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I D ’ 2. V 1. I

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Academic year: 2021

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I

N T R O D U Z I O N E p . I

1 .

V

A L O R E E F U N Z I O N E D E L L A D I D A S C A L I A T E A T R A L E » 1 1 . 1 U n a p p r o c c i o s t o r i c o » 1 1 . 1 . 1 L o s p e t t a c o l o s e n z a t r a c c i a » 5 1 . 1 . 2 N e r o s u b i a n c o » 1 0 1 . 1 . 3 C o r n e i l l e e D ’ A u b i g n a c » 1 5 1 . 1 . 4 L a r i f l e s s i o n e t e o r i c a d i D i d e r o t » 1 7 1 . 1 . 5 M a n z o n i , a p o l o g i a d e l c o r o » 2 2 1 . 1 . 6 I l t e s t o d e n t r o l a m u s i c a » 2 4 1 . 1 . 7 C r a i g e l a l i b e r t à d e l r e g i s t a » 2 8 1 . 1 . 8 B r e c h t e l a d i s t a n z a » 3 4 1 . 2 A p p r o f o n d i m e n t o s e m i o t i c o » 3 7 1 . 2 . 1 L ’ i m m a n e n z a d e l l ’ a u t o r e » 3 9 1 . 2 . 2 V a l o r e d ’ u s o e v a l o r e d i s c a m b i o » 4 4 1 . 2 . 3 L a d i d a s c a l i a c o m e s i m b o l o » 5 2

2 .

D

A L L A P A R O L A A L L

A Z I O N E » 6 3 2 . 1 A s p e t t i d e l l a m e s s i n s c e n a p r i m o n o v e c e n t e s c a » 6 3 2 . 1 . 1 L a d i d a s c a l i a d i G a b r i e l e D ’ A n n u n z i o t r a r i t m o e i m m a g i n e » 7 7 2 . 1 . 1 D i d a s c a l i e f u t u r i s t e » 8 8 2 . 2 L a s o c i e t à t e a t r a l e i t a l i a n a t r a i l 1 9 1 8 e i l 1 9 3 1 » 1 0 0 2 . 3 S i n t o n i e e c o r r i s p o n d e n z e t r a l a d r a m m a t u r g i a e i l n u o v o d i s e g n o s c e n i c o » 1 1 3 2 . 3 . 1 L a r e g i a d ’ a u t o r e d i R o s s o d i S a n S e c o n d o » 1 2 3 2 . 4 L a s t a g i o n e d e i t e a t r i s p e r i m e n t a l i » 1 3 2 2 . 4 . 1 I l T e a t r o d e g l i I n d i p e n d e n t i » 1 3 8 2 . 4 . 2 I l T e a t r o d ’ A r t e » 1 4 8 2 . 4 . 3 T e s t i n u o v i p e r s p a z i n u o v i » 1 5 5 2 . 4 . 3 . 1 L a S a g r a d e l s i g n o r e d e l l a n a v e d i P i r a n d e l l o » 1 5 6 2 . 4 . 3 . 2 C a p i t a n o U l i s s e d i S a v i n i o » 1 6 5 2 . 4 . 3 . 3 L e c o m m e d i e d i A n i a n t e p e r g l i I n d i p e n d e n t i » 1 8 1 2 . 4 . 3 . 4 S e n s u a l i t à d i F i l l i a » 1 9 1 2 . 4 . 3 . 5 L ’ a n g o s c i a d e l l e m a c c h i n e d i V a s a r i » 2 0 0

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3 .

F

O R M E D E L L A D I D A S C A L I A D R A M M A T U R G I C A N E G L I A N N I

V

E N T I D E L

N

O V E C E N T O » 2 1 5 3 . 0 I n t r o d u z i o n e » 2 1 5 3 . 1 P i e r m a r i a R o s s o d i S a n S e c o n d o » 2 1 7 3 . 1 . 1 M u s i c a d i f o g l i e m o r t e » 2 3 1 3 . 1 . 2 D a W e r t h e i m » 2 3 8 3 . 2 M a s s i m o B o n t e m p e l l i » 2 4 7 3 . 2 . 1 S i e p e a n o r d o v e s t » 2 5 1 3 . 2 . 2 N o s t r a D e a » 2 5 9 3 . 3 R a f f a e l e V i v i a n i » 2 7 4 3 . 3 . 1 F e s t a d i P i e d i g r o t t a » 2 8 4 3 . 4 E n r i c o C a v a c c h i o l i » 2 9 8 3 . 4 . 1 I l c e r c h i o d e l l a m o r t e » 3 0 8 3 . 5 F i l i p p o T o m m a s o M a r i n e t t i » 3 1 7 3 . 5 . 1 P r i g i o n i e r i » 3 2 6 3 . 6 A c h i l l e C a m p a n i l e » 3 3 5 3 . 6 . 1 I l c i a m b e l l o n e » 3 4 7 3 . 7 L u i g i P i r a n d e l l o » 3 5 1 3 . 7 . 1 S o g n o ( m a f o r s e n o ) » 3 7 0 3 . 8 E n r i c o P r a m p o l i n i e i l T e a t r o d e l l a P a n t o m i m a F u t u r i s t a » 3 8 3 3 . 8 . 1 I t e s t i d i L u c i a n o F o l g o r e » 3 9 4 3 . 8 . 2 L a S a l a m a n d r a d i L u i g i P i r a n d e l l o » 3 9 7 3 . 8 . 3 C o c k t a i l d i F i l i p p o T o m m a s o M a r i n e t t i » 4 0 2 3 . 9 S e r g i o T o f a n o » 4 0 8 3 . 9 . 1 Q u i c o m i n c i a l a s v e n t u r a » 4 1 0 3 . 1 0 E d u a r d o D e F i l i p p o » 4 1 8 3 . 1 0 . 1 S i k S i k l ’ a r t e f i c e m a g i c o » 4 2 3

C

O N C L U S I O N I » 4 3 5 F o n t i e b i b l i o g r a f i a » 4 4 3 A p p a r a t o i c o n o g r a f i c o » 4 7 1 R i n g r a z i a m e n t i » 4 8 5

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I

N T R O D U Z IO N E

OG G E T T O D E L L A T E S I

In calce a questo elaborato si potrebbe riportare un’affermazione di Luigi Squarzina, secondo la quale una storia del teatro andrebbe scritta a partire dalle didascalie1. In effetti, se la didascalia drammaturgica è il luogo della scrittura teatrale in cui l’autore comunica ai suoi lettori (tra i quali eventualmente chi dovrà inscenare il testo) quanto ritiene opportuno all’esecuzione dell’evento spettacolare, la sua presenza (o assenza) e la sua tipologia consentono di riflettere non solo sui mutamenti della drammaturgia ma anche su quelli della messinscena.

Nel succedersi delle teorie del teatro, è possibile valutare il trattamento obliquo riservato alla didascalia drammaturgica: in certi casi tralasciata in quanto considerata come un’indebita intromissione dell’autore, un atto diegetico che interferisce con la mimesis; in altri casi consegnata alla critica letteraria perché reputata inessenziale alla rappresentazione, dunque non pertinente agli studi teatrali. Del resto, anche nel percorso storico-critico tracciato da Silvio D’Amico per l’Enciclopedia dello spettacolo, la didascalia è valutata solo come uno strumento nelle mani dell’autore per far rispettare la propria idea di teatro2.

Procedendo con le citazioni illustri, da porre a premessa e giustificazione del lavoro, prelevo un passaggio dall’epistolario di Gramsci, (20 settembre 1931), ove si legge che la didascalia «ha nel processo creativo un’importanza essenziale, in quanto limita l’arbitrio dell’attore e del direttore»3. A quella data il termine regista, nell’accezione attuale, non si era ancora consolidato, eppure Gramsci avverte già nell’autorità di un esecutore “unificato” un’invasione di campo. D’altronde, in un altro passaggio scrive:

1 Cfr. Merete Kjoller Ritzu, Prefazione a La didascalia nella letteratura teatrale

scandinava (Atti del convegno di Firenze 21-23 maggio 1986, a cura di Merete Kjoller

Ritzu), Roma, Bulzoni, 1987, pp. 13-14.

2 Vedi Silvio D’Amico, ad vocem Didascalia, in Enciclopedia dello Spettacolo, a cura di

Silvio d’Amico, Roma, Le Maschere, 1954-1962, vol. IV, p. 657.

3 Cito da una lettera di Gramsci datata 20 settembre 1931: «Se nel teatro l’opera d’arte

risulta dalla collaborazione dello scrittore e degli attori unificati esteticamente dal direttore dello spettacolo, la didascalia ha nel processo creativo un’importanza essenziale, in quanto limita l’arbitrio dell’attore e del direttore» (Antonio Gramsci, Lettere dal carcere, Torino, Einaudi, 1971, p. 173).

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È stato detto da taluno (per esempio da Prezzolini, nel volumetto Mi pare…) che il teatro non può dirsi un’arte ma uno svago di carattere meccanicistico. Ciò perché gli spettatori non possono gustare esteticamente il dramma rappresentato, ma si interessano solo all’intrigo ecc. (o qualcosa di simile). Ma l’osservazione è falsa nel senso che, nella rappresentazione teatrale, l’elemento artistico non è dato solo dal dramma nel senso letterario, il creatore non è solo lo scrittore: l’autore interviene nella rappresentazione teatrale con le parole e con le didascalie che limitano l’arbitrio dell’attore e del regisseur, ma realmente nella rappresentazione l’elemento letterario diventa occasione a nuove creazioni artistiche, che da complementari e critico-interpretative stanno diventando sempre più importanti4.

Almeno un paio di temi emergono da queste considerazioni: da una parte Gramsci dà per scontato il passaggio di consegne che farà di coloro che interpretano e mettono in scena gli “esecutori” del testo drammatico; dall’altra sostiene che le disposizioni autoriali abbiano la possibilità di essere salvaguardate grazie all’uso delle didascalie. Di fatto, l’autore di teatro differisce dal narratore puro proprio nell’intenzione e nella necessità di visualizzare, o di pre-vedere la resa scenica delle situazioni drammatiche, tenendo presenti le condizioni della rappresentazione, delle potenzialità e delle risorse scenotecniche.

Nella prima parte del Novecento la messa a fuoco degli elementi spettacolari tende ad essere affidata con un maggiore investimento semantico alle sezioni “paratestuali”, ovvero ai corsivi dell’autore. Come riassume efficacemente Franco Mancini:

È impossibile stabilire in termini assoluti quanto l’evoluzione tecnico-espressiva abbia influenzato la tecnica drammaturgica suggerendo nuove soluzioni e quanto possa essere vera la tesi opposta. Forse sarebbe più giusto affermare semplicemente che le due parti, intente a raggiungere uno stesso

4 Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, a cura di Valentino Gerratana, 6 voll., Torino,

Einaudi, 1975, vol. II, p. 731 (quaderno 6). Gramsci sta rispondendo a Giuseppe Prezzolini, il quale aveva affermato che proprio la presenza delle didascalie rende illeggibile il testo teatrale, di fatto negando la qualifica di artisticità al testo e alla sua rappresentazione. Si riferisce allo scritto Perché il teatro italiano non si rinnova, contenuto nel volumetto Mi

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traguardo, si avvicendarono nelle posizioni di testa, traendone reciproco vantaggio5.

Le questioni qui accennate, e sintetizzate dalle citazioni proposte, costituiscono i presupposti e i punti di partenza di questa tesi, che prova in maniera ampia e varia ad affrontare un aspetto di non facile puntualizzazione.

OB I E T T I V I

Le didascalie sono lo strumento autoriale per intervenire sulle componenti extra-dialogiche dello spettacolo teatrale. L’asserzione può apparire banale e addirittura tautologica, ma tiene in prospettiva un discorso più esteso. L’obiettivo della tesi è dimostrare come negli anni Venti del nostro Novecento la produzione di senso tenda a spostarsi dal dialogo alla didascalia, dalla battuta al contesto, ovvero dalla parola all’azione. Un trasferimento favorito dall’implementazione di nuovi codici spettacolari, e veicolato da una tecnica drammaturgica che si pone il problema di verbalizzare quanto non si può trascrivere (sfumature psicologiche, determinazioni figurative, componente sonora, e così via).

Ben diverso da un lavoro di prospezione filologica, che inevitabilmente dovrebbe tenere in conto le variabili connesse alla genesi del testo e al suo itinerario editoriale (l’inevitabile scatenamento di correzioni, omissioni o recuperi che alterano di edizione in edizione il testo originario), questo elaborato intende mettere a fuoco, a partire dalle didascalie, le strategie drammaturgiche impiegate per il conseguimento di un effetto scenico.

Ogni periodizzazione è un atto problematico e precario, inevitabilmente destinato a scontrarsi con la natura non consecutiva delle idee e delle proposizioni artistiche. Attraverso compromessi e convivenze, queste si avvicendano o si embricano le une sulle altre, scambiandosi il ruolo dominante e determinando non già fratture, bensì frontiere mobili con

5 Franco Mancini, L’illusione alternativa. Lo spazio scenico dal dopoguerra a oggi, Torino,

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frange di contatto difficilmente identificabili. È pertanto indispensabile premettere una giustificazione ad ogni selezione temporale.

Per quanto riguarda l’ambito storico ho deciso di limitarmi alla scena italiana degli anni Venti. La scelta di concentrarmi su questo decennio nasce dall’avere individuato – in ragione di alcuni avvenimenti e contingenze particolarmente significative – due punti estremi: il 1918 e il 1931.

La fine del primo conflitto mondiale segna per il mondo teatrale del nostro paese una serie di mutamenti notevoli6, di cui parlerò diffusamente e che mi limito qui ad elencare: un’apertura a nuove forze autoriali (provenienti soprattutto dal centro-sud, rispetto a un trentennio di prevalenza milanese e piemontese); l’inaugurazione di edifici per lo spettacolo grazie a emergenti iniziative imprenditoriali, come i cosiddetti teatri minimi o teatri d’eccezione; una generazione di attori con diversa formazione; inedite forme di comunicazione, in particolare riviste specializzate capaci di stabilire contatti significativi tra gli operatori teatrali e le avanguardie, e di far circolare notizie e immagini riguardanti le messinscene russe, inglesi, tedesche o americane; e infine l’allargamento del pubblico, maggiormente eterogeneo. Oltre a ciò va considerato l’influsso di quei media che, vivendo una fase dinamica di trasformazioni, come il cinema o la danza moderna, trainano in questo periodo anche la ricerca teatrale.

Dall’altra parte il 1931 segna l’inizio di un reale controllo fascista sulle arti dello spettacolo, fino a quel momento molto meno incalzante e presente. Come asseriscono vari studiosi, nel Ventennio fascista la centralizzazione e l’istituzione di un unico organismo di controllo teatrale e di censura non avvenne prima degli anni Trenta. Fino ad allora il controllo sugli spettacoli era stato esercitato localmente dalle prefetture. Nel 1931, con la legge del 6 gennaio n. 599, viene creato un ufficio centrale alle dirette dipendenze del Ministero dell’Interno7.

Peraltro, dove non arrivò la censura poté l’autocensura: molti autori a questa data hanno ripiegato verso soluzioni meno sperimentali, più tradizionali o compromissorie; oppure hanno addirittura abbandonato l’attività. In definitiva, dopo gli anni dell’esplosione futurista, della

6 Così Bontempelli nel 1926: «Il Novecento ci ha messo molto a spuntare. L’Ottocento non

poté finire che nel 1914. Il Novecento non comincia che un poco dopo la guerra», Massimo Bontempelli, L’avventura novecentista, a cura di Ruggero Jacobbi, Firenze, Vallecchi, 1974, p. 11.

7 Ufficio che, sotto la direzione di Leopoldo Zurlo, controllò 18.000 testi di autori italiani.

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rivoluzione pirandelliana e delle innovazioni degli autori del cosiddetto “teatro grottesco”, la produzione appare qualitativamente modesta, seppure quantitativamente rilevante.

Parallelamente, all’inizio degli anni Trenta il cinema (entrato ormai nell’epoca del sonoro) ha completato la sua parabola ascendente, diventando la forma di spettacolo per eccellenza e, a detta di molti, la causa prima della “crisi” del teatro, tanto che proprio l’anno 1931 segna una brusca flessione per gli incassi del teatro di prosa, rimasti stabili negli anni precedenti dopo un’impennata a metà degli anni Venti8.

Altra, singolare, coincidenza: proprio l’ultimo giorno dell’anno 1931 appare una recensione, firmata da Enrico Rocca, dove per la prima volta in Italia è impiegato il termine “regia”9. Di lì a poco, sul primo numero della rivista «Scenario», il linguista Bruno Migliorini proporrà di adottare il vocabolo “regia” in luogo delle precedenti locuzioni10.

Il periodo di cui intendo analizzare le vicende sceniche è dunque un decennio lungo all’interno del quale si può contare su una relativa stabilità dell’organizzazione teatrale e del sistema produttivo, che negli anni seguenti subirà profonde trasformazioni. Pertanto, quando nel corso della trattazione mi riferirò agli anni Venti vorrò intendere il segmento cronologico tra il 1918 e il 1931.

ST R U T T U R A D E L L A T E S I

Studiare le didascalie italiane negli anni Venti, per come ho inteso strutturare il mio lavoro, significa contribuire a chiarire la loro natura perseguendo nel medesimo tempo altre finalità: saldare la pre-visione della scrittura e l’offerta visiva della messinscena; sviluppare ipotesi sullo spazio scenico e i codici spettacolari, nel loro evolversi sia a livello teorico che di

8 I dati statistici forniti dalla SIAE sono esposti in un esauriente articolo di Edmondo

Sacerdoti, La crisi del teatro non esiste?, in «Scenario», a. IV, n. 1, 1935. Gli stessi sono stati riportati e commentati in Gianfranco Pedullà, Il Teatro italiano nel tempo del

fascismo, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 89 sgg; e Emanuela Scarpellini, Organizzazione teatrale e politica del teatro nell’Italia fascista, Milano, LED, 2004, pp. 345 sgg.

9 Enrico Rocca, Mirra Efros, in «Il Lavoro Fascista», 31 dicembre 1931. Nella recensione

del dramma di Jacob Gordin si fa riferimento alla «compagnia e la regìa di Tatiana Pavlova».

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operatività pratica; ritornare su autori e testi drammatici poco approfonditi dalla storiografia recente, e quasi mai rappresentati negli ultimi decenni.

L’architettura della tesi – divisa in tre macrosezioni, a loro volta ripartite in capitoli e sottocapitoli – poggia su un fondamento storico e semiotico. Il confronto diretto con gli studi teorici comincia fin dalla prima sezione, Valore e funzione della didascalia teatrale, che intende appunto esaminare l’origine e la mansione della didascalia. Dopo una breve panoramica sul rapporto fra testo e spettacolo nelle diverse epoche, al fine di rilevare i parametri che hanno influito sulla quantità e qualità delle indicazioni sceniche, valuterò la didascalia come zona di confine e origine di tensioni dialettiche sul piano teorico, attraverso esempi di contiguità e contrapposizioni (la querelle tra Pierre Corneille e l’abate D’Aubignac; la riflessione di Diderot e quella di Manzoni; l’intransigenza craighiana e la lezione di Brecht). Si tratta di un campionamento che preleva, tra le molte sfumature e varietà di opinioni, alcuni segmenti storici significativi, perché caratterizzati da questioni e fenomeni ricorrenti.

Nella seconda parte della sezione proverò a dissipare alcuni equivoci facendo chiarezza all’interno della proliferazione tassonomica che ha riguardato il materiale testuale composto dalle didascalie drammaturgiche. Buona parte dei contributi che ho esaminato, considerando il teatro principalmente come una forma di interazione conversazionale, tendono a esaminare semiologicamente il funzionamento della didascalia in rapporto alle battute, con ciò limitandone la portata a un oggetto linguistico astratto. Astratto e trascurabile perfino, in specie per coloro i quali, difendendo l’apporto demiurgico della messinscena, negano alla didascalia anche l’eventuale contenuto registico immaginato dall’autore. È vero d’altra parte che gli studi di carattere semiologico intorno alla didascalia hanno portato con problematicità e acribia a una proliferazione di attributi e categorie, allo scopo di ordinare e designare un materiale testuale così ibrido.

Ripercorrendo e intrecciando le linee teoriche degli studiosi che hanno trattato l’argomento, direttamente o indirettamente (tra gli altri, Roman Ingarden, Anne Ubersfeld, Jose-Luis Garcia Barrientos, Didier Plassard, Franco Ruffini, Marco De Marinis, Giovanni Cappello, Maurizio Grande), proverò ad affrontare al termine della prima sezione alcune questioni topiche legate alla didascalia: la determinazione del suo mittente e dei suoi destinatari; la sua funzione fra genesi drammaturgica ed esecuzione scenica; il suo valore simbolico all’interno di un processo di significazione.

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La sezione successiva, Dalla parola all’azione, proverà a inquadrare il contesto sociale e culturale nel periodo preso in esame: lo standard produttivo degli allestimenti, lo statuto del personaggio, l’utilizzo di codici spettacolari rinnovati. Se nei primi anni del Novecento si possono riconoscere nell’ambiziosa teatrografia di D’Annunzio e dei futuristi i prodromi di un fenomeno di espansione dell’apparato didascalico, la configurazione di nuovi spazi scenici incentiva negli anni Venti il nascere di una scrittura che potrebbe definirsi site-specific, cioè pensata o progettata in

loco. Il capitolo Sintonie e corrispondenze tra la drammaturgia e il nuovo disegno scenico segnala i casi in cui il testo scritto – e nella fattispecie la sua

componente didascalica – mostra una precisa corrispondenza tra l’architettura drammaturgica e quella degli spazi destinati a ospitarlo, riflesso della correlazione tra l’orchestrazione coreografica e scenografica e gli edifici teatrali di nuova concezione. È il caso delle opere presentate ed analizzate alla fine della seconda sezione (nel capitolo La stagione dei teatri

sperimentali), tra cui la Sagra del Signore della Nave di Pirandello, gli

esperimenti di Alberto Savinio per il Teatro Odescalchi, le commedie scritte da Aniante per il Teatro degli Indipendenti di Bragaglia.

A differenza dei casi suddetti, la scelta dei testi drammatici esaminati nella terza e ultima parte – Forme della didascalia drammaturgica negli

anni Venti del ’900 italiano – è frutto di un sondaggio nel folto repertorio

del decennio. Ciascuno degli autori trattati (Rosso di San Secondo, Bontempelli, Viviani, Cavacchioli, Campanile, Marinetti, ancora Pirandello, Tofano, Eduardo De Filippo) è testimone di un impiego differente della didascalia drammaturgica, ma egualmente decisivo ai fini dell’agencement scenico. I testi selezionati, preceduti da un profilo biografico che ne contestualizza la genesi, saranno pertanto affrontati da questo punto di vista, e posti in relazione, ove possibile, con le effettive realizzazioni sceniche. Immagini, cronache e contributi critici nei periodici dell’epoca saranno utili per ricostruire ed evidenziare gli scambi e le differenze tra la scrittura e la messinscena, e le modalità con cui quest’ultima prova a decifrare il contenuto verbale delle didascalie, termine medio tra la pagina e il palco.

Osservando l’indice si noterà immediatamente l’insolito ordine che regola la successione dei campioni testuali; in effetti, a una rigida sequenza cronologica ho preferito una successione che trova le sue ragioni dentro le drammaturgie, e specialmente nell’elaborazione paratestuale. Contatti reciproci, assonanze, affinità creative, simmetrie tra le strutture fondamentali, mi hanno suggerito un’insolita elencazione, e un’esposizione

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che cerca, ambiziosamente forse, di individuare linee di sviluppo o contiguità di relazione fra le singolarità autoriali.

Quanto al repertorio di illustrazioni riprodotte in appendice, potrebbero, anzi dovrebbero essere più numerose, ma la diseguale qualità e pertinenza mi ha indotto a selezionarle e contenerne il numero.

BI B L I O G R A F I A

In area francese sono numerosissimi gli studiosi interessati, da angolazioni differenti (tra le quali prevale l’analisi semiologica), al problema delle indicazioni sceniche. Due volumi collettanei, non distanti nel tempo, raccolgono molti di questi interventi dedicati ad alcuni momenti della drammaturgia europea: La didascalie dans le théâtre du XXe siecle (2007, a cura di Florence Fix e Frédérique Toudoire-Surlapierre) e Le texte

didascalique à l'épreuve de la lecture et de la représentation (2007, a cura

di Frédéric Calas et alii).

Tra gli studi italiani, solo due hanno affrontato il tema della didascalia in maniera ampia e peculiare: La didascalia drammaturgica di Giuseppe Bartolucci (1973) e La didascalia teatrale tra Otto e Novecento di Morena Pagliai (1994-1995).

Il primo volume possiede le caratteristiche proprie della scrittura del suo autore: la preziosità dello stile, la capacità di stare all’interno dello specifico teatrale e di oltrepassarlo impavidamente portando l’attenzione su fenomeni paralleli. Nell’analisi delle didascalie di Marco Praga, di Filippo Tommaso Marinetti e di Luigi Pirandello, corroborata da alcuni esempi (rispettivamente La moglie ideale, alcune “sintesi” e Sei personaggi in cerca

d’autore), Bartolucci trova la manifestazione di una scrittura drammaturgica

in via di mutamento.

Il secondo studio si mostra affine, per struttura e orizzonte storico-critico, alla mia tesi, procedendo attraverso esempi topici dal teatro dannunziano a quello di metà Novecento; pensando alla didascalia come “messinscena virtuale”, la Pagliai mostra come il suo uso si renda tanto più necessario quanto più la parola “pronunciata”, il dialogo cioè, si scopre insufficiente, avendo perso il suo potere comunicativo e la sua univocità.

Aggiungo a questi due saggi il volume che raccoglie gli Atti del convegno fiorentino La didascalia nella letteratura teatrale scandinava.

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Testo drammatico e sintesi scenica (1987, a cura di Merete Kjoller Ritzu).

Convegno che vide la convergenza di storici, critici, registi teatrali, intorno al tema della didascalia, intesa, pur nella varietà degli approcci, come snodo tra “testo drammatico” e “sintesi scenica”.

All’interno della cultura teatrale italiana degli ultimi decenni gli studi sull’opera di Luigi Pirandello occupano senz’altro uno spazio centrale. In un quadro di studi pirandelliani assai ricco e strutturato, le didascalie drammaturgiche hanno in diverse occasioni richiamato l’attenzione di studiosi e ricercatori, a cominciare dall’ormai datato Le didascalie di

Pirandello di Maria Kunzle Brugger (1952). Tra i contributi specifici

dedicati alla didascalia dello scrittore agrigentino cito quelli di Aldo Vallone, Giovanni Cappello, Paolo Bosisio, Achille Mango, Roberto Alonge, Roberto Salsano, i cui studi saranno più volte menzionati. Al fenomeno ha naturalmente contribuito il vasto numero di riedizioni del teatro pirandelliano, con gli apparati critici che queste pubblicazioni portano come corredo, e le numerose occasioni di confronto nelle sedi accademiche. Diversamente, lo spessore delle didascalie all’interno del linguaggio scenico non è stato un argomento centrale nell’analisi compiuta dalla storiografia sui maggiori drammaturghi del decennio – Bontempelli, Savinio, Rosso di San Secondo, Viviani, Cavacchioli, e così via – la cui attività per il teatro è stata organicamente risistemata e rivalutata negli ultimi decenni. La mia ricerca ha dovuto quindi individuare i necessari apporti bibliografici all’interno di studi che affrontano globalmente la loro produzione drammaturgica: dai saggi di Anna Barsotti, Giancarlo Sammartano, Paolo Puppa, Ferdinando Taviani, Alessandro Tinterri ho ricavato preliminari considerazioni teoriche e importanti sponde critiche.

Oltre al nutrito corpus bibliografico, fonti primarie sono state riviste e pubblicazioni d’epoca, a cui occorre rifarsi per recuperare notizie, fotografie di scena e informazioni preziose. È per questo che sin dalle fasi iniziali del lavoro ho proceduto a uno spoglio delle annate di «Comoedia», «Il Dramma», «Teatro», «La lettura», «L’Impero», e dei numerosi periodici nati in seno all’avanguardia futurista, sempre attenti al panorama visivo e teatrale.

L’insieme delle fonti è completato da materiali provenienti da archivi documentari e fotografici come il Civico Museo dell’Attore di Genova, gli Archivi del Teatro Napoli, l’Archivio del ’900 del Mart di Rovereto, le raccolte conservate dalla Fondazione Primo Conti di Fiesole.

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1.

V

A L O R E E F U N Z I O N E D E L L A D I D A S C A L IA T E A T R A L E

PLAYGOER. Then is all the stage directions of the world’s plays worthless? STAGE-DIRECTOR. Not to the reader, but to the stage-director, and to the actor – yes11

1.1

L

A D I D A S C A L I A

.

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N A P P R O C C I O S T O R I C O

Definiamo didascalia ciascuna delle indicazioni contenute in un testo drammatico con cui l’autore integra il dialogo: descrizione della scena all’inizio di ogni atto o di ogni quadro; istruzioni per l’entrata o l’uscita dei personaggi nel susseguirsi delle scene; disposizioni relative ai movimenti degli attori sulla scena, ai loro atti, gesti, espressioni, toni di voce, e così via12.

Questa definizione, aggiornata e modellata sui contributi critici a disposizione, può senz’altro possedere una condivisibile correttezza enciclopedica13; tuttavia, il valore e la funzione della didascalia sono ancora in parte irrisolti e contraddittori, cioè non del tutto condivisi, al punto che, come ha scritto recentemente Stefano Massini, «esiste ancora una diatriba piuttosto viva sull’uso delle indicazioni extra-dialogiche, la cui presenza in un testo teatrale sembra far scattare subito l’accusa di anacronismo»14.

In effetti parlare di ‘necessità’ o di ‘legittimità’ significa assumere come didascalia solo i segmenti verbali separati dai dialoghi (contenuti in un inciso

11 Edward Gordon Craig, On the art of the theatre, a cura di Franc Chamberlain, London,

Taylor & Frances Ltd., 2008 [princeps Chicago 1911], p. 79.

12 Tutte le sfumature semantiche che le lingue europee introducono non si allontanano troppo

dalla nostra definizione. Quanto al vocabolo in sé, in area latina esso è giunto inalterato, sicché il francese usa didascalie (si incontra di frequente l’espressione indication scénique e negli studi semiotici di Steen Jansen, di cui avremo modo di parlare, si trova régie) e lo spagnolo usa

didascalia, benché numerosi studiosi (tra cui José-Luis Garcia Barrientos, che sarà menzionato

più avanti) preferiscano il vocabolo acotación, derivato dal verbo acotar (annotare). Il tedesco impiega vocaboli composti come Szenenanweisung, Regieanweisung o Bühnenanweisung (indicazione di scena) pur conservando Didascalie. Con il medesimo significato l’inglese usa l’espressione stage directions. Nell’espressione russa si fa invece esplicito riferimento all’autore: la locuzione авторские ремарки (avtorskie remarki) è infatti traducibile con ‘indicazione d’autore’.

13 Cfr. Tiberia De Matteis, La critica teatrale, Roma, Gremese, 2008, p. 15.

14 Stefano Massini, La didascalia tra autore e attore, in «Prove di drammaturgia», a. XII, n.

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parentetico o distinti tipograficamente dal corpo del testo), escludendo cioè le

didascalie implicite, vale a dire le indicazioni cinesiche, mimiche o

prossemiche comprese all’interno delle battute pronunciate, pertinenti al contesto spaziale e temporale nel quale l’azione si sviluppa15. Quella di didascalia implicita (o, com’è altrimenti chiamata, didascalia interna) è una riduzione teorica che si spiega facilmente attraverso la nozione linguistica fondamentale di deissi, che Alessandro Serpieri ha applicato alla scrittura drammatica16. Assumendo per deissi la collocazione di un enunciato in un preciso contesto di riferimento, che ne determina i possibili livelli di interpretazione, Serpieri sostiene che il discorso drammatico è inscritto perfettamente in uno spazio e in un tempo definiti da coordinate deittiche, introdotte da espressioni linguistiche (pronomi, avverbi di tempo o luogo, e così via) e sostenuto dalla concordanza dei tempi verbali. A differenza del tessuto narrativo, che descrive semplicemente il contesto, la scrittura drammatica lo indica pragmaticamente17, simulando con ciò l’abituale

15 Si guardi per esempio alla definizione che ne dà Anne Ubersfeld: «Le didascalie

comprendono non solamente le indicazioni sceniche propriamente dette, ma i nomi dei personaggi che suddividono lo strato dialogato, in breve tutto ciò che del testo scritto non sia detto dai personaggi», Anne Ubersfeld, Leggere lo spettacolo, a cura di Mara Fazio, Roma, Carocci, 2008 [L’école du spectateur, 1996], p. 22 (cfr. anche Id., Theatrikón. Leggere il teatro (trad. it di Paola Stefanini Sebastiani), Roma, La Goliardica, 1984, pp. 19-20).

16 Applicazione che risale all’articolo Ipotesi teorica di segmentazione del testo teatrale,

pubblicato in «Strumenti Critici», a. XI, n. 32-33, 1977, pp. 90-137, e poi inserito nel volume

Come comunica il teatro: dal testo alla scena, Milano, Il Formichiere, 1978, pp. 11-54. Sulla

scorta di Serpieri si sono poi pronunciati numerosi studiosi, tra cui Patrice Pavis e Keir Elam. Così quest’ultimo: «Tutte le funzioni linguistiche e semiotiche del dramma derivano dall’orientamento deittico dell’enunciato verso il suo contenuto», Keir Elam, Semiotica del

teatro (trad. it. di Fernando Cioni), Bologna, Il Mulino, 1988, pp. 77-78. Preciso qui che

l’espressione scrittura drammatica sarà preferita nel riferirci agli aspetti e alle funzioni caratteristici del dramma, cioè dell’azione teatrale, mentre l’espressione scrittura

drammaturgica, non precisamente equivalente e sovrapponibile, sarà impiegata allorché si

parlerà delle caratteristiche stilistiche di un autore o di un’epoca. Voglio accennare qui alla distinzione terminologica sensibilmente diversa avanzata da Anna Maria Cascetta, la quale definisce testo drammatico «l’insieme di battute e didascalie, con una sua autonomia e una sua vita letteraria”, appartenente cioè «all’universo della scrittura»; e drammaturgia «il materiale verbale elaborato per la scena o a partire dal testo drammatico o a partire dal materiale non drammatico o preventivo, rispetto alla scena o elaborato sulle assi della scena a partire dall’improvvisazione dell’attore, dalla cooperazione creativa che costruisce lo spettacolo», Anna Maria Cascetta, Ingresso a teatro. Guida all’analisi della drammaturgia, Firenze, Le Lettere, 2003, p. 139.

17 Il riferimento è qui alle tre relazioni linguistiche fondamentali individuate da Charles

Sanders Peirce: icona, simbolo e indice. L’icona rappresenta l’oggetto principalmente per similarità (sotto forma di immagine, diagramma o metafora) secondo un’associazione non arbitraria ma motivata da un’identità di proporzione o di forma; il simbolo è al centro di un rapporto immotivato tra veicolo segnico e significato, secondo una convenzione decifrabile (come le lettere dell’alfabeto); l’indice infine è causalmente connesso all’oggetto, fisicamente (può esserne un frammento, come una reliquia ad esempio) o per contiguità. Il legame fondato tra l’oggetto e il suo indice è di tipo “esistenziale”, perché connesso ai processi di ricezione del

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performatività del comportamento linguistico della vita quotidiana, in una spazio-temporalità presente.

La sola morfologia del testo teatrale pone del resto più di un’ambiguità poiché, se è vero che a differenza delle battute le didascalie «non possono mai mancare»18, è anche vero che entrambi gli strati testuali dipendono dal sistema convenzionale sincronico. Due sono i parametri che a nostro avviso influiscono sulla quantità e qualità delle indicazioni sceniche: il primo è la distanza del

testo drammatico dalla scena, il secondo è la complessità semantica del testo drammatico.

Col primo punto si vogliono indicare esplicitamente le condizioni generali della messinscena, il se e il come il testo si produce visivamente. Si ha la distanza minima tra testo e scena quando l’autore coincide con l’allestitore; la maggiore separazione si ha invece quando una traccia scritta è manipolata da una o più persone diverse dall’autore, e massimamente in un’epoca differente da quella della stesura.

Con il secondo punto non si intende richiamare il valore squisitamente artistico o tecnico dell’opera drammatica, quanto la densità di segni extra-verbali. Diremo quindi che la complessità di un testo deriva da come l’ammontare di senso è distribuito sulla superficie del testo, per sua natura multiplanare. Se il significato dell’opera (in termini semantici: il valore comunicativo dell’enunciazione drammaturgica, ovvero il modo di indicare un’idea e l’idea stessa) si risolve esclusivamente nello scambio di battute, si ha una complessità minima. Qualora invece questa espressione sia il prodotto di più codici extralinguistici che coesistono, il valore parametrico è massimo.

È possibile affermare che, perlomeno nei testi del teatro occidentale, si riconosce una sorta di ciclicità, un andamento fasico che interessa questi due parametri, distanza dalla scena e complessità semantica. Nessuna delle condizioni si può pensare in termini esclusivi; si tratta di dinamiche non lineari, che si avvicendano, si intrecciano, si respingono, si moltiplicano, convivendo in una mescidanza di istanze differenti. Al più conviene parlare del carattere

senso e motivato da una prossimità spaziale e/o temporale che non ne snatura la configurazione. Si rimanda all’edizione delle Opere (Milano, Bompiani, 2003, 4 voll., a cura di Massimo Bonfantini, in particolare il primo volume, La semiotica) e per un primo approccio al volume di Giampaolo Proni, Introduzione a Peirce, Milano, Bompiani, 1990. Si veda anche Regis Débray, Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in Occidente (trad. it. di Andrea Pinotti), Milano, Il Castoro, 2010 [1999], p. 151.

18 «Il loro grado zero è costituito da un segno grafico che indica l’apertura del discorso; poi si

passa al nome dei personaggi e infine all’accurata descrizione del loro aspetto. Parlando di battute, esse possono anche essere assenti. Veleno di Vitrac, ad esempio, ha solo didascalie, e così anche gli Actes sans paroles di Beckett», Cesare Molinari e Valeria Ottolenghi, Leggere il

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dominante che l’una o l’altra assumono in una particolare situazione storica e geografica19; trovo assolutamente convincente, pour cause, la sintesi di Paolo Bosisio:

[…] la didascalia segue nei secoli le vicende alterne della drammaturgia, rispecchiando con la sua più o meno cospicua presenza, a corredo dei testi, la loro elettiva destinazione alle scene o alla sola lettura, nonché le caratteristiche professionali dell’autore, talvolta regista e interprete di se stesso, talaltra letterato puro, affatto disinteressato all’eventualità di una rappresentazione dell’opera sua20.

Sulla stessa linea si era espresso in precedenza Achille Mango: «la didascalia comincia a comparire quando la separazione fra la scrittura drammaturgica e la rappresentazione non solo esiste ma viene addirittura teorizzata con argomentazioni che tendono a escludere il cosiddetto operatore teatrale dalla fase creativa dello spettacolo»21; e Raffaele Morabito: «l’incremento dello spazio occupato dalle didascalie all’interno del testo drammaturgico corrisponde storicamente al progressivo dissociarsi della figura dell’autore del testo scritto da quella di chi mette in scena lo spettacolo servendosi del testo»22.

Così come le battute assorbono e ridicono il sistema di pensiero, la condizione umana e i suoi diaframmi linguistici, le didascalie illuminano sui modi della rappresentazione. Nelle pagine che seguono proverò ad ancorare questo ragionamento ad alcuni episodi catturati nella progressione diacronica della pratica e delle teorie del teatro.

19 È quanto affermava, in altri termini, Gigi Livio: «[…] le didascalie tendono a precisarsi in

periodo in cui l’evento spettacolare è meno formalizzato: quando lo scrittore conosce già il tipo di linguaggio della scena del suo tempo e sa, con una certa approssimazione, che il suo testo passerà attraverso quel linguaggio, non ha bisogno di insistere molto sulle didascalie. Quando, invece, lo scrittore si trova davanti a un’epoca di grandi mutamenti, ricorre allora all’abbondanza e alla precisione delle didascalie nel tentativo di salvaguardare il significato del proprio testo e, contemporaneamente, qualora si tratti di uno scrittore che ha interessi innovativi nei confronti del linguaggio della scena […], di concorrere a sua volta, e per ciò che gli pertiene, al cambiamento in corso sulle assi del palcoscenico», Gigi Livio, La scrittura

drammatica, Milano, Mursia, 1992, p. 15.

20 Paolo Bosisio, La didascalia drammaturgica nell’ultimo Pirandello (1925-1936), in Id., La

parola e la scena. Studi sul teatro italiano tra Settecento e Novecento, Roma, Bulzoni, 1987, p.

369.

21 Achille Mango, Funzione della didascalia nell’atto unico, in Pirandello e il teatro, a cura di

Enzo Lauretta, Palermo, Palumbo, 1985, p. 103.

22 Raffaele Morabito, Parola e scrittura. Oralità e forma letteraria, Roma, Bulzoni, 1984, p.

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1 . 1 . 1 LO S P E T T A C O L O S E N Z A T R A C C I A

La “verginità” didascalica del teatro antico – greco e romano – deriva dal rapporto diretto tra il testo e la materialità della rappresentazione. L’etimologia racconta non solo la storia di una parola ma la realtà di una pratica originaria o di un pensiero; nell’etimo della parola didascalia è contenuto il concetto di insegnamento: il verbo didasko (διδασκο = io insegno; la medesima radice si ritrova in didattica) ci riporta alle condizioni dell’evento spettacolare in età greca.

Finché l’evento teatrale si dà come fatto agonistico, recitato una tantum, e i drammaturghi sono responsabili direttamente non solo del testo ma anche della messinscena, i copioni occorrenti si limitano a mettere per iscritto la sequenza delle battute23. Si tratta di un testo avente mero valore funzionale, la cui necessità principale consiste nell’indicare le entrate e le uscite degli attori; non è raro tuttavia che alcune annotazioni relative all’azione siano inserite nel commento del coro, in modo da spiegare per ridondanza gli atti che si svolgono sotto gli occhi del pubblico. Del resto, in una tragedia greca, tutto o quasi è rivelato internamente al parlato; nella sua integrità il corpus delle battute fornisce i dati essenziali allo svolgimento dell’azione, individua l’identità del personaggio e i suoi tratti essenziali (è noto il tipico procedimento drammatico di autopresentazione del personaggio all’interno dei prologhi). Non altrove che nel dialogo è da ricercarsi il significato dell’opera24.

23 Sugli aspetti drammaturgici del teatro in epoca greca si veda l’essenziale Harold C. Baldry, I

Greci a teatro. Spettacolo e forme della tragedia, Roma-Bari, Laterza, 2006, e il volume di

Elena Adriani, Storia del teatro antico (Roma, Carocci, 2005). Vincenzo Di Benedetto e Enrico Medda sono autori di un prezioso volume sulla dimensione scenica, La tragedia sulla

scena. La tragedia in quanto spettacolo teatrale, Torino, Einaudi, 1997.

24 Cfr. Andrea Ercolani, Le didascalie sceniche del teatro tragico, in La tragedia greca.

Metodologie a confronto, a cura di Angela Zampetti e Andrea Marchitelli, Roma, Armando

Editore, 2000, pp. 15-30. Definito il rapporto intercorrente tra testo drammatico e messinscena, il contributo di Ercolani evidenzia la differenza tra le didascalie sceniche dei testi teatrali moderni, rigorosamente esterne al testo, e le didascalie sceniche della drammaturgia antica, interne al testo. La classificazione tipologica di queste ultime proposta dall’autore comprende le didascalie che definiscono l’ambientazione, lo spazio scenico (la “scenografia verbale”) e i parametri temporali dell’azione; le didascalie che individuano l’identità dei personaggi (in primo luogo gli annunci di ingresso in scena, che rivelano, pur nella loro asistematicità di impiego, una funzione registica rivolta agli attori); le didascalie che definiscono «l’atteggiamento corporeo (gesti), i movimenti e le espressioni degli stati emotivi dei personaggi» (pp. 19 sgg.); le didascalie che regolano i movimenti di ingresso e di uscita di scena.

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Ciò spiega la coincidenza etimologica con il nome del poeta-allestitore, il didaskalos (διδασκαλος), a cui è affidata anche la preparazione degli attori (corodidascalo era colui che istruiva il coro). Didaskalia è pertanto l’istruzione impartita agli attori circa il modo di recitare i drammi. Raffaele Cantarella ci informa poi che con la prassi di affidare la messinscena a un singolo, frequentemente un attore professionista, «divennero opportune brevi note in margine al testo, dette παρεπιγραφαί (“parepigrafi” o “iscrizioni marginali”)»25, che sono da attribuire agli stessi autori o, per l’appunto, agli allestitori che ricevevano il testo e vi apponevano alcune integrazioni26. Del resto, come sostiene Massimo Di Marco, «la scissione tra autore e regista e il moltiplicarsi delle occasioni di rappresentazione di un medesimo dramma anche fuori dall’Attica ebbero senza dubbio un’incidenza rilevante sulla scrittura dei testi drammatici, ma furono fenomeni di cui sarebbe errato per il V secolo esagerare l’importanza, mentre interessarono soprattutto, com’è noto, l’era posteuripidea»27. Analogamente è inopportuno datare all’epoca dei grandi tragici del V secolo la diffusione di una sorta di Buchdrama, destinato a un pubblico di lettori, essendo ancora irrilevante la circolazione di testi scritti.

Per quanto è noto i testi delle commedie latine non contengono mai didascalie, benché la responsabilità della messinscena sia affidata a un allestitore e non allo stesso drammaturgo. È lecito supporre che quest’ultimo conoscesse perfettamente le condizioni generali della messinscena; del resto, quello in vigore a Roma era un codice formale assai rigido, stabilizzato sui tipi fissi riconoscibili attraverso le maschere. Come in Grecia l’allestimento scenico era affidato a una sorta di capocomico, il dominus gregis (che spesso

25 Raffaele Cantarella, ad vocem Didascalia, in Enciclopedia dello Spettacolo, cit., vol. IV, pp.

655-656.

26 Per estensione, passarono a indicare i documenti con i quali i greci redigevano una sorta di

verbale relativo alle pièces recitate. Con il nome di Didascalie, Aristotele scrisse un sommario dei concorsi teatrali della città di Dionisia, comprendente ditirambi ed eventi drammatici per un tempo di quasi un secolo; questa raccolta, di cui sono rimasti pochi frammenti, è oggi l’unica fonte rimastaci circa la cronologia delle festività, dei testi rappresentati e degli autori dell’antica Grecia. Per scrivere Le didascalie, che riportavano gli argomenti dei drammi, con la data e il piazzamento ottenuto, Aristotele elaborò materiale proveniente dall’archivio degli arconti. È noto infatti che l’arconte, al termine dell’agone drammatico, faceva incidere su tavole di marmo da esporre al pubblico sull’Acropoli autori e opere vincitrici, a memoria dell’avvenimento.

27 Scrive ancora Di Marco: «In generale la presenza di didascalie registiche è più numerosa

nelle tragedie di Euripide che non in quelle di Eschilo e di Sofocle; il dato non sorprende ed appare anzi perfettamente in linea con le caratteristiche di una drammaturgia, qual è appunto quella euripidea, che costruisce scene di grande vivacità ed impegna gli attori in una fitta serie di movimenti e di gesti. Che a tali indicazioni Euripide facesse ricorso in maggior misura dei suoi predecessori perché preoccupato che i suoi drammi potessero essere rappresentati lontano da Atene sotto la direzione di altri è ipotesi priva di fondamento», Massimo Di Marco, La

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coincideva col primattore), o il choragus (figura professionale a metà tra un trovarobe e un attrezzista).

I manoscritti delle commedie intorno al secondo secolo avanti Cristo si limitano a registrare la data e l’occasione della prima rappresentazione (e delle eventuali riprese successive) e gli “ingredienti” della commedia, riportando cioè, come gli odierni programmi di sala, i nomi dei personaggi da interpretare (le dramatis personae), l’accompagnamento musicale, quando presente, e gli strumenti utilizzati dai musicisti28. Erano queste per l’appunto le note informative con cui i grammatici solevano compilare le didascalie, servendosi verosimilmente delle indicazioni trovate nei copioni delle compagnie. Per contro, le didascalie interne sono frequentissime, come nella complessa versificazione di Plauto, nei cui manoscritti si trovano al più le indicazioni DV (diverbium) e C (canticum), per distinguere i versi cantati da quelli recitati.

La riscoperta dei manoscritti plautini e terenziani, avvenuta negli ultimi decenni del Quattrocento, sortisce un effetto dirompente su tutto il teatro comico europeo. Nei confronti del modello latino le innumerevoli traduzioni, rielaborazioni e libere trascrizioni composte da lì in avanti si pongono in modo analogo a quello dei testi latini nei confronti di quelli greci.

Come per il teatro classico, la stagione che comincia con il XVI secolo ha nel sistema culturale e politico delle festività il movente e il contenitore dello spettacolo teatrale, in quanto forma espressiva della rappresentazione del potere (insieme a musica e poesia). In effetti, com’è stato evidenziato, «la commedia rinascimentale riparte […] dal recupero della traccia mitico-ideologica che assicura il perdurare di schemi sociali lungamente collaudati»29 e la precettistica classica normalizzò la pratica scenica intorno ai generi convenuti (commedia, tragedia e dramma pastorale), manifestazioni di modelli, gusti e orientamenti comuni a tutto il continente europeo. A dire il vero, il canone aristotelico, in combinazione con quello oraziano30, non stabilì un’ortodossia intoccabile e non impedì innovazioni rilevanti ma, come sintesi delle riflessioni sul teatro, fu accettato per secoli e sulla falsariga delle dottrine peripatetiche furono fissati i criteri della rappresentazione. L’imitatio delle strutture formali classiche non vietava una certa libertà e disinvoltura

28 Cfr. William Beare, I Romani a teatro (trad. it. di Mario De Nonno), Roma-Bari, Laterza,

2003, pp. 251 sgg.

29 Giovanni Attolini, Teatro e spettacolo nel Rinascimento, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 238. 30 Di Orazio gli studiosi rinascimentali recuperarono come fondamenti di teoria letteraria

l’Epistola ai Pisoni, più nota come Ars poetica, da cui trassero un compendio in forma didattica degli elementi teatrali e degli strumenti per metterli in pratica. Di Aristotele si commentava la

Poetica, testo invero assai problematico ma da cui gli studi teorici tra il Cinque e Settecento

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nell’applicazione dei modelli: contaminazioni, sovrapposizione di stili, adattamento alle nuove situazioni sociali.

La rielaborazione delle commedie plautine e terenziane, mediata dal commento di Elio Donato31, interessa anche i contenuti extratestuali, come appunto le scarne note informative preposte al dramma. Dal modello latino la commedia preleva infatti l’uso dei prologhi, con i quali si domanda attenzione e si comunica l’antefatto. Peraltro, nel genere assolutamente dominante della commedia cinquecentesca – si vedano gli esempi di Ariosto, Ruzante o Machiavelli – le indicazioni sceniche sono espulse; permangono alcune indicazioni standard, come il latino exit, qualora il gioco delle entrate e delle uscite non sia sottinteso con il mutare delle scene. Fatta salva l’ambientazione scenica, il cui riferimento alla vicenda è puramente indicativo, la rappresentazione deduce dalle battute il gioco scenico necessario all’interpretazione. Ma oltre a ciò Morena Pagliai rileva come l’assenza di indicazioni sceniche si rapporti alla tipologia del pubblico, «culturalmente omogeneo, tanto da poter collettivamente decifrare e contestualizzare il testo drammaturgico»32 e come questa compattezza sia determinante per la struttura e la comprensione degli intrecci.

Pur sviluppandosi al di fuori di un contenitore festivo e configurandosi come un’impresa commerciale, la situazione organizzativa del teatro elisabettiano (che va sotto i regni di Elisabetta I e Giacomo I, tra il 1560 e il 1630 all’incirca) può essere equiparata per molti aspetti a quella del teatro greco: i commediografi, direttamente coinvolti nella preparazione del play, scrivono per la scena e non per la pubblicazione. Per di più, colui che scrive è frequentemente l’attore principale, il direttore della compagnia o il produttore, e ha perciò un controllo diretto sulla messinscena del proprio testo. Lavori che sono prodotti in grande quantità per assecondare la richiesta crescente del pubblico e per essere venduti alle compagnie.

31 L’analisi compiuta da Piermario Vescovo conferma la centralità di Terenzio (e del

commento donatiano) per la commedia cinquecentesca. La riscoperta di Elio Donato e della sua esegesi terenziana (la cui fortuna tra i teorici del teatro rinascimentale, come quella dei suoi studi di grammatica nell’età medievale, fu considerevole) consegna alla riflessione umanistica il problema della forma del dramma antico. Donato restituisce alle commedie terenziane, scritte circa cinque secoli prima, l’originale ripartizione in atti, recuperandola dal testo indiviso pervenutogli, sulla base del criterio del “vuoto di scena”. Criterio che, «come elemento determinatore dell’atto rientra nella tradizione umanistica di applicazione alla drammaturgia antica e, ciò che più importa, nella pratica di scrittura del teatro moderno» (Piermario Vescovo,

Entracte. Drammaturgia del tempo, cit., p. 120). Terenzio, eliminando gli interludi corali di

matrice greca, aveva rimosso il segno esterno della divisione in atti. Gli eruditi romani (Donato ed Evanzio, soprattutto) la recuperarono, fondando di fatto una solida prassi.

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Si racconta come scandalosa l’iniziativa di Ben Jonson, uno dei più apprezzati e acclamati scrittori della prima metà del Seicento, di pubblicare, come fossero opere letterarie, alcune sue commedie. Di fatto egli è il primo a inscrivere il suo lavoro di commediografo in un evento editoriale gestito in proprio anziché promosso dalle compagnie (come la pubblicazione dell’in-folio shakespeariano, avvenuta per iniziativa degli attori dei King’s men). Per la raccolta delle sue opere teatrali, uscita a stampa nel 1616, Jonson «scelse i drammi da pubblicare e elevare al rango di ‘opere’ – non più copioni ma testi anche per la lettura – e li corredò di un articolato apparto paratestuale: prologhi, ‘inductions’, cori, epiloghi, didascalie, chiose e quant’altro potesse servire a sostegno della propria authorship, a una sorta di autocanonizzazione del tutto eccezionale per i tempi»33. È tra i primi, tra l’altro, a corredare la lista iniziale dei personaggi con un breve ritratto psicologico.

La circolazione di testi a stampa (spesso non autorizzati e la cui incerta autenticità rende difficile stabilire la paternità di certe scelte drammaturgiche) e la conseguente accessibilità per le formazioni professionistiche rende possibile mettere in scena un testo senza averlo mai visto prima e senza l’aiuto del commediografo. Analogamente a quanto detto in precedenza, non vi è necessità di mettere per iscritto l’attrezzatura necessaria per lo spettacolo, poiché se ne conosce perfettamente la disponibilità, mentre gli attributi fisici dei personaggi e i loro movimenti sono contenuti nei dialoghi, come didascalie implicite34.

Il “luogo” dell’azione, nei drammi greci classici come nelle commedie rinascimentali, risiede nella parola e nel gesto: a questi testi Marco De Marinis assegna il nome di Testo Drammatico-Copione, poiché legati in modo indissolubile alla materialità della rappresentazione, vale a dire alla collocazione in scena35. In sostanza gli autori cinquecenteschi (e seicenteschi, fuori d’Italia) azzerano la componente didascalica, contando sulla piena e sottintesa accettazione del luogo e del gioco scenico prestabiliti.

Tale sistema di consenso e conformità può attagliarsi efficacemente anche alla Commedia dell’Arte e al suo pubblico (in questi decenni la stagione della sua fioritura). Nondimeno, gli scenari e i canovacci della Commedia dell’Arte, pur contando prioritariamente sull’invenzione effimera dell’attore – come nella consuetudine del dramma a vocazione popolaresca – possono dirsi,

33 Vittoria Intonti, Forme del tragicomico nel teatro tardoelisabettiano e giacomiano, Napoli,

Liguori, 2005, p. 26.

34 Si veda a questo proposito lo studio di Masolino D’Amico, Scena e parola in Shakespeare,

Torino, Einaudi, 1974.

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come asserisce D’Amico, «tutti una didascalia, dacché la trama dei dialoghi vi si confonde con la proposta dell’azione scenica»36.

1 . 1 . 2 NE R O S U B I A N C O

Tra le due epoche sin qui affrontate, l’età greco-romana e quella cinque-seicentesca, si incastra un periodo assai complesso, enigmatico e per certi aspetti paradossale. Dopo l’oblio successivo al tracollo dell’Impero romano occidentale e nonostante la letteratura patristica e i documenti ecclesiastici testimonino un atteggiamento aspramente ostile nei confronti del teatro, la rinascita di forme spettacolari passa proprio attraverso i rituali liturgici. È a partire dalla messa (e dall’unità organica e simbolica dello spazio architettonico ad essa consacrato), dal canto cerimoniale, dalla narrazione di eventi biblici ed evangelici, che prende forma la futura drammatizzazione cristiana.

Nelle sue primissime presenze il gesto stilizzato si limita ad accompagnare la parola cantata o salmodiata. La partitura si farà più complessa, nei primi due secoli del secondo millennio, con la separazione delle voci, la fuoriuscita dal recinto sacro dell’edificio e lo sviluppo dei nuclei tematici originari.

In un testo in lingua anglo-normanna, databile intorno alla metà del XII secolo, il Jeu d’Adam (italianizzato in Mistero d’Adamo e conosciuto anche come Ordo representacionis Ade), compare un ricco apparato di didascalie in latino – affiancate al dialogo e vergate, come d’uso, con inchiostro rosso – contenente precise indicazioni per l’allestimento dello spazio scenico, verosimilmente collocato sul sagrato antistante la chiesa (anche se non è da escludersi in questo caso una rappresentazione in interni)37. La compresenza

36 Silvio D’Amico, ad vocem Didascalia, in Enciclopedia dello Spettacolo, cit., vol. IV, p. 657.

La recente fioritura di studi e antologie documentarie sulla Commedia ha messo in luce molti dei meccanismi compositivi e delle tracce drammaturgiche implicate nella creazione dei testi spettacolari. Qui è opportuno segnalare almeno I canovacci della Commedia dell’Arte (a cura di Anna Maria Testaverde, trascrizioni e note di Anna Evangelista, Torino, Einaudi, 2007), una silloge di 74 testi selezionati da raccolte, manoscritte e a stampa, databili tra l’ultimo trentennio del Cinquecento e l’inizio del secolo XVIII; e la meritevole novità di «Commedia dell’Arte. Annuario internazionale», periodico diretto da Siro Ferrone e Anna Maria Testaverde, di cui è apparso il primo numero nel 2008, che si fa apprezzare per l’analisi storica rigorosa e come strumento indispensabile per conoscere le risorse bibliografiche a disposizione.

37 Il dramma è in lingua anglo-normanna, diviso in tre episodi staccati: il peccato compiuto da

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del volgare e del latino si spiega con la differenza dei destinatari: il testo in volgare, fungendo da copione, è diretto agli attori, le didascalie scritte in lingua latina erano invece destinate agli allestitori, evidentemente appartenenti al clero, ai quali forniscono lunghe e particolareggiate istruzioni, soffermandosi sulla descrizione dell’abbigliamento dei personaggi, della loro collocazione in scena e delle modalità di recitazione38.

Matrice ecclesiastica, destinatario laico e popolare, fine educativo: sono le caratteristiche che connotano anche i numerosi laudari, particolarmente diffusi nel Centro Italia, con i quali le confraternite trascrivono la rappresentazione di episodi evangelici e atti devozionali: eventi imponenti, realistici, con una punteggiatura spettacolare perfezionata di anno in anno, e che si traduce nella stesura di componimenti poetici con accurate didascalie in italiano39. Queste ultime hanno dunque una funzione prescrittiva: nella minuziosa definizione dei movimenti rituali si può ritrovare una sorta di canone coreografico, basato su precise regole compositive e spaziali, le stesse che ordinavano la realizzazione dei cicli pittorici40. Gli imperativi scenotecnici e scenografici si inscrivono cioè nella scrittura teatrale, comprovando una

venuta del Redentore. Può essere considerato una tappa intermedia tra i drammi sacri concepiti per un’esecuzione scenica all’interno della chiesa, e i drammi in volgare pensati per una rappresentazione “in esterni”. La traduzione italiana di Italo Siciliano è inserita nel volume curato da Gianfranco Contini, Teatro religioso del Medioevo fuori d’Italia. Raccolta di testi

dal secolo VII al secolo XV, Milano, Bompiani, 1949. Il manoscritto è stato pubblicato a cura

di Willem Noomen in Le jeu d’Adam (Ordo representacionis Ade), Parigi, Honoré Champion, 1971.

38 Vedi Luigi Allegri, Teatro e spettacolo nel Medioevo, Roma-Bari, Laterza, 1988, pp. 192

sgg.; per un panorama generale anche Silvia Carandini, Teatro e spettacolo nel medioevo, in

Letteratura italiana, a cura di Alberto Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1986, vol VI - Teatro,

musica, tradizione dei classici, pp. 15-67; e Sandra Pietrini. Spettacoli e immaginario teatrale

nel medioevo, Roma, Bulzoni, 2001. Fondamentale infine Federico Doglio, Il teatro scomparso. Testi e spettacoli tra il X e il XVIII secolo, Roma, Bulzoni, 1990.

39 Per una bibliografia ragionata sulla produzione delle confraternite medievali si rimanda al

repertorio Confraternite religiose laiche (a cura di Marina Gazzini), in «Reti medievali», gennaio 2004, http://www.rm.unina.it/repertorio/confrater.html.

40 Si legga in proposito Pierre Francastel, Guardare il teatro, a cura di Fabrizio Cruciani, trad.

it. di Brunella Torresin, Bologna, Il Mulino, 1987, che raccoglie una serie di saggi pubblicati dallo storico francese tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Il riferimento comune tra cicli pittorici e scene teatrali è la tradizione popolare dei cortei cerimoniali, delle feste e dei riti, in altre parole delle “situazioni di insieme” tipiche dell’epoca. Francastel descrive alla perfezione il rapporto tra teatralità della pittura e pittoricità della scena e fa notare come nel periodo successivo i pittori riproducessero quanto avevano visto nei luoghi spettacolari: «Per l’artista dell’inizio del Quattrocento, quel che noi chiamiamo fondale, facendo riferimento all’avvenire, corrispondeva non tanto alla chiusura di uno spazio scenico delimitato, bensì ad un primo tentativo di creare, al contrario, uno spazio di riferimento non omogeneo. I contemporanei associavano allo spettacolo realistico di cose viste nella strada o su un palco sfondi figurativi a due dimensioni, che ricordavano, probabilmente, non tanto il sipario o il fondale di una sala chiusa, ma quegli spazi plastici, materiali e familiari, a cui davano forma i grandi affreschi murali presenti ovunque intorno a loro» (p. 65).

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profonda coesione tra il testo che mostra (le didascalie) e il testo che dimostra (il dialogo)41. È il futuro, insieme con il modo imperativo e il congiuntivo esortativo, il tempo verbale impiegato per esporre il gioco scenico dei drammi liturgici.

La situazione sin qui descritta perdura nel teatro liturgico tardomedievale, estendendosi fino alle sacre rappresentazioni in volgare. Intrecciandosi con i nuovi interessi culturali dell’ambiente umanistico e sviluppando una struttura drammatica ancora più articolata, il genere della Sacra Rappresentazione fiorentina del Quattrocento necessita, per la corretta simbolizzazione spaziale, di dispositivi scenici particolari descritti con precisione all’interno di “libretti di scena”. Le cospicue istruzioni pratiche compongono anche un prontuario per la recitazione, impostata su gesti di stilizzazione retorica e cadenzata sui testi intonati monodicamente42.

Gli esempi da richiamare sono qui senz’altro i letterati che gravitano intorno alla corte medicea: Castellano Castellani, probabile autore della

Rappresentazione della conversione di Santa Maria Maddalena; Feo Belcari,

tra i più prolifici, che scrisse ricalcando il racconto biblico, la

Rappresentazione di Abram e Isaac43; e Lorenzo de’ Medici, il Magnifico, a cui si deve una Rappresentazione dei SS. Giovanni e Paolo44. Un caso assai noto è quello della Rappresentazione di Santa Uliva, in cui, in misura maggiore che nelle altre scritture drammatiche del secolo, come ebbe modo di scrivere Alessandro D’Ancona45, le lunghe didascalie interrompono il manoscritto

41 Cfr. Didascalie teatrali tra Otto e Novecento, cit., pp. 18-19.

42 Di grande interesse l’intervento di Paola Ventrone, La sacra rappresentazione fiorentina:

aspetti e problemi, in Esperienze dello spettacolo religioso nell’Europa del Quattrocento (Atti

del XVI convegno del Centro Studi sul Teatro Medioevale e Rinascimentale, Roma, 17-21 giugno 1992, a cura di Maria Chiabò e Federico Doglio), Roma, Torre di Orfeo, 1993, pp. 67-99, in cui l’autrice associa l’efficacia drammaturgica di questi testi proprio al carattere catechetico e divulgativo delle didascalie. Vedi anche il precedente Per una morfologia della

Sacra Rappresentazione, all’interno del volume collettaneo Teatro e cultura della rappresentazione. Lo spettacolo in Italia nel Quattrocento, Bologna, Il Mulino, 1988, pp.

195-225.

43 A proposito delle rappresentazioni di Feo Belcari Anna Maria Cascetta ha scritto che «le

didascalie sono molto accurate, descrivono l’azione con grande precisione […] e alla lettura assumono un rilievo plastico» (Anna Maria Cascetta, Ingresso a teatro, cit., p. 180).

44 A cominciare dalle celebri Ricordanze di Bartolomeo Masi, la letteratura sull’argomento è

amplissima. Si riveda anche il volume Teatro del Quattrocento. Sacre rappresentazioni, a cura di Luigi Banfi, Torino, UTET, 1963; e Sacre rappresentazioni fiorentine del Quattrocento, a cura di Giovanni Ponte, Milano, Marzorati, 1974. La Rappresentazione dei SS. Giovanni e

Paolo, messa in scena nel 1491, è un testo chiave perché testimonia l’allontanamento dal

platonismo e la prossimità dell’ultima produzione di Lorenzo con la letteratura religiosa. Cfr. Federico Doglio, Teatro in Europa, Milano, Garzanti, 1982, vol. II, pp. 479 sgg.

45 In La rappresentazione di Santa Uliva riprodotta sulle antiche stampe, a cura di Alessandro

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somministrando le disposizioni relative ai costumi, alla partitura mimica e agli oggetti di scena46.

Scavalcando l’età rinascimentale, un’analoga prodigalità di indicazioni sceniche si ripresenta con la spettacolarità barocca; l’irruzione del fantastico, dell’esotico, del meraviglioso sulle scene del Seicento tende a fare aggio sul contenuto letterario. Gli intermezzi coreografici e scenografici, che nel tardo Cinquecento esaltavano il pubblico con effetti impiegati senza parsimonia tra un atto e l’altro, ormai prevalgono del tutto; la configurazione degli apparati sfrutta in pieno il valore dell’immagine con inganni prospettici, macchinerie e giochi pirotecnici in grado di produrre una magia perturbante e un’illusione costante47. D’altra parte la trattatistica scenica secentesca si può leggere come una macrodidascalia che compendia il lessico scenico della rappresentazione (è il caso della Pratica di fabbricar scene e machine di Nicola Sabbatini, con le sue approfondite schede degli accorgimenti scenotecnici a disposizione).

Segno di ciò sono le lunghe e dettagliate didascalie che gli autori allegano ai loro testi e che contengono una descrizione del complesso degli “apparati” necessari. Testi che vanno considerati, come ha sottolineato Anna Maria Cascetta, «selezioni a posteriori di materiali elaborati nel corso di più eventi rappresentativi»48. Una didascalia come questa: «Maddalena sarà

sollevata da terra con ingegno sotterraneo alquanto in alto, e in quell’istante

nell’antologia curata da Luigi Banfi, cit., pp. 743-849. Messa in scena negli ultimi decenni del Quattrocento, è stata a lungo datata alla seconda metà del Cinquecento, a causa della sua struttura assai complessa. In proposito lo studio specifico di Paola Ventrone, «Inframessa» e

«intermedio» nel teatro del Cinquecento: l’esempio della «Rappresentazione di Santa Uliva»,

in «Quaderni di teatro», a. VII, n. 25, 1984, pp. 41-53.

46 Si veda Teatro del Quattrocento. Sacre rappresentazioni, cit., p. 842. La Rappresentazione

di Santa Uliva ha avuto il suo allestimento più celebre nel corso del Primo Maggio Musicale

del 1933, nell’adattamento di Corrado D’Errico, con la regia di Jacques Copeau e le musiche originali di Ildebrando Pizzetti. Della messinscena si è occupata approfonditamente Maria Ines Aliverti, prima con un articolo corredato da una preziosa appendice documentaria, Note e

documenti sulla Santa Uliva di Jacques Copeau (1932-1933), in «Teatro archivio», n.s. a. IV,

n. 6, 1982, pp. 12-103; e successivamente nel saggio La Rappresentazione di Santa Uliva

(1933). Il manoscritto originale di regia di Jacques Copeau, contenuto in Teatro italiano, a

cura di Pietro Carriglio e Giorgio Strehler, Roma-Bari, Laterza, 1993, vol. I, pp. 36-92, con una bibliografia aggiornata. Ricordiamo qui, tra le versioni moderne della Rappresentazione, quella assai meno nota del 1949, musicata da Giulio Cesare Sonzogno su libretto di Renato Simoni, cfr. Giulio Cesare Sonzogno, Regina Uliva: leggenda in tre atti di Renato Simoni; riduzione

per canto e pianoforte, Milano, 1943; Renato Simoni, Regina Uliva: leggenda in tre atti, derivazione libera dalla ‘Rappresentazione di Santa Uliva’, Milano, Sonzogno, 1948.

47 Il fenomeno riguarda anche i collegi gesuitici, sorprendentemente attivi e creativi nel campo

dello spettacolo. Si veda in proposito Giovanni Isgrò, Fra le invenzioni della scena gesuitica.

Pedagogia e debordamento, Roma, Bulzoni, 2008.

48 Anna Maria Cascetta, Ingresso a teatro, cit., p. 141. Analoga considerazione postula Siro

Ferrone: «Le commedie che Andreini e gli altri comici dell’Arte pubblicarono (da Cecchini a Scala a Barbieri) erano le sintesi a posteriori di spettacoli già fatti», Siro Ferrone,

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