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CCaappiittoolloo VV IIll NNaattuurraall SSeemmaannttiicc MMeettaallaanngguuaaggee ee iill ddiiaallooggoo uunniivveerrssaallee ppeerr ll’’eesspprreessssiioonnee ee ll’’aarrrriicccchhiimmeennttoo ddeellll’’iiddeennttiittàà

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Questo quinto capitolo nasce dall’idea che il “NSM” non si configura esclusivamente come uno strumento linguistico, capace di definire ogni concetto, idea o pensiero facendo appello a dei primitivi semantici che trovano espressione a livello globale. Tralasciando provvisoriamente il ruolo degli universali lessicali, è fondamentale osservare come l’apparato di concetti innati che fonda tale metalinguaggio possa rappresentare un’interessante possibilità per poter entrare in contatto con la diversità. Il “NSM” offre cioè come mezzo per esplicare l’essenza, non solo di quanto comunichiamo, ma anche di ciò che pensiamo e proviamo e, in sostanza, di ciò che siamo: esso si raffigura come il “DNA” dell’identità culturale umana. La natura dell’uomo, del resto, si costruisce proprio su tutti questi elementi messi assieme e attraverso il confronto con l’altro, che può divenire intelligibile solo grazie alla misura neutra di confronto che questo metalinguaggio ci fornisce.

1. Quanto possiamo essere diversi?

1.1

Pragmatica inter-culturale e diversi valori a confronto

Chiunque abbia sperimentato una vita a cavallo fra due o più culture distinte ha indubitabilmente raggiunto una certa consapevolezza del fatto che in paesi diversi “si parla” diversamente. Qui non si tratta semplicemente di confrontare codici linguistici che si costruiscono su termini e regole sintattiche divergenti, ma anche di comprendere lo iato che si apre fra i vari modi di utilizzare tali codici. Il problema principale è che spesso è difficile anche soltanto capire fino a che punto si tratta dell’utilizzo di linguaggi diversi e fino a che punto

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della maniera di accostarsi a queste distinzioni: “Some of these differencies are so stable and so systematic that one cannot always draw a line between different codes and different ways of using the code”1. E’ decisamente arduo, dunque,

riuscire a vedere attraverso il mosaico delle differenze linguistiche, per carpire quanto dipende dalle diversità strettamente intrinseche al linguaggio e quanto dal piano culturale di fondo. Probabilmente, questa difficoltà è dovuta proprio al reciproco coinvolgimento fra cultura e linguaggio, che, stando alle conclusioni precedentemente tratte sull’onda delle idee di Wierzbicka, assume una conformazione intricata, al punto che non ci permette di guardarvi all’interno: l’uno plasma l’altro in una perenne interazione. Spesso, come l’autrice sottolinea, questa questione viene nettamente sottovalutata. Il lavoro del linguista deve partire dal precedente assunto per poi adottare una prospettiva libera da ogni tipo di influenza specifica, di modo da sviluppare una buona lente per l’osservazione di tali fenomeni. Questo compito non è assolutamente privo di rischi: gli stessi fallimenti di molti studiosi e le perplessità suscitate dallo stesso operare della ricercatrice polacca ci conducono ad una maggiore chiarezza sull’obiettivo da raggiungere.

Il tentare, ad esempio, da parte di studiosi come Searle e Grice, di valutare come universali le strategie comunicative tipiche del mondo anglosassone, e l’immaginare la presenza in esse di variazioni insignificanti a livello inter-culturale è un’illusione etnocentrica che ci permette di realizzare che la diversità esiste e che, senza gli strumenti adeguati, non sarebbe mai possibile riuscire ad afferrarla2.

1 Wierzbicka (2003), cap. 3, introduzione, p. 67, cit. 2 Cfr. ivi.

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In questo tipo di contesto rientra anche il contributo di Leech, come quello di Brown e Levinson. Lo studio della cortesia e del cosiddetto fenomeno della

politeness nelle conversazioni umane è fondamentale al processo di interazione sociale, tuttavia non ci conduce a risultati soddisfacenti, o meglio, il fallimento dell’individuazione della possibilità di incontro fra culture distanti permette di comprendere che ci si trova di fronte a diversità che non sono focalizzabili né superabili senza una giusta consapevolezza della loro stessa sussistenza. E’ mancata da sempre questa consapevolezza? Probabilmente, nel corso della storia si è sempre assistito ad un continuo avvicendarsi di posizioni contrastanti: il constatare lo scarto, dando impulso ad un relativismo insormontabile, e il velarsi gli occhi di fronte alla prospettiva dell’umanità intera, immaginando l’estensione delle regole del piccolo pezzo di mondo circostante a tutto il resto. Concentrandoci su questa possibilità, ovvero sull’universalismo promosso attraverso gli occhiali specifici della cultura cui si appartiene, è facile rendersi conto di come le massime conversazionali e la teoria “classica” degli atti linguistici si rivelino affette da un grave etnocentrismo e si scoprano, quindi, metodologicamente errate. La loro maggiore incapacità è proprio il rivelarsi non in grado di dar conto di tutti gli aspetti del linguaggio. Una lingua è molto di più di quello che appare, come abbiamo visto nel capitolo precedente: essa condensa valori, norme, attitudini, credenze, paure, tradizioni, ricordi e molto altro ancora. E’ una fenomenologia complessa quella che si schiude dall’osservazione della vita, del mondo e del corso degli eventi attraverso la lente del linguaggio, e l’unico modo per renderla attuabile è porsi fra i due piani individuati precedentemente: quello interiore e

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quello esteriore.

Ciò che Wierzbicka propone di fare è di tentare di allacciare le differenze riscontrate tramite l’analisi empirica inter-culturale a leggi specifiche e alle esperienze culturali che interessano l’interazione umana. I contrasti, le somiglianze e le sovrapposizioni non mancheranno in questa ricerca, tuttavia potranno finalmente acquistare il giusto spessore solo grazie ad una educazione multiculturale: “it seems clear that a linguistic study of culture-specific speech acts and speech styles has a great deal to contribute in this domain”3.

Il progressivo emergere della diversità, risultante soprattutto dalla comparazione delle indagini condotte a livello interculturale, ha pilotato gli studi sul linguaggio verso una nuova direzione: quella della “Cross-cultural Pragmatics”4.

Gli assunti basilari di questa nuova disciplina sono sapientemente illustrati da Wierzbicka: in società o comunità differenti si parla differentemente; tali diversità sono profonde e sistematiche; queste distinzioni riflettono valori culturali o gerarchie di valori diverse; e tutto questo può essere spiegato in termini di valori indipendenti o universali e di priorità culturali5. Questi aspetti sono fondamentali,

non solo dal punto di vista cognitivo ma anche per quanto riguarda la prospettiva antropologico-sociale dell’interazione umana di un mondo sempre più multietnico. Se le incomprensioni, i comportamenti strani, l’incapacità di integrarsi sono spiegabili facendo riferimento a specifici atteggiamenti e precise convinzioni culturali, è possibile riuscire a risolvere problemi sociali, così come conflitti interpersonali di ogni tipo. Wierzbicka scrive: “Of course not all problems can be

3 Cfr. ivi, cap. 2, par. 6, p. 65, cit. 4 Cfr. ivi, cap. 3, introduzione, cit. 5 Cfr. ivi.

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solved in this way: if there is a real conflict in underlying values, mere explaining will not help. But in many cases, perhaps in most cases, what is involved is not a real conflict in values, but a difference in the hierarchy of values; and when this is the case, explaining can help”6. Dunque, si giunge facilmente alla conclusione che

molti dei valori soggiacenti al pensiero e all’essenza di ciò che siamo sono universalmente validi e dotati di una buona base psicologico-cognitiva7. Lo iato

che distingue il “noi” da ciò che marchiamo come “altro” o “diverso” sta proprio in un distinto modo di percepire, associare, stimare, preferire e catalogare questi valori; esattamente come accade con i primitivi semantici, significati universalmente conosciuti, ma percepiti e utilizzati diversamente, tanto che spesso si è rivelato difficile riuscire ad individuarli.

Ciò che finora ha fatto fallire la pragmatica inter-culturale, stando a quanto dice Wierzbicka, è la tendenza a spiegare le varie priorità culturali associate a linguaggi diversi in un modo che non sia per niente comprensibile o intelligibile ad un pubblico di dissimile background culturale. Tutto dipende dal mezzo che decidiamo di adottare per esplicare queste dissonanze. Secondo quanto concluso nel capitolo precedente, infatti, il linguaggio si plasma perfettamente in accordo al contesto di fondo fino nelle sue strutture più profonde: una lingua scaturita da un certo contesto non sarà mai in grado di estrapolarsi da questo per raffigurarne un altro. L’errore più comune è l’etichettare e il classificare valori, come anche atteggiamenti o espressioni. I termini “armonia”, “apprezzamento”, “accordo”, “cordialità”, “emozione” sono estremamente specifici e valutati diversamente; a

6 Cfr. ivi, p. 70, cit.

7 Basti pensare al caso precedentemente studiato di amae, un termine giapponese che si costruisce attorno ad

un elemento emotivo essenziale per l’umanità tutta: la realizzazione dell’esistenza indipendente del genitore da parte del bambino. Cfr. capitolo IV, par. 1.1

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seconda del caso necessitano, quindi, di una spiegazione prima ancora del loro utilizzo per definire altri concetti8. Non esiste nulla che sia autoesplicativo se non

le componenti del “NSM” stesso. I significati di vocaboli come i precedenti, infatti, non possono ritenersi a priori come mutuamente condivisi. Il rischio che si ottiene dall’incosciente utilizzo di termini culturalmente specifici è di un progressivo aumento di confusione, oscurità e incomprensione. Tutti questi criteri di classificazione non sono leciti, quindi, in un contesto inter-culturale, dove è necessario mantenere una posizione neutrale e fare molta più attenzione per non compromettere né la dimensione cui si appartiene né quelle altrui. “It seems obvious that if we want to compare different cultures in terms of their true basic values, and if we want to do it in a way that would help us to understand those cultures, we should try to do it not in terms of our own conceptual artefacts…but in terms of concepts which may be relevant to those other cultures as well – that is, in terms of concepts which are relatively, if not absolutely,universal”9, precisa

Wierzbicka e, ovviamente, sarebbe d’aiuto se tali concetti fossero anche intuitivamente chiari e verificabili, in modo che il loro significato sia assicurato e garantito come uguale in tutti i contesti culturali possibili. Qui indubitabilmente si rivela uno dei maggiori campi d’azione del “NSM”: lo studio dell’interazione umana e del ventaglio di diversità nei rapporti sociali.

8 Wierzbicka fa presente come, ad esempio, non esista un corrispondente preciso del termine sincerity in

giapponese.

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1.2

L’etnocentrismo nello studio dell’educazione e dell’interazione

umana

Il cosiddetto Principle of Politeness nasce proprio per colmare lo scarto che si era aperto espandendo il raggio di applicazione e di studio delle massime griceane e della teoria “classica” degli atti linguistici al panorama interculturale. Tali norme, difatti, si erano mostrate spesso incapaci di assicurare una descrizione attendibile degli scopi e delle strategie comunicative: “In many instances of utterance interpretation, if the Cooperative Principle and Speech Act Theory fails to account for the particular usage, we can suspect that this is so due to some sociolinguistic factor jointly called strategies of politeness”10. Anche questo tipo di

metodo, come già annunciato, si mostra totalmente intriso di etnocentrismo e, dunque, è incapace di adottare un punto di vista non coinvolto dalla cultura di provenienza, ancora una volta quella anglosassone. Questo nuovo elemento, vale a dire l’educazione, ricopre innegabilmente un ruolo estremamente importante per quanto riguarda lo studio dell’interazione sociale, sebbene non riesca a valicare le barriere dell’etnocentrismo11. Le massime presentate da Robin Lakoff non

funzionano universalmente, benché si riteneva si trattasse di una banale inversione dell’ordine di importanza dei tre precetti presentati dalla studiosa. L’errore, dunque, è intrinseco proprio al set di regole scelto e non dipende

10. Jaszczolt (2002), cap. 15, introduction, p. 312, cit.

11 Il maggior contributo, in questo caso, va a Robin T. Lakoff, professoressa di linguistica all’università di

Berkeley. In un articolo del 1973 l’autrice propone tre interessanti massime da aggregare a quelle conversazionali di Grice, che ci permettessero, in qualche modo, di spiegare le difficoltà applicative che il principio di cooperazione griceano aveva incontrato in una prospettiva interculturale. Le tre regole di educazione recitano in questo modo:

Be polite (principio base)

1. Don’t impose 2. Give options

3. Make the addressee feel good, be friendly.

Per questo cfr. Lakoff, The logic of politness; or minding your p’s and q’s, Papers from the 9th regional

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semplicemente da una loro diversa valutazione. Tale apparato di precetti sembra, difatti, non essere sufficiente ad un uso educato del linguaggio e a rendere conto di tutti gli aspetti della cortese interazione fra individui, tanto più che le norme prese in considerazione paiono sovrapporsi una all’altra. A questo proposito si sono operate diverse modificazioni al principio di politeness, generalmente più sofisticate e dettagliate di quanto inizialmente Lakoff aveva proposto. L’accostamento di questo progetto alle regole conversazionali di Grice si ha con Leech12, che ipotizza un sistema di sei massime: il tatto, la generosità,

l’approvazione, la modestia, l’accordo e la simpatia. Egli immagina, attraverso tale lista di strategie, di poter ridurre tutto alla svalutazione del sé e alla valorizzazione del destinatario: due leggi che condensano, in un’ottica del genere, ogni atteggiamento di cortesia conversazionale in tutto il mondo13. Ma anche questo

sistema pare non funzionare. Leech precisa che ci sono molti altri fattori, legati principalmente a specifiche norme sociali e comportamentali, che possono lasciare la strada aperta alla creazione di nuove massime specifiche qualora fosse necessario. Un’operazione del genere non può però ritenersi accettabile. Le differenze a livello inter-culturale condurrebbero ad introdurre massime anche in netto contrasto con le precedenti senza alcuna soluzione di continuità, fatto che conferma la mancata validità universale di quei precetti. Infatti, nessun principio è in questo caso sostenuto da un indagine empirica interculturale, lamenta Wierzbicka. Tutte queste considerazioni sembrano provenire ancora una volta dallo studio di parlanti all’opera in conversazioni tipicamente anglosassoni e

12 Attualmente (a partire dal 2002) è ricercatore in linguistica inglese alla Lancaster University nel Regno Unito. 13 Cfr. Jaszczolt (2002), cap. 15,par. 2, cit.; e cfr. Leech (1983), cit.

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questo fatto impedisce l’applicazione dei risultato ad altri scenari culturali.

Brown e Levinson hanno proposto un modo di guardare alla cortesia e all’interazione umana forse meno compromesso con l’etnocentrismo. Il loro progetto è più sofisticato e contempla una discreta valutazione delle situazioni culturalmente diverse. Il tutto muove dal marcare come negativo il tentativo di imposizione, e come positivo il desiderio di approvazione, presenti entrambi in tutti gli uomini14. Non è assolutamente chiaro, però, fino a che punto le strategie

universali, che si sviluppano a livello inconscio da questi assunti, siano in accordo con gli aspetti culturalmente specifici delle società più lontane e distinte da quella anglosassone. Sicuramente, l’intento dei due linguisti è anche quello di riuscire a giustificare le differenze e di tenerne conto, tuttavia i mezzi utilizzati sono probabilmente inadeguati. La presenza di certe particolari convenzioni in molte culture non significa che esse possano classificarsi allo stesso modo attraverso la medesima schiera di valori, e di questo Brown e Levinson sono pienamente consapevoli. Esistono, poi, molte diversità dovute al ruolo, al rango, al sesso, alla personalità o alla situazione di vita, che si rinvengono all’interno della stessa comunità culturale, delle quali è ancora più difficile rendere conto. Nonostante tutto, anche l’impostazione teorica di Brown e Levinson appare carente, sia a parere di Wierzbicka che di altri studiosi di impostazione universalisti15. L’idea di

evitare l’imposizione del sé e dell’approvare disinteressatamente l’altroè ancora una volta tipica del mondo anglosassone, e lascia trapelare quelli che sono gli ideali di quel particolare tipo di società: l’indipendenza personale, affiancata da un

14 Cfr. Brown & Levinson (1987), cit. 15 Cfr. Jaszczolt (2002), cap. 15, par. 3, cit.

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impressionante rispetto per la libertà altrui.

Nella cultura afro-americana, ad esempio, non esiste niente di paragonabile alla massima della modestia (ovvero quella che si basa sulla svalutazione del proprio ego a vantaggio della promozione altrui) e, difatti, la valutazione del sé non è vista in senso negativo, ma rappresenta un’importante occasione per esprimere il proprio carattere16. La spontaneità e l’affermazione della propria

esistenza è un valore importante nel mondo afro-americano. Tutto fa richiamo ad un certo bisogno di ammirazione da parte della realtà esteriore, comparabile, in un certo senso, al desiderio di successo e popolarità17. L’eccessiva valorizzazione delle

proprie capacità, così come l’esaltazione del sé, non rappresentano una sfida da accogliere, né una superba imposizione, ma semplicemente una esagerazione ironica e confidenziale o un canale di ricerca di autostima e di fiducia in se stessi. Il modo di spiccare sugli altri, difatti, è completamente innocuo, basato sull’apparenza e sull’enfatico risalto delle qualità personali. Sicuramente, la motivazione psicologica di tale atteggiamento e dell’esistenza di tali valori è da associare alle dure repressioni razziali che questa comunità ha dovuto subire nel corso del tempo, tuttavia la questione è assai più complessa di quanto potremmo immaginare.

Black american culture:

I want/feel/think something know I want to say it

I want to say it now18.

Come è facile a questo punto immaginare, esiste anche la condizione

16 Per gli studi sulla cultura afro-americana Wierzbicka fa riferimento a Thomas Kochman, in particolar modo

cfr. Black and white styles in conflict, Chicago, Chicago University Press, 1981.

17 Cfr. Wierzbicka (2003), cap. 3, par. 1.5, cit. 18 Ivi, par. 1.4, p. 83. cit.

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opposta, ovvero il rifiuto della massima di simpatia, che ci imporebbe di ostentare un discreto apprezzamento per l’altro. In Giappone non è comune l’esplicita ammirazione della prospettiva altrui, poiché tale atteggiamento viene considerato arrogante e presuntuoso; è da scoraggiarsi, difatti, l’uso di complimenti e costrutti del genere, anche attraverso una chiara esplicazione dell’intenzione di “non volere valutare positivamente l’altro”19.

Analogamente, è facile rendersi conto di come si rompa il principio di

armonia, che fa parte del sistema di massime di Leech. In base ad esso si minimizza il disaccordo e si promuove l’accordo con l’altro. Per gli ebrei, ad esempio, il disaccordo è una forma di socializzazione che sviluppa il pensiero critico e creativo dell’individuo, costringendolo ad una competizione e ad una conseguente associazione assai più stretta con l’altro. L’essere diretti ed espliciti è un valore importante in questa cultura. Il dialogo si basa proprio sul raffronto sincero delle proprie opinioni e dei propri desideri, senza che sia contemplato alcun tipo di deferenza verso l’ascoltatore: sarebbe più scortese sopprimere la propria spontaneità20.

Queste sono, in breve, alcune esperienze pratiche che Wierzbicka riporta come dimostrazioni effettive dell’etnocentrismo dei principi e delle teorie presentate in questo capitolo. I risultati citati sono, tuttavia, frutto di altri studi e altre analisi profonde, di cui l’autrice non può fare a meno per sostenere le sue affermazioni. Resterebbe da valutare l’attendibilità delle prove addotte, elemento

19 Wierzbicka fa riferimento al lavoro di Osamu Mizutani, cfr. O. e N. Mizutani, How to be polite in Japanese,

Tokyo, Japan Times, 1987.

20 Wierzbicka cita il lavoro di vari studiosi: cfr. Shoshana Blum-Kulka, Brenda Danet e Rimona Gherson, The

language of requesting in Israeli society, in: Language and social situations, Forgas (ed.), New York, Springer, 1985.

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difficile da determinare per chi non è esperto o non ha dimestichezza con le lingue trattate. Per riuscire a cogliere gli aspetti essenziali delle strategie comunicative di certi linguaggi naturali è ovviamente necessario, come più volte sottolineato, un diretto coinvolgimento personale e una visualizzazione interna della prospettiva culturale da studiare, aspetto che il “NSM” vuole in parte rivoluzionare21.

Vi sono anche altri tipi di approccio allo studio dell’educazione, come quello di Escandell-Vidal22, che si presenta come più cognitivo. Gli strumenti che

utilizza, infatti, sono le strutture della conoscenza, i contesti, la nozione di adeguamento sociale, i quali precedono ogni tipo di strategia. Spesso, l’educazione è uno stato che gli interlocutori cercano di mantenere; sembrerebbe, quindi, che le strategie proposteci da Brown e Levinson siano solo un modo di agire educatamente. La situazione resta comunque piuttosto fumosa, in particolar modo se si rivolge lo sguardo alla prospettiva inter-culturale, come si è potuto brevemente constatare sopra. E’ in questa caleidoscopica molteplicità che riposa la difficoltà d’integrazione e comunicazione, come anche l’incapacità di comprendere certe norme o certe usanze e l’impossibilità di farle proprie.

1.3

La diversità penetra anche nelle strategie comunicative: who is

right and who is wrong?

“From the outset, studies in speech acts have suffered from an astonishing ethnocentrism, and to a considerable degree they continue to do so”23, si apre così

lo studio basato su un confronto diretto fra culture, linguaggi e atti linguistici che

21 Il “NSM” agisce solo parzialmnte, poiché, come evidenziato precedentemente, è sempre preventivamente

necessaria la conoscenza del significato da trattare perché questo sia esplicabile in primitivi semantici.

22Docente spagnola di linguistica generale. 23 Wierzbicka (2003), cap. 2, introduzione, p. 65, cit.

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Wierzbicka propone. Lo scopo dell’autrice è svelare il più possibile l’etnocentrismo di cui la ricerca è stata vittima e di correggerlo, mostrando la patina di indifferenze e di errori che ha da sempre pervaso questo tipo di analisi. Secondo quanto detto nei paragrafi precedenti, la stessa scelta dei criteri di classificazione degli atti linguistici o i termini specifici utilizzati per etichettare massime o regole conversazionali è del tutto sbagliato e non promuove affatto un dialogo interculturale. Molte volte, però, anche la raccolta dei dati d’osservazione su cui operare ha condotto i linguisti a conclusioni del tutto errate. L’esempio che la ricercatrice presenta, citando il cattivo operato di altri studiosi, è sensibilmente esplicativo: quando le persone fanno delle richieste tendono a formularle in modo indiretto24. Appare evidente che tale asserzione è valida in un contesto puramente

anglosassone e sembra non contemplare l’esistenza di convenzioni diverse da quelle tipicamente inglesi. Non è vero che ogni linguaggio dispone delle medesime strategie per attuare un determinato atto linguistico: nel campo delle richieste, ad esempio, si può passare dall’interrogare direttamente il destinatario riguardo alla sua capacità di fare ciò che si richiede, fino a giungere all’espressione velata del desiderio in questione per suscitare nell’ascoltatore il sospetto di una potenziale volontà nel parlante che lo porti, così, ad agire per assecondarla25.

Queste possibilità non sono sempre presenti in tutte le lingue del mondo e non possiamo pensare di ridurre l’analisi alla trattazione differenze minimali, poiché si verificano anche all’interno di una stessa comunità linguistica fra regioni o gruppi distinti. In Giappone, ad esempio, è fortemente scoraggiata

24 Cfr. ivi. Wierzbicka trae questa considerazione da H. Clarck e D. Schunk, Polite responses to polite requests,

Cognition 8, 1980.

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l’eplicitazione diretta delle proprie richieste come delle opinioni personali o di qualsiasi tipo di preferenza, persino in risposta a domande esplicite, generalmente non utilizzate proprio per questo motivo. Si dissuade da ogni tipo di espressione personale, mentre si promuove la totale accondiscendenza dell’altro. Tutto poggia su un valore sommamente importante: quello di enryo, ovvero una sorta di riservatezza estrema. Per carpire davvero il senso che vi sta dietro è necessario fare riferimento al “NSM”:

X thinks:

I can’t say to this person: I want this, I don’t want this I think this, I don’t think this

Someone can feel something bad because of this X doesn’t say because of this

X doesn’t do some things because of this

Si rileva, in questa circostanza, la comprensione del male potenzialmente provocato nell’altro tramite delle richieste esplicite. Queste, dunque, vengono realizzate in maniera estremamente indiretta26, consapevoli del fatto che, grazie al

valore condiviso di empatia, l’altro comprenderà sempre le vere intenzioni che si celano dietro qualsiasi discorso27.

Lo stesso essere indiretti non è uguale in ogni angolo del pianeta: la possibilità di catalogare tutto sotto queste espressioni basilari è solo una mera illusione28. Emblema, invece, della schiettezza è sicuramente il popolo ebreo, come

26 Lo schema in “NSM” è questo:

I want something I don’t want to say this

I will say something else because of this I think this person will know what I want.

Cfr. Jaszczolt (2002), cap. 16, par. 2, p. 335, cit; e Wierzbicka (1992a), cap. 3, par. 2.2, p. 94, cit.

27 Al solito Wierzbicka fa riferimento a studi empirici condotti da specialisti, che si preoccupanno dello studio

delle strutture sintattiche, come delle realizzazione quotidiana della comunicazione.

28 Anche in greco, ad esempio, si registra una situazione simile al giapponese, destinata, però, a restare tale,

quindi, priva di un’assoluta coincidenza:

I want something I don’t have to say this

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si può vedere dall’ esemplificazione in “NSM”:

we can all say to one another:

I want/don’t want this I think/don’t think this We will not feel something bad because of this29.

Il confronto aperto è ammesso e tollerato, assieme alla possibilità di mostrare dissenso senza dover addurre ulteriori spiegazioni. Tutto dipende dalla mutua fiducia che ciascuno ripone nell’altro e dal desiderio di accostarsi a lui attraverso il dibattito. Confrontarsi è un modo per avvicinarsi. L’infervorarsi è visto positivamente come sintomo di vita e spontaneità. Una cosa del genere difficilmente sarebbe accettata nel mondo anglosassone, dove l’assoluta riverenza e il rispetto per l’altro assumono le forme di una riguardosa cortesia e di una assoluta valorizzazione della libertà altrui.

In tutte queste considerazioni rientrano non solo valori culturali, ma anche tradizioni storiche, norme sociali, regole familiari, credenze religiose e situazioni politiche. L’indipendenza inglese, a confronto con l’oppressione delle terribili tirannie russe o delle monarchie assolute giapponesi, origina capacità e modalità interattive distinte, così come l’importanza che si dà alle gerarchie interne alla famiglia o la presenza o meno di discriminazione sessuale. I costumi sono considerevolmente variegati e invadono non solo le strutture del linguaggio, ma anche le strategie comunicative.

I think this person will know what I want

I think she will do it because of this.

Tutto dipende dalla diversa concezione dei valori di fondo. Per la definizione in “NSM” cfr. ivi, cit. Per la trattazione dell’essere indiretti in greco cfr. Wierzbicka (2003), cap. 3, par 2.3, cit.

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1.3.1 Italiano versus English

In Wierzbicka (2003), l’autrice propone l’analisi delle diversità fra le strategie comunicative polacche e inglesi30, che lei stessa definisce come una sorta

di “studio pilota”, capace di renderci consapevoli delle differenze comunicative associate alla cultura di fondo e di fungere da modello per tutte analisi successive. Un simile lavoro può condursi fra l’inglese e l’italiano per visualizzare meglio lo scarto sussistente fra due distinte gerarchie di valori, appartenenti a due società diverse31. Il capitolo precedente ha mostrato come il linguaggio viene plasmato

dalla cultura, lasciando aperta la possibilità di un reciproco coinvolgimento dei due fattori. In questo caso si tratta proprio di procedere all’inverso, ovvero di osservare il linguaggio con particolare attenzione ai suoi aspetti comunicativi, per comprendere poi le attitudini culturali che vi stanno dietro.

Un buon modo per portare avanti questo studio è fare diretto riferimento ad esempi specifici che caratterizzano la vita quotidiana e valutare gli errori più comuni, commessi dai parlanti nel tentativo di esprimersi nell’altra lingua analizzata. A questo scopo, Wierzbicka menziona immediatamente una tipica imprecisione, diffusa fra molti polacchi, relativa alla formulazione di inviti o richieste in inglese: quello di utilizzare la forma imperativa32. Tale fenomeno è

estremamente comune anche fra altri stranieri non particolarmente ferrati nella conoscenza della lingua in questione. Il problema di fondo è che in polacco, come anche in italiano, è frequente l’uso dell’imperativo anche in situazioni più formali.

30 Il polacco e l’inglese sono le due lingue di cui ha piena conoscenza l’autrice.

31 Ritengo opportuno, però, tentare solo una parziale una comparazione dei due linguaggi di cui io dispongo,

seguendo precisamente i passi di Wierzbicka e quanto essa stessa sostiene in merito ai linguaggi e alle culture del Mediterraneo in Wierzbicka (2003), cit. Per quanto riguarda la conoscenza delle attitudini e dei valori inglesi, faccio diretto affidamento a quanto la ricercatrice stabilisce nel medesimo testo.

(18)

Nonostante si possano utilizzare altri espedienti per addolcire le formule scelte33,

ad un inglese tali offerte suonerebbero sempre come comandi. La traduzione letterale delle nostre formule, dunque, risulterebbe particolarmente inopportuna, mostrandosi come una vera e propria imposizione o un ordine, utilizzabile scarsamente anche in contesti informali e assai più diffusa come disposizione da impartire agli animali. L’enunciato ottenuto mancherebbe della cordialità richiesta: in parte perché gli elementi che in italiano la veicolano sono assenti nella formula inglese34, in parte perché non corrispondono alle convenzioni sociali

anglosassoni35.

La tradizione inglese che regola le richieste, come le offerte o gli inviti, è quella dei cosiddetti whimperatives. L’aspetto interessante è la costante adozione della struttura tipica della domanda, proprio come segno di cortesia, deferenza e rispetto:

Will you close the window, please?

Would you close the window, please?/ Could you close the window, please? Won’t you close the window?

Can you close the window?

Close the window, won’t you?/will you? Sure you won’t close the window? How about close the window?36

In italiano esiste un tale serie di possibilità, ma sono tutte più o meno inusuali o, in generale, poco adatte alla situazione. Nonostante si ammetta comunque l’uso dell’imperativo (preferibile in situazioni informali), l’utilizzo del verbo modale per le richieste è frequente e generalmente ammesso, sia nella sua

33 Considerare la T-form dell’italiano o l’aggiunta di altri espedienti acapci di veicolare cortesia. 34 Considerare la T-form dell’inglese: non esiste la possibilità di rivolgersi al destinatario diversamente. 35 Questo studio dell’utilizzo dell’imperativo nelle richieste è indubbiamente quello più attendibile rispetto a

tutti gli altri condotti in merito.

36 Alcuni esempi del genere si trovano in ivi, cit. La formalità, ovviamente varia molto ma la forma, come si

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costruzione informale “Puoi aprire la finestra?”, che in quella più formale “Potresti aprire la finestra?”. Indubbiamente, però, non è possibile tradurre le altre formule inglesi senza perdere la forza illocutiva che hanno originariamente. L’enunciato “Will you open the window?”, come anche “won’t you open the

window?”non hanno corrispettivi in italiano, esattamente come in polacco, stando agli studi di Wierzbicka37. Inoltre, in inglese esiste una forma particolare di

richieste, utile sia per veicolare una certa nota critica nei confronti del destinatario che per contesti modali: quella che sfrutta la struttura “why don’t…”38. Questi casi

possono tradursi anche in italiano, con certe restrizioni. Il fatto è che in inglese la forma interrogativa ha raggiunto uno stadio di totale dissociazione dal linguaggio formale, diversamente da come accade in italiano o in molte altre lingue, al punto che può utilizzarsi in numerosi contesti differenti39. Una traduzione è sicuramente

possibile, ma risultebbe piuttosto inusuale in ogni altro linguaggio40.

Proseguendo l’analisi, si può constatare che in inglese anche i consigli vengono espressi in modo estremamente dissociato, senza alcuna possibilità di contemplare l’imperativo. La scelta si orienta sempre verso un condizionale o una domanda; lo stesso verbo to advise (suggerire, consigliare), in tali situazioni è estremamente formale e poco usato nel linguaggio comune.

Un’altra cosa che colpisce moltissimo del mondo anglosassone è il largo uso delle cosiddette tag questions. Non è comune la loro formulazione, difatti, da parte di stranieri che non abbiano una buona dimestichezza con la lingua. Le tag

questions possono combinarsi con offerte, richieste, insinuazioni, accuse,

37 Cfr. Wierzbicka (2003), cap. 2, par. 3.2, cit. 38 Cfr. ivi.

39 Cfr. Ivi.

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affermazioni o esclamazioni in modo da ricostruire la forma tipica della domanda in ogni occasione, così da lasciare all’interlocutore la possibilità di dissentire o di esprimere il proprio pensiero.

Come spiegare questa sfrenata passione per le domande, meno comune in italiano o in altre lingue? Il fatto è che gli inglesi danno un’estrema importanza al rispetto dell’autonomia e della volontà altrui. Offrire qualcosa, chiedere aiuto o avanzare proposte potrebbe sembrare offensivo se non volgesse a valorizzare la scelta altrui piuttosto che quella del parlante, o comunque se non contemplasse la possibilità di risposta da parte del destinatario. Ogni forma che non include spazio per dissentire è considerata una specie di imposizione indebita. Ecco spiegato perché ad un italiano tali tecniche paiono molto più formali di quanto sembrano ad un inglese. Nei paesi mediterranei è molto più comune la ricerca di una certa complicità nel destinatario, e ciò lo si vede anche nella gestualità tipica che caratterizza l’interazione interpersonale. E’interessante osservare che in un paese come l’Inghilterra, dove sono fiorite filosoficamente, storicamente e socialmente le basi del pensiero indipendente, si sviluppa un linguaggio che ruota attorno a convenzioni costruite proprio sui valori della libertà e dell’autonomia. Inoltre, attraverso l’imposizione della stessa lingua inglese a molti paesi colonizzati, si è riusciti in parte a infondere questi ideali in molti altri contesti culturali. Ciò che invece caratterizza il pensiero italiano, come quello polacco – a dire di Wierzbicka - è la schiettezza e la spontaneità, che ci porta a formulare richieste, offerte e domande in modo più diretto41.

41 Wierzbicka motiva questa sua idea, relativa ai paesi e alle lingue mediterranee in diverse circostanze,

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In inglese le stesse opinioni si esprimono in maniera più velata e sottile, come attraverso dei semplici suggerimenti, sebbene la cultura anglo-americana sia comunque da considerarsi diretta in queste espressioni rispetto alle convenzioni orientali42. La franchezza, d’altro canto, sarebbe vista come grossolanità da un

inglese, che è invece abituato a valorizzare molto la prospettiva altrui, esagerando così tanto la propria eccitazione di fronte all’altro, come di fronte a temi di conversazione assolutamente poco interessanti, da apparire ipocrita in un’ottica come quella slava o mediterranea43. L’essenziale, in ogni caso, è la delicatezza con

cui si lascia al destinatario l’opportunità di esprimere il proprio pensiero o la propria opinione. Il complesso di attitudini che condizionano ciascun individuo, obbligandolo ad essere costantemente consapevole della presenza di altre persone, altre voci, altri punti di vista con il loro spazio psicologico, la loro autonomia e il loro carattere, è un valore peculiare della società inglese. Sicuramente, tale fattore spiega la mancanza sia di un eccessivo trasporto emotivo, sia del valore soggettivo dell’espressione personale, che è un elemento chiave di molte altre tradizioni. L’emotività, dal punto di vista polacco, ad esempio, non intende essere grottesca, irrazionale o irrispettosa della prospettiva altrui, piuttosto pare sincera,

42 In Giappone, ad esempio, è considerato estremamente scortese porre domande dirette e anche avanzare

delle richieste. Queste, difatti, vengono veicolate dall’espressione di desideri personali e poggiano sul valore principale della cultura di fondo: quello dell’empatia. Esistono, quindi, diversi modi di essere indiretti. Cfr. Jaszczolt (2002), cap. 16, par. 2, cit.

43 Wierzbicka stessa si dice incapace di tanta esagerazione, poiché le sue origini si mostrano in questo caso non

disposte ad accettare tali “lubrificanti conversazionali”, cfr. Wierzbicka (2003), introduction to the second edition, cit. Mi pare necessario aggiungere che lo studio così accurato di una lingua e delle sue convenzioni debba essere profondamente motivato da dati empirici e valutazioni precise. Wierzbicka si limita a citare il lavoro di altri studiosi, sebbene sia ovviamente presente una sua rielaborazione, alla luce anche delle sue conquiste. Resta oscuro, quindi, il lato principale che riguarda la metodologia pratica da adottare nello studio così dettagliato di diversi linguaggi. Questo paragrafo muove, tuttavia, dall’espressione di un mio desiderio, volto alla dimostrazione della possibilità di motivare ogni differenza, e, non può avanzare, in quanto tale pretese di esaustività, accuratezza, nè, tanto meno, può risultare utile a svelare gli aspetti metodologici che nemmeno la ricercatrice si preoccupa di menzionare.

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passionale, calorosa e spontanea44.

Dunque, in ogni differenza si raccoglie una porzione valori saldi ed importanti: tutto dipende da quale punto di vista si decide di adottare. Quello che conta, a parere di Wierzbicka, è la capacità di cogliere l’essenza principale di una cultura, studiandone il linguaggio, come anche il sistema di convenzioni e la storia. Solo in questo modo è possibile carpire la gerarchia di valori sottostante45 e

costruire dei validi Cultural Scripts46.

2. Le emozioni come artefatti specifici della cultura di riferimento

L’idea che, non solo i concetti, ma anche le emozioni siano artefatti culturali, inizialmente considerata dai più insigni antropologi come erronea, sta invece guadagnando sempre più terreno47. Le variazioni della vita emotiva sono

una parte estremamente reale delle differenze interculturali e non solo per il modo in cui tale sfera trova espressione. Per dare spessore a questa tesi, verso cui Wierzbicka simpatizza profondamente, è necessario investigare i concetti che si riferiscono alle varie emozioni, il loro mutare, la loro diffusione e il loro ruolo all’interno delle diverse culture. Il procedere passo passo, seguendo un preciso programma, basato sull’esame degli aspetti emozionali che caratterizzano le varie società del pianeta, si può giungere ad un conclusione significativa riguardo alla loro natura: “no matter how ‘unique’ and ‘untranslatable’ an emotion term is, it can be translated on the level of semantic explication in a natural semantic

44 Wierzbicka (2003), cap. 2, par. 3.2, cit. 45 Cfr. ivi, cap. 2, cit.

46 Cfr. par. 3.3 di questo capitolo.

47 Inizialmente proposta da Clifford Geertz, un antropologo statunitense morto nel 2006. Cfr. Geertz (1987),

(23)

metalanguage”48.

L’ipotesi che vede le emozioni come innate e universali si è conservata nel corso della storia, spesso accompagnata dalla convinzione che ciascuna di queste fosse associata ad una precisa espressione facciale o ad un aspetto caratteristico, capace di convogliare informazioni sullo stato emotivo dell’esperiente49: questa

argomentazione è giunta perfino all’identificazione di una lista di emozioni fondamentali50. Wierzbicka ha sempre mostrato scetticismo a riguardo. Il

problema è che questa tesi non ha trovato un riscontro ufficiale dai dati empirici rilevati: alcune emozioni più complesse, come la paura, sono difficili da rintracciare, in più non è chiaro come i sentimenti in generale possano tradursi in vocaboli precisi. Ad esempio, in molti casi non esiste una lessicalizzazione di una particolare sensazione (come quella del disgusto in polacco), oppure si confondono due distinte emozioni affidandole al medesimo termine (come alcuni aborigeni australiani che nella loro lingua, il Gidjingali, non distinguono fra paura e vergogna). Se un linguaggio non opera una distinzione lessicale, non sarà possibile per nessun ricercatore far sì che l’esperiente percepisca le due sensazioni in causa come distinte semplicemente andando al di là delle barriere linguistiche e comunicative.

48Wierzbicka (1992a), parte II, cap. 4, introduction, p. 135, cit.

49 Wierzbicka fa qui riferimento al lavoro di Paul Ekman, un noto ricercatore americano, studioso di

espressioni facciali. Oster, invece ha studiato psicologia dello sviluppo all’università di Berkeley e si è specializzata sullo studio delle espressioni facciali infantili.

50 Tali emozioni sono: paura, gioia, sorpresa, tristezza, rabbia, disgusto, contentezza, interesse,

timidezza/vergogna, senso di colpa. A tale lavoro hanno partecipato diversi studiosi, soprattutto Carroll Izard e Sandra Buechler, due psicologi americani che hanno collaborato alla DET Differential Emotions Theory per l’identificazione delle emozioni basilari innate nell’uomo.

Non è chiaro come mai qui non sia possibile far richiamo, esattamente come accade nel caso del rinvenimento dei primitivi semantici, a fenomeni come polisemia, allolexy, portmanteus eo altro, nel tentativo di dar ragione della mancanza della lessicalizzazione di alcune emozioni, passibili di universalità. Wierzbicka pare partire già dall’assunzione della loro complessità e specificità, cosa nemmeno troppo assurda, se si considera che fanno richiamo più di qualsiasi altra cosa alla soggettività. Tuttavia, restano diverse lacune da colmare e argomentazioni da motivare più saldamente.

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I termini inglesi utilizzati per l’analisi delle emozioni non sono altro che una tassonomia specifica, figlia di quella particolare cultura. Tale apparato di vocaboli appare incapace, quindi, di rappresentare delle realtà psicologiche universali. Wierzbicka non può che simpatizzare con ogni tipo di tentativo di catturare somiglianze universali, sia che abbiano a che fare col mondo dei significati che con quello emotivo. Questo studio, però, non è stato trattato correttamente e non ci si è curati minimamente di conferire ad esso delle basi stabili. La studiosa è arrivata alla conclusione che diversi sistemi di emozioni riflettono inevitabilmente diversi modi di concettualizzarle, i quali a loro volta, dipendono da una diversa maniera di convogliare sentimenti e di etichettarli. Nessuna società è così omogenea da avere un’unica ideologia delle emozioni che sia condivisa da tutti. Senza evidenza empirica, del resto, nessuna asserzione è certa riguardo alla somiglianza e alla diversità51. L’unica strada da intraprendere,

allora, è quella dell’indagine e della sperimentazione, operazioni che sarebbero impossibili senza una rigorosa analisi semantica basata su un metalinguaggio indipendente e capace di astrarre dai singoli contesti culturali considerati. Dunque, è necessario tener conto delle discriminazioni lessicali riguardanti questa area, così come della collaborazione multidisciplinare, per non lasciare indietro antropologia e psicologia, senza considerare infine l’importanza della raccolta dei dati empirici.

I rischi di uno studio come questo sono i medesimi rinvenuti nella ricerca dei concetti fondamentali, senza alcuna distinzione: la circolarità delle definizioni come anche la mancanza di attendibilità dovuta all’adozione di termini tecnici

(25)

specifici di un mondo culturale e del suo stato emotivo52.

Le emozioni sono gli aspetti più tangibili dell’esperienza umana. Esse hanno potenti influenze sul pensiero, sulle azioni, sull’apparenza fisica, come sullo stato psico-fisiologico. La soggettività è sicuramente importante in questa prospettiva, tuttavia possiamo visualizzare una certa aspettativa sociale ed una sorta di standardizzazione di alcuni tipi di emozioni e non di altri in ogni mondo culturale.

Non tutti si reagisce allo stesso modo, non è possibile individuare dei canoni rigidi, né troppo precisi. La difficoltà d’indagine sta, quindi, nel tracciare connotati del mondo emotivo, in rapporto alle situazioni, al contesto e alle condizioni, tenendo conto della porzione di soggettività che qui è presente ed è fondamentale. Le pressioni sociali e culturali ci sono e mirano ad incoraggiare le persone ad aggiustare la loro apparenza e a nascondere le vere condizioni psichiche più profonde. Non sempre, però, questo processo è chiaro. L’ipotesi di Wierzbicka è che il suo metalinguaggio fornisca un’importante filamento di connessione concettuale fra espressioni emotive culturalmente diverse, e che funga, così, da bussola di orientamento in questo studio. Le parole sono allacciate in qualche modo alle attitudini e all’identità culturale53; come si associano, però,

alle emozioni?

In primo luogo, l’inesistenza di un termine specifico per contrassegnare un’emozione non significa che questa non sia percepibile. Il fatto che non sia stata codificata come espressione singola nel linguaggio in questione vuol dire che, in

52 Cfr. Wierzbicka (1992a), parte II, cap. 3, introduzione, cit. 53 Harkins & Wierzbicka (eds.) (2001), introduction, cit.

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tal caso, i parlanti non sono in grado di avvertirla distintamente, come riconoscibile di per sé. E’ un operazione frequente, infatti, il tentare di esplicitare un preciso sentimento, cercando di incastonarlo in un qualche termine, qualora non ve ne sia uno disponibile. Il tutto è maggiormente complicato dal fatto che qui interviene anche la dimensione soggettiva, che ci porta a percepire tutto a livello più strettamente personale. Wierzbicka puntualizza che: “there are countless human emotions that can be perceived as distinct and recognisable. Possibly, all these emotions can be, better or worse, expressed and described in words –in any human language. But each language has its own set of ready-made emotion words, designating those emotions that the members of a given culture recognise as particularly salient”54.

Il lessico delle emozioni varia enormemente, tanto che anche l’esistenza di termini per contrassegnare le stesse emozioni non ci assicura che queste vengano percepite allo stesso modo. La profonda differenza risiede nel mondo di credenze e di modelli di riferimento che caratterizzano ciascuna società. Probabilmente, esiste un fondo psicologico fondamentale cui attingere, ma viene trasfigurato dal linguaggio e dalla cultura in cui l’individuo si ritrova e cui si conforma. Di sentimenti significativi ve ne sono molti, ma ci sarà sempre una società che non li ritiene rilevanti abbastanza da meritare una lessicalizzazione distinta.

2.1

Il lavoro di Wierzbicka sulle emozioni

La ricercatrice polacca si è cimentata sullo studio delle emozioni, coinvolgendo diversi studiosi con capacità di trattazione di innumerevoli

(27)

linguaggi. Ciò che Wierzbicka auspica è la dimostrazione del fatto che, nel campo delle emozioni umane, non è rintracciabile nessun tipo di universalismo, ovvero non sono rinvenibili degli elementi basilari ed estremamente semplici da poter utilizzare per la costruzione di tutte le esperienze interiori più complesse. Quando tocchiamo la sfera emotiva già siamo a contatto con qualcosa di più contorto rispetto a quella mentale dei primitivi semantici. Ogni sentimento è una miscela di significati, capace di racchiudere ragioni, ricordi, credenze, rituali e aspettative diverse.

La percezione del bene e del male è forse l’unico elemento generale da poter menzionare in questo campo, difatti esistono essenzialmente tre modi di definire attraverso il “NSM” i termini relativi alle emozioni e uno di questi passa proprio attraverso gli universali GOOD e BAD55. Questi due concetti innati non ci dicono

molto, in realtà, sulla natura dei sentimenti stessi, né possono aiutarci a categorizzare e ad operare una certa tassonomia in proposito, poiché non esiste sempre una linea netta di demarcazione fra l’esperire il bene e il male. Ad esempio, il caso considerato precedentemente, quello di toska, sarebbe assai difficile da classificare come associato a GOOD o a BAD, dal momento che è contrassegnato da un senso di indeterminatezza generale, che varia da una sofferenza profonda ad una malinconia speranzosa, alimentata piacevolmente del suo stesso sussistere.

55 Le possibilità alternative sono il passare attraverso una situazione prototipica esterna comprensibile a livello

universale, come avviene per i colori, oppure il passaggio attraverso una situazione prototipica a livello di sensazione fisica:

 X feels good or bad

 X feels like a person who…

 X feels something in his body…

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Crescere all’interno di culture diverse implica lo sviluppo di un diverso modo di interiorizzare esperienze. Il linguaggio gioca un ruolo nettamente importante in questo caso, perché ci induce e costringe ad incasellare nella memoria le nostre percezioni, secondo dei canoni piuttosto che altri. Il fatto, poi, che esso stesso si sia costruito attorno a degli ideali, dei valori, delle tradizioni, e che li rifletta al suo interno, fa pensare che evidentemente ogni persona è come se fosse uno scenario perfettamente equilibrato in sé, arricchito e colmo di elementi specifici, appartenenti all’universo circostante e raccolti proprio grazie al linguaggio. L’uomo cattura le proprie esperienze in base agli strumenti di cui dispone, che lo rendono più o meno sensibile verso certi aspetti piuttosto che altri. Il punto è che, per quanto possano essere recondite e radicate nei meandri della nostra psiche di esseri umani, le emozioni sono comunque pescate e selezionate dal linguaggio proprio in risposta alle circostanze, le esigenze e i precetti che il mondo in cui viviamo ci impone. Ecco perché in italiano o in inglese non esiste un termine come quello di toska56.

In Wierzbicka (1999) e in Harkins & Wierzbicka (eds.) (2001), l’autrice ha sviluppato un lavoro particolarmente accurato sulle emozioni, stabilito sulle definizioni di concetti estremamente variegati, costruite attraverso il “NSM”. Lo scopo è di mostrare come i primitivi semantici siano i concetti basilari di ciascuna emozione umana, ovvero quei tasselli universali che si rinvengono anche nel campo delle emozioni come elementi estesi a tutta l’umanità. L’apparato dei primitivi appare, quindi, come una sorta di “codice genetico” costitutivo di ogni nozione umana e capace di descrivere tutto ciò che caratterizza l’umanità: dal

(29)

linguaggio al pensiero, dalle sensazioni alle percezioni fisiche, dalle idee ai ruoli sociali, dai precetti morali a quelli politici…

Il motivo di questa sua capacità dilatatoria è facilmente intuibile, dal momento che, infatti, un primitivo semantico non è altro che un concetto innato che si configura come “essenzialmente umano”: ecco spiegato il motivo per cui non esiste astrazione in seno agli universali, ma solo semplicità. Il “NSM” diviene chiaramente il mezzo per spiegare tutto ciò che riguarda l’uomo, al di là delle molteplici e multiformi differenze fisiche e psicologiche create dalle barriere nazionali e culturali.

2.1.1 Alcuni esempi pratici

La cosa migliore, per dar merito all’ingente lavoro di Wierzbicka, è di illustrare alcuni esempi dell’operato dei ricercatori che hanno collaborato al suo progetto.

I due filoni essenziali che fanno da guida sono: la scelta del linguaggio o la scelta della tipologia di emozione. Chiaramente, per quanto riguarda quest’ultimo aspetto è necessario puntualizzare che è sicuramente più arduo e complicato compiere una catalogazione attendibile, anche perché persino lo stesso termine “emozione” non esiste a livello universale. Muoversi procedendo da cultura a cultura, scandagliando bene lo scenario sottostante per scoprire quelle che sono le emozioni più di spicco, è dunque la metodologia migliore, poiché ci permette di comprendere immediatamente quale tipologia di sentimenti è prediletta e, di conseguenza, quali fattori possono essere determinanti.

I linguaggi esaminati più dettagliatamente sono stati: giapponese, cinese, russo, polacco, alcune lingue austronesiane (come mbula e giavanese,

(30)

rispettivamente parlati della Papua Nuova Guinea e nell’isola di Giava), lao (parlato nel Laos e nel nord della Thailandia), tedesco, aramaico e inglese. In ogni circostanza, vi saranno delle parole chiave, fortemente intessute nel contesto culturale di fondo. Attraverso questo tipo di analisi, ci si rende immediatamente conto della miriade di varietà che è possibile osservare in seno alla stessa percezione delle emozioni; difatti, non si percepisce niente allo stesso modo e in ogni circostanza o in ogni parte di mondo si ha un diverso modo di porre attenzione alla sfera delle emozioni.

La lingua Mbula, ad esempio, incentra ogni emozione sul corpo e su immagini simili. Colpisce molto, in questa cultura, l’esperienza interiore, ritenuta il canale principale per dare significati esaustivi a ciascun sentimento. Agli occhi si associano le percezioni più cognitive ma anche più immediate; alle interiora si associano quelle più struggenti, nei confronti delle quali l’uomo è indubbiamente più impotente; al petto è associata la sorpresa, come tutte le emozioni legate agli eventi più inaspettati; nella pelle si rinviene sia timidezza che imbarazzo; nello stomaco il disagio e l’oppressione; nella bocca il disgusto e così via57… Secondo

Wierzbicka, queste associazioni dovrebbero sembrarci familiari, in quanto la percezione fisica e psicologica funziona più o meno allo stesso modo in tutti gli esseri umani e, probabilmente, somatizziamo in modi similari, indipendentemente dalla nostra cultura d’origine.

La lingua Lao, invece, si presta moltissimo allo studio delle emozioni tramite le espressioni facciali, cui evidentemente conferisce un’estrema

57 Cfr. Wierzbicka (1999), cap. 2, cit. Wierzbicka fa capo all’interessante lavoro di Robert Bugenhagen,

(31)

importanza. E’ forse proprio per questo motivo che la traduzione in inglese di tali emozioni viene ritenuta come assolutamente impossibile da molti studiosi. Il “NSM”, a parere di Wierzbicka, ci ha permesso di dipanare la matassa emotiva laotiana, comprendendo quelle che sono le sensazioni principali e riuscendo a darne una configurazione58. La faccia è associata per lo più ad espressioni di

disgusto, probabilmente è l’emozione più visibile a tale livello, ma vi sono termini per indicare il viso arrabbiato, come quello che sta per piangere o addirittura una sorta di “anti-smile”, ovvero una specie di “sorriso capovolto”, indicante non solo tristezza, ma anche bruttezza o rudezza. Anche per la bocca esiste un’innumerevole varietà di termini: per quando è serrata, quando è spalancata, quando ha i denti dritti o stretti, quando è socchiusa… Gli occhi anch’essi si raffigurano in molti modi diversi dalla situazione in cui sono spalancati a quando sono incantati o sognanti, così come le sopracciglia o il naso. Le espressioni facciali in Lao convogliano emozioni assai più dirette, semplici e rapidamente comunicabili59.

Nella lingua Malay tutte le sensazioni fanno capo a qualcosa che potremmo identificare come il cuore, ma con funzioni di stampo più cognitivo. Attraverso tale organo gli aborigeni “percepiscono” preoccupazione, senso di malattia, spossatezza, vari tipo di umori, la pace della mente, sorpresa (in senso positivo e negativo), benessere60, ecc. In Arrerente (un’altra lingua australiana) le emozioni si

esprimono, invece, in modo estremamente ricco: esiste un vocabolario assai ampio

58 Si ripropone, in questa circostanza, l’osservazione fatta in merito al concetto amae, presentata nel Capitolo

IV, par. 1.2. Non è chiaro, infatti, come si possa rinvenire l’elemento semantico essenziale di queste emozioni, il quale va indubbiamente individuato a prescindere, poi, da quella che sarà la sua esplicazione in NSM.

59 Cfr Harkins & Wierzbicka (eds.) (2001),, cap. 4, cit. Wierzbicka qui si appoggia al lavoro di N. J. Enfield,

studioso del laotiano.

(32)

dal punto vista delle sensazioni, dei comportamenti e delle interazioni. Quello che non si rinviene, però, è un termine stante come controparte di “emozione”, intesa per l’appunto come categoria, si può infatti solo fare riferimento al verbo “percepire involontariamente”, ovvero il primitivo FEEL61.

In giapponese ci si concentra sugli aspetti onomatopeici, che hanno un valore insolitamente fondamentale in tutto il contesto linguistico di questa tradizione. L’elemento è indubbiamente curioso, perché pare indubitabilmente intrigante e originale il tentativo di rappresentare una qualsiasi sensazione a livello acustico. Il rischio del dolore e la paura si rappresentano in associazione al gelo e ai brividi, quindi con suoni che ricalcano l’atto di tremare; spesso, invece, si costruiscono associazioni col rumore del battito cardiaco, come nel caso di una preoccupazione estrema. Anche il legame con delle impressioni visive è frequentemente tenuto in considerazione in questa cultura62.

Il cinese mandarino raffigura le emozioni attraverso scenari naturali o elementi della natura e, fattore interessante, si focalizza più sull’esperienza mentale e psicologica del dolore che su quella fisica63.

Il russo, fortemente caratterizzato da modestia e fatalismo, si incentra molto sulle impressioni relative alla vista, siano esse di qualsiasi genere: le persone amate “non ci stancheremmo mai di fissarle” (espressione per cui esiste un termine specifico), mentre quelle odiate si tende a non volerle vedere. Esistono molti termini per sensazioni di struggimento, nostalgia, disperazione violenta, tipiche della psiche pessimista russa, sebbene esista anche un caso unico al mondo

61 Cfr. ivi, cap. 6, cit. Lo studio, qui, è portato avanti da Jean Harkins.

62 Cfr. ivi, cap. 7, cit. Studio svolto assieme a Rie Hasada, studioso dell’etica giapponese e dell’espressioni

relative alle emozioni.

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di espressione ottimista della sofferenza64. Inoltre, le costruzioni impersonali

lasciano trapelare un senso di abbandono e di passività notevole: l’emotività è fondamentale e forte tanto quanto è assolutamente incontrollabile65.

Continuando l’analisi, ci si accorge che il tedesco è privo di un termine generale per indicare la rabbia, ma distingue fra quella più impulsiva e quella più razionale66. Il polacco, invece, tende all’esagerazione estrema dell’espressione

emotiva, visibile anche attraverso la derivazione linguistica67.

Dunque, come si può ben vedere, ci sono infinite possibilità diverse di percepire, di essere felici, tristi, sognanti, innamorati o arrabbiati, e ci sono anche infinite modalità per realizzare la propria esperienza interiore e per esternarla. Sia che si tratti di accentuare le espressioni facciali o i comportamenti, sia che si tratti di dar spicco alle descrizioni dei sentimenti attraverso scenari o situazioni, o tramite delle sensazioni fisiche o psichiche: tutto appare osservabile attraverso il “NSM”, che diviene uno specchio importante verso l’essenza dell’umanità stessa. Qui non si tratta più di analizzare semplicemente delle differenze culturali, ma anche di scandagliare lo spirito umano in profondità, alla ricerca di quegli elementi essenziali che accomunano ogni uomo sulla faccia della terra. Non esistono in nessun linguaggio dei termini basilari, relativi alla sfera emotiva, che siano, poi, traducibili in tutti gli altri; né si può dedurre la traduzione di un qualsiasi vocabolo dalla combinazione di altri: non c’è alcuna versatilità. Quello che è necessario fare è sviluppare una sorta di semantica delle emozioni umane,

64 Toska, cfr. capitolo IV par. 1.1

65 Cfr. ivi, cap. 9, cit, scritto da Irina B. Levontina e Anna A. Zalizniak. Cfr anche analisi termine toska nel

capitolo IV, par. 1.1 e 2.1.

66 Cfr ivi, cap. 3, cit. Wierzbicka si appoggia agli studi di Uwe Durst.

67 Tutti gli studiosi citati in questo tipo di lavoro sono collaboratori di Wierzbicka che hanno portato avanti le

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