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L’edificio sacro

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Academic year: 2021

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Indice

Introduzione ... 1

I. L’edificio sacro ... 5

I. 1. La chiesa: edificio di culto e spazio per la celebrazione liturgica ... 5

I. 2. La chiesa e lo spazio liturgico ... 11

I. 3. Lo spazio sacro... 14

I. 4. Le soppressioni di fine XVIII e inizio XIX secolo ... 17

I. 5. La nascita degli organismi di tutela. La Soprintendenza ... 22

II. Sant’Andrea Forisportam ... 29

II.1. La storia della chiesa e il suo aspetto attuale ... 29

II. 2. Due descrizioni della chiesa antecedente la profanazione ... 31

II. 2. a. La descrizione della chiesa di Paolo Tronci ... 32

II. 2. b. La descrizione della chiesa da Il Campione del 1783 degli ingegneri Giuseppe Gaetano, Niccolai Giovanni e dottore Stefano Piazzini ... 35

II. 3. La chiesa di Sant’Andrea nel quadro delle modificazioni ottocentesche del quartiere ... 36

II. 4. La chiesa di Sant’Andrea nel XX secolo ... 39

II. 5. 1985-1986. La chiesa diventa teatro ... 44

II. 6. Il teatro Sant’Andrea oggi ... 48

III. San Zeno ... 50

III. 1. La storia della chiesa ed il suo aspetto attuale... 50

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III. 2. Due descrizioni della chiesa antecedente la profanazione ... 54

III. 2. a. La descrizione di Paolo Tronci ... 54

III. 2. b. La descrizione della chiesa da Il Campione del 1783 degli ingegneri Giuseppe Gaetano, Niccolai Giovanni e dottore Stefano Piazzini ... 56

III. 3. La chiesa di San Zeno nel XX secolo... 57

III. 4. 1970-1972 ... 61

III. 5. La chiesa dopo i restauri del 1971 ... 64

IV. San Paolo all’Orto ... 68

IV.1. La storia della chiesa e il suo aspetto attuale ... 68

IV. 2. Due descrizioni della chiesa antecedente la profanazione ... 73

IV. 2. a. La descrizione della chiesa di Paolo Tronci ... 73

IV. 2. b. La descrizione della chiesa da Il Campione del 1783 degli ingegneri Giuseppe Gaetano, Niccolai Giovanni e dottore Stefano Piazzini ... 76

IV. 3. La chiesa di San Paolo all’Orto nel XX secolo ... 77

IV. 4. Recupero e restauro conservativo 1987-1992 ... 88

V. San Silvestro ... 95

V.1. La storia della chiesa e il suo aspetto attuale ... 95

V. 2. Due descrizioni della chiesa antecedente la profanazione ... 99

V. 2. a. La descrizione della chiesa di Paolo Tronci ... 99

V. 2. b. La descrizione della chiesa da Il Campione del 1783 degli ingegneri Giuseppe Gaetano, Niccolai Giovanni e dottore Stefano Piazzini ... 103

V.3. La chiesa di San Silvestro nel XX secolo ... 104

Conclusioni ... 119

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Bibliografia generale ... 125

Indice fotografico ... 132

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Introduzione

Il presente lavoro si incentra sull’analisi delle vicende storiche delle chiese pisane di Sant’Andrea Forisportam, San Zeno, San Paolo all’Orto e di San Silvestro, Questi edifici sono accomunati dal fatto che, dopo l’iniziale abbandono ed i successivi restauri di ripristino avvenuti nella seconda metà del Novecento, sono stati adibiti ad usi profani, divenendo sedi di associazioni o enti istituzionali, ad eccezione della chiesa di San Silvestro che a tutt’oggi versa in uno stato di abbandono ed è utilizzata come deposito della Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio di Pisa.

Partendo dall’erronea definizione di chiese sconsacrate – nel caso sarebbe stato più corretto definirle profanate – utilizzata negli studi per le chiese prese in esame, nel primo capitolo si è puntata l’attenzione sul concetto di profanazione e sul suo corretto utilizzo riguardo agli edifici sacri, mettendo in evidenza la differenza tra il termine “profanato” e la dicitura “a uso profano”. In seguito ho ritenuto opportuno delineare un quadro storico- legislativo, partendo dalle soppressioni del XVIII e del XIX secolo e proseguendo successivamente nella trattazione della nascita degli organismi di tutela e la loro azione.

Per l’analisi delle chiese sono state utilizzate sia fonti documentarie sia fonti orali; al fine di accertare se queste ultime fossero realmente sconsacrate, nella prima fase della ricerca è stato affrontato lo studio degli incartamenti contenuti negli Atti Straordinari custoditi nell’Archivio Arcivescovile di Pisa, che ha messo in evidenza la completa assenza nei documenti del termine sconsacrato in relazione a tali edifici. L’attenzione è stata dunque rivolta al Codice di Diritto Canonico, ed in particolare ai Canoni del Titolo I della Terza che trattano nello specifico dei luoghi sacri, fornendo anche indicazioni su come possano essere adibiti ad altri usi purché tali da non contravvenire alla sacralità del luogo.

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2 Fondamentale per delineare lo stato di conservazione delle chiese nel Novecento è stato l’esame delle foto e dei carteggi inediti, conservati rispettivamente nell’Archivio Fotografico e nell’Archivio Generale della Soprintendenza di Belle Arti e Paesaggio di Pisa.

Ad ogni chiesa è stato dedicato un singolo capitolo nel quale, dopo aver sinteticamente delineato la storia dell’edificio dalla sua fondazione ad oggi ed averne fornito una breve descrizione artistica-architettonica, si sottolinea come, una volta persa la funzione liturgica, l’edificio versi in uno stato di semiabbandono e quindi si ponga il problema del suo mantenimento sino alla cessione degli immobili attraverso vendite o comodati d’uso a terzi. In ogni capitolo sono stati dettagliatamente trattati gli anni dei restauri conservativi effettuati in funzione del cambio di destinazione d’uso, attraverso l’esame sia dell’iter burocratico necessario per dare avvio ai lavori sia delle relazioni tecniche dei singoli interventi. Infine per comprendere anche quali siano le problematiche che abitualmente oggi deve affrontare chi si occupa della gestione di tali edifici, sono state inserite le interviste, concesse alla scrivente dai fatte ai rispettivi responsabili dei nuovi centri culturali che oggi hanno sede nelle chiese oggetto della presente riceca.

Alla chiesa di Sant’Andrea Forisportam è dedicato il secondo capitolo della tesi. Per essa più che per le altre chiese il termine sconsacrato, oltre a essere scorretto, è del tutto inappropriato. Sicuramente l’erroneo utilizzo di tale termine si originò nel 1839, quando al posto della chiesa era stata prevista la costruzione di una pescheria, ma dal momento che tale progetto non venne mai realizzato e che la chiesa non venne distrutta, essa in realtà non perse mai il suo stato di luogo di culto, non cessando definitivamente di essere officiata nonostante il cambio di destinazione d’uso avvenuto nel 1985, quando divenne sede del Centro Culturale Sant’Andrea. Nel contratto di comodato d’uso pro tempore stipulato tra quest’ultimo e la Curia, che è la proprietaria dell’edificio, vennero stabiliti dei rigidi vincoli riguardanti l’uso

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3 della chiesa, che non doveva essere destinata ad impieghi contrari alla santità del luogo, vincoli che il Centro si impegnava a rispettare affinché ne potesse mantenere la cessione. Tale contratto è ancora in vigore anche per l’Associazione Teatro Sant’Andrea, che è subentrata al Centro Culturale Sant’Andrea quale titolare del contratto di comodato d’uso.

Il secondo capitolo è dedicato alla chiesa di San Zeno che, tra il campione di chiese prese in esame, è l’unica che possa definirsi realmente chiesa “ profanata” in quanto, dopo la profanazione avvenuta nel 1809 da parte delle truppe napoleoniche, non riacquistò più la sua funzione originaria, divenendo deposito prima di salnitro poi, una volta venduta al Comune nel 1836, di legname e solo dopo i restauri degli anni del 1970-72 venne restituita alla città come centro espositivo o auditorium.

A San Paolo all’Orto è dedicato il terzo capitolo, che ne mette in luce le complesse vicende. La chiesa, infatti, prima di divenire l’attuale sede della Gipsoteca dell’Università di Pisa, come la precedente venne profanata nel 1808 e chiusa al culto nel 1810, ripristinata al culto nel 1819 ed officiata. Adibita ad usi profani durante il primo conflitto mondiale, quando venne utilizzata come granaio, fu in seguito nuovamente ripristinata al culto ed officiata, fino a quando negli anni Cinquanta del XX secolo, a causa del cattivo mantenimento strutturale, venne chiusa al pubblico e quindi al culto, per essere riaperta solo nel 1992 quando, dopo i restauri di ripristino, essa venne adibita ad auditorium e centro culturale.

Il quarto capitolo è dedicato alla chiesa di San Silvestro, che è di proprietà demaniale fin dal 1881 ed è stata officiata fino alla fine degli anni Sessanta del XX secolo; in seguito è stata data in consegna alla Soprintendenza che l’ha adibita a laboratorio di restauro degli affreschi del Camposanto Monumentale di Pisa e deposito; a differenze delle altre chiese, essa a tutt’oggi versa in uno stato di abbandono.

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4 Nel capitolo conclusivo sono stati infine esaminati i punti fondamentali emersi dalla ricerca, ovvero come sia cambiato l’atteggiamento dello Stato dalle soppressioni settecentesche ed ottocentesche ad oggi, come i nuovi organismi di tutela siano nati in concomitanza alla presa di coscienza della necessità della salvaguardia del patrimonio storico, artistico, culturale e ambientale, quali siano stati i criteri di conservazione utilizzati nel recupero degli edifici presi in esame e come in tale recupero emergano sia le difficoltà di conciliare la nuova destinazione con la salvaguardia dell’immobile, sia quelle legate al reperimento di finanziamenti indispensabili per far fronte al mantenimento degli immobili.

Abbreviazioni

ASPI Archivio di Stato di Pisa AAPI Archivio Arcivescovile di Pisa

SBAEP-PI Archivio della Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio di Pisa

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Capitolo I

L’edificio sacro

I. 1. La chiesa: edificio di culto e spazio per la celebrazione liturgica

Le chiese esaminate nel presente lavoro sono state oggi riaperte al pubblico con una nuova destinazione d’uso a carattere profano. Tale modifica non deve però far sì che si guardi a queste chiese solo come opere architettoniche, distinte dall’originale destinazione liturgica che le qualificava.

Il termine “chiesa” deriva dalla parola latina ecclesia, usata in origine per indicare la comunità di persone convocate da Dio; solo successivamente con tale termine si indicherà l’edificio dentro il quale la comunità cristiana si riunisce per celebrarvi la liturgia della parola ed eucaristica. Per i primi tre secoli del cristianesimo non abbiamo testimonianze di costruzioni espressamente destinate alle cerimonie religiose: dapprima i cristiani, infatti, celebravano le loro adunanze e il sacrificio della messa nelle case private, talora nella basilica domestica, grande aula di cui erano fornite molte case patrizie, e altre volte sulle tombe dei martiri nell’anniversario della loro morte. Dal IV secolo cominciò la costruzione delle basiliche e delle chiese, ovvero di strutture apposite per la celebrazione della liturgia; la loro dedicazione consisteva principalmente nella messa, preceduta e seguita da discorsi tenuti dal vescovo sul culto divino ed in elogio del fondatore dell’edificio.

La consacrazione di una chiesa è di importanza fondamentale perché è la cerimonia mediante la quale l’edificio viene destinato al culto. La chiesa in quanto edificio di culto simboleggia innanzitutto l’anima umana; in secondo luogo essa simboleggia la Chiesa

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6 militante ovvero la comunità fondata da Gesù Cristo, rappresentata dalla riunione di tutti i fedeli battezzati, riuniti in una medesima fede sotto un solo pastore. Essa simboleggia infine la Chiesa Trionfante, ovvero la Gerusalemme celeste e il Paradiso che è la meta di ogni credente. Per questo motivo l’edificio deve essere escluso dagli usi profani, purificato e santificato.

Oggi il codice di diritto canonico ha una legislazione precisa al riguardo1. In esso troviamo le indicazioni che ci permettono di capire come e in che modo un luogo diventa sacro e chi ha la facoltà di renderlo tale. Negli articoli 1205-1243 si definisce come luogo sacro quello destinato al culto o alla sepoltura dei defunti, reso tale tramite la dedicazione o la benedizione, celebrate dal vescovo diocesano o da chi a lui è equiparato dal diritto; la procedura prevede inoltre che al termine della cerimonia di consacrazione sia redatto un documento che deve essere conservato nella curia diocesana e nell’archivio della chiesa.

All’interno dei luoghi così consacrati per il diritto canonico è consentito solo ciò che serve per la promozione e l’esercizio del culto ed è vietato qualunque atto differente dalla sua celebrazione.

Oltre alla legislazione riguardante ciò che rende sacro un luogo, le indicazioni per il rituale della dedicazione e della benedizione sono contenute nel Pontificale Romano2. La dedicazione è una funzione solenne, lunga, complicata, ricca di molte aspersioni, unzioni e preghiere e comprensiva della riposizione delle reliquie dei santi; per questo motivo, dunque,

1 Codice di Diritto Canonico, ed. 1983, can. 1205-1243.

2 Il Pontificale Romano è un testo liturgico della Chiesa Cattolica nel quale sono contenute le indicazioni per il rituale delle celebrazioni officiate dal vescovo; di esso nel corso dei secoli si sono avute numerose redazioni ed attualmente la parte relativa alla consacrazione della chiesa e dell’altare si trova nel Pontificale IV, Ordo dedicationis ecclesiae et altaris, edito nel 1977 ed in vigore nella sua versione del 1994. In questa sede molte notizie sul rito della consacrazione sono tratte da Interlandi, che, pur scrivendo ai primi del Novecento e pertanto non considerando le nuove esigenze di riutilizzo delle chiese e la nuova legislazione, appare come una fonte importante; infatti il canonico della chiesa di San Bartolomeo di Caltagirone propone una casistica ampia e ben approfondita, talvolta discussa dal punto di vista dell’esperienza personale, benché il suo studio non voglia presentarsi come un trattato di diritto canonico. Cfr INTERLANDI 1913, pp.8-60.

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7 non è sempre facile compierla. La benedizione è un rito più veloce che si attua con l’aspersione dell’acqua benedetta e speciali preghiere; non necessariamente una chiesa benedetta deve essere consacrata, anche se tale rito è consigliato per le chiese principali che siano state in un primo momento per necessità semplicemente benedette.

Il rito della consacrazione consta dunque di una prima parte, precedente alla funzione vera e propria, che prevede innanzi tutto che tre giorni prima del rito le reliquie dei santi siano chiuse in una teca ad opera del vescovo e collocate in una cappella esterna all’edificio da consacrare; la sera precedente alla funzione la teca viene circondata da lumi accesi e candelabri ed intorno ad essa vengono recitate preghiere speciali. Il giorno della cerimonia il vescovo, che ha osservato un giorno di digiuno insieme a quanti hanno chiesto la consacrazione della chiesa, dopo aver compiuto tre giri intorno all’edificio benedicendone i muri, entra in chiesa e dà inizio alla funzione, che si svolge inizialmente a porte chiuse.

Questa parte del rito prevede che siano recitate le litanie dei santi, ai quali appartengono le reliquie, e che il vescovo, dopo aver disegnato con la cenere sul pavimento il segno della croce ed avervi tracciato sopra l’intero alfabeto greco e latino – simbolo dell’unione del popolo degli ebrei e dei gentili – compia una serie di atti preparatori alla consacrazione vera e propria. A questo punto il vescovo ed il clero escono dalla chiesa e, partendo dalla cappella dove sono state deposte le reliquie, danno inizio ad una processione solenne insieme ai fedeli, girando intorno alla chiesa. Dopo aver bussato al portale, davanti al quale ha pronunciato un’orazione, il vescovo entra e consacra con il crisma il piccolo sepolcro dell’altare, chiudendovi le reliquie, mentre i fedeli lo accompagnano con il canto di antifone e di salmi. Il vescovo procede poi a consacrare anche le pareti interne della chiesa, tracciandovi il segno della croce con l’olio benedetto per dodici volte. Pulito e ornato l’altare, ha inizio la messa solenne che conclude il rito.

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8 Se la consacrazione è dunque un rito ben preciso e codificato, risulta invece difficoltoso definire in cosa consista e soprattutto se esista un rito di sconsacrazione.

Benché infatti si parli comunemente di sconsacrazione, il termine non è propriamente corretto, poiché nella storia della Chiesa non sembra esservi un vero e proprio rito di sconsacrazione dell’edificio sacro, come avviene per la consacrazione, ma si parla piuttosto di atti di profanazione o di riutilizzo a uso profano; per questo motivo spesso è difficile comprendere in quali casi la chiesa può essere concepita ancora come uno spazio sacro. Per avere informazioni sullo status liturgico e funzionale delle chiese, un buon aiuto può essere fornito dalla consultazione della documentazione degli archivi ecclesiastici. Nel nostro caso di particolare rilevanza è lo studio degli Atti Straordinari dell’Archivio Arcivescovile di Pisa e, soprattutto per il periodo storico che va dal XV al XX secolo, delle visite pastorali.

Quest’ultime, pur nella variazione dei loro caratteri strutturali subiti nelle varie epoche, consistono infatti in lunghe e dettagliate relazioni sullo stato architettonico e liturgico delle chiese, redatte in occasione delle visite periodiche dei vescovi alle chiese della diocesi.

Troviamo così notizie sui parroci e sul personale ecclesiastico, sugli arredi degli edifici sacri, sulle loro condizioni architettoniche, nonché sulla funzione e sulla rilevanza della chiesa per la cura d’anime della zona; talvolta si può anche trovare qualche notizia sul territorio che circondava la chiesa e sugli edifici che, pur non essendo propriamente parte del corpo ecclesiastico principale, svolgevano un ruolo funzionale a quest’ultimo.

Consultando queste fonti si nota immediatamente che il termine sconsacrazione non viene mai usato, ma spesso si parla dell’accorpamento della cura d’anime ad un’altra parrocchia, causato dalla diminuzione dei parrocchiani, in conseguenza del quale la chiesa viene chiusa, ma questo non significa che essa perda la sua ufficiatura. Quando all’interno di questi edifici vengono commessi atti contrari alla sacralità del luogo e reputati oltraggiosi, si

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9 può inoltre notare come, sia utilizzato il termine profanazione, mentre in altri casi si parla di soppressione delle compagnie religiose, alla quale spesso alla fine del ‘700 seguiva anche la distruzione delle chiese, come si vedrà più avanti.

Per quanto concerne l’epoca contemporanea il Diritto Canonico fornisce invece le indicazioni generali sulle caratteristiche che l’edificio sacro deve perdere per non essere più definito tale, operando una chiara distinzione tra chiesa profanata e chiesa adibita ad usi profani. Tale codice recepisce in sé tutti i casi che la storia delle istituzioni ecclesiastiche ha sperimentato, per lo meno dalla fine del Settecento ad oggi. Gli articoli che prevedono norme sull’argomento sono quattro3, ma in questa sede verranno presi in considerazione solo i primi tre, che risultano attinenti ai casi pisani.

Il primo canone (can. 1210) ci informa che l’edificio può essere adibito ad altri usi purché non contrari alla santità del luogo. Quindi se un luogo è ancora ufficiato, ma è semplicemente chiuso perché non si occupa della cura d’anime ed al suo interno vengono svolte azioni pertinenti alla sfera liturgica, non può dirsi profanato. Un esempio nel territorio cittadino di Pisa è rintracciabile nella chiesa di San Giorgio a Porta a Mare. Essa si trova nell’odierno quartiere Santa Maria, in piazza San Giorgio. Attestata come parrocchia nel 1160, alla fine del XVI secolo passò a beneficio semplice. Nel 1414, con sentenza dell’arcivescovo Pietro Ricci, il patronato fu diviso tra le famiglie Rustichelli, Scansciani e Lanfrachi alle quali nel 1580 si unì anche la famiglia Gattalebbraccia; tali famiglie si succedettero fino al 1599, quando il rettore Vaglienti cedette la chiesa, previo l’assenso dell’arcivescovo e dei patroni, alla Nazione Genovese. Intorno alla metà del XVIII secolo vi ebbe sede la confraternita di San Guglielmo, proveniente dalla soppressa chiesa di San

3 Codice di Diritto Canonico, ed. 1983, can. 1210 – 1213.

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10 Verano, e subentrarono altri patroni, tra i quali la famiglia Caetano-Prini4. Oggi la chiesa è di proprietà della famiglia Mazzarosa e concessa in uso alla vicina chiesa di San Nicola come sala per le riunioni dei catechesi. In occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, nella 19°

edizione della Giornata FAI di Primavera, avvenuta il 26 e 27 marzo 2011, venne aperta in via straordinaria, ma la visita era riservata ai soli iscritti Fai.

Il secondo (can.1211) ci indica quali siano i criteri per definire un edificio profanato. In esso devono essere state compiute azioni oltraggiose e reputate dall’addetto molto gravi, contrarie alla santità del luogo e quindi tali da rendere il posto non più adatto all’esercizio del culto finché questo oltraggio nel caso non venga cancellato attraverso riti penitenziali, presenti nei libri liturgici Alcune volte gli atti di profanazione degli edifici di culto vennero promossi dai proprietari stessi perché in questo modo ne traevano benefici economici, risparmiando negli oneri di mantenimento. Un esempio è rappresentato dalla profanazione di San Cristoforo in Kinzica, richiesta dal parroco di San Sepolcro dal quale dipendeva5.

Il terzo articolo (art. 1212) definisce un luogo non più sacro quando l’edificio viene distrutto completamente o in parte, oppure quando con un decreto del competente Ordinario, esso viene adibito ad uso profano perpetuo, o anche semplicemente con uso di fatto. Un esempio tra le chiese pisane è rappresentato dalla chiesa di San Marco in Calcesana. Essa venne soppressa il 16 dicembre del 1783 con decreto dell’arcivescovo Franceschi, ma fu poi riaperta al culto nel 1796 dalla Confraternita di Santa Barnaba. Nel 1819 la chiesa venne spogliata dal suo arredo e sventrata del tutto, mantenendo solo le mura esterne, e da allora in poi venne adibita a usi profani6.

4 SAINATI 1886, pp. 45-46.

5 Per quanto riguarda le chiese scomparse nel quartiere Kinzica, cfr. tesi di laurea, ZUCCHELLINI, a.a. 2011- 2012.

6 SAINATI, 1886, p. 48.

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11 La consultazione del diritto ecclesiastico, che (come abbiamo già ricordato) pur essendo riferito all’epoca contemporanea, forma le sue norme su un’esperienza plurisecolare, e l’analisi delle fonti storiche della Chiesa locale mettono in evidenza che è scorretto usare il termine “sconsacrazione”, che si deve preferire invece il più corretto termine “profanazione”

per indicare luoghi non più sacri, e la dicitura a “usi profani”, per indicare la nuova destinazione d’uso dell’immobile che non sempre implica la perdita della consacrazione del luogo come vedremo nelle chiese oggetto di questa ricerca.

I. 2. La chiesa e lo spazio liturgico

La costruzione di una chiesa e la sua dedicazione danno luogo a uno spazio sacro che non si limita all’edificio e che può mutare di valore a seconda delle epoche.

Prima di affrontare il problema se lo spazio esterno a una chiesa non più adibita al culto si possa modificare, vorrei soffermarmi su come lo spazio interno ad essa – lo spazio adibito alla liturgia – cambi nel tempo. È importante infatti notare che tra l’assemblea celebrante e l’edificio nel quale avviene la celebrazione sussiste un legame profondo: la celebrazione della liturgia cattolica, infatti, è tutt’altro che indifferente all’architettura e viceversa l’architettura di una chiesa non lascia indifferente la liturgia che vi si celebra. Non si tratta tuttavia di un legame immutabile come non sono immutabili sia l’architettura che la liturgia di una chiesa.

L’architettura ecclesiastica affonda le sue radici nel IV secolo quando l’imperatore Costantino decise di far erigere la Basilica di San Pietro, per poi avere un’esponenziale sviluppo nel Medioevo insieme alla nascita della vita monastica; in questo periodo le costruzioni delle chiese seguono regole geometriche, matematiche e astronomiche ben

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12 precise, in quanto centri di potere divino. A partire dall’Alto Medioevo l’ordine di Cluny assunse un ruolo di spicco tra i monasteri riformati e la celebrazione liturgica divenne il centro della vita monastica, esigendo così la costruzione di spazi adeguati e di rapporti particolari tra i vari ambienti, capaci di manifestare un’atmosfera di sacralità. La forma dell’edificio sacro era determinata dalla sua funzione: se si trattava di edifici commemorativi o destinati all’officiatura di un singolo atto di culto, come il battesimo, di solito venivano usate forme a pianta centrale organizzate intorno ad un asse mediano verticale; se invece si trattava di edifici dove venivano celebrate funzioni liturgiche, chiese o collegiate, la scelta ricadeva sulla pianta longitudinale. All’interno degli edifici adibiti alla liturgia importante era la progettazione del coro, perché rappresentava appunto il luogo dove era celebrato il rito dell’eucarestia. Nel XII secolo questa parte della chiesa ed il deambulatorio intorno ad essa si sviluppano maggiormente, mantenendo sempre molto vivo il legame con l’ultraterreno, con Dio sempre al centro dell’universo7.

Nel Rinascimento cambiano sia il modo di costruire le nuove chiese sia il rapporto tra lo spazio liturgico e la sua sacralità, perché si assiste al prevalere dell’invenzione e del concetto sulla tradizione iconografica, che permette di rinunciare alla connessione consolidata tra destinazione e forma tipica degli stili passati. È in questa atmosfera che si inserisce l’uso della pianta ellittica per le chiese, astratta dalla liturgia e dalla teoria architettonica, in quanto viene meno l’asse orientato dall’ingresso verso l’altare, così che gli edifici sacri sembrano conciliare ciò che in precedenza era inconciliabile: il puro senso estetico e la funzione della struttura8.

7 TOMAN 1999.

8 LOTZ 1997, pp. 15-86.

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13 La teoria di attribuire alla nuova forma una proporzione antropomorfa fu sovrapposta all’edificio post factum9. Questo è il momento in cui cambia il rapporto tra Dio e l’uomo; vi è l’affermazione dell’individuo e il risveglio per il gusto estetico, il trionfo per la pagana gioia di vivere e la conquista della realtà terrena per mezzo della ragione. Ed è in questa visione che anche il ruolo dell’artista cambia: egli non è più considerato mero artigiano, ma conoscitore e portatore di cultura, attraverso le opere d’arte, che penetrano nel tessuto sociale.

L’utilizzo di rigorose forme geometriche e l’armonia tra le parti dell’architettura sacra rinascimentale, in seguito agli sconvolgimenti che la Chiesa subirà con la riforma protestante, cederanno il posto alle nuove forme dell’architettura barocca fatte proprie dalla Controriforma ed in particolar modo dalle chiese gesuite. L’idea rinascimentale di una chiesa a pianta centrale verrà respinta e reputata inadatta al servizio divino, rendendo necessaria l’elaborazione di una nuova pianta semplice e ingegnosa. La chiesa seguirà quindi lo schema basilicale a forma di croce latina sormontata da una solenne cupola; lo spazio interno, spesso definito da ellissi ed improntato sul susseguirsi uniforme di elementi disposti in simmetria tra loro, verrà modellato attraverso il movimento di elementi spaziali. La planimetria longitudinale così serve ad accogliere un maggior numero di fedeli, i quali possono radunarsi senza alcun impedimento di fronte all’altare maggiore, eretto all’estremità della navata conclusa dall’abside. La forma a croce latina va inoltre incontro alle esigenze della devozione privata e del culto dei santi; infatti generalmente una fila di piccole cappelle è distribuita sui lati della navata, ognuna con un suo altare, mentre all’estremità dei bracci del transetto sorgono due cappelle più grandi. Infine anche la facciata non verrà più vista come la logica

9 Nel Rinascimento, come per l’età classica, gli artisti basavano la loro concezione dell’architettura sulle proporzioni dell’uomo in quanto creato da Dio a sua immagine e somiglianza. A questa concezione l’ellissi e la pianta a forma ellittica per la costruzione di edifici sacri rimasero estranee, perché tale forma con tanti punti focali non poteva essere paragonata all’immagine dell’uomo.

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14 terminazione della sezione interna ma diverrà un organismo plastico che segna il passaggio interno alla scena urbana.

Bisogna comunque dire che la Chiesa romana, rinsaldata e di nuovo trionfante dopo lo scisma protestante e il concilio tridentino, si avvale sistematicamente dell’arte per un’efficacissima azione di propaganda e di diffusione delle nuove istanze ideali e di culto.

Oggi – forse dopo l’avvento del Concilio ecumenico Vaticano II svoltosi in quattro sessioni dal 1962 al 1965 sotto i pontificati di Paolo XXIII e Paolo VI – non si può dire che essa sia riuscita ad avvalersi dell’arte come in passato e in particolare di un modello architettonico come mezzo di diffusione degli ideali e del culto religioso10.

In conclusione si può affermare che la tradizione cristiana abbia evidentemente vissuto uno sviluppo e un’interazione feconda tra liturgia, mondo simbolico e arte. Nel caso dell’oggetto del nostro studio analizzare come la progettazione dello spazio sacro per la liturgia cambi nei vari secoli ci fa capire che, nonostante la forma possa mutare e perdere il suo significato simbolico-geometrico, una chiesa consacrata rimane tale a prescindere dalla sua forma, perché la liturgia è segno tangibile, l’espressione propria della Chiesa cristiana ed a quest’ultima bisognerà sempre fare riferimento quando si intende studiare l’evoluzione diacronica dell’architettura e del contesto urbanistico degli edifici sacri.

I. 3. Lo spazio sacro

Nel caso dell’oggetto di questo studio, l’analizzare come nel tempo sia cambiato il rapporto tra la progettazione dello spazio interno alla chiesa e la liturgia può essere utile per

10 Sulle possibili cause di un mancato modello architettonici in Italia nell’epoca contemporanea si veda ESTEVILL 2013.

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15 comprendere come le autorità ecclesiastiche abbiano continuato a concepire i nuovi spazi sacri, adibiti alla liturgia, derivanti dalla costruzione ex novo di chiese ed edifici sacri. Allo stesso tempo la cessione ad enti pubblici o privati dello spazio liturgico, sia esso ancora sacro o meno, ha influito sull’organizzazione dello spazio interno dell’edificio, che può aver perso alcuni degli elementi fondanti della liturgia a seconda delle nuove esigenze di utilizzo dello stesso.

Se infatti l’assetto dell’edificio sacro e lo spazio che esso genera e condiziona sono sempre intimamente correlati alle esigenze liturgiche, bisogna tuttavia considerare anche un secondo elemento, ovvero il costo del mantenimento e della tutela dell’edificio sacro da parte delle amministrazioni (ecclesiastiche e laiche), specialmente quando la chiusura o la cessazione del suo utilizzo causano un naturale deperimento sia dell’edificio in se stesso sia del territorio ad esso circostante. Di fronte ad un fenomeno di questo tipo si impone l’esigenza da parte dell’amministrazione ecclesiastica (o degli enti statali, se ad essi è stata ceduta la proprietà) di trovare strategie tese alla salvaguardia dell’edificio, destinandolo a funzioni sociali tali da garantire una costante entrata di fondi. Tali destinazioni possono essere per esempio la realizzazione di musei, i depositi attivi, le destinazioni ad usi sociali come teatri, luoghi di ritrovo ecc. La considerazione di queste evenienze è molto importante per il nostro studio, in quanto ogni mutamento della destinazione d’uso dell’edificio sacro dà luogo ad una trasformazione dello spazio. Ciò significa che i segni della sacralità del luogo si rinnovano negli anni seguendo le funzioni dell’edificio che li genera, ma quando esso perde totalmente la sua funzione anche questi segni perdono il loro valore sacro, portando al cambio d’uso della struttura o, come è avvenuto nel passato, alla sua demolizione11.

11 Cfr. infra p. 13.

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16 I segni di cui stiamo parlando e che caratterizzano la sacralità di un luogo variano a seconda delle epoche. Essi possono essere di natura architettonica, come la presenza di un monastero, un convento, un cimitero o un ospedale. Anche la formazione di una piazza e le attività che vi si svolgono possono contribuire in maniera sostanziale a definire come sacro lo spazio che si crea intorno alla chiesa. La loro presenza e il loro utilizzo a scopi religiosi rendono tale luogo sacro ed hanno un riscontro visibile sul contesto urbano in cui sono immersi. La piazza assumeva un ruolo importante soprattutto davanti ai conventi degli ordini mendicanti, che attribuivano grande valore alle predicazioni popolari. Il cimitero, altro segno che delimitava uno spazio sacro, era sempre costruito vicino alle chiese perché ogni parrocchia cercava di seppellire i proprio morti nel proprio suolo12. La soppressione di un convento, la distruzione di un ospedale, l’abbandono di una parrocchia da parte dei fedeli sono tutti elementi che cambiano l’assetto urbanistico intorno a una chiesa.

A Pisa sono numerosi gli esempi di chiese che nel tempo hanno perso sempre più importanza fino ad arrivare all’abbandono e in certi casi alla distruzione, cambiando così la fisionomia della città; molti di essi si trovano nel quartiere San Francesco e nel quartiere di Kinzica. Nel primo un esempio di totale cambiamento visivo e urbanistico è rappresentato dalla chiesa di San Lorenzo alla Rivolta, edificata nell’XI secolo nel punto in cui l’attuale piazza Martiri della Libertà si indirizza in via Santa Cecilia; la chiesa aveva annesso un convento e vicino si trovava un ospedale ed un orto che occupava buona parte della piazza.

Un altro esempio è costituito dalla chiesa di Santa Bibbiana del XII secolo, a ricordo della quale rimane solo una lapide affissa dove un tempo doveva sorgere la chiesa, alle spalle dell’attuale palazzo di Giustizia. Anche Santa Bibbiana, unita a un convento delle suore di penitenza, divenne parrocchia e tale rimase fino al XV secolo. Nel XVII secolo fu trasformata

12 HEERS 1995, pp. 422-433.

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17 in deposito per le suore di Santa Marta, per poi venire soppressa nel XVIII con i provvedimenti leopoldini ed essere racchiusa nel monastero di Santa Marta. San Lorenzo alla Rivolta e Santa Bibbiana sono dunque esempi di come, una volta persa la loro funzione, gli edifici sacri possano essere abbandonati e demoliti, modificando radicalmente quelli che un tempo erano spazi dedicati a luoghi di culto, ma il quartiere di San Francesco è ricco di molti altri esempi, come la chiesa di San Luca del XII secolo o quella coeva di San Jacopo del Podio.

Nel presente studio l’attenzione sarà focalizzata su altri esempi di modifica dello spazio in relazione alla perdita di sacralità dei luoghi di culto, ovvero si studierà come lo “spazio- chiesa”, un tempo concepito sacro, dopo aver perso la sua funzione originaria dovuta al semplice abbandono della chiesa o in conseguenza ad atti di profanazione verrà riconvertito a usi profani, e come sia cambiato l’atteggiamento dello Stato nei confronti di questi monumenti dalla fine del ‘700 a oggi.

I. 4. Le soppressioni di fine XVIII e inizio XIX secolo

Dalla seconda metà del Settecento fino ad arrivare all’unità d’Italia, Pisa viene travolta da un’ondata di soppressioni ecclesiastiche.

La prima fase di soppressione avvenne durante la reggenza del granduca Pietro Leopoldo. Figlio di Maria Teresa d’Asburgo e Francesco I di Lorena, fu granduca di Toscana dal 1765 al 1790. A differenza del suo predecessore Francesco Stefano, egli si stabilì a Firenze ed iniziò un programma di riforma ad ampio raggio, creando uno stato all’avanguardia sotto molti aspetti. Egli avviò una politica liberista, promosse la bonifica delle

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18 aree paludose nella Maremma e nella Val di Chiana. Introdusse la libertà nel commercio dei grani, abolendo i vincoli annonari che bloccavano le colture cerealicole, e abolì le corporazioni di origine medievale, principale ostacolo per l’evoluzione economica e sociale dell’attività industriale. Si occupò pure di riformare il sistema fiscale, abolendo nel 1769 l’appalto generale e intraprendendo la riscossione diretta delle imposte. Per certi aspetti riformò anche la legislazione toscana, anche se il suo maggior progetto rimane la redazione di un nuovo codice che non giunse mai a termine sia per la morte di colui che doveva realizzarlo, Pompeo Neri, sia per il venir meno dell’interesse al progetto conseguente passaggio dinastico a imperatore del granduca13.

Le soppressioni leopoldine non avvennero in unico atto, come sarà poi per quelle napoleoniche o quelle postunitarie; esse vennero infatti realizzate attraverso atti che riguardarono separatamente gli Ordini religiosi, i conventi maschili, i monasteri femminili, le compagnie e le congregazioni laiche, ed avvennero per risolvere specifici problemi economici: ad esempio nel 1782 il granduca autorizzò la soppressione di undici compagnie religiose e con il ricavato della vendita dei loro beni autorizzò la costruzione del nuovo cimitero suburbano.

I singoli provvedimenti rientravano all’interno di una politica religiosa più ampia, già attuata all’interno dell’impero asburgico dal fratello Giuseppe, che prese il nome di Giuseppinismo. Infatti in tale contesto aveva importanza rilevante il ruolo che rivestiva l’istituto del “Patrimonio Ecclesiastico”14, dove confluirono non solo i ricavati delle vendite dei beni ecclesiastici ma anche gli arredi delle compagnie laicali soppresse con l’atto del 21

13 Sul governo della Toscana si veda SALVESTRI (a cura di) 1969-1974.

14 Motuproprio del 30 ottobre 1784. Creò un istituto del Patrimonio per ogni diocesi, incaricato di far fronte alle esigenze delle parrocchie e del clero, attraverso le rendite degli enti religiosi soppressi e dando qualche assegnamento alle casse regie.

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19 marzo 1785, che non erano tutti destinati alla vendita all’incanto, ma anche redistribuiti alle chiese più bisognose.

Dagli studi fatti sulle chiese scomparse a Pisa in questo periodo nei quartieri di San Francesco e di Kinzica15 viene messo in evidenza come spesso la soppressione delle chiese alla fine del Settecento preluda alla loro demolizione.

Le cause sono rintracciabili soprattutto nel problema economico, ovvero nei costi di mantenimento della chiesa, e nella tipologia dell’edificio. Nel quartiere di San Francesco si tratta soprattutto di chiese non molto imponenti, che evidentemente non venivano percepite come particolarmente rilevanti dal punto di vista architettonico. Diverso è il caso delle chiese di San Luca e San Jacopo, che mostravano un valore architettonico, in quanto la loro tecnica costruttiva diffusasi a Pisa a partire dall’XI secolo, era peculiare: si trattava infatti di chiese cosiddette a loggia16. Altre strutture non molto ampie, con una popolazione non molto numerosa e vicine a chiese parrocchiali maggiori, essendo ritenute edifici la cui manutenzione esigeva un vero e proprio spreco di denaro, vennero soppresse per essere riutilizzate a scopi profani o addirittura, se in stato di totale abbandono, demolite totalmente.

Attraverso il motuproprio granducale del 21 marzo 1785 i beni e i patrimoni delle confraternite vennero trasferiti al nuovo ufficio governativo sul Patrimonio Ecclesiastico e i loro edifici venduti e demoliti. Lo stesso motuproprio regolamentò anche le norme della vita all’interno dei monasteri e le loro trasformazioni in conservatori17.

Le chiese appartenenti alla compagnie religiose, prive di cure, furono infatti quelle maggiormente sacrificabili. Dal confronto delle soppressioni avvenute in tale periodo nei due quartieri (San Francesco e Kinzica,) si nota come queste chiese, restando prive prima della

15 Per un’analisi approfondita delle chiese scomparse nel quartiere di San Francesco, cfr. CALIO’, 2012-2013, per il quartiere di Kinzica, cfr. ZUCCHELLINI, 2010-2011.

16 CALIO’, .2012- 2013.

17 CALIO’, 2012-2013, pp.85-86.

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20 propria funzione e poi del proprio aspetto originale, perdano importanza per cedere il posto a nuove strutture.

Diversa invece fu la politica alla base dei provvedimenti per le soppressioni in epoca napoleonica. Come per gli altri stati conquistati, anche in Toscana Napoleone promosse una serie di riforme concernenti la soppressione totale di corporazioni e conventi attraverso due atti: quello del 29 aprile 1808, attraverso il quale veniva emanata l’ordinanza che prevedeva una prima parziale soppressione, risparmiando gli ordini reputati utili alla vita civile in termini di assistenza o istruzione, e quello del 13 settembre 1810, che completava l’operazione.

Ciò che differenzia queste soppressioni da quelle disposte da Pietro Leopoldo è il fatto che tutti i beni reperiti entrarono a far parte del demanio pubblico, rinvigorendo così le casse dello Stato, parecchio indebolite dal finanziamento di operazioni belliche, e rendendo così disponibile una serie di edifici a funzioni di utilità civica e sociale. Anche i beni mobili vennero resi disponibili per la creazione di musei pubblici.

Dopo la parentesi napoleonica Ferdinando III, dove possibile, restituì agli enti religiosi i loro arredi e abolì l’istituto del Patrimonio Ecclesiastico.

Quello che interessa in questa sede è il fatto che le soppressioni avvenute successivamente al XVIII secolo non siano state accompagnate dalla distruzione dell’edificio:

ad esse infatti seguì il restauro, al fine di salvaguardare e riutilizzare l’edificio per scopi socio- culturali; di tali edifici si esaminerà come si inseriscono nel contesto urbano, dopo la perdita della funzione religiosa. In particolare verranno prese in esame le chiese non più adibite al culto, ma destinate a usi profani, nel quartiere di San Francesco, perché è la zona della città che maggiormente ha subito cambiamenti urbanistici nei secoli XVIII-XXI, ma anche perché

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21 grazie alla preservazione di tali edifici, è ancora possibile ammirare ciò che resta della città medievale.

Le chiese che si trovano nell’area presa in esame sono quattro: Sant’Andrea Forisportam San Zeno, San Paolo all’Orto, San Silvestro. I motivi della loro sopravvivenza sono rintracciabili nell’importanza che tali chiese svolgevano all’interno della città e nel fatto che, nonostante avessero perso la cura d’anime, continuavano ad ospitare attività consone al culto fino alla metà del Novecento, tranne nel caso di San Zeno18. Altro fattore importante è il periodo storico in cui esse vengono restaurate e destinate a usi diversi da quelli religiosi: i restauri che hanno dato vita alla nuova funzione dell’edificio, infatti, sono restauri novecenteschi, periodo in cui si inizia a dare importanza al patrimonio storico-artistico e si sviluppa una legislazione nazionale al riguardo19.

In questa atmosfera di attenzione verso il patrimonio artistico anche Pisa bandisce dei concorsi per il riassetto urbanistico cittadino: nel 1929 viene indetto un concorso rivolto a ingegneri e architetti per realizzare un “Progetto di massima del piano regolatore di ampliamento e di sistemazione interna della città di Pisa”20. E’ espressa richiesta del bando quella di non alterare i caratteri storico-artistici del centro, promuovendo allargamenti e non sventramenti. Tali prescrizioni non saranno sempre rispettate, come avremo occasione di evidenziare, ad esempio per ciò che concerne la realizzazione del nuovo Palazzo di giustizia allorché, a seguito dei lavori per la sua costruzione, la fisionomia medievale della zona perse i suoi connotati originali, venendo completamente modificata e riorganizzata.

18 Cfr. cap. III.

19 La prima legge al riguardo risale al 1909 ed è la legge Rosadi [n.364] Essa rappresenta la prima legge organica di tutela dei beni culturali. Nel 1939 vengono emanate le principali leggi dello stato italiano in materia di tutela dei beni culturali e ambientali, note anche con il nome di leggi Bottai, l’allora ministro del governo della Pubblica Istruzione: la legge 1089/1939 sulla tutela delle cose di interesse storico-artistico e la 1497/1939 sulla tutela delle bellezze naturali.

20 MARTINELLI, 1993, pp. 19-28; RUPI-MARTINELLI, 1997, pp. 127-137.

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22 Prima di affrontare nel particolare lo studio delle singole chiese è opportuno in ultimo delineare la nascita degli organismi di tutela, che con la loro azione hanno garantito la sopravvivenza di tali edifici.

I. 5. La nascita degli organismi di tutela. La Soprintendenza

Grazie alla nascita del concetto di tutela e conservazione del patrimonio storico-artistico e culturale, seguito alle campagne di saccheggio delle opere d’arte in epoca napoleonica, è mutato l’atteggiamento da parte dello Stato, che ha riconosciuto finalmente in queste opere la nostra storia e l’eredità lasciataci dal passato. Questo nuovo atteggiamento va inserito in un quadro più ampio che non riguarda solo la salvaguardia dei beni mobili e immobili ma anche il nascere del concetto, alla fine dell’Ottocento, di salvaguardia dei centri urbani come identità storico-artistica, e, conseguentemente, il problema della loro tutela.

La raccolta più importante, anche se ricca di lacune, concernente i provvedimenti di tutela del patrimonio storico artistico dopo l’unità d’Italia rimane a tutt’oggi “Leggi, Decreti, Ordinanze e provvedimenti generali emanati dai Cessati Governi d’Italia per la Conservazione dei Monumenti e le espropriazioni delle opere d’arte”; ne fu promotore Giuseppe Fiorelli, direttore generale per gli scavi e Musei del Regno dal 1874, poi direttore generale per le Antichità e Belle Arti dal 1881 al 1891. Lo scopo di questa raccolta di leggi era quello di colmare il vuoto della legislazione del nuovo Stato, cercando di riaffermare il diritto di quest’ultimo ad esercitare la propria autorità per la conservazione dei monumenti come simbolo della memoria storica, anche se dagli enti privati veniva vista come un’ingerenza governativa che limitava il principio di proprietà privata.

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23 Prima di questa raccolta, conosciuta anche come “LEGGI 1881”21, negli stati pre-unitari i provvedimenti riguardanti la tutela del patrimonio storico- artistico erano molto complessi.

Nel Granducato di Toscana, con il ritorno dei Lorena nel 1815, il quadro legislativo riguardante la tutela del patrimonio artistico rimase invariato. I provvedimenti in vigore erano rivolti esclusivamente contro l’esportazione di “quadri e tavole di pitture antiche”, senza tenere in considerazione la conservazione dei monumenti architettonici e lasciando anche ampia libertà a qualsiasi cittadino di intraprendere campagne di scavo senza alcuna licenza.

Nel 1870, per mezzo del decreto di Pietro Leopoldo, si sanciva il totale disinteresse da parte dello Stato verso l’acquisto e la conservazione di materiale archeologico, affermando l’inalienabilità degli oggetti d’arte di pertinenza dei Regi Stabilimenti delle Comunità, dei Luoghi Pii, della Chiesa22 e confermando solo l’interesse al divieto di esportazione dei quadri delle tavole dipinte e pitture antiche.

Chi si occupava della conservazione dei monumenti all’interno del Granducato era lo Scrittoio delle Regie Fabbriche,23 istituito nel 1739 da Francesco Stefano Lorena e ristrutturato da Pietro Leopoldo nel 1777 nell’ambito delle riforme generali dell’amministrazione del Granducato. Lo Scrittoio provvedeva sia alla manutenzione ed al restauro delle fabbriche sia alla realizzazione dei nuovi progetti. Era organizzato in comprensori territoriali ai quali facevano capo i vari architetti, mentre le fabbriche erano suddivise a seconda dell’uso o della destinazione in differenti classi: palazzi, ville e giardini imperiali; fabbriche destinate al culto; uffici e tribunali; fabbriche per pubblica istruzione;

fabbriche sanitarie, di sicurezza e di utilità pubblica; monumenti e fabbriche d’ornato

21 BENCIVENNI, 1987, p. 3.

22 BENCIVENNI, 1897, nota 93 a p. 24.

23 FORNAINI, 2003-2004, pp. 1-9.

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24 pubblico; fabbriche in uso al Dipartimento delle Poste; fabbriche in uso all’Amministrazione Generale delle Regie Rendite; fortificazioni e fabbriche senza destinazioni.

Dopo il 1849 lo Scrittoio, insieme alla direzione del Corpo degli Ingegneri d’Acque Strade ed il Commissariato di Acque e Strade della provincia di Lucchese ed alle loro rispettive competenze, passò alla direzione generale dei Lavori D’Acque e Strade e delle Fabbriche Civili dello Stato. Il nuovo ente era composto, oltre al direttore generale, dagli ingegneri-capi di compartimento, affiancati da ingegneri aggiunti o assistenti destinati al servizio delle acque, strade e fabbriche a carico dello Stato, dagli ingegneri distrettuali con compiti di controllo sui lavori delle comunità ed infine dagli architetti per le Fabbriche Civili dei lavori sugli edifici più importanti24.

Alla direzione generale apparteneva anche un Consiglio d’Arte, presieduto dal Segretario di Stato per i Lavori Pubblici o dal direttore generale, composto da tre architetti o ingegneri statali. Le competenze di tale organismo comprendevano l’esame e l’approvazione dei progetti da eseguirsi per conto dello Stato, oppure a carico dei Consorzi Comunali o dei singoli Comuni. Il Consiglio d’Arte inoltre esprimeva il suo parere sia sull’esecuzione dei lavori di nuova costruzione o di restauro sia sugli artisti ai quali affidare qualche lavoro di pittura o di scultura.

Dalla necessità di riorganizzare il ramo della pubblica amministrazione che si occupava del mantenimento delle fabbriche destinate al culto nacque nel 1834 la Commissione per la verificazione dei bisogni di restauro e pel successivo mantenimento delle fabbriche attinenti alle chiese curate di Regia Nomina o libera collocazione. La Commissione aveva il compito di effettuare una ricognizione sia dello stato patrimoniale delle parrocchie sia del loro stato di conservazione, predisponendo un preciso programma di restauro. Per il proprio lavoro poteva

24 Cfr. NUTI, 1986, per avere un esempio di come questi organismi agivano localmente su Pisa.

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25 avvalersi sia dei cancellieri comunitativi e degli economi delle Aziende Vacanti sia dell’apporto di periti, nei casi in cui lo stato di conservazione degli edifici richiedesse un intervento immediato. Dopo un primo lavoro di ricognizione i membri della commissione compilavano un elenco detto “Memoria”, all’interno del quale veniva fornito l’esatto numero delle chiese parrocchiali di Regia Nomina e di libera collocazione e venivano prospettate una serie di difficoltà, stante il cattivo stato di conservazione dell’intero patrimonio. L’obbiettivo di questa Commissione non era la salvaguardia di tali edifici attraverso restauri conservativi ma semplicemente quello di assicurare la salvaguardia del patrimonio economico dello Stato.

In questi anni tuttavia non deve essere sottovalutata anche in Toscana l’attenzione che per questi edifici mostrava l’Accademia di Belle Arti25, attraverso il Corpo degli Accademici, anche se semplicemente sotto forma di vigilanza o consulenza sulle questioni che riguardavano il patrimonio artistico.

L’unità d’Italia non determinò affatto uno sviluppo della tutela delle antichità e belle arti di proprietà privata. Infatti l’unificazione legislativa del 1865 non comprese provvedimenti riguardanti le normative sul patrimonio storico-artistico, così che restarono in vigore le normative presenti negli ordinamenti preesistenti dei singoli stati preunitari. In questi anni vi fu una nuova ondata di soppressioni di immobili degli ordini religiosi che via via entrarono a far parte del demanio, sottoposti all’amministrazione del Ministero della Pubblica Istruzione; i beni delle opere pie laicizzati quindi passarono sotto la vigilanza del prefetto.

Dopo l’unità d’Italia si assistette all’inizio dell’unificazione amministrativa del territorio ed al primo tentativo di normativa urbanistica con l’emanazione, il 25 giugno 1865, della legge n. 2356; con tali norme si puntava l’attenzione sul risanamento igienico urbano ad alta

25 Creata da Pietro Leopoldo nel 1784 in sostituzione dell’antica Accademia del Disegno fondata da Cosimo I.

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26 intensità abitativa attraverso anche demolizioni. Oltre al tema del risanamento delle vecchie città, patrocinato dai municipi, assumeva sempre più importanza la politica di salvaguardia dei centri urbani, indice del fatto che si iniziava a sentire le città come identità storico- artistiche da tutelare, nelle quali difendere non solo il singolo monumento ma anche l’insieme che lo circondava. In tal modo gli interventi di salvaguardia ambientale, iniziano a intrecciarsi agli strumenti per la difesa dei monumenti. In questa nuova prospettiva lo stato inizierà quando sarà chiamato a intervenire per risolvere questioni ambientali, tenderà a operare anche attraverso le “Commissioni conservatrici dei monumenti”, istituzione periferiche costituite nel 1874 dal Ministero della Pubblica Istruzione; queste iniziano ad avere un ruolo decisionale a differenza delle precedenti Commissioni del 1866 le quali avevano solo un ruolo consultivo sul valore storico artistico dei beni in materia di restauri e lavori da eseguirsi su monumenti pubblici, religiosi, civili e sulle opere d’arte. Le Commissioni conservatrici dei monumenti si avvalevano in ogni circondario di ispettori agli scavi e ai monumenti e i ruoli erano conferiti a vita e a titolo gratuito agli eruditi locali o a i conoscitori dell’arte. Il primo compito svolto da queste istituzioni periferiche è stato quello di compilare e trasmettere al ministero un esatto inventario di tutti i monumenti e d’oggetti d’arte esistenti nelle rispettive province, che prenderà il nome di “Catalogo Nazionale dei Monumenti e degli oggetti d’arte”. Esse comunque non erano ancora dotate di un vero organico tecnico e amministrativo interno, ragione per cui ogni qualvolta si rendevano necessari interventi di sovrintendenza a operazioni di scavo o di restauro, preferiranno rivolgersi al Genio Civile, il cui ruolo era quello di supervisionare, a livello periferico e locale, le opere pubbliche26.

In questo quadro di organizzazione e unificazione importante fu la nascita di apparati periferici dello Stato dotati di un proprio organico tecnico e amministrativo, come nel 1884 i

26 ZUCCONI, 1999.

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27 Delegati regionali e nel 1889 i Commissariati di Belle Arti, che nel 1891 diverranno gli Uffici regionali per la Conservazione dei Monumenti. Per quanto attiene alla conservazione dei monumenti questi uffici dovevano coordinare l’opera dei sindaci, senza soprapporvisi, ed avevano il compito di scavare, di studiare i ruderi, restaurare e custodire i monumenti. Veniva così a crearsi un corpo di sistema gerarchico, nel quale e allo stato spettavano i compiti di indirizzo tecnico generale, ai comuni i compiti di conservazione e catalogazione dei monumenti.

Con la legge n. 185, cosiddetta Nasi, del 12 giugno 1902,27 che istituiva il “Catalogo unico” dei monumenti e delle opere di interesse storico, artistico e archeologico di proprietà statale, si introduceva una maggiore consapevolezza della tutela del patrimonio storico- artistico e ambientale, i cui compiti venivano sottratti definitivamente agli enti locali ed affidati ad un ufficio di nuova istituzione, quello delle Soprintendenze periferiche, divise in una struttura tripartita (monumenti, archeologia, gallerie). Lo strumento finalizzato alla tutela era – ed è – il vincolo, che costituisce una forma di controllo diretto sul bene da parte dello Stato, chiamato a esprimere il proprio parere riguardo ad ogni possibilità di gestione di quest’ultimo da parte del proprietario. Così il Municipio e lo Stato diventavano due entità antagoniste: al primo spettava il compito di progettare le trasformazioni, mentre al secondo la facoltà di stabilire le parti immodificabili.

La Soprintendenza ai Monumenti per le province di Pisa, Lucca, Massa e Livorno venne istituita ufficialmente nel 1909 con sede nella città di Pisa. Essa venne soppressa con Regio Decreto nel 1923 e le sue competenze frazionate tra la Soprintendenza all’Arte Medievale e Moderna della Toscana I, con sede a Firenze, e competenza sulle province di Firenze, Lucca,

27 Poi modificata e sistematizzata con la legge n. 364 del 20 giugno 1909, cosiddetta legge Rosadi.

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28 Massa, Pisa, e Arezzo quella della Toscana II, con sede a Siena e competenze sulle province di Siena e Grosseto e sul circondario di Volterra.

Nel 1939 venne nuovamente istituita a Pisa la Soprintendenza ai Monumenti e alle Gallerie di I classe per le province di Pisa, Apuania, Livorno e Lucca. Nel 2005 venne creata una Soprintendenza competente per le province di Lucca e Massa Carrara, cosi l’ufficio pisano restrinse le sue competenze alla provincia di Pisa e Livorno28.

28 Con la riforma del ministro Franceschini alla fine del 2015 e all’inizio del 2016 la Soprintendenza subirà ulteriori cambiamenti.

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Capitolo II

Sant’Andrea Forisportam

II.1. La storia della chiesa e il suo aspetto attuale

La chiesa di Sant’Andrea Forisportam29 è chiamata così perché originariamente situata all’esterno della cinta muraria urbana anteriore al circuito edificato da Cocco Griffi a partire dal 115530.

Secondo Sainati la chiesa sarebbe stata edificata nel 108431, ma tale data è stata confutata da Garzella, che sottolinea come il documento citato dal canonico che ricorda una

“ecclesia sancti Andree” si riferisca non all’edificio pisano ma alla chiesa di Sant’Andrea di Rinonichi, località del Valdarno vicino a Fornacette.32 La prima attestazione della chiesa risalirebbe infatti al 110433.

29 Come bibliografia di riferimento rimando a: PAGLIAGA-RENZONI, 1991, pp. 35-36; TRONCI, ms., c.

XXVIII; D’ABRAMO, ms., cc.113-17; TITTI, pp.169-70; CAMBIAGI, p.113; Descrizione, p. 139; DA MORRONA, voll. III, 1793, pp. 244-45; Id., 1798, pp.146-47; Id., III, 1812, pp.238-39; Id., 1816, pp.160- 161;Id., 1821, pp. 158-60; SERRI, 1883, p. 126; POLLONI, 1835, pp. 9-10; GRASSI, voll. III, p. 143-44;

NISTRI, p. 209; SAINATI, 1871, p. 214-215; BELLINI-PIETRI, pp. 244, 318; CURINI, n. 5-6, 1970, pp. 19- 22; La Chiesa Primaziale, p. 97; TOLAINI, 1979, p.180; BERTI-TONGIORGI, pp. 70-82; PATETTA, 1986, p.

62; REDI, 1991, p. 361, 371; BURRESI 2000, p. 107; PATETTA, 2001, pp. 124-25.

30 La cinta muraria edificata a partire dal 1155 è quella ad oggi visibile, che include al suo interno la chiesa di Sant’Andrea; essa fu costruita in un momento, il XII secolo, di grande espansione della città verso le zone allora periferiche.

31 SAINATI, 1871, p. 214.

32 GARZELLA, 1990, nota 47 a p. 113.

33 GARZELLA, ibid.; anche su tale data non vi è concordia tra gli studiosi: Patetta riprende infatti il documento già citato da Tirelli e Carli, proponendo come prima attestazione della chiesa il 15 luglio 1109; cfr. PATETTA, 2001, p. 62. Paliaga e Renzoni concordano sulla datazione proposta da Garzella; cfr. PALIAGA-RENZONI, 2005, p. 35.

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30 In un documento del 21 ottobre 1191, riguardante l’atto di fondazione dell’ospedale di Santo Spirito, viene menzionato per la prima volta l’ospedale di Sant’Andrea34; esso sorgeva pressappoco in prossimità dell’attuale palazzo di Giustizia. Le prime notizie documentabili sull’ospedale risalgono al 15 marzo 131035.

La chiesa, rimaneggiata al suo interno nella prima metà del XIX secolo, esternamente si presenta ancora in stile romanico-pisano, anche se il coronamento ad archetti in panchina livornese fa pensare a una copertura posteriore, collocabile nel secondo quarto del XII secolo36.

La facciata è ripartita in cinque arcate cieche, divise da lesene e decorate con losanghe e oculi; in essa si aprono tre portali. La parte superiore in mattoni è conclusa da una copertura a capanna a doppio spiovente. Sulla sinistra del gradino di accesso è collocato un marmo decorato con tre rosette di produzione romana.

Le pareti laterali esterne sono decorate da archetti pensili sottotetto e da copie di bacini ceramici islamici dell’XI-XII secolo37, mentre nella parte tergale della chiesa possiamo osservare la presenza di un pilastro in rottura del muro dell’abside, da alcuni riferito ad un intervento di ampliamento della chiesa assegnabile alla seconda metà del XII secolo38, da altri ritenuto simbolo della sconsacrazione della chiesa, secondo i dettami del Concilio di Trento39. Il campanile, realizzato in cotto, è posizionato sul retro dell’edificio, lungo il lato sinistro, ed

34 Sull’ospedale di Sant’Andrea cfr. PATETTA, 2001, p. 124-25.

35 PATETTA, ibid.

36 Prima dei restauri ottocenteschi gli unici interventi di cui si hanno notizia riguardano il rifacimento del tetto della navata centrale, avvenuto nel 1596 a spese di Francesco Ciarpi; cfr. PALIAGA-RENZONI, 2005, p. 35.

37 Gli originali sono stati restaurati e conservati nel Museo Nazionale di San Matteo.

38 PALIAGA-RENZONI, 2005, p. 35.

39 TOLAINI, 1967, p. 180. Tale interpretazione è da rigettare alla luce del fatto che la chiesa non è mai stata sconsacrata; cfr. infra.

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31 all’interno della cella sono collocate due campane databili tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo40.

Come detto, l’interno della chiesa venne rimaneggiato nella prima metà del XIX secolo; dello stile romanico rimane solo la pianta, divisa in tre navate separate da due pilastri e quattro colonne, sormontate da due capitelli romani di reimpiego e da due romanici, decorati da teste umane ed animali, probabilmente da attribuire a Biduino o Guglielmo. La copertura a volta, decorata con motivi raffiguranti l’Eterno e San Paolo, e i confessionali marmorei risalgono agli interventi avvenuti nel 1840, quando venne sostituito l’originario tetto a capriate lignee.

Sull’altare maggiore è conservato un tabernacolo settecentesco, in legno intagliato e dorato, sorretto in basso da due angeli in volo e decorato da teste alate e da una corona.

Sempre alla prima metà del XIX secolo risale la lunetta collocata al di sopra dell’altare, raffigurante la Divina Pastora, mentre al 1845 si datano le due cappelle laterali, delle quali quella di sinistra conservava un dipinto con Sant’Andrea, ora nella sacrestia di San Pietro in Vincoli41.

II. 2. Due descrizioni della chiesa antecedente la profanazione

Ritengo utile inserire due descrizioni della chiesa di Sant’Andrea Forisportam. La prima redatta intorno al 1643 dal canonico Paolo Tronci, c. XXVIII, conservata nell’archivio

40 Una delle due campane venne colpita durante la seconda guerra mondiale da una scheggia di granata, che ne provocò una lunga incrinatura e la rese inservibile; essa fu successivamente restaurata; sui restauri dei danni di guerra, effettuati nel biennio 1946/48 cfr. archivio della Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio di Pisa, pratica g.

31, n. 2758.

41 PALIAGA, RENZONI, 2005, pp. 35-36.

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32 Arcivescovile di Pisa. La seconda invece è tratta dal Campione di case, orti ed altri stabili esistenti dentro il circondario delle Mura della Città di Pisa. Fatto nell’anno 1783 dall’ingegnere Giuseppe Gaetano Niccolai, Giovanni Caluri e dottore Stefano Piazzini, conservato nell’archivio di Stato di Pisa, ufficio Fiumi e Fossi, all’interno del secondo volume n. 2792, c. 533: Chiesa Curata di S. Andrea foris Portae42.

II. 2. a. La descrizione della chiesa di Paolo Tronci

“La chiesa di Sant’Andrea fuor di Porta Parrocchiale così detta per il sito dei fuori della città di Pisa fu fabbricata circa il 1100 come io ritraggo dalle del Padre Historie Pisane del Padre Abate Secondo Sancellotto di detto Ordinenel libbro secondo Capitolo Nono, dove referisce una controversia nata fra il Priore di S. Piero in vincoli, e li Parrocchiani di essa seguita nel 1360,li guali Parrocchiani Megavano che a lor s’aspettassi l’elettione del Paroco per la benemerenza in detta Chiesa dugento e più anni avanti et all’hora nacque sentenza data dal Prior di S. Frediano di Lucca e l’Abate di S. Michele di Pisa Giudici Delegati dal Papa, nella quale dichiaravano che il Priore di S. Piero in Vincoli fusse Padrone e Prelato della detta Chiesa di S. Andrea con questo però che in caso di vacanza di Parrocchiani tutti radunati eleggessero quattro o più del numero di essi per trovare Sacerdote qual più li piacesse e lo presentassero al Priore et egli li instituisse nella Cura. Di qui io tengo per verissimo che la fusse fondata dalli Parrocchiani ma nel Territorio del Priorato di S. Pietro in Vincoli il quale fu eretto con la sua Collegiata dei Canonici Regulari l’anno 1070, da Guido Vescovo di Pisa ,e che però il Priore n’acquistassi le Ragioni che dai Giudici li far conservate. Haveva questa

42 Il Campione è suddiviso in tre volumi, i primi due volumi n. 2791 e il 2792 contengono spesso anche annotazioni posteriori al 1783; il terzo n. 2793 contenente l’elenco dei possedimenti e uno stradario , è stato compilato nel 1792.

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