, delimitata superiormente da setole dure e inferiormente da ciuffi e peli (Faure, 1979). Con una complessa serie di movimenti l‟ape raccoglie il polline di cui il suo corpo è cosparso e ne fa un‟unica masserella che trasferisce nella cestella dove è tenuta ferma dai peli circostanti. L‟apparato di raccolta del polline manca nei fuchi e nella regina (Zappi Recordati, 1980).

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20 Nel torace si trovano inoltre i primi spiracoli tracheali o stigmi, mediante i quali si aprono all‟esterno trachee componenti il sistema respiratorio dell‟insetto. Si tratta di aperture pari, situate nelle regioni laterali del corpo (torace e addome) e provviste di particolari dispositivi di chiusura. Le api adulte possiedono 10 paia di stigmi: 3 nel torace e 7 nell‟addome (Zappi Recordati, 1980).

Gastro (o pseudoaddome)

Il primo segmento dell‟addome (propodeo) è fuso con il torace e fa parte del torace apparente.

A livello della parte anteriore del secondo segmento addominale è evidente un profondo restringimento, al quale viene dato il nome di peziolo; all‟interno di questo passano l‟esofago, la catena gangliare ventrale, l‟aorta, e alcune trachee. La parte che segue tale restringimento viene chiamata gastro (Frilli, Barbattini, Milani, 2001).

L‟addome (gastro e propodeo) risulta formato da 10 segmenti, uriti, anche se apparentemente se ne distinguono solo 7, in quanto l‟ottavo, il nono e il decimo segmento addominale sono nascosti e modificati a formare l‟armatura genitale (Zappi Recordati, 1980).

I vari uriti sono abbastanza simili tra loro: hanno la forma di anelli costituiti da una parte dorsale (urotergo) e da una ventrale (urosterno) piuttosto rigide e unite tra loro da una membrana. L‟urotergo e l‟urosterno di un segmento si sovrappongono leggermente a quelli del segmento successivo e sono collegati a essi da sottili membrane intersegmentali molto flessibili, che permettono ampi movimenti (Frilli, Barbattini, Milani, 2001).

Nell‟ape operaia la porzione anteriore degli urosterni 4°,5°,6° e 7° è caratterizzata dalla presenza degli specchi della cera, al di sotto dei quali si trovano le quattro paia di ghiandole ceripare che raggiungono il loro massimo sviluppo in genere dal 12° al 19° giorno di vita delle api. Dorsalmente in corrispondenza della membrana intersegmentale tra il 6° e il 7° urotergo, è localizzata la ghiandola odoripara che l‟ape operaia espone piegando in basso il segmento apicale dell‟addome. Il secreto, che comprende come principali componenti il citrale e il geraniolo emana un odore speciale che le altre api possono percepire anche a una certa distanza.

Quando un‟ape operaia ha trovato una buona fonte di cibo la ghiandola odoripara entra in funzione e il profumo emanato attira le api allo stesso luogo (Zappi Recordati, 1980).

Dall‟estremità dell‟addome sporge appena il pungiglione, attributo esclusivo delle api operaie e della regina (O‟Toole, Raw, 1993). La porzione vulnerante di questo apparato di difesa consiste di uno stilo che si allarga nella parte prossimale in un bulbo e abbraccia come una guaina

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21 incompleta due stiletti ventrali dotati all‟estremità di piccoli dentelli rivolti all‟indietro. Nella regina il pungiglione ricurvo e scarsamente dentellato è quasi esclusivamente riservato alle regine rivali. Nel bulbo sboccano due ghiandole del veleno (la ghiandola acida, che alimenta un serbatoio in prossimità del bulbo, e la ghiandola alcalina) il cui secreto mescolato viene iniettato nella ferita al momento della puntura (Zappi Recordati, 1980).

Apparato muscolare

L‟apparato muscolare delle api è molto sviluppato, soprattutto nel torace, in rapporto alla grande potenze di volo e alle operazioni che devono svolgere (Zappi Recordati, 1980).

I muscoli vengono distinti in viscerali e scheletrici: i primi sono distribuiti lungo le pareti degli organo interni, mentre i secondi sono quelli che si attaccano direttamente all‟esoscheletro o all‟endoscheletro e che presiedono a tutti i movimenti dell‟ape (Frilli, Barbattini, Milani, 2001).

Sistema respiratorio

Il sistema respiratorio dell‟ape è caratterizzato da vistose dilatazioni di alcuni tratti dei principali tratti tracheali del capo, del torace e dell‟addome, dilatazioni che prendono il nome di sacchi aerei (Pinzauti e Frediani, 1998). Gli spiracoli tracheali sono localizzati esternamente al torace e all‟addome (l‟ottavo spiracolo tracheale si trova nella camera del pungiglione) (Goodman, 2003). Ciascuno degli spiracoli toracici immette in un grosso tronco tracheale che poi si biforca in due rami: un ramo va ad anastomizzarsi con i sacchi aerei del torace, l‟altro penetra attraverso il foro occipitale nella cavità cranica dove si dilata nei sacchi aerei cefalici. Gli apiracoli addominali immetoono, attraverso brevi tronchi tracheali, nei sacchi aerei addominali (Pinzauti, Frediani, 1998). L‟ossigeno dalle tracheole e dai sacchi aerei diffonde nel mezzo acquoso e raggiunge i mitocondri, dove prenderà parte alle reazioni di produzione di energia (Goodman, 2003).

Sistema nervoso

Nell‟ape si distinguono un sistema nervoso centrale e un sistema nervoso stomatogastrico.

Il sistema nervoso centrale è costituito da una massa nervosa detta cerebro, situata nella testa sopra l‟esofago, e da una seconda massa, gnatocerebro, sita sotto l‟esofago e da una catena gangliare ventrale che partendo dallo gnatocerebro giunge fino alla parte posteriore dell‟addome (Frediani, 1994).

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22 Come in tutti gli animali, il sistema nervoso centrale riceve informazioni da recettori e organi di senso, le elabora e determina una reazione fisiologica adeguata. Al cerebro afferiscono direttamente le informazioni raccolte dagli organi della vista e dalle antenne. Lo gnatocerebro riceve invece gli stimoli percepiti dai recettori di senso presenti sulle parti boccali. La locomozione è in larga misura coordinata da uno o più gangli della catena ventrale; questi sono interconnessi fra loro ma ciascuno costituisce un centro relativamente autonomo nel controllo delle funzioni dei segmenti collegati (Frilli, Barbattini, Milani, 2001).

Il sistema nervoso stomatogastrico, analogo del sistema nervoso simpatico degli animali superiori, riceve messaggi provenienti dagli organi interni e regola il loro funzionamento (Frilli, Barbattini, Milani, 2001).

Sistema circolatorio

Nell‟ape, come negli altri insetti, la circolazione del sangue (emolinfa) è vasale e lacunare:

l‟emolinfa scorre entro un vaso, vaso dorsale, situato lungo la linea mediana dorsale del corpo e si distribuisce a tutte le parti del corpo defluendo liberamente nelle lacune fra gli organi. Nel vaso dorsale si distingue una porzione contrattile (ventricolo o cuore) che termina posteriormente a fondo cieco e che occupa la regione mediana dorsale dell‟addome, e in un vaso non contrattile, aorta, che percorre la regione mediana dorsale del torace per aprirsi direttamente nelle lacune del capo (Zappi Recordati, 1980). Il cuore, o ventricolo, risulta formato da 5 camere o ventricoliti, comunicanti fra loro mediante orifizi valvolari e provvisti ciascuno di un paio di orifizi od ostioli attraverso i quali l‟emolinfa passa all‟interno del vaso.

La contrattilità del cuore si propaga in senso antero-posteriore e il sangue che entra attraverso gli ostioli viene spinto in avanti ed esce dall‟aorta. Al di fuori del vaso dorsale un diaframma dorsale e uno ventrale attivano con le loro contrazioni la circolazione dell‟emolinfa (Frilli, Barbattini, Milani, 2001).

Sistema digerente

Inizia con l‟apertura boccale alla quale fa seguito la faringe. Segue l‟esofago, un sottile e lungo tubo che attraversa tutto il torace, entra nell‟addome, dove si allarga a formare l‟ingluvie (borsa melaria) a parete estensibile. Nella borsa melaria delle operaie viene trasportato il nettare raccolto sui fiori il quale subisce, attraverso l‟evaporazione di acqua e grazie all‟aggiunta di enzimi prodotti dall‟ape, la sua prima trasformazione in miele. Alla borsa melaria segue il

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23 proventricolo che si interna un poco nella borsa stessa nella quale si apre mediante una valvola formata da quattro bande triangolari che delimitano un‟apertura a x. Il ventricolo o stomaco (mesointestino) si può considerare la parte più importante del sistema digerente dell‟ape: è in questo tratto in effetti che inizia e si realizza buona parte della digestione e dell‟assorbimento del cibo. Seguono il tenue e il retto. L‟intestino tenue, lungo e sottile, nel primo tratto riceve lo sbocco dei tubi malpighiani (principali organi di escrezione degli insetti, equiparabili ai reni dei vertebrati). Il retto è formato da una parte prossimale cupoliforme, con la parete interessata da sei papille rettali, e da una parte distale voluminosa, più slargata ed estensibile. Nella quale possono essere trattenuti per diverso tempo gli escrementi; questa termina restringendosi nell‟ano (Zappi Recordati, 1980).

È noto che le api sane non evacuano nell‟alveare ma durante il volo; in inverno, quando il cattivo tempo impedisce loro di uscire, le api trattengono nel retto (ampolla rettale) gli escrementi che liberano durante una giornata mite, nei cosiddetti voli di purificazione (Zappi Recordati, 1980).

Ghiandole annesse al sistema digerente

- Ghiandole ipofaringee: sono funzionali solo nelle api operaie, secernono la gelatina reale con la quale vengono nutrite tutte le larve fino all‟età di tre giorni e successivamente solo le larve destinate a diventare regine; nelle operaie più vecchie la secrezione è ricca di enzimi e interviene nella lavorazione del miele (Zappi Recordati, 1980).

- Ghiandole mandibolari: producono un‟altra frazione della gelatina reale e svolgono funzione in rapporto alla lavorazione della cera. Nella regina producono il feromone reale (Zappi Recordati, 1980).

- Ghiandole labiali (o salivari): si distinguono in ghiandole postcerebrali e toraciche. Il secreto serve a sciogliere alimenti solidi, come lo zucchero (Frilli, Barbattini, Milani, 2001).

Apparato riproduttore femminile

L‟apparto riproduttore delle api operaie è di regola atrofizzato anche se in alcuni casi femmine sterili possono sviluppare eccezionalmente, quando manca la regina, ovari funzionanti per deporre uova dalle quali nascono maschi (operaie ovificatrici) (Frilli, Barbattini, Milani, 2001).

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24 L‟apparato riproduttore della regina è costituito da due ovari che, relativamente piccoli nella regina appena sfarfallata, dopo la fecondazione aumentano notevolmente di volume arrivando a occupare buona parte della regione dorso-laterale dell‟addome. Ciascun ovario è formato da numerosi (160-180) tubuli ovarici, ovarioli, i quali sboccano in un ovidutto (Frediani, 1994). I due dotti si uniscono in un breve ovidutto impari che si apre nella vagina la quale continua con una dilatazione a sacco, borsa copulatrice, per sboccare quindi nella camera del pungiglione, ventralmente a questo tramite l‟orifizio vaginale (Rinderer, 1986). Nella parte dorsale della vagina sbocca il dotto spermatico che collega questa al ricettacolo seminale o spermateca, l‟organo di forma sferoidale destinato a ricevere e conservare gli spermi dopo gli accoppiamenti (Frediani, 1994).

Apparato riproduttore maschile

L‟apparato riproduttore maschile consta di vari organi: due testicoli formati da numerosi tubuli seminiferi, due dotti deferenti comprendenti ciascuno una dilatazione, la vescicola seminale, di forma cilindrica e leggermente ricurva. Le vescicole seminali, che nel fuco sessualmente maturo contengono gli spermatozoi, terminano mediante un breve condotto nelle ghiandole mucose. Il muco gioca in corso dell‟accoppiamento un importante ruolo proteggendo lo sperma dall‟essiccamento. Le ghiandole mucose sboccano in un condotto impari, il canale eiaculatore, che costituisce un ponte fra gli organi produttori dello sperma e del muco e l‟organo copulatore (Zappi Recordati, 1980).

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25 2.3 - Ciclo biologico

Il ciclo vitale delle api è simile a quello degli altri insetti olometaboli, che sono quegli insetti che compiono una metamorfosi completa. Ogni individuo passa attraverso gli stadi di uovo, larva, pupa e adulto. La larva è lo stadio di crescita, la pupa lo stadio di differenziazione per la formazione delle strutture dell‟adulto (Michener, 1974). La regina depone l‟uovo, che misura circa 1,5 mm di lunghezza e ha un diametro di circa 3 mm, in una cella parallelamente alle pareti. Il primo giorno l‟uovo è perpendicolare al fondo della cella, poi comincia a inclinarsi e al terzo giorno adagiato sul fondo si schiude. La larva per i primi tre giorni verrà nutrita con la gelatina reale elaborata dalle ghiandole ipofaringee delle operaie, poi, esclusa la regina che continuerà con questo alimento per tutta la vita, riceverà un impasto di miele acqua e polline (Ravazzi, 1994). Per nutrire una larva di operaia si stima che siano necessari 125 mg di miele e circa 70-150 mg di polline. Il numero e la durata delle nutrizioni aumenta con l‟età della larva.

Le larve reali vengono nutrite molto più spesso di quelle di api operaie (Free, 1977).

Adagiata sul fondo della cella la larva cresce rapidamente acciambellandosi e in tre-quattro giorni le sue estremità si toccano (Ravazzi, 1994).

Sembra che gli ormoni, in particolare l‟ormone terpenoide giovanile (JH), secreto dai corpora allata, abbiano un ruolo importante nello sviluppo delle larve (così come nella divisione dei lavori fra le api operaie adulte). La muta è accelerata dagli ecdysteroidi, secreti soprattutto dalle ghiandole protoraciche, i quali si legano ai recettori intracellulari inducendo la trascrizione di geni specifici che iniziano il processo di muta. Altri ormoni come il BH (Bursicon Hormone) e il EH (Eclosion Hormone) sono necessari per l‟irrobustimento della cuticola del nuovo adulto e sono richiesti per la generazione neurale dei movimenti usati dall‟adulto per emergere dalla celletta pupale. Quando la giovane ape si trova nello stadio di pre-pupa alcune api operaie, le cosiddette “api di casa”, sigillano la celletta con un opercolo di cera. All‟interno la pupa compie la metamorfosi ad insetto adulto ed emerge dalla cella circa due settimane dopo (Moritz, Southwick, 1992).

La metamorfosi da larva a insetto adulto avviene con tempi assai diversi nelle varie caste: 16 giorni per l‟ape regina, 21 per l‟ape operaia e 24 per il fuco (Ravazzi, 1994).

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26

Regina

Operaia

Fuco

Giorni

Uovo Larva Larva filante

Prepupa Pupa Legenda

1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 Covata

aperta 5gg 3 gg

UOVO

Figura 3: Apis mellifera L., uova e dimensioni larvali fino all’opercolatura e tempi di sviluppo di tutti gli stadi ontogenetici fino all’adulto per regine, operaie e fuchi (Bedini, 2005).

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27 2.4 - Le tre caste

L‟Apis mellifera vive in una famiglia o colonia il cui numero è variabile in base al periodo stagionale, e alla forza specifica di ogni colonia. Il numero medio di individui in una colonia varia da 40.000 nella stagione fredda fino a 80.000-100.000 nella stagione dei raccolti (Von Frish, 1975). Nessuna ape è in grado di sopravvivere se separata dal gruppo per più di 2-3 giorni e ciò spiega il grande istinto gregario di questi imenotteri (McGregor, 1976).

All‟interno della colonia abbiamo tre caste: la regina, le operaie e i fuchi (Ravazzi, 1994).

Figura 4: Le tre caste di Apis mellifera (www.casaparrina.it/images/schedaapi.jpg)

La regina è solitamente una per colonia, anche se in alcuni casi una vecchia regina e una figlia possono essere presenti contemporaneamente (Eckert, Shaw, 1960). È indispensabile perché è l‟unica a deporre le uova facendo quindi sviluppare la famiglia; una regina sana che deponga le uova a pieno ritmo permette un continuo ricambio di api e un buono sviluppo dell‟alveare. È più grande di un‟ape operaia, ha una dimensione di circa 18-22 mm e ha un‟ampiezza toracica di 4,2 mm. Le ali sono corte e le zampe prive di “attrezzi” ma più lunghe di quelle di un‟operaia. Il ciclo vitale della regina è assai diverso da quello delle altre caste soprattutto per la durata, fino a 4-5 anni, cosa che dipende unicamente dal fatto che la regina viene nutrita tutta la vita con la gelatina reale. Dopo 5-12 giorni dalla nascita si hanno i primi voli ricognitivi e uno o più voli nuziali. Se entro 20 giorni dalla nascita la regina non viene fecondata, resta sterile per tutta la vita (regina arrenotoca) ed è in grado di deporre solo uova da cui nasceranno esclusivamente

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