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Capitolo III ASSUEFAZIONE, MEMORIA, CONFORMABILITÀ 1. Premessa Leopardi non fornisce mai una vera e propria definizione della parola «assuefazione». Tuttavia, basta scorrere le pagine dello Zibaldone indicizzate sotto questa voce

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Capitolo III

ASSUEFAZIONE, MEMORIA, CONFORMABILITÀ

1. Premessa

Leopardi non fornisce mai una vera e propria definizione della parola «assuefazione». Tuttavia, basta scorrere le pagine dello Zibaldone indicizzate sotto questa voce1, per rendersi conto di come tale termine venga impiegato con estrema coerenza e consapevolezza. Leopardi mostra in effetti di considerare la sua riflessione attorno all’assuefazione come uno degli aspetti più sistematici del suo pensiero. Assieme alla «teoria del piacere», esso è l’unico a cui abbia riservato la denominazione di «sistema»2.

Il termine assuefazione, così come viene impiegato da Leopardi, può essere tranquillamente considerato come sinonimo di ‚abitudine‛3, espressione che ricorre assai raramente nello Zibaldone. Possiamo quindi dire, in generale, che per assuefazione Leopardi non intende altro che una tendenza, acquisita attraverso la frequente ripetizione, a effettuare automaticamente (cioè senza più bisogno di prestarvi alcuna attenzione) un certo movimento. L’assuefazione riguarda il modo di pensare non meno che quello di agire; essa regola tanto l’associazione delle idee nella mente quanto la successione dei movimenti del corpo. Avremo modo di approfondire, di volta in volta, il significato del termine assuefazione, a seconda dei vari contesti in cui viene impiegato; per ora limitiamoci ad alcune considerazioni di ordine molto generale.

In quanto capacità di riprodurre spontaneamente determinati movimenti ripetuti con una certa frequenza e di trasformarli in acquisizioni permanenti, l’assuefazione sembra innanzitutto presupporre una sorta di

1 Cfr. L’ Indice del mio Zibaldone di Pensieri, compilato da Leopardi a partire dall’11 luglio

1827.

2 Cfr. ad es. Zib. 1720-21, 17 settembre 1821.

3 Il primato del significato ‚medico‛ del termine assuefazione, invalso nel linguaggio

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99 virtù o di disposizione ad accogliere il mutamento, a trattenere una modificazione. Leopardi chiama questa virtù o disposizione «conformabilità» o, più raramente, «assuefabilità»: essa non è altro che la possibilità di acquisire, sulla base di stimoli esterni, sempre nuove forme o assuefazioni. Un problema che risulterà centrale e decisivo nel corso del nostro lavoro sarà quello di stabilire la portata o l’estensione della conformabilità e dell’assuefazione. In quanto presuppongono una certa capacità di trattenere e di riprodurre spontaneamente un movimento, esse parrebbero proprie esclusivamente degli esseri viventi o animati. Infatti, come diceva Aristotele, «neppure se si getterà diecimila volte una pietra in alto, essa potrà compiere questo movimento senza che una forza la spinga»4. E tuttavia, come vedremo nel prossimo capitolo, Leopardi sembra portato a rintracciare un qualche indizio di conformabilità, un qualche segno dell’operare dell’assuefazione anche negli esseri inanimati.

Inoltre, proprio in quanto disposizione ad accogliere e a trattenere il mutamento, la conformabilità sembra a sua volta richiedere o presupporre una qualche possibilità di iscrizione o di registrazione del mutamento stesso. Se non esistesse questa possibilità, un medesimo movimento, anche mille volte ripetuto, non avrebbe la possibilità di sedimentare le proprie tracce successive e dunque di creare il ‚solco‛ lungo il quale diventa possibile contrarre un’abitudine. La conformabilità sembra allora presupporre una qualche forma di memoria, che si presenta come la condizione di ogni assuefazione. La memoria è in un certo senso ciò senza cui la conformabilità non potrebbe entrare in azione; ma la conformabilità è, al tempo stesso, ciò senza cui una memoria neppure esisterebbe. Si tratterà, anche in questo caso, di provare a dipanare un problema molto delicato perché, se per certi versi l’assuefazione sembra presupporre la memoria, per altri versi pare sia la memoria stessa, come facoltà, a fondarsi sull’assuefazione.

Occorrerà allora distinguere tra due diversi tipi di memoria: tra la memoria come facoltà acquisita, che dipende unicamente dall’abitudine e che non consiste in altro che in un complesso di assuefazioni, e la memoria come semplice disposizione o possibilità, che non dipende dall’assuefazione, ma che è

4 Questo passo di Aristotele, tratto da Etica Eudemia, II, 2, è riportato da RAVAISSON,

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100 piuttosto la condizione stessa di tutte le facoltà e di tutte le assuefazioni. Se nel primo caso la memoria si presenta come «generale conservatrice delle abitudini»5, nel secondo caso essa verrà invece pensata come semplice funzione, inseparabile dalla conformabilità o dall’assuefabilità6. Ci verrà in aiuto, a questo specifico riguardo, la distinzione, introdotta da Leopardi stesso nelle pagine dello Zibaldone, tra «attenzione volontaria» e «involontaria», che sembrano presiedere a due diversi tipi di esperienza o di registrazione del ricordo. La posizione di Leopardi sembrerà allora, per quanto riguarda la teoria della conoscenza, capace di spingersi al di là di quello che è un semplice empirismo: non solo è a posteriori che si costituisce ciò che poi diventa a priori, non solo l’esperienza e l’assuefazione si presentano come il presupposto di ogni conoscenza (di ogni idea, di ogni facoltà o abitudine), ma la conformabilità o assuefabilità si rivela essere la condizione stessa, la condizione ‚trascendentale‛, di ogni esperienza possibile7.

L’ultima caratteristica generale dell’assuefazione riguarda non più i suoi presupposti ma i suoi effetti. Producendo automatismo, l’assuefazione toglie l’attenzione e comporta la sospensione della coscienza8. Leopardi sembra qui aver colto uno dei principali meccanismi alla base di quella che viene definita «la doppia legge dell’abitudine», enunciata da Maine de Biran pressappoco in questi termini: l’abitudine migliora la facoltà di agire (producendo infallibilità, facilità, rapidità nell’esecuzione di una certa operazione), ma riduce al tempo stesso la facoltà di sentire o di essere consapevoli di ciò che si sta facendo. In questo senso – come dirà Maine de Biran – l’abitudine è una specie di piano inclinato su cui si scivola senza accorgersene, insensibilmente9. Sulla base di questa stessa legge, l’assuefazione, come

5 Zib. 2047, 4 novembre 1821. 6 Cfr. Zib. 2049, 4 novembre 1821.

7 In questo senso la conformabilità o assuefabilità, così come viene pensata da Leopardi,

ci sembra avere qualcosa in comune con quella che M. FERRARIS, Estetica razionale (1997), nuova edizione, Cortina, Torino 2011, chiama «ritenibilità».

8 Cfr. ad es. Zib. 2379-80, 1 febbraio 1822.

9 Cfr. MAINE DE BIRAN, Influence de l’habitude sur la faculté de penser, in Œuvres, Paris,

Vrin 1987, t. II, Deuxième mémoire (1802), pp. 124-336. La doppia legge dell’abitudine diventerà la chiave di volta della filosofia della natura elaborata da RAVAISSON (cfr. L’abitudine, cit.). Per un approfondimento di tali questioni rimando allo studio di D. JANICAUD, Ravaisson et la métaphysique : une généalogie du spiritualisme français, Vrin, Paris 1997, pp. 15-35.

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101 osserva ancora Leopardi, tende non solo a eliminare la coscienza o l’attenzione nell’esecuzione di una certa azione divenuta abituale, ma anche a cancellare le tracce della sua progressiva acquisizione:

L’assuefazione è una seconda natura, e s’introduce quasi

insensibilmente, e porta o distrugge delle qualità innumerabili, che acquistate o perdute, ci persuadiamo ben presto di non poter avere, o di non poter non avere, e ascriviamo a leggi eterne e immutabili, a sistema naturale, a Provvidenza ec. l’opera del caso e della circostanze accidentali e arbitrarie10.

L’assuefazione, una volta contratta, tende a cancellare le tracce della propria origine e a creare l’impressione che ciò che è stato acquisito sia in realtà naturale o innato; esattamente in questo senso si dice che essa è una seconda natura11. Leopardi coglierà le implicazioni di questo discorso non solo sul piano gnoseologico e teoretico (cioè per quanto riguarda la teoria della conoscenza e la critica delle facoltà innate), ma anche sul piano etico e politico12 (per quanto riguarda in particolare l’idea del genio, della natura umana e dell’identità personale). Se per Leopardi sarà ancora possibile parlare di ‚natura umana‛ o di ‚identità personale‛, esse tuttavia dovranno essere pensate alla maniera di Hume13, non più come un presupposto, come qualcosa che è già dato all’inizio e che si tratta semplicemente di realizzare, ma come un prodotto, come un punto di arrivo che non è mai definitivo, che non è mai dato necessariamente e una volta per tutte. Nessuno, infatti, può sapere in anticipo ciò di cui l’uomo può essere capace sulla base delle semplici disposizioni naturali.

10 Zib. 208, 13 agosto 1820.

11 Su questo aspetto dell’assuefazione in Leopardi si è soffermato in particolare A.

MALAGAMBA, “Seconda natura”, “seconda nascita”. La teoria leopardiana dell’assuefazione, in La prospettiva antropologica, cit., pp. 313-21.

12 Per le implicazioni politiche di questo discorso cfr. infra, cap. V.

13 Cfr. HUME, Trattato sulla natura umana, in: Id., Opere filosofiche, Laterza, Bari 1999, vol.

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2. Assuefazione e conformabilità 2.2. Disposizioni e facoltà

La distinzione tra «disposizioni» e «facoltà», che abbiamo finora dato per scontata, si rivela uno dei cardini fondamentali dell’‚anti-innatismo‛ di Leopardi. Essa sembra corrispondere, per certi versi, alla distinzione tra conformabilità e assuefazione: è infatti l’assuefazione ciò che trasforma le disposizioni in facoltà. Resta valida, anche in questo caso, la doppia valenza o applicabilità, sia fisica che mentale, delle considerazioni svolte da Leopardi.

L’articolazione della differenza tra sviluppo e produzione si dimostra decisiva per comprendere quella tra disposizioni e facoltà. All’inizio, nell’uomo così come nell’animale, non ci sono altro che disposizioni e nessuna facoltà o attitudine innata: «Le qualità che l’uomo porta dalla natura, non sono altro che disposizioni»14. Solo queste ultime «sono innate, ovvero si acquistano mediante lo sviluppo, cioè il rispettivo perfezionamento, di quegli organi che le contengono come loro qualità»15. Le facoltà invece (siano esse fisiche o mentali, materiali o intellettuali) non si sviluppano, ma si producono. Esse sono il prodotto delle circostanze e dell’assuefazione: «Non si sviluppa propriamente nell’uomo o nell’animale veruna facoltà. Bensì si sviluppano gli organi dell’uomo e dell’animale, e cogli organi, naturalmente, le loro naturali disposizioni o qualità, che li rendono *<+ capaci di acquistare coll’assuefazione questa o quella facoltà»16. In questo senso, se facoltà per Leopardi è sempre «sinonimo di abitudine»17 o di assuefazione, allora si dovrà dire che disposizione è sinonimo di conformabilità o di assuefabilità: «L’assuefabilità non è che disposizione. Tuttavia se vogliamo chiamarla facoltà, questa è l’unica facoltà naturale, essenziale, primitiva ed ingenita, che abbia qualunque vivente»18.

Come «la carta contiene la disposizione ad essere scritta, a prendere questa o quella forma», ma non ne possiede in se stessa la facoltà prima che qualcuno gliela dia, così l’uomo all’inizio non possiede altro che disposizioni, 14 Zib. 1911, 13 ottobre 1821. 15 Zib. 1821, 1 ottobre 1821. 16 Zib. 1802-3, 28 settembre 1821. 17 Zib. 2039, 3 novembre 1821. 18 Zib. 1828, 3 ottobre 1821.

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103 ma nessuna facoltà innata, indipendente dalle circostanze e dall’assuefazione19. Dietro quest’esempio del foglio di carta si profila con ogni evidenza la presenza di Locke, ma al tempo stesso si lascia intravedere tutta la distanza che intercorre tra Leopardi e l’autore del Saggio sull’intelletto umano20. Del progetto che aveva ispirato il saggio di Locke, Leopardi, come Condillac, compie una decisiva estensione e radicalizzazione, ampliando la critica dell’innatismo dalle idee alle facoltà e dal terreno strettamente gnoseologico a quello antropologico più in generale21. Nell’Essay, Locke aveva usato l’immagine del foglio bianco per esemplificare, in polemica con ogni ipotesi innatista, il rapporto tra la mente e le idee: come la carta contiene in anticipo la possibilità di essere scritta ma non i segni che vi verranno tracciati, così la nostra mente ha fin da subito la possibilità di accogliere le idee ma nessuna conoscenza innata che preceda l’iscrizione dell’esperienza22. Nello Zibaldone, Leopardi amplia e traspone questa stessa immagine, utilizzandola non più in chiave gnoseologica ma funzionale, cioè per esemplificare, sia sul piano della mente che su quello del corpo, il rapporto tra sviluppo e produzione, tra disposizioni e facoltà. Il foglio di carta è impiegato come termine di paragone non solo (come accadeva in Locke) in virtù della sua scrivibilità o in quanto superficie di registrazione, ma, più in generale, per la sua modellabilità, cioè in quanto materiale diversamente scrivibile e/o piegabile. Non a caso, un’altra immagine utilizzata nello Zibaldone è quella della «pasta molle, suscettibile d’ogni possibile figura, impronta»23.

Ciò che a Leopardi interessa mettere in luce attraverso quest’esempio è soprattutto il rapporto del tutto indeterminato tra disposizioni e facoltà, tra conformabilità e assuefazione. Le facoltà sono contenute nelle disposizioni non come l’uovo contiene in potenza la gallina, ma piuttosto come la carta

19 Cfr. Zib. 1821.

20 Del saggio di Locke, Leopardi disponeva in duplice copia nella biblioteca paterna, sia

nella traduzione francese di P. Coste, Essai philosophique concernant l’entendement humain, Amsterdam 1723, sia nella versione italiana, tradotta e commentata da F. Soave, Saggio filosofico di Gio. Locke su l’umano intelletto, compendiato dal Dr. Winne, 3 tomi, Venezia 1801.

21 «Nei confronti del procedimento lockeano Leopardi istituisce uno spostamento

d’analisi dalle ‚idee‛ alle facoltà: tra Locke e Leopardi c’è di mezzo l’analisi illuminista della sensibilità. La radicalità di Leopardi sta nel porre come oggetto d’analisi non le idee, ma il corpo» (PRETE, Il pensiero poetante, cit., p. 111).

22 Cfr. LOCKE, Saggio sull’intelletto umano, cit., libro II, cap. I, §§ 1-4. 23 Zib. 1452, 4 agosto 1821.

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104 contiene virtualmente la possibilità di essere scritta o piegata in più modi diversi, di assumere questa o quella forma. Come le linee lungo le quali la carta può essere ripiegata o i caratteri che possono esservi tracciati non sono segnati in partenza ma sussistono tutti virtualmente allo stesso modo, così ogni disposizione è «suscettibile d’infinite e diversissime facoltà» che sono inizialmente tutte ugualmente possibili24. Più che qualità o facoltà in potenza, le disposizioni sono piuttosto potenze di qualità o di facoltà. Esse non sono altro, per Leopardi, che un groviglio di pure «possibilità», a cui non corrisponde alcuno sviluppo determinato25 e le cui modalità di attualizzazione non possono essere conosciute in anticipo. È nel tempo, è attraverso l’opera incessante dell’assuefazione e con il concorso di un’infinità di circostanze del tutto casuali e imprevedibili, che queste disposizioni possono alla fine comporsi in quell’insieme di facoltà o di qualità in cui noi crediamo di poter riconoscere la natura umana o quella di qualsiasi altra specie vivente. Tuttavia, le facoltà dipendono dalle disposizioni in maniera talmente arbitraria e indiretta che può accadere che due individui, identici per disposizioni ma posti in circostanze del tutto diverse, sviluppino facoltà così disparate che a stento potranno sembrare appartenenti alla stessa specie26.

L’uomo è quindi interamente «opera delle circostanze e degli accidenti»27 e quelle stesse caratteristiche che sono state considerate come distintive della sua natura (la facoltà di parlare, il fatto di vivere in società, etc.) sono in realtà prodotte dall’assuefazione e dipendono unicamente da un concorso di circostanze che avrebbe potuto benissimo non verificarsi mai. Per questo, si deve dire non che l’uomo è socievole o parlante per natura, ma che per natura può diventare tale28. L’uomo, secondo Leopardi, non nasce ma

24 Cfr. Zib. 1802-3, 28 settembre 1821. 25 Cfr. Zib. 2152, 23 novembre 1821.

26 «Il tal individuo avrà una facoltà, che un altro della stessa specie è così lontano dal

possedere, che appena gli parrà compatibile coll’assoluta natura della sua specie» (Zib. 1803). Per le stesse ragioni, come osserva Deleuze a proposito di Spinoza, «c’è più differenza tra un cavallo da lavoro o da traino e un cavallo da corsa, che tra un bue e un cavallo da lavoro» (G. DELEUZE, Spinoza et nous, in: Spinoza philosophie pratique, Minuit, Paris 1981, p. 167).

27 Zib. 3301, 29-30 agosto 1823.

28 Per quanto riguarda la socievolezza, che Leopardi mette in discussione come

caratteristica propria esclusivamente dell’uomo, cfr. infra, cap. V. Per quanto riguarda invece il linguaggio articolato, caratteristica umana per eccellenza, che distingue l’uomo da ogni altro animale, cfr. Zib. 1925 (15 ottobre 1821), 2391 (20 febbraio 1822), e 2895-8 (7 luglio 1823), dove

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105 diviene tutto ciò che è; questo è vero sia per quanto riguarda la natura umana in generale, sia per quanto riguarda la natura di ogni individuo particolare.

Ci sembra quindi che, pur definendo l’assuefazione come una «seconda natura» che interviene a modificare e correggere la prima, Leopardi tenda tuttavia a ridurre al minimo la stessa differenza tra «prima» e «seconda natura», pensandola in analogia a quella tra «disposizioni» e «facoltà». La natura infatti, intesa come complesso o un insieme di facoltà o di qualità in atto, è sempre necessariamente seconda, cioè prodotta, dal momento che è solo mediante assuefazione che le disposizioni diventano vere e proprie facoltà. Da questo punto di vista, la prima natura, intesa come insieme di disposizioni indeterminate o di pure possibilità, non è altro che un origine ideale. Rispetto alla prima natura, l’intervento della seconda non è quindi tanto uno stravolgimento, quanto piuttosto un’esplicitazione o un’attualizzazione di possibilità.

È pur vero che (per restare all’esempio da cui siamo partiti), come può esistere un tipo di carta che si presta più di un’altra ad essere scritta o piegata, o che può essere più facilmente solcata con un certo tipo d’inchiostro, così può accadere che alcuni individui si trovino ad essere più o meno portati di altri ad acquisire determinate qualità o facoltà, siano esse fisiche o intellettuali29. Sembra infatti che le disposizioni possano variare da un individuo all’altro, dando luogo a delle particolari propensioni. E tuttavia, secondo Leopardi, è ancora l’assuefazione ad averla vinta sulla natura. Le differenze naturali o originarie sono infatti minime rispetto a quelle che potranno essere successivamente introdotte sulla base delle circostanze e dell’assuefazione. Queste ultime possono a tal punto modificare le stesse disposizioni naturali da invertirle o cancellarle del tutto, tanto «l’esercizio assolutamente parlando è superiore alla natura»30. Le disposizioni naturali infatti non sono e non possono nulla se non vengono esercitate. Così ad esempio «una persona di corporatura sveltissima ed agilissima, è

si dice che la lingua dell’uomo possiede, a differenza di quella dell’animale, nient’altro che la disposizione (non la capacità o la facoltà) di pronunciare suoni articolati. Se le circostanze fossero state diverse, forse l’uomo non avrebbe mai avuto occasione di tradurre questa disposizione in facoltà.

29 Cfr. Zib. 1821-22.

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106 dispostissima al ballo. Non ha però la facoltà del ballo, se non l’impara, ma solo una disposizione a poterlo facilmente e perfettamente imparare ed eseguire»31. Allo stesso modo, c’è «chi nasce più robusto e meglio disposto, chi meno», ma alla lunga «l’esercizio del corpo agguaglia il meno robusto, al più robusto inesercitato»32. Del resto, la stessa conformabilità dipende a sua volta dall’esercizio e dall’assuefazione, da cui «riceve consistenza, aumento, gradazione»33. Più uno acquisisce assuefazioni, più diventa disposto ad acquisirne, e come esiste una «conformabilità primitiva», che è «la principale differenza di natura tra le diverse specie di animali, e fra i diversi individui di una stessa specie», così esiste anche una «conformabilità acquisita», prodotta dal caso o dall’esercizio e da cui dipendono la maggior parte delle differenze tra le specie e tra gli individui34.

L’assuefazione, l’esercizio hanno a tal punto il potere di retroagire sulle stesse disposizioni naturali – non solo coltivandole e accrescendole, ma anche modificandole, cancellandole e generandone di nuove35 – che alla fine tutte le differenze (d’ingegno, di capacità, di abilità sia fisiche che intellettuali) che possono intercorrere tra gli uomini sono per lo più accidentali e prodotte dalle circostanze, siano esse naturali o sociali, nelle quali ciascuno si trova ad esercitare le proprie disposizioni naturali. In questo modo, l’idea stessa che possa esistere tra gli uomini una qualche ‚differenza di natura‛ si svuota completamente di significato.

La forza dell’assuefazione è talmente potente da modificare o da contrastare quelle che sembrano essere le «intenzioni della natura». Ci sono ad esempio delle parti del nostro corpo che la natura sembra aver espressamente predisposto a svolgere determinate funzioni, ma che, opportunamente esercitate, si dimostrano capaci di acquisire facoltà di cui mai le avremmo credute capaci. Così il piede può acquisire alcune delle abilità che ha la mano, come quella di dipingere, sebbene la mano, dotata di un maggior numero di articolazioni, si dimostri naturalmente più portata ad

31 Zib. 1662, 10 settembre 1821. 32 Zib. 1633.

33 Zib. 1828, 3 ottobre 1821. Cfr. anche Zib. 1370-72 (22 luglio 1821), 1682-83 (12

settembre 1821).

34 Cfr. Zib. 1452-3, 4 agosto 1821.

35 Cfr. Zib. 2046-47, dove Leopardi distingue tra disposizioni «naturali ed ingenite» e

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107 acquisire quella capacità36. Questi e molti altri fenomeni analoghi dovrebbero, secondo Leopardi, indurci a mettere in discussione o per lo meno a riflettere su quelli che sono i fini o le cause finali che noi crediamo di poter attribuire alla natura pur senza conoscerne a pieno le possibilità.È quanto Leopardi osserva in particolare a proposito della presenza, in certi animali, di «organi imperfetti» che noi chiamiamo «rudimenti», com’è il caso di alcune specie di serpenti, dotate di piedi che non servono a camminare, o di alcune specie di uccelli, dotate di ali che non servono per volare. Questi fenomeni che si presentano alla nostra osservazione sono forse una delle prove più evidenti del fatto che spesso le cause finali della natura sono molto «lontane da ogni apparenza, e da tutto il nostro modo di pensare. Giacchè chi di noi non tiene per evidente che i piedi sono fatti per camminare? (come l’occhio per vedere). E pure quei piedicelli con tutto il loro apparato da camminare, non sarebbero fatti per camminare, nè poco nè punto; ma per tutt’altro fine *<+. E quelle ali non volano, benchè per altro perfettamente organizzate»37.

2.2. La conformabilità come principio del divenire e della differenza Tutte le considerazioni svolte finora attorno al rapporto tra disposizioni e facoltà, tra conformabilità e assuefazione valgono non solo per l’uomo ma per ogni essere vivente in generale. Facendo leva su questi concetti, Leopardi riesce a definire il piano della vita (o dell’esistenza sentita) attraverso il principio unico della conformabilità: le varie forme di vita, nelle loro molteplici manifestazioni e variazioni, non sono altro che gradi diversi della conformabilità, a cui corrisponde un certo livello di organizzazione prodotto dall’assuefazione. In questo modo, tutta la differenza che intercorre tra l’uomo e l’animale e tra l’animale e il vegetale potrà essere pensata come differenza di grado e non di natura. L’uomo, da questo punto di vista, non è altro che «un animale più assuefabile»38 o conformabile di altri:

36 Cfr. Zib. 2270-71, 22 dicembre 1821, e Zib. 3824-25, 4 novembre 1823.

37 Cfr. Zib. 4467-69, 26 febbraio 1829. Leopardi si riferisce qui in particolare a quanto

poteva leggere nell’opera di J. HAUCH, Degli organi imperfetti che si osservano in alcuni animali, della loro destinazione nella natura, e della loro utilità riguardo alla storia naturale, Napoli 1827. Per ulteriori informazioni a questo riguardo rimandiamo a: G. POLIZZI, Leopardi e le ragioni della verità, cit., p. 80.

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L’uomo in assoluto stato di natura, il bambino, non differisce dagli animali (massime da quelli che nella catena del genere animale sono più vicini alla specie umana), se non per un menomo grado ch’egli ha di maggior disposizione ad assuefarsi. La differenza è dunque veramente menoma, e perfettamente gradata, fra l’uomo in natura, e l’animale il più intelligente, come fra questo e l’altro un po’ meno intelligente ec. Ma di menoma, diventa somma, coll’esser coltivata, cioè col porre in atto e in esercizio quella alquanto maggiore disposizione che l’uomo ha ad assuefarsi39.

La maggiore «conformabilità primitiva», che segna la differenza iniziale tra l’uomo e l’animale e che implica una maggiore disposizione ad acquisire assuefazioni, si sviluppa ulteriormente venendo esercitata. La conformabilità produce assuefazione e si accresce a sua volta mediante assuefazione: «L’uso generale delle assuefazioni *<+ produce la facilità delle assuefazioni particolari»40. Ne segue che la differenza iniziale è destinata a crescere in modo cumulativo ed esponenziale, seguendo l’andamento di una «progressione geometrica che dal menomo termine, con proporzione crescente arriva all’infinito»41. Una minima differenza iniziale, data dalla maggiore o minore «conformabilità primitiva», diventa sempre più grande, mano a mano che ad essa si aggiunge la «conformabilità acquisita»: Leopardi paragona questo fenomeno al moto accelerato di un grave in caduta libera42. Così «l’uomo arriva a differenziarsi infinitamente da qualunque animale e dall’intera natura»43. Tuttavia, per quanto grande, la differenza che la conformabilità è in grado di produrre, resterà sempre una differenza di grado, non di natura.

È per provare ad articolare in questi termini la differenza tra l’uomo e l’animale che Leopardi introduce la distinzione tra «disposizioni a essere» e «a poter essere». Nell’uomo, in quanto è più conformabile dell’animale, si deve dire che le «disposizioni a poter essere» prevalgono rispetto alle 39 Zib. 1923, 15 ottobre 1821. 40 Zib. 1452, 4 agosto 1821. 41 Zib. 1924, 15 ottobre 1821. 42 Cfr. Zib. 1767, 22 settembre 1821. 43 Zib. 1924.

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109 semplici «disposizioni a essere». Queste ultime sono quelle per cui l’uomo o l’animale divengono ciò a cui la natura li aveva destinati44, vale a dire sviluppano determinate qualità fisiche o intellettuali sulla base di circostanze del tutto naturali. Le «disposizioni a poter essere» sono invece quelle per cui ciascun uomo può divenire, sulla base di «circostanze non naturali»45 (vale a dire politiche, sociali, etc.) molte cose diverse e imprevedibili. Di questo tipo è, ad esempio (sia detto qui solo en passant), tutta la differenza che secondo Leopardi intercorre tra il poeta e il filosofo: il grande poeta, in circostanze diverse, avrebbe potuto benissimo essere un grande filosofo, e viceversa. Ciò che li accomuna è infatti una stessa disposizione46, che si specifica diversamente a seconda delle circostanze e che Leopardi chiama «facoltà o vena delle similitudini»47. Essa consiste nella capacità di cogliere somiglianze o relazioni tra cose apparentemente del tutto distanti e disparate. Tale «facoltà o vena delle similitudini» può tradursi tanto nella capacità, più propriamente poetica, di creare immagini, paragoni, similitudini o «metafore arditissime», quanto nella capacità, più propriamente filosofica, di avvicinarsi alla conoscenza della natura, cioè di cogliere l’«effetto poetico», in base al quale essa pare «composta, conformata ed ordinata»48.

Le «disposizioni a poter essere» – osserva Leopardi – non sono altro che pure «possibilità» o virtualità, la cui espressione o attualizzazione dipende unicamente dal verificarsi di circostanze del tutto casuali. Mentre le «disposizioni a essere» sono quelle per cui l’uomo diventa ciò che doveva essere e resta, nel corso nel tempo e delle generazioni, sempre uguale a se stesso, le «disposizioni a poter essere» sono invece quelle per cui si produce divenire, differenza, mutamento. Attraverso le «disposizioni a poter essere», l’uomo può divenire in innumerevoli modi e acquisire, per ragioni del tutto contingenti, qualità non solo diverse, ma persino opposte a quelle che avrebbe dovuto acquisire per natura, cioè sulla base delle semplici circostanze naturali. Per questo, le disposizioni a poter essere o disposizioni a divenire

44 Cfr. Zib. 3374, 8 settembre 1823. 45 Zib. 3375, 8 settembre 1823.

46 «Il vero poeta è sommamente disposto ad essere gran filosofo, e il vero filosofo ad

essere gran poeta» (Zib. 3383, 8 settembre 1823).

47 Zib. 1650, 7 sett. 1821.

48 Zib. 3241 (corsivo nostro). Per la questione dell’«effetto poetico» della natura, cfr.

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110 sembrano contenere in sé la possibilità stessa della degenerazione, cioè dell’allontanamento da una presunta perfezione voluta dalla natura. Così ad esempio:

Se uno fa una spada e un altro se ne serve a fettare il pane, non segue che l’intenzione del fabbricatore fosse che quello strumento fettasse il pane, benchè quella spada possa servire, e benchè serva attualmente, a quest’uso. Infiniti sono i disordini nel corso delle cose, non solo possibili, ma facilissimi ad accadere; moltissimi tanto facili, che quasi sono certi ed inevitabili: nondimeno son disordini manifesti, nè si possono attribuire ad intenzione della natura49.

Tuttavia, immediatamente dopo aver introdotto questa distinzione, Leopardi precisa che le «disposizioni a essere» e a «poter essere» non devono essere pensate come «individualmente»50 o numericamente distinte. Questa ripartizione, in altre parole, può essere stabilita solo a posteriori, non a priori. Volendo parlare in modo più rigoroso, si dovrebbe dire che una medesima disposizione è, al contempo, «a essere» e «a poter essere», e che essa può essere definita in un modo o nell’altro solo retrospettivamente, vale a dire a seconda del tipo di qualità, «volute» o «non volute» dalla natura (o, detto altrimenti, naturali o artificiali) che ha consentito di acquisire in base alle circostanze. Ma, a ben vedere, nemmeno la distinzione tra qualità naturali e artificiali sembra essere veramente ultimativa e discriminante. Che cosa permette infatti di stabilire se una qualità è voluta o non voluta dalla natura se non le circostanze, naturali o non naturali, che ne hanno determinato l’acquisizione? A rigore, sembra che sia solo a livello delle circostanze che possa essere situato il discrimine ultimo tra naturale e artificiale, tra natura e cultura. Sono solo le circostanze, e non le qualità, a poter essere definite naturali o artificiali, volute o non volute dalla natura. Tuttavia, poiché (come Leopardi stesso riconosce) noi non possiamo sapere quali siano i fini o le intenzioni ultime della natura, né siamo in grado di conoscere le cause finali di ciò che esiste, sembra che alla fine tutta la differenza qualitativa tra circostanze naturali o non naturali (su cui dovrebbe fondarsi quella tra le

49 Zib. 4461-2. 16 febbraio 1829. 50 Zib. 3375.

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111 qualità volute e non volute dalla natura) si riduca in sostanza a una semplice questione di probabilità. A seconda che il loro verificarsi sia più o meno probabile in base a ciò che conosciamo, determinate circostanze ci sembrano volute o non volute dalla natura, naturali o artificiali.

Così, sembra che la stessa distinzione tra natura e cultura si riduca in ultima analisi ad essere nient’altro che una semplice differenza tra due diversi gradi della probabilità. Le disposizioni a poter essere sono in sostanza quelle che ci consentono di divenire lungo dei percorsi o delle linee che sono più accidentali o meno probabili in natura. Uno degli esempi preferiti da Leopardi a questo riguardo è quello della scoperta del fuoco, che ha determinato in maniera decisiva la storia dell’umanità, facendo sì che l’uomo acquisisse qualità e abilità prima di allora impensabili. Tale scoperta, tuttavia, non era voluta dalla natura, vale a dire è avvenuta in maniera del tutto fortuita e casuale51.

Ma venendo meno ogni distinzione netta tra naturale e artificiale, sembra venir meno la possibilità stessa di una degenerazione, pensata come allontanamento da una presunta perfezione voluta dalla natura. Come abbiamo avuto occasione di accennare nel capitolo precedente, la perfezione smette di essere in Leopardi una categoria ‚storica‛ (pensata come perfezione originaria) o ‚assiologica‛ (dove l’uomo sarebbe l’essere più perfetto) per diventare una categoria per così dire etica: «il mio sistema – scrive Leopardi – non distrugge l’assoluto, ma lo moltiplica; cioè distrugge ciò che si ha per assoluto, e rende assoluto ciò che si chiama relativo. Distrugge l’idea astratta ed antecedente del bene e del male, del vero e del falso, del perfetto e imperfetto indipendente da tutto ciò che è; ma rende tutti gli esseri possibili assolutamente perfetti, cioè perfetti per se, aventi la ragione della loro perfezione in se stessi»52. Non esiste una perfezione assoluta, ma relativa a ogni singola cosa esistente. A ogni cosa corrisponde la sua propria perfezione, che consiste nella piena realizzazione o attuazione delle possibilità insite nella sua natura o insieme di disposizioni; negli esseri viventi il raggiungimento di questa perfezione si chiama anche felicità. E come ci sono esseri che raggiungono più facilmente la loro propria perfezione, e altri ancora la cui

51 Cfr. Zib. 3643-72, 11 ottobre 1823. 52 Zib. 1791-2, 25 settembre 1821.

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112 perfezione coincide con la loro stessa esistenza (è il caso degli enti inanimati), così ci sono degli esseri a cui «la natura ha lasciato più da fare per la loro vita»: tali sono appunto, per Leopardi, gli animali più complessi, «ai quali [la natura] ha dato maggiore conformabilità, cioè qualità e facoltà più modificabili, diversificabili, e variamente sviluppabili, e capaci di produrre più diversi e molteplici effetti»53. L’uomo, da questo punto di vista, è il più lontano dalla sua propria perfezione o felicità non perché si sia allontanato da una natura originaria, ma perché la sua natura contiene più disposizioni, vale a dire un maggior numero di possibilità o di virtualità inespresse e da realizzare54. Nell’uomo, in altre parole, prevalgono le diposizioni a poter essere o a divenire. Per questo, quanto più è capace di assecondare il divenire e la trasformazione, quanto più l’uomo si trova vicino alla sua propria perfezione o felicità. Secondo Leopardi, il «talento» o il «genio» non consistono in altro che in questo: nel sapersi appropriare di questa capacità di cambiamento e di trasformazione, nel farla propria favorendola55.

L’uomo quindi è il più conformabile degli animali, cioè possiede una maggiore disposizione a contrarre le assuefazioni più casuali, a divenire un numero illimitato di cose. L’uomo possiede una maggiore capacità di adattarsi alle circostanze e di fare un uso molteplice, diversificato e non predeterminato delle disposizioni fisiche o intellettuali che gli provengono dalla natura. Conformabilità è in questo senso sinonimo di malleabilità: «Ciascun uomo è una pasta molle, suscettiva d’ogni possibile figura, impronta»56.

La conformabilità si presenta quindi come principio del divenire e della differenza, grazie al quale, sulla base di piccole variazioni del tutto casuali si instaurano sempre nuove assuefazioni, sempre nuovi stati di cose. La

53 Zib. 1453, 4 agosto 1821.

54 Questo fatto si vede secondo Leopardi anche dall’ «incremento fisico» che il corpo

dell’uomo conosce nel corso della sua vita, «giacchè pochi altri animali crescono proporzionatamente tanto quanto cresce l’uomo da quel ch’egli è quando nasce» (Zib. 1538, 21 agosto 1821).

55 Cfr. in partic. Zib. 1254-55 (1 luglio 1821), 1450-51 (4 agosto 1821). Come ha osservato

MALAGAMBA, “Seconda natura”, “seconda nascita”. La teoria leopardiana dell’assuefazione, cit., pp. 320-21: «L’individuo talentuoso nasce a se stesso proprio nel suo morire di continuo, lasciando che la seconda natura si modifichi incessantemente, portando qualità nuove e contrarie».

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113 conformabilità produce non solo la differenza tra l’uomo e l’animale, tra l’animale e il vegetale, ma anche le innumerevoli differenze che esistono tra un individuo e l’altro all’interno della stessa specie. Per questo, in ragione della sua maggiore conformabilità, la specie umana, a differenza di ogni altra specie animale, è composta da individui estremamente diversificati, che variano non solo tra loro ma anche rispetto a se stessi in momenti diversi della loro vita:

L’uomo nelle sue diverse età, e in diversi tempi, anche naturalmente, è più diverso da se medesimo che niuno altro animale; più diverso l’uomo giovane da se stesso fanciullo, che non è niuno animale decrepito da se stesso appena nato; tanto che un uomo in diverse età o in diverse circostanze naturali o accidentali, locali, fisiche, morali, ec. di clima ec. native, cioè di nascita ec. o avventizie ec. volontarie o no ec. appena si può dire esser lo stesso uomo57.

Questa maggiore conformabilità e attitudine imitativa fa sì che, all’interno della stessa specie, gli uomini si differenzino tra loro più degli altri animali58. Tuttavia, come vedremo meglio nel prossimo capitolo, la particolarità di Leopardi consiste nell’aver esteso l’applicazione della conformabilità, intesa come principio del divenire e della differenza, alla natura nel suo complesso.

57 Zib. 3807-8, 25-30 ottobre 1823.

58 Qualcosa di simile aveva affermato anche CONDILLAC, Traité des animaux, II parte,

cap. III. Può essere interessante notare come questo stesso fenomeno fosse stato rilevato anche da Buffon parlando tuttavia dei cani, che per lui sono i più conformabili degli animali : «De tous les animaux le chien est celui dont le naturel est le plus susceptibles d’impression, et se modifie le plus aisément par les causes morales, il est aussi de tous celui dont la nature est le plus sujette aux variétés et aux altérations causées par les influences physiques: le tempérament, les facultés, les habitudes du corps, varient prodigieusement» (BUFFON, Histoire naturelle des quadrupèdes, in Id., Œuvres, cit., p. 644) . Proprio parlando dei cani, Buffon era arrivato a quello stesso nodo filosofico, che abbiamo esaminato più sopra, circala difficoltà (o quasi impossibilità) di distinguere tra natura e cultura, di separare cioè ciò che è naturale da ciò che è prodotto dall’influenza dell’uomo e dall’educazione. Data l’estrema conformabilità o adattabilità dei cani, diventa difficile cogliere le caratteristiche originarie o primitive della ‚natura canina‛.

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2.3. Scire nostrum est reminisci

Tutto nell’uomo è assuefazione, non solo le facoltà fisiche, ma anche quelle intellettuali: «La nostra mente in origine non ha altro che maggiore o minore delicatezza e suscettibilità di organi, cioè facilità di essere in diversi modi affetta, capacità, e adattabilità, o a tutti o a qualche determinato genere di apprensioni, di assuefazioni, concezioni, attenzioni. Questa non è propriamente facoltà, ma semplice disposizione. Nella nostra mente non esiste originariamente nessuna facoltà»59.

Nell’uomo non esistono facoltà innate, ma tutte sono prodotte attraverso l’assuefazione, che trasforma o specifica le disposizioni in facoltà60. La stessa ragione o facoltà di ragionare (cioè di scoprire i nessi logici o causali tra le cose, di tirare la conseguenza di un sillogismo, etc.) non è innata ma prodotta a partire dall’esperienza. Essa si acquisisce mediante l’assuefazione, l’educazione, l’esercizio e l’uso del linguaggio: «La nostra mente ha una disposizione *<+ a ragionare: essa per se non è ragione»61. Tale disposizione può anche rimanere inutilizzata o essere impiegata, a seconda delle circostanze, in un modo completamente diverso. Del resto, neppure i giudizi o le verità a cui arriviamo mediante l’uso della ragione sono universali o assoluti come vorremmo, dal momento che dipendono anch’essi dall’esperienza, dall’associazione delle idee nella mente e dal significato che ciascuno è abituato ad attribuire alle parole, specie quelle più astratte62.

Riducendo ogni nostra facoltà mentale ad abitudine o assuefazione, Leopardi persegue un duplice obiettivo polemico. Da una parte, e in conformità con il progetto che aveva ispirato l’Essay Concerning Human Understanding, intende demolire ogni forma di innatismo, allargando la critica di Locke dalle idee alle facoltà. Dall’altra parte, si propone di negare ogni rigida distinzione tra le facoltà, intese come «potenze» separate dell’anima, a favore di una concezione ‚monistica‛ della mente umana63 non molto dissimile da quella che si trova espressa nelle voce «Imagination», scritta da

59 Zib. 1661-2, 10 settembre 1821 (corsivo nostro). Per uno studio dell’assuefazione

soprattutto sotto il profilo gnoseologico, rimando in particolare a F. BRIOSCHI, Forza dell’assuefazione, in Lo Zibaldone cento anni dopo, cit., vol. II, pp. 744-50 in partic.

60 Cfr. Zib. 4108, 2 luglio 1824. 61 Zib. 1681, 12 settembre 1821. 62 Cfr. Zib. 1706-8, 15 settembre 1821.

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115 Voltaire per l’Encyclopédie (dove l’immaginazione, comprensiva tanto della percezione quanto della memoria, veniva considerata come la base di tutte le nostre conoscenze e di tutte le altre facoltà64).

All’interno di questo dispositivo polemico di matrice sensistico-illuminista, non c’è spazio nella mente per alcuna idea o facoltà innata; tutto deriva dall’esperienza e dall’assuefazione. La memoria, in quanto facoltà di ricordare o di acquisire assuefazioni, si presenta da questo punto di vista come «l’unica fonte del sapere», la quale sembra a sua volta dipendere interamente dall’esperienza e dall’assuefazione e non consistere in altro che in un complesso di abitudini che siamo in grado di contrarre mediante l’esercizio, l’imitazione e la ripetizione. E se è vero che, come affermano «i Platonici», «scire nostrum est reminisci», ciò tuttavia – osserva Leopardi – dev’essere inteso non nel senso di Platone, ma in quello del suo proprio sistema e di quello di Locke, e cioè che «l’uomo, (e l’animale) niente sapendo per natura ec. tanto sa, quanto si ricorda, cioè quanto ha imparato mediante l’esperienza dei sensi»65. Conoscere, in altre parole, non vuol dire ricordare ciò che la mente possedeva già, ma ciò che abbiamo appreso mediante l’esperienza e che per questo si trova nella memoria. La memoria è in questo senso la condizione di ogni conoscenza possibile.

La memoria si presenta quindi come il presupposto di tutte le conoscenze e di tutte le facoltà – quasi una sorta di ‚metafacoltà‛ di cui partecipano tutte le altre: «Siccome la memoria, in quanto facoltà, è una pura abitudine, così ciascun’altra abitudine è una memoria. Di memoria son provveduti tutti i sensi, tutti gli organi, tutte le parti fisiche e morali dell’uomo, che son capaci di avvezzarsi, e di abilitarsi, e di acquistare qualunque facoltà *<+. La memoria è un abito, gli abiti altrettante memorie, attribuite dalla natura a ciascuna parte assuefabile del vivente»66.

La memoria non è altro che «virtù imitativa»67 o «facoltà di assuefazione»68, la quale dipende a sua volta dall’assuefazione e dalla

64 Cfr. Encyclopédie méthodique. Logique et métaphysique, Paris, Panckoucke, 1786-1791,

vol. I (l'Encyclopédie méthodique era presente nella biblioteca di casa Leopardi nell'edizione stampata a Padova a partire dal 1784).

65 Zib. 1675-6, 11 settembre 1821. 66 Zib. 2047-8, 4 novembre 1821. 67 Zib. 1383, 24 luglio 1821. 68 Zib. 1509, 17 agosto 1821.

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116 ripetizione. Che la memoria non sia altro che «un’abitudine contratta o da contrarsi»69 sarebbe provato, secondo Leopardi, dal caso dei bambini appena nati, che, non avendo ancora acquisito nessuna abitudine o assuefazione, parrebbero del tutto privi di memoria non solo perché non hanno ancora avuto la possibilità di immagazzinare alcun ricordo, ma anche in quanto mancano «formalmente della facoltà della memoria»70. Incapaci come sono di ricordare anche solo l’istante immediatamente precedente, la loro vita è tutta schiacciata sul presente e senza nessuna relazione con il futuro71. Questa assenza totale di assuefazione e dunque anche di memoria nella prima infanzia sarebbe, secondo Leopardi, il motivo per cui nessuno ricorda di averla vissuta72. L’identità di memoria e assuefazione sembrerebbe inoltre confermata dal meccanismo stesso della dimenticanza o della perdita di memoria: «La memoria la più indebolita – osserva appunto Leopardi – dimentica l’istante passato, e ricorda le cose della fanciullezza. Ciò vuol dire che la memoria perde la facoltà di assuefarsi (in cui ella consiste), e conserva le rimembranze passate, perchè vi è assuefatta da lungo tempo; perde la

69 Zib. 1255, 1 luglio 1821. 70 Ibid.

71 Cfr. Zib. 1765, 22 sett. 1821 e 3265-6, 26 agosto 1823. Come dirà poi Nietzsche,

all’inizio della seconda inattuale, richiamandosi implicitamente al Leopardi del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, il bambino, non diversamente dall’animale, «vive in modo non storico, poiché si risolve come un numero nel presente» e «gioca in beatissima cecità fra le siepi del passato e del futuro» (F. NIETZSCHE, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Milano, Adelphi, 2007, pp. 6-7. Ma cfr. anche le prime stesure, dove il riferimento a Leopardi e al Canto notturno è esplicito: Frammenti postumi, vol. IV (estate-autunno 1873-fine 1874), Adelphi, Milano 2005, 29 [97], 29 [98], 30 [2]).

72 Oltre al già citato passo di Zib. 1255, cfr. anche Zib. 1103, 28 maggio 1821, in cui

Leopardi attribuisce questa assenza di memoria nell’infanzia (e dell’infanzia) all’assenza di linguaggio. In generale, il riferimento al caso ‚estremo‛ dell’infanzia si rivela essere un topos della riflessione sulla memoria. Si pensi in particolare ad Agostino, che non solo nelle Confessioni (I, 6.7-7.12) ma anche ne La grandezza dell’anima (20.34) o ne La trinità (XIV, 5) s’interroga sul mistero dell’infantia in quanto età della vita che nessuno è in grado di ricordare e in cui il bambino sembra dimentico delle stesse «verità eterne». Ma si pensi anche a Locke, che nel Saggio sull’intelligenza umana (cfr. ad esempio libro I, cap. I, § 5 o libro II, cap. I, § 6)

utilizzaquesto stesso argomento per dimostrare come non esistano principi o idee innati. Sul

caso dell’infans come esemplificativo del nesso tra memoria e linguaggio, cfr. anche Rousseau, Émile, dove la questione viene messa a tema tra la fine del libro I e l’inizio del II. In generale, sull’infantia dell’uomo come luogo di un’esperienza che è memoriale perché extra-linguistica, rimando al saggio di G. AGAMBEN, Infanzia e storia. Saggio sulla distruzione dell’esperienza, Einaudi, Torino 1978.

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117 facoltà dell’assuefazione, ma non le assuefazioni contratte, se elle sono ben radicate»73.

Tuttavia, proprio questi due casi estremi, quello dell’infanzia e quello della dimenticanza, usati da Leopardi per avvalorare la tesi della memoria come assuefazione, sembrano testimoniare al tempo stesso, e sempre all’interno del discorso leopardiano, dell’esistenza di un altro tipo di memoria, che non dipende dall’assuefazione, ma che sembra, al contrario, essere il fondamento stesso della memoria come assuefazione. A questo secondo tipo di memoria ci introducono le osservazioni relative all’«attenzione volontaria» e «involontaria».

3. Memoria e attenzione involontaria

Durante questo stato di armonia e quiete, si rincattucciava sia in inverno che in estate vicino alla stufa, guardando dalla finestra l’antica torre di Löbenicht; non che propriamente la guardasse, ma la torre riposava sui suoi occhi come una musica lontana che gli giungesse alle orecchie – in modo oscuro, solo in parte accessibile alla coscienza.

T. de Quincey, Gli ultimi giorni di Immanuel Kant

3.1. Attenzione e distrazione

La memoria, secondo Leopardi, si fonda sull’attenzione, nel senso che, per poter ricordare qualcosa, perché qualcosa possa essere iscritto nella memoria, occorre innanzitutto avervi prestato attenzione. Tuttavia si deve distinguere tra due diversi tipi di attenzione capaci di mettere in opera la memoria: mentre l’attenzione «volontaria», anche detta «spirituale», dipende dall’applicazione, vale a dire dalla «facoltà di attendere» o di prestare attenzione (facoltà che si acquista e si potenzia a sua volta mediante

73 Zib. 1716, 16 sett. 1821. Cfr. anche Zib. 1552-53, 23 agosto 1821: «L’indebolimento

della memoria, non è scancellamento d’immagini o d’impressioni ec. ma inabilitamento degli organi, ad eseguire le solite operazioni a cui sono assuefatti, tanto generali che particolari, e a contrarre nuove assuefazioni particolari, cioè nuove reminiscenze».

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118 assuefazione), l’attenzione «involontaria», anche detta «materiale», dipende invece unicamente dalla forza o dalla vivacità delle impressioni o delle sensazioni che colpiscono la nostra sensibilità o la nostra immaginazione74. Mentre l’attenzione volontaria o spirituale ci permette di ricordare ciò che avevamo effettivamente intenzione di memorizzare e su cui abbiamo per questo concentrato volontariamente la nostra attenzione, l’attenzione involontaria o materiale ci consente, tutto al contrario, di ricordare solo ciò di cui si è fatto esperienza in uno stato di estrema distrazione.

«Distrazione», in questo caso, non vuol dire – come precisa Leopardi – ‚disattenzione‛, ma dispersione dell’attenzione in una molteplicità di oggetti che, con la forza materiale della loro impressione, trascinano spontaneamente la nostra attenzione ora da una parte ora dall’altra, impedendole di concentrarsi su un oggetto determinato. La distrazione è propria soprattutto

74 Cfr. Zib. 1733-7, 19 settembre 1821, e Zib. 2110-12, 17 novembre 1821. Anche

CONDILLAC (Traité des sensations, Fayard, Paris 1984, 1ère partie, ch. 2) aveva posto

nell’attenzione l’origine della memoria, pensata al tempo stesso come fondamento di tutte le altre facoltà intellettuali. Tuttavia, la distinzione formulata da Condillac tra attenzione attiva (prodotta da una causa interna) e passiva (prodotta da una causa esterna) non sembra corrispondere a quella leopardiana tra attenzione volontaria e involontaria. Leopardi può forse aver trovato qualche spunto per il concetto di «attenzione involontaria» nella voce «âme des bêtes» dell’Encyclopédie méthodique. Logique et métaphysique, cit., vol. I, dove si parla della capacità di prestare «involontariamente attenzione» alle percezioni esterne, attività spirituale che sarebbe comune all’uomo e all’animale (citiamo dalla trad. it. di P. Casini: Enciclopedia, o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri, Laterza, Bari 1968, p. 140). Queste osservazioni dell’Encyclopédie, finalizzate a smontare il discorso cartesiano che riduceva gli animali a semplici automi, presuppongono senz’altro la classificazione leibniziana delle conoscenze e, più in particolare, la distinzione tra conoscenza «oscura» e «chiara», e tra conoscenza «chiara ma confusa» e «chiara e distinta»: cfr. LEIBNIZ, Meditazioni sulla conoscenza, la verità e le idee, in Id., Scritti di logica, a cura di F. Barone, Laterza, Bari 1992, vol. I, pp. 160-7 (ma cfr. anche Principi razionali della Natura e della Grazia, a cura di S. Cariati, Rusconi, Milano 1997, dove Leibniz osserva che sulla questione dell’anima delle bestie i cartesiani si sono ingannati perché non hanno saputo distinguere tra «percezione», che è la semplice rappresentazione delle cose esterne, e «appercezione», che è la coscienza o la conoscenza riflessa di tali rappresentazioni). L’ambito del ‚chiaro ma confuso‛ è quello a partire dal quale Baumgarten ritaglia lo spazio per una nuova disciplina, che lui stesso battezzerà, nel 1735, col nome di Aesthetica, definendola poi, nel 1750, come «scienza della conoscenza sensibile» (ma anche «teoria delle arti liberali, gnoseologia inferiore, arte del pensare in modo bello, arte dell’analogo della ragione»: cfr. A.G. BAUMGARTEN, I. KANT, Il battesimo dell’estetica, a cura di L. Amoroso, Ets, Pisa 2008, p. 37). Come ha osservato M. FERRARIS, Analogon rationis (in M. Ferraris, P. Kobau, Analogon rationis. La fondazione dell’estetica filosofica, Cuem, Milano 1994, p. 11) proprio l’animale, considerato in una prospettiva anti-cartesiana, si rivela «la chiave di volta dei problemi in gioco nella nascita dell’estetica».

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119 dei bambini, «tanto più distratti, quanto più suscettibili di sensazioni vive e profonde»75, di sensazioni che, con la forza materiale della loro impressione, determinano un «rimbalzo continuo»76 dell’attenzione. La distrazione non è altro che una «moltiplicazione» dell’attenzione, una sorta di ‚attenzione multipla‛, che si porta contemporaneamente su più oggetti77. Distrazione, in altri termini, non vuol dire mancanza, bensì eccesso di attenzione o, più precisamente, eccesso di attenzione involontaria o materiale, che riduce necessariamente quella volontaria o spirituale. In questo senso, «la eccessiva potenza di attenzione è al tempo stesso e per se medesima, potenza di distrazione, perchè ogni oggetto vi rapisce facilmente e potentemente l’attenzione distogliendola dagli altri, e la attenzione si divide»78. La distrazione non è quindi l’opposto dell’attenzione, ma un suo fenomeno interno (vale a dire una sua particolare modalità, un suo caso specifico). È per questo, in sostanza, che anche negli stati di distrazione può avvenire la registrazione di impressioni, di ricordi, la cui porta d’ingresso tuttavia non è l’attenzione volontaria e cosciente, bensì quella involontaria o materiale.

A ben vedere, si potrebbe anche dire che la distrazione, così come la definisce Leopardi, si presenta rispetto all’attenzione volontaria non solo come uno stato cognitivo alternativo, ma anche come un fenomeno concomitante: attorno al cerchio di luce che l’attenzione volontaria punta sugli oggetti, si agita, nell’ombra o nella semi-ombra, tutto un pulviscolo di impressioni che si situano a margine della nostra esperienza cosciente e a cui noi prestiamo solo distrattamente o indirettamente attenzione. Tutte queste impressioni, captate dall’attenzione involontaria, si iscrivono nondimeno nella memoria, dando luogo a ricordi di tutt’altra natura rispetto a quelli che nascono dall’attenzione volontaria.

75 Zib. 2390, 16 febbraio 1822.

76 Mutuo quest’espressione da PRETE, Il pensiero poetante, cit., p. 42, n. 67. 77 Cfr. Zib. 3950-1, 7 dicembre 1823.

78 Zib. 4026, 9 febbraio 1824. Come ha scritto F. MARCHIORI, Negli occhi delle bestie.

Visioni e movenze animali nel teatro della scrittura, presentazione di A. Prete, Carocci, Roma 2010, p. 50, la distrazione, così come la intende Leopardi, si rivela essere la condizione stessa di «un rapporto del soggetto con la realtà nella forma più lontana dal Cogito cartesiano». Marchiori vede in generale nella distrazione l’apertura di una zona intermedia o di un intertempo in cui si dà anche per l’uomo la possibilità di «rivoltare lo sguardo di fuori, di intuire l’Aperto» (op. cit., p. 49).

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120 Mentre l’attenzione volontaria o spirituale, che assiste ogni nostra esperienza vissuta o cosciente, è univoca o unidirezionale, perché diretta di volta in volta verso un unico oggetto o verso un unico scopo, l’attenzione involontaria o materiale è invece molteplice, ‚polivoca‛, perché capace di portarsi su più oggetti al tempo stesso o di passare rapidamente dall’uno all’altro. Questa moltiplicazione delle attenzioni, che si trovano tutte sullo stesso piano e tra le quali non esiste nessun rapporto gerarchico, è appunto quello che Leopardi chiama distrazione.

In uno dei suoi commenti a margine dal saggio di Locke in compendio79, Soave aveva definito gli stati di distrazione come una sorta di sogno ad occhi aperti, in cui le idee si susseguono secondo una logica che sfugge non appena cerchiamo di afferrarla o di ricostruirla a posteriori. Di qui l’impressione frequente di non aver pensato a nulla mentre eravamo distratti. Esattamente come quando sogniamo, nei momenti di distrazione, la nostra attenzione, anziché essere diretta «avvertitamente» o «deliberatamente» verso un oggetto determinato, viene continuamente rapita o trascinata ora da una parte ora dall’altra, dando luogo a una concatenazione di idee del tutto «stravagante» rispetto all’ordinario. Da questi stati di distrazione ci risvegliamo quando una forte impressione esterna, riportando l’attenzione su di un unico oggetto, ristabilisce una specie di gerarchia nella concatenazione delle idee.L’esempio della lettura, scelto da Soave, permette di mostrare molto bene la differenza tra i due tipi di successione delle idee che entrano in gioco in un caso e nell’altro. Quando una sensazione esterna o un’idea suggeritaci dalla lettura stessa ci distrae dal libro che stavamo leggendo, l’ordine lineare e univoco che scandiva la concatenazione delle idee diventa multiplo, molteplice, extravagante: «Allorch’io leggo un libro, a cagion d’esempio, ben può avvenire, che o qualche sensazione estranea, o qualche idea presentatami dal libro stesso mi portino altrove l’attenzione, e mi facciano sognare per qualche tempo; ma o la vista del libro medesimo, che ho dinanzi, o una forte impressione, che altronde mi venga, ben presto mi scuoteranno dal mio sogno, e alla lettura incominciata richiameranno l’attenzione»80.

79 Cfr. Saggio filosofico di Gio. Locke su l’umano intelletto, compendiato dal Dr. Winne,

tradotto e commentato da Francesco Soave, 3 tomi, Venezia 1801, Libro II, Appendice al cap. XIX.

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121 Come per Soave, anche per Leopardi una delle differenze fondamentali tra gli stati di distrazione e quelli cognitivi normali consiste nella diversa concatenazione o successione delle idee che entra in gioco in un caso e nell’altro. Nell’Elogio degli uccelli – operetta morale che non pare azzardato interpretare al tempo stesso come un ‚elogio della distrazione‛81 – è proprio da una lettura abbandonata che prendono avvio le divagazioni del filosofo solitario. Distolto dal canto degli uccelli, Amelio abbandona per un attimo il filo delle sue letture per inseguire dal basso, con lo sguardo, i loro movimenti nel cielo. La traiettoria errante del loro volo, contrapposta ai movimenti lenti, indolenti e sempre rivolti a un fine determinato degli animali terrestri, diventa quasi l’emblema, la rappresentazione sensibile di quella deviazione continua dell’attenzione in cui consiste la distrazione. Tutta l’operetta, del resto – nel suo procedere da un argomento all’altro per divagazioni o digressioni continue, per biforcazioni e convergenze inattese – sembra quasi scritta in stato di distrazione, come se Leopardi avesse voluto fare della distrazione stessa il principio immanente alla sua composizione.

Ciò che tuttavia sembra distinguere in maniera decisiva la riflessione di Leopardi da quella di Soave è l’aver individuato l’esistenza di un nesso fondamentale tra memoria e distrazione: se la distrazione non è che una particolare modalità dell’attenzione (cioè uno stato cognitivo in cui prevale l’attenzione involontaria) e se l’attenzione è a sua volta la condizione stessa di ogni memorizzazione, ciò vuol dire che anche negli stati di distrazione si può avere la registrazione di ricordi82.

81 Cfr. a questo riguardo anche la lettura che ne dà F. D’INTINO, Elogio della voce, in Id.,

L’immagine della voce. Leopardi, Platone e il libro morale, Marsilio, Venezia 2009, pp. 17-76.

82 In questo ci distanziamo quindi da A. MALAGAMBA, Il concetto di “distrazione” nello

Zibaldone di Leopardi, in «Rivista di filologia cognitiva», 3 (2005),

<http://w3.uniroma1.it/cogfil/distrazione.html>, che, seppure nota molto giustamente come Leopardi specifichi rispetto a Soave «il rapporto tra attenzione materiale e distrazione» e riconosca quindi in quest’ultima «non *<+ una mancanza di attenzione, ma un suo fenomeno interno», tuttavia nega il nesso tra distrazione e memoria. Se per Malagamba gli stati di distrazione non danno luogo ad alcuna tipo di memorizzazione, a nostro avviso in essi si producono ricordi di altro tipo rispetto a quelli acquisiti mediante l’attenzione volontaria (cfr. infra).

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3.2. Memoria volontaria e involontaria

L’attenzione volontaria e involontaria presiedono, per così dire, a due diverse modalità di registrazione del ricordo – l’una «spirituale», l’altra «materiale», l’una sentita, l’altra non sentita – e possono essere fatte corrispondere a due diversi tipi di memoria83. La memoria del primo tipo, quella che dipende dall’attenzione volontaria o dall’applicazione e che, come queste ultime, si fonda principalmente sull’assuefazione, è tipica degli individui «riflessivi» o degli «ingegni o grandi, o applicati»84, che si distinguono dalla maggior parte degli uomini per la loro memoria portentosa, per la loro capacità di ricordare, o meglio di memorizzare, anche le minuzie. La memoria del secondo tipo, quella che dipende dall’attenzione involontaria o materiale, è invece propria soprattutto dei bambini e degli «spiriti più suscettibili, e immaginosi», che, benché «non abbiano l’assuefazione di molto attendere», sono tuttavia «sempre d’ottima memoria, perchè tutto fa in loro proporzionatamente maggiore impressione che negli altri»85. Per questo, se i fanciulli e gli uomini più «distratti» o «poco riflessivi» stentano a imparare le cose a memoria e sembrano del tutto incapaci di apprendere, «ciò non prova la lor poca memoria, come si crede, ma la lor poca o facoltà o abitudine di attendere, o la molteplicità delle loro attenzioni, il che si chiama distrazione».86 Questo secondo tipo di memoria, proprio perché si fonda sull’attenzione involontaria, parrebbe aggirare o quanto meno precedere le dinamiche dell’assuefazione. Più che una facoltà, essa si presenta piuttosto come una disposizione o come una capacità di essere affetti o di ricevere assuefazioni, capacità sulla quale l’abitudine e la ripetizione tracciano a mano a mano i loro solchi. Essa è in un certo senso tutt’uno con la conformabilità o con l’assuefabilità.

Se la memoria del primo tipo potrebbe essere definita (per adottare la terminologia già impiegata da Leopardi) ‚volontaria‛ o ‚spirituale‛, la memoria del secondo tipo potrebbe invece essere definita ‚involontaria‛ o ‚materiale‛. Quest’ultimo tipo di memoria, sebbene non del tutto coincidente

83 Cfr. A. MALAGAMBA, «Il concetto di ‚attenzione‛ nello Zibaldone di Leopardi», in

Critica del testo, VI/2 (2003), pp. 755-77.

84 Zib. 1734, 19 settembre 1821. 85 Ibid.

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