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CAPITOLO 1 RELIGIONE E SIMBOLI RELIGIOSI

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CAPITOLO 1

RELIGIONE E SIMBOLI RELIGIOSI

1.1 L’importanza della religione

Da diversi decenni le religioni hanno riacquistato quel rilievo pubblico che da tempo avevano perduto, anzi, attualmente, ricoprono in vari ambiti un ruolo più rilevante di quello ricoperto fino ad alcuni decenni fa (1). La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ne è al riguardo un significativo testimone in quanto se dal 1959, anno della sua costituzione, fino ai primi anni ‘90 la Corte non ha emanato una sola sentenza sulla base dell’art. 9 della Convenzione europea (norma che tutela la libertà religiosa) da allora il numero delle decisioni fondate su questo articolo è notevolmente cresciuto e di conseguenza il graduale recupero dello spessore pubblico delle religioni ha acquisito, oggi, un’ampiezza mondiale.

Volendo citare i fattori fondamentali che danno origine a questo fenomeno basti pensare, ad esempio, alla globalizzazione, la quale porta con sé una de-territorializzazione (la patria, il confine ed il territorio perdono gradualmente il loro significato, tanto da dare vita ad un senso di disorientamento nelle persone, al punto da far

1) Silvio Ferrari, Introduzione al diritto comparato delle religioni.

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rinascere in loro l’esigenza di una dimensione locale, esigenza alla quale le religioni stesse hanno contribuito a dare risposta, fornendo quel patrimonio di tradizioni, radici ed appartenenze di cui sempre più individui sentono la necessità).

Altro elemento che ha contribuito a ridare vigore al ruolo della religione è senz’altro dato dai notevoli passi avanti compiuti dalla scienza, grazie ai quali sono oggi possibili scelte che, fino a pochi anni fa, erano inimmaginabili (basti pensare al settore delle biotecnologie); nel clima di incertezza che conseguentemente si è venuto a verificare, la religione ricopre un ruolo fondamentale, dando quelle rassicurazioni di cui parte della popolazione sente il bisogno.

Concentrandoci sul Continente europeo, altrettanto significativo è il peso dei flussi migratori; la differenza di culture e tradizioni, per reazione, ha causato una ricerca dell’identità e delle radici dell’Europa, frequentemente intrecciatasi con il recupero della simbologia cristiana (ne è testimonianza la questione dell’esposizione del crocifisso nelle scuole ed in altri luoghi pubblici che si è manifestata in vari Paesi).

Tali cambiamenti non avrebbero potuto avere un effetto dirompente sui rapporti tra religioni e Stati se non fossero stati accompagnati da un’altra importante trasformazione, cioè il veloce ed improvviso cambiamento della geografia religiosa di varie zone del mondo. Dopo un prolungato periodo di stabilità, quasi ovunque il panorama religioso è in pieno mutamento e la connessione tra una religione ed un territorio, tipica di molte regioni del mondo, si è indebolita.

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In questo processo di trasformazione emergono due elementi basilari, dati dal fatto che le varie Nazioni sono ad oggi caratterizzate da una pluralità religiosa e proprio le religioni sono tornate a giocare un ruolo da protagonista nella scena pubblica.

La combinazione di questi due elementi ha portato alla crisi dei classici meccanismi che regolavano i rapporti tra religioni e Stati nel contesto occidentale, meccanismi nati in seguito alla Riforma luterana per porre fine alle guerre di religione che, a quel tempo, si combattevano tra cattolici e protestanti. Ci si chiedeva allora, così come facciamo oggi, come agire per poter ottenere una pacifica convivenza fra cittadini di fede diversa; le strade intraprese furono due. La prima portò alla nascita degli Stati confessionali attuando il principio “cuius regio, eius et religio” ed espellendo le minoranze religiose dal territorio dello Stato arrivando così a consolidare il monopolio di una religione su un territorio. La seconda, invece, portò alla neutralizzazione dell’impatto della religione sulla vita pubblica appoggiandosi sull’affermazione “etsi Deus non daretur” di Grozio: per poter attuare una pacifica convivenza tra cittadini di diversa fede era necessario dare luogo ad un processo di secolarizzazione del diritto, della politica, dell’economia e degli altri settori della vita pubblica, svincolandoli dall’egemonia della religione e ponendoli sotto il solo controllo della ragione. Gli Stati confessionali nacquero dalle guerre di religione del XVI e XVII secolo, mentre intorno al XIX secolo si andò affermando lo Stato liberale, traducendo istituzionalmente l’intuizione di Grozio. Ad oggi, questi due modelli, però, non sono più in grado di rispondere concretamente alle nuove esigenze

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l’altro sono in grado di gestire con efficacia il ruolo pubblico delle religioni in un regime di pluralismo delle comunità di fede, portandoci così a dire che quei meccanismi che per secoli hanno contribuito al mantenimento della pace religiosa non riescono più a dimostrarsi validi di fronte alla realtà attuale, caratterizzata da notevoli trasformazioni sociali, culturali ed, appunto, religiose.

Concludendo così questa breve parentesi storica e tornando al contesto attuale, possiamo dire che le religioni sono spesso una causa importante di eventi conflittuali i quali, però, fortunatamente, non sempre sfociano in forme di violenza, andando a ricadere piuttosto nel contesto giuridico. Ci sono testimoni al riguardo le questioni relative al velo islamico in tutte le sue sfumature (hijab, chador, niqab, burqa) ed al crocifisso, affrontate e discusse a livello sia statale che europeo. Al giorno d’oggi, infatti, non è più esclusivamente la motivazione teologica che porta allo scontro, ma piuttosto la volontà degli individui di difendere il proprio diritto di vivere o vestirsi corrispondentemente alle proprie esigenze di fede. È necessario così creare una società inclusiva, dove tutte le comunità religiose possano trovarsi a proprio agio; per poter ottenere un tale risultato la soluzione migliore sembrerebbe quella di contribuire allo sviluppo di un sempre più intenso dialogo interreligioso, che permetta di dare origine ad un sistema sociale di ragionevole e pacifica convivenza.

Si può così affermare che i due poli sui quali orientare le attenzioni dovranno essere innanzitutto la gestione di questi conflitti derivanti dalla religione e la creazione di una società inclusiva e successivamente lo sviluppo di un dialogo interreligioso. Essenziale è trovare un punto di equilibrio ed

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assicurare a tutti i soggetti spazi di autonomia, evitando però allo stesso tempo di creare spaccature e frammentazioni, che sarebbero probabilmente di ostacolo a tale dialogo ed a qualsiasi forma di pacifica convivenza.

È necessario tenere presente che i rapporti che intercorrono tra società e contesto religioso sono complessi e significative sono le relazioni tra il fenomeno religioso e l’esperienza giuridica (2).

Alla sfera del diritto viene riservata la prevenzione delle eventuali controversie e la risoluzione delle problematiche derivanti dalla quotidianità. Non sempre si ha la consapevolezza della presenza nella realtà del diritto positivo dei problemi con cui il fenomeno religioso influisce sul contesto sociale.

Quando parliamo di religioni, infatti, i diritti e le libertà fondamentali dei singoli individui sono spesso al centro dell’attenzione.

La giurisprudenza svolge al riguardo sia il ruolo di custode dei valori formalizzati, che quello di innovazione interpretativa riempiendo quegli spazi vuoti che un legislatore non sempre al passo con il ritmo delle dinamiche sociali lascia inevitabilmente dietro di sé.

2) Antonio Fuccillo, Giustizia e religione. L’agire religioso nella

giurisprudenza civile, con la collaborazione di: G.Guarnaccia,

E.Mattu, M.Prodigo, P.Rina, R.Santoro, F.Sorvillo, G.Giappichelli Editore, Torino 2009, p. 1 e ss.

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Resta però il fatto che, da sola, la giurisprudenza potrebbe non bastare per fornire quelle certezze che possano contribuire a creare un sistema giuridico efficiente all’interno delle odierne società multireligiose e multiculturali; ecco che allora anche la dottrina deve contribuire alla creazione di un nuovo diritto formato, appunto, non solo grazie all’intervento del legislatore e della giurisprudenza, ma anche della dottrina stessa. Si avverte con crescente urgenza la necessità di creare criteri interpretativi che permettano di evitare contrasti tra civiltà per offrirli a coloro che, nello specifico i giudici, si trovano pressoché quotidianamente di fronte alla necessità di risolvere quelle fattispecie concrete che rappresentano la proiezione della corrente società caratterizzata da frammentazioni. Quando le controversie sono intentate per motivi di fede la loro risoluzione, anche dal punto di vista tecnico, risulta più complicata. Una moderna società non può fermarsi a confinare la religione solamente nella sfera privata, ignorando o fingendo di ignorare quante scelte della vita umana siano riconducibili alla confessione; non può più rimanere insensibile a tali esigenze.

Intervenire nella fase preventiva rispetto a quella patologica è sempre preferibile, dato che con tutta probabilità i margini di risoluzione sono più ampi. Se si riesce a ridurre la litigiosità si riesce anche, meglio, a dare vita ad una nuova pace sociale che, come l’esperienza insegna, viene minata molto più facilmente quando sono in ballo contrasti per motivi religiosi.

Dare tanta importanza alla religione come valore sociale non significa tuttavia attribuirle un peso assoluto, ma considerarla una

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realtà concreta presente a tutti gli effetti nella società contemporanea, con le sue plurime sfaccettature, che non possono far altro che ricadere nel mondo del diritto.

Già il legislatore, in fase politica, può dare un contributo significativo. Tuttavia, siccome nella fase applicativa del diritto possono concretizzarsi contrasti tra interessi religiosi ed esigenze secolari, sarà più propriamente compito dell’ordinamento nella sua totalità agire per trasformare lo scontro in incontro.

In una società altamente articolata è necessario che il diritto metta a disposizione tutti gli strumenti capaci di risolvere le conflittualità attuali, ma anche potenziali.

1.2 I simboli religiosi

La riflessione sulle conseguenze della globalizzazione comprende la necessità di affrontare anche le conseguenze della multireligiosità (3).

3) Antonio Fuccillo, Giustizia e religione. L’agire religioso nella

giurisprudenza civile, con la collaborazione di: G.Guarnaccia, E.

Mattu, M.Prodigo, P.Rina, R.Santoro, F.Sorvillo, G.Giappichelli Editore, Torino 2009, p. 231 e ss.

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Le migrazioni degli uomini, elemento alla base delle attuali società caratterizzate da pluralità etnica e religiosa, portano con sé varie richieste, al fine di tutelare la propria identità. È su questo sfondo che si inserisce la questione dei simboli, in particolare quelli religiosi, come oggetto di riconoscimento.

Il simbolo, scientificamente, può identificarsi come un tipo di segno: “un oggetto, un’espressione grafica o, a volte, anche un particolare comportamento, che rappresenta un mezzo attraverso il quale si è capaci di creare una relazione con la fede religiosa, divenendo una testimonianza diretta della propria appartenenza confessionale. Esso, infatti, non è la realtà che rappresenta ma, pur non essendolo, la richiama immediatamente”.

I simboli, in quanto indipendenti da ogni lingua, sono in grado di veicolare semplicemente ed universalmente il proprio significato. Ed è proprio grazie a questa loro abilità di astrazione che sono in grado di avere un peso così influente anche se, già dall’etimologia del termine “simbolo” possiamo avere un’idea del fatto che non sempre intorno ad essi si ritrovino convivenze pacifiche e concordi, avendo proprio tali simboli una valenza aggregativa e disgregativa allo stesso tempo. Il termine simbolo, infatti, trae origine dalla parola greca symbàllò ovvero mettere assieme che, riferendosi a coloro che in quel simbolo si identificano, porta con sé un’efficace azione aggregativa, anche se in contemporanea il simbolo divide (sempre dal greco diabàllò) coloro che non si riconoscono in quel simbolo; ecco proprio l’altra faccia della medaglia, la funzione disgregativa.

Già da questo possiamo renderci conto di quanto delicata sia la questione per la cui gestione sarebbe, forse, opportuna una sorta

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di bilanciamento tra valori, nel quale da una parte sta l’esigenza di integrazione derivante da una società multireligiosa e dall’altra il riguardo verso il substrato, anche religioso, di ogni singola Nazione.

Affrontando ora più a stretto contatto la questione dei simboli, è necessario aggiungere che il tema viene distinto in due blocchi: il primo è inerente all’uso di simboli privati (indumenti ed oggetti) in luoghi pubblici, mentre il secondo riguarda l’esposizione, sempre in luoghi pubblici, di simboli religiosi “collettivi” proposti dall’autorità (4).

Un episodio significativo a questo riguardo è avvenuto quando in Francia, nel 2004, è stata emanata una legge che ha vietato l’utilizzo pubblico dei simboli religiosi, ritenuti pericolosi quasi come le armi. Sintetizzandone il contenuto, questa legge proibiva agli studenti nei locali scolastici la possibilità di indossare “simboli evidenti” della propria appartenenza religiosa; nonostante la norma fosse, secondo alcuni, antislamica in quanto si desiderava proibire l’utilizzo dell’hijab da parte delle studentesse, alla fine la sua portata fu più ampia, incidendo sul velo, ma anche sulla kippah, sui crocifissi ecc…. Altrettanto rigido è, a livello di limitazioni religiose, il sistema della Turchia.

4) Pierluigi Consorti, Diritto e religione, Editori Laterza, 2010, p. 153 e ss.

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Per quanto riguarda i simboli privati, con i quali ovviamente il fedele esprime all’esterno il proprio rapporto con la religione, basti pensare al velo indossato dalle donne islamiche in alcune sue tipologie: hijab, chador (5).

Sempre in questo contesto si può collocare la kippah indossata dagli ebrei osservanti i quali, per rispetto al cielo di Dio, dovrebbero in ogni luogo ed in ogni momento rimanere con il capo coperto; tuttavia la kippah è soltanto un tipo di copricapo indossato da questi fedeli, dato che gli ortodossi utilizzano cappelli di feltro nero, a bombetta o a falde larghe.

Infine possiamo qui ricordare l’abbigliamento dei sikh, i quali dovrebbero osservare la cosiddetta regola delle cinque “K”: kara (un bracciale di acciaio da tenere al polso, simbolo dell’unità con Dio); kirpan (pugnale emblema della resistenza al male); kach (brache fino alle ginocchia, simbolo di forza morale); kanga (indossare un pettine di legno di piccole dimensioni per fermare i capelli, indice di cura personale); kes (capelli e barba non vanno tagliati e devono essere racchiusi nel turbante, segno del rispetto della volontà di Dio).

5) Antonio Fuccillo, Giustizia e religione. L’agire religioso nella

giurisprudenza civile, con la collaborazione di: G.Guarnaccia, E.

Mattu, M.Prodigo, P.Rina, R.Santoro, F.Sorvillo, G.Giappichelli Editore, Torino 2009, p. 231 e ss.

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Sempre con riferimento a questi simboli religiosi privati, una questione più articolata sembrerebbe porsi per quegli indumenti che, tornando alla religione islamica, rendono difficoltoso - se non impossibile - identificare chi li indossa: un burqa o un niqab potrebbero quasi equivalere all’utilizzo di passamontagna o di sciarpa per nascondere i tratti del volto (6). Non si potrebbe proibire di indossare questi indumenti, ma chi li veste, di fronte alla richiesta di un agente di pubblica sicurezza, non potrà rifiutarsi di mostrare il viso; una volta avvenuto il riconoscimento non sarebbe giustificato impedire di continuare ad indossare questo indumento.

Proprio l’Italia, ad esempio, dimostra apertura con richiamo al tema dei simboli religiosi individuali limitandosi solo alla difesa dell’ordine pubblico e del mantenimento della sicurezza dei cittadini; non a caso viene concessa alle donne di religione islamica, la possibilità di ottenere il rilascio di documenti di identità con foto che le ritraggano a capo coperto (Min. Int. Circ. n. 4/95) (7). In Francia, invece, la legge n. 228 del 2004 vieta l’utilizzo nella scuola pubblica di oggetti o abbigliamenti che, in maniera ostentatoria, manifestino appartenenza religiosa.

6) Pierluigi Consorti, Diritto e religione, Editori Laterza, 2010, p. 153 e ss.

7) Antonio Fuccillo, Giustizia e religione. L’agire religioso nella

giurisprudenza civile, con la collaborazione di: G.Guarnaccia, E.

Mattu, M.Prodigo, P.Rina, R.Santoro, F.Sorvillo, G.Giappichelli Editore, Torino 2009, p. 231 e ss.

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Relativamente invece all’altra faccia della questione dell’esposizione simbolica, come anticipato precedentemente, si ritrova anche la disciplina dei simboli religiosi collettivi (presepe e soprattutto crocifisso) presenti in luoghi pubblici. A tal proposito, proprio l’esposizione del crocifisso è stata alla base di molteplici discussioni a livello nazionale, ma non solo, dato che uno di questi casi - e precisamente il caso Lautsi - emerso nel contesto italiano è poi fuoriuscito dai confini nazionali, fino ad arrivare alla decisione della Grande Camera della Corte europea dei diritti umani in data 18 marzo 2011.

Secondo molti, questa decisione sembra, tra l’altro, segnare una svolta nella giurisprudenza della Corte.

È opportuno sottolineare come i conflitti attorno ai simboli religiosi abbiano assunto una estensione mondiale e si verifichino approssimativamente con la stessa forza anche in Paesi molto diversi tra loro (8). È però necessario ricordare che le religioni rappresentano solo uno dei fattori scatenanti i conflitti, dato che proprio gli stessi derivano anche da motivi politici, sociali ed economici. I flussi migratori creano le premesse per una facile circolazione di simboli e pratiche religiose; tale rapidità di circolazione rischia anche di amplificare l’ambiguità del significato simbolico, in particolare per i simboli religiosi di uso personale, creando spaccatura tra la percezione dei soggetti residenti e le intenzioni di coloro che indossano tali simboli.

8) Paolo Cavana, I simboli religiosi nello spazio pubblico nella recente

esperienza europea, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale

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Aprendo una parentesi storica, è necessario ricordare come soprattutto in Europa il tema dei simboli abbia particolari lineamenti.

È a partire dalla seconda metà del XVI secolo che la questione cominciò ad investire il Vecchio Continente.

Lo Stato iniziò da allora con gradualità ad assumere funzioni che, tempo prima, facevano capo alla Chiesa; a questo processo rimasero estranei invece gli Stati Uniti, non avendo conosciuto, se non negli ultimi decenni, le temperie di una politica aggressiva nei confronti della religione (basti pensare al recente passato con la risposta data dagli Stati Uniti in conseguenza all’attacco di terroristi islamici dell’11 Settembre 2001 al World Trade Center di New York).

La Francia, nel secolo XIX, durante la Terza Repubblica, approvò leggi e provvedimenti che, oltre ad incidere sul regime dei culti e sulla proprietà ecclesiastica, erano volti espressamente ad estromettere la religione dal contesto pubblico. Significativa fu, nonostante le forti resistenze incontrate e le esitazioni giurisprudenziali del Conseil d’Etat, la proibizione degli emblemi religiosi negli edifici e monumenti pubblici, introdotta con le riforme di Jules Ferry, generalizzata poi con la legge di separazione del 9 dicembre 1905.

Quindi, sebbene anche prima l’Europa avesse manifestato una certa violenza iconoclasta (Rivoluzione francese e Riforma protestante) che ebbe come conseguenza la cancellazione del fenomeno religioso fu proprio, come sopra citato, con la Terza Repubblica francese che uno Stato moderno diede vita ad una

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così intensa opera di esclusione del fattore religioso dal mondo pubblico, spezzando tra l’altro i legami con la propria storia.

Concludendo questa parentesi storica, basti solo rilevare che, contemporaneamente alla Francia, anche altre Nazioni - come ad esempio Italia e Germania - incontrarono riforme volte ad ostacolare il potere della Chiesa, senza però arrivare ad eguagliare l’intensità della legislazione francese. Nel periodo risorgimentale, ad esempio, la legge italiana, anche se da un lato procedette ad espropriare il patrimonio ecclesiastico ed a sopprimere il potere temporale dei Papi, dall’altro lato, tramite disposizione regolamentare attuativa della legge Casati sull’istruzione pubblica, mantenne salva nelle aule scolastiche l’affissione del crocifisso, accanto alla figura del Re. Per alcuni questa norma fu forse dettata anche da calcolo politico, ma fu anche in grado di tutelare il sentimento religioso del popolo, che si identificava con la religione cattolica, concepita come insieme di valori e tradizioni condivise.

Questo richiamo storico ci permette di capire più chiaramente l’odierna questione sui simboli religiosi in Europa che, dato il diverso ruolo giocato dal legislatore e dalla politica, si diversifica dal canto suo da quello in corso nell’esperienza americana.

Proprio in Europa, dove la garanzia dei diritti arriva dallo Stato, il tema dei simboli religiosi è tutt’ora percepito come inerente alla sovranità dello Stato (concetto, sovranità, tipicamente europeo), cioè la sua supremazia sulla società; dimostrazione di questo potrebbe essere il peso che ha acquisito l’argomento dei simboli religiosi personali che, invece, nel contesto americano sembrerebbe rimasto più in disparte.

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Proprio in base a questo concetto, un cui sinonimo in Francia sembrerebbe essere quello di laicitè, la realtà della simbologia religiosa nei luoghi pubblici è interpretata talvolta in alcuni Paesi del Vecchio Continente come una sorta di competizione nei confronti del potere statale e dei suoi valori sulla società. Quindi, parlando dei simboli religiosi con riferimento all’Europa, verrebbe da dire che proprio questo tema sarebbe testimone non solo dell’energia con cui i movimenti religiosi incidono sulla sfera pubblica, ma soprattutto del decadimento della funzione statale riguardo alla creazione ed alla diffusione dei valori sociali, facendo emergere l’esigenza di un ripensamento politico, il quale non può che riconoscere la presenza di pluralità presenti nel tessuto sociale.

Al contrario, negli Stati Uniti, noti come regno delle libertà, il tema dei simboli religiosi è esattamente inerente alla libertà stessa. Lo Stato, qui, ha il ruolo essenzialmente di garante ed arbitro del pluralismo religioso e tale suo compito verrebbe pregiudicato nel caso di espresso sostegno alla simbologia di una confessione rispetto ad altre. Ciò che all’opposto non è oggetto di contesa, in quanto percepito come elemento positivo ed appartenente alla tradizione nazionale, è il ruolo della religione nell’ambito pubblico.

Sostanzialmente, nel separatismo degli Stati Uniti, lo Stato stesso non rappresenta un concorrente all’interno del mercato dei valori ideologici o religiosi, ma deve solo assicurare, mantenendo imparzialità, che la competizione avvenga correttamente e senza favoritismi. Comunque, la simbologia nazionale, fatta propria

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dalle istituzioni, riflette un chiaro favor religionis, che è parte della tradizione dell’America.

L’interpretazione “separatista” del primo emendamento si affermò solamente nel 1940, con la sentenza Cantwell vs. Connecticut (9).

La “establishment clause” sembra aver giustificato una serie di sentenze confermanti leggi statali che ostacolavano la possibilità per gli insegnanti di indossare abiti religiosi, in grado di mettere in discussione i principi di neutralità e di non identificazione religiosa all’interno degli istituti scolastici pubblici.

Con riferimento invece all’utilizzo di simboli religiosi da parte degli studenti, la dottrina rimanda essenzialmente alla sentenza Tinker vs. Des Moines; questa aveva annullato la sospensione di studenti che, in segno di lutto e di protesta nei confronti della guerra nel Vietnam, indossavano “black armbands”.

La condotta venne ritenuta protetta dalla free exercise clause perché “quiet and passive”, cioè “not disruptive”: “Nel nostro sistema, gli studenti non possono essere trattati come qualcuno che recepisce in un circuito chiuso solo quanto lo Stato sceglie di comunicare […]. I diritti del primo emendamento, applicati alla luce delle caratteristiche particolari dell’ambiente scolastico, sono

9) Jörg Luther, Il velo scoperto dalla legge: profili di giurisprudenza

costituzionale comparata, in Islam ed Europa. I simboli religiosi nei diritti del Vecchio continente, a cura di Silvio Ferrari, Carocci

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invalicabili da insegnanti e studenti. In effetti, non si può sostenere che gli studenti o gli insegnanti debbano lasciare al portone d’ingresso della scuola i propri diritti costituzionali di parlare e di esprimere il loro pensiero”.

Piuttosto, la sentenza conferma “che questa nazione ha ripudiato il principio secondo cui lo Stato può gestire le sue scuole per allevare un popolo omogeneo”.

Anche una circolare del U. S. Secretary of Education del 10 agosto 1995 sembrerebbe ispirarsi a tali principi: “Gli studenti possono esibire messaggi religiosi su capi di abbigliamento nella stessa misura in cui è consentito esibire altri messaggi paragonabili. Non possono essere eliminati soltanto i messaggi religiosi, ma essi devono sottostare alle stesse regole che si applicano in genere a messaggi analoghi. Se portare particolari capi di abbigliamento, ad esempio yarmulkes (kippah) e veli durante la giornata scolastica fa parte delle pratiche religiose dello studente, secondo il Religious Freedom Restoration Act le scuole non possono vietare di indossare tali indumenti”.

Anche sulla base di un esperimento presso la scuola di Long Beach, California (che aveva indicato una significativa riduzione di episodi di “school crime”), il governo Clinton cercò comunque di incoraggiare gli istituti scolastici ad adottare uniformi. Il New York City School Board impose l’obbligo di indossare l’uniforme all’interno delle scuole elementari a partire dal 1999. Una serie di regolamenti scolastici circa l’uniforme (per esempio nell’Oklahoma) hanno compreso una proibizione di coprire il capo.

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Successivamente all’11 settembre non soltanto i legislatori ma pure la giurisprudenza, che aveva riconosciuto anche obiezioni di coscienza contro il dovere di esporre la foto sulla patente di guida, appare comunque disposta a seguire una linea più rigida.

Occorre infine ricordare che, per quanto riguarda l’ambiente militare, il Pentagono ha scelto di permettere ai propri soldati di indossare, durante il periodo di servizio, turbanti, kippah ed altri indumenti religiosi; di tale provvedimento potranno usufruire anche i fedeli di quelle correnti religiose che prevedono piercing, tatuaggi, barba e capelli lunghi (10).

L’esercito degli Stati Uniti d’America si è adeguato di conseguenza alle molteplici “espressioni individuali dei membri del servizio militare, sia per quanto riguarda la fede religiosa che le convinzioni e i principi morali”.

Questa misura, annunciata da parte di Nate Christensen, tenente Comandante e portavoce del Pentagono, prevede un unico limite: “A condizione che (questi elementi) non interferiscano nella disciplina e il buon ordine”.

Tutti i soldati che avranno interesse al riguardo, dovranno richiedere un apposito permesso.

10)Stati Uniti: i soldati potranno portare turbanti, kippah e barba lunga, in Atlas (atlasweb.it).

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Tornando al contesto europeo, occorre sottolineare che diversi sono gli approcci alla tematica dei simboli religiosi all’interno della sfera pubblica, in quanto i singoli Paesi del Vecchio Continente conoscono tradizioni costituzionali differenti (11).

Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da un sempre più influente rilievo, proprio in tema simboli religiosi, assunto dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, derivante anche dal ruolo ad essa riconosciuto a livello costituzionale da parte dei singoli Stati.

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha affrontato il tema dei simboli religiosi a partire dai primi anni Duemila, in particolare concentrandosi sulle questioni inerenti al velo islamico, che in breve tempo avevano assunto un peso rilevante.

Le sue prime decisioni, sempre a favore degli Stati, la portarono a convalidare il divieto, introdotto da diversi legislatori o amministrazioni pubbliche, di indossare simboli o indumenti religiosi di uso personale all’interno di scuole ed Università pubbliche, escludendo al riguardo violazioni dell’art. 9 della Convenzione europea, che permette limitazioni al diritto di libertà religiosa e di coscienza, se considerate necessarie all’interno di un contesto sociale democratico, per salvaguardare essenziali interessi pubblici.

11) Paolo Cavana, I simboli religiosi nello spazio pubblico nella recente

esperienza europea, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale

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Il primo caso Dahlab affrontava la situazione che vedeva coinvolta, in Svizzera, l’insegnante di una scuola elementare pubblica; la sua volontà di utilizzare il chador durante gli orari di lezione è stata ritenuta in grado di ledere quel principio di neutralità confessionale che fa capo alla scuola pubblica stessa. È stato qui fatto proprio il principio dell’utilizzo del velo come “signe extérieur fort”, per la sua possibile incidenza sulla libertà di religione e di coscienza dei bambini.

Altra situazione di rilievo è identificata con il caso Leyla Sahin ed altri successivi (El Morsli v. France, 2006; Dogru v. France e Kervanci v. France, 2008; Aktas v. France etc. 2009), dove si ha avuto a che fare con situazioni riguardanti alunne o studentesse che, a causa del loro rifiuto a togliere il velo nell’istituto scolastico e nelle Università, sono state espulse. Il divieto è stato avallato dalla Corte, andando al di là della dottrina del margine di apprezzamento degli Stati in ambito religioso e recependo quella rigida interpretazione del principio di laicità applicata dagli Stati resistenti (Turchia e Francia).

La Corte ha utilizzato la tesi del velo come “signe extérieur fort” e ne ha ampliato la portata anche agli altri simboli religiosi, attribuendole anche un significato politico; la presenza di questi simboli è stata identificata come lesiva non solo della libertà di coscienza di altri studenti - e nell’ipotesi del velo dell’uguaglianza tra i sessi - ma anche come veicolo di aggressivo proselitismo, manifestante valori virtualmente in grado di indebolire la tenuta di un sistema sociale democratico, al punto da arrivare a giustificare, nell’ipotesi di trasgressione al divieto, l’espulsione definitiva dalla scuola pubblica di studentesse minori. Qui, la laicità concepita

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come estromissione della religione dall’ambito pubblico, è stata recepita come una sorta di barriera volta a proteggere il sistema democratico; questo ha permesso di legittimare tale specifica limitazione dei diritti e delle libertà fondamentali.

Anche nella prima decisione sul caso Lautsi, relativa all’esposizione del crocifisso, in Italia, nelle aule delle scuole pubbliche, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha utilizzato lo stesso criterio; proprio tale esposizione è stata considerata in grado di ledere la libertà di educazione dei genitori poiché, come ogni altro simbolo religioso, è stata individuata come “signe extérieur fort”, capace di creare pressione sugli alunni appartenenti a minoranze religiose ed in grado di ledere la neutralità confessionale, che nell’ambito dell’istruzione pubblica sta in capo agli Stati.

Resta da segnalare che la seconda decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo sul caso Lautsi (Grande Camera, marzo 2011), utilizzando tre argomenti di rilievo, ha rovesciato il risultato della prima.

Questi argomenti sono:

1) Il carattere passivo del simbolo religioso.

2) Il margine di apprezzamento di cui godono gli Stati nella materia.

3) Il carattere pluralista della scuola pubblica in Italia.

Presi nel loro insieme, ognuno di tali argomenti imprime un cambiamento di direzione nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, tra l’altro anche anticipata da alcune precedenti decisioni, riguardo all’importanza della religione nel

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