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Dolmas Foglie di vite ripiene

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Academic year: 2022

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Dolmas Foglie di vite ripiene

written by Barbara Zattoni

Settembre e riparto con le mie “molestie culinarie” augurando a me e a voi un autunno pieno di foglie rosse, di sottoboschi palpitanti e odori, di humus in fermento, di voglia di “cucinare a dovere” chi lo merita e di lasciare alle bocche riconosciute, il meglio del nostro sapere. Dei nostri ricordi, di tempi meno avari di tempo. E così nella nostra virtuale tavola condivisa da quasi un anno, propongo un “riciclo” storico, nel senso di un tempo davvero lontano, ma sempre divertito e guizzante, come la nostra memoria sa essere:

Estate, Grecia, giovinezze a scapicollo tra odori e colori dei posti di mare, quelli mediterranei. La prima “salata monotomata”, il primo bicchiere di moscato di Samos, il più ostico Retsina, il polpo lesso divorato ai tavolini del porto e i primi involtini di vite: i Dolmas.

Potevo non approfittare delle belle foglie e non cimentarmi in una versione meno levantina?

Le ho staccate e ho tolto loro il picciolo, ho scelto le più piccole, giovani e con le costole meno tenaci. Lavate, sbollentate in a c q u a p e r 2 m i n u t i e b e n asciugate le ho adagiate sul banco con la parte opaca verso di me. Ho scelto un ripieno più

“polpettoso”, lavorando in un recipiente della carne macinata di manzo mescolata a patate lesse schiacciate, uovo, parmigiano e un trito di timo e nepitella. Messa una cucchiaiata d’impasto per foglia, si va a chiudere il nostro fagottino con uno stuzzicadenti o legandolo con del filo. Versiamo in una padella poco olio extravergine e spicchi d’aglio schiacciati e facciamo rosolare da ambo le parti i dolmas. Si sfuma con vino bianco e una volta ritirato, si aggiunge salsa di podoro, finendo di cuocere coperto per 20 minuti. Diciamo pure che la foglia è una scusa e che il ripieno può infinitamente variare (solo vegetariano, riso, orzo, maiale, cinghiale, agnello) ma val la pena provare e non solo per bearsi nell’arte del

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riciclo ma perché il gusto della foglia è davvero curioso.

Ho poi scoperto che il piatto è assai citato nel fumetto di Astrerix e Obelix, che non si cibavano di solo cinghiale, ostriche, verze, formaggio corso e altro, come ci racconta la GASTRONOMIA DI ASTERIX e riporto per amor di storia, la ricetta:

Ingredienti per 6 persone:

Una tazza d’olio d’oliva Una tazza di riso

Una tazza di uvetta di Corinto

500 g di cipolle fresche tagliate a pezzetti Un mazzetto di menta fresca o di aneto 2 cucchiai di pinoli

Un limone

30-40 foglie di vite fresche Sale, pepe

Fare rosolare le cipolle in una padella con la metà dell’olio e lasciare cuocere finché non diventano morbide. Aggiungere il riso, coprire e lasciare cuocere cinque minuti prima di aggiungere l’uvetta, la menta oppure l’aneto, i pinoli, sale e pepe. Lasciare cuocere a fuoco lento ancora per cinque minuti e, quindi, far raffreddare. Preparare le foglie di vite: sciacquarle in acqua fredda e sbollentarle per cinque minuti. Sgocciolarle bene prima di raffreddarle rapidamente sotto l’acqua fredda. Posarle con il lato lucido riverso verso il basso e mettere al centro di ciascuna foglia un cucchiaio di ripieno. Ripiegare ogni foglia, senza stringere troppo, poiché durante la cottura il riso aumenterà di volume. Mettere man mano le foglie ripiene in un tegame poco profondo. Innaffiare con il succo di limone, il resto dell’olio e mezza tazza di acqua calda. Mettere un piatto sul tegame preparato, per evitare che i pacchetti si aprano durante la cottura. Lasciare cuocere per un’ora a fuoco lento, quindi far raffreddare nel tegame. Servire come antipasto freddo. I dolmas possono essere preparati in abbondanza, poiché è possibile conservarli per qualche giorno in frigorifero.

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L’altra faccia della Leopolda

written by Moreno Biagioni

Matteo Renzi ha reso celebre in tutta Italia la Leopolda con le sue iniziative di grande effetto scenico, tutte “chiacchiere e lustrini”. Proprio da questo luogo, un mix di memoria storica (la stazione ferroviaria del Granduca Leopoldo) e di eventi contemporanei (la moda, le rassegne musicali etc.), il piccolo Caudillo ha preso slancio per il suo percorso politico da Firenze a Palazzo Chigi.

Ma la Leopolda, dietro il proscenio sfavillante, ha anche un’altra faccia, in cui predominano incuria e degrado, proprio a ridosso del Teatro dell’Opera, il Nuovo Teatro Comunale, ancora incompiuto (punto centrale di quello che dovrebbe diventare il Parco della Musica).

Passano i sindaci – a Renzi è seguito Nardella – ma il degrado che caratterizza

“l’altra faccia della Leopolda” è ancora ben presente, senza peraltro che si prospettino soluzioni adeguate. Eppure sia per Renzi che per Nardella risulta prioritaria la lotta senza quartiere ai lacci ed ai lacciuoli posti dalla burocrazia e dalle lungaggini amministrative (o i lacci e lacciuoli che essi intendono eliminare sono soltanto quelli che riguardano le imprese, e che spesso coincidono con i diritti di chi lavora?).

Uno stato di abbandono

Scendiamo allora nel merito del caso della Leopolda (quella dietro le quinte). E’

possibile che una zona abitata da migliaia di persone viva da oltre 5 anni in uno stato di abbandono e che le indispensabili opere di urbanizzazione (il completamento di una piazza, i collegamenti stradali, la realizzazione degli spazi verdi previsti, l’illuminazione, la realizzazione di una pista ciclabile e di un minimo di arredo urbano – cestini, panchine -) siano rinviate di anno in anno, con un degrado (dovuto anche allo stato di abbandono in cui versano i capannoni,

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ancora delle Ferrovie, al di là dei binari), che progressivamente porta ulteriore degrado e insicurezza?

E’ accettabile che l’area accanto a piazza Bonsanti, destinata all’edificazione da una lottizzazione poco attenta alla qualità della vita (altrimenti sarebbe stata destinata a verde e non ad accrescere il cemento), sia oggi un terreno incolto, da bonificare, sempre più assimilabile ad una discarica? E che mentre si facevano, tre anni fa, turni notturni di lavoro per portare a parziale compimento il Teatro (in modo da giustificare la prima inaugurazione) e successivamente si sono avuti turni continui per finire nei tempi previsti la grande piazza davanti al Teatro stesso, rimanga nella sua condizione di eterno cantiere lo spazio a 100 metri di distanza?

In che modo un’amministrazione opera a favore della cittadinanza, se non è in grado di far effettuare alle ditte costruttrici, a cui spetterebbero [la CEPA, poi fallita, il Consorzio ACLI/Giotto] o di effettuare essa stessa, le indispensabili opere di urbanizzazione? Oppure esistono cittadini di serie B, ed anche Z, che hanno minori diritti e che non vengono minimamente ascoltati quando presentano le loro richieste e le loro proposte al Comune?

Il Comitato per la Rinascita della Leopolda

In effetti le persone che abitano alla Leopolda, dopo aver portato a lungo pazienza, si sono organizzati, da circa tre anni, in un Comitato – il Comitato per la Rinascita della Leopolda – ed hanno denunciato la situazione, fatto assemblee, incontri in Palazzo Vecchio, sopralluoghi insieme agli amministratori, raccolto firme su petizioni, richieste, proposte, messo in atto varie forme di protesta. Ma le questioni principali che essi ponevano e pongono rimangono irrisolte, né vengono indicati dei tempi certi per la loro soluzione. Occorre, ovviamente, eliminare il degrado, ma anche sanare una condizione che vede la mancanza di luoghi di aggregazione, di servizi, di spazi verdi adeguati.

Non devono più esistere due Leopolde, quella luccicante di Renzi ed un’altra (“l’altra faccia della Leopolda”) in stato di abbandono. La zona denominata Leopolda deve essere un tutt’uno e costituire una parte, piccola ma importante, della città, sia dal punto di vista culturale (va portato a termine, finalmente e davvero, al di là delle varie inaugurazioni parziali, il Parco della Musica), che nell’ottica abitativa ed urbanistica (dopo anni di latitanza delle istituzioni, si

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impone la realizzazione di un ambiente che ponga al primo posto la qualità della vita di chi vi abita).

Un’urbanistica al servizio di venditori (di terreni) e costruttori

Dalle vicende, tutto sommato assai limitate, di una piccola zona di Firenze è possibile trarre alcune indicazioni su quella che è stata, e continua ad essere, la politica urbanistica del Comune di Firenze (e, più in generale, ai criteri che hanno impostato le politiche urbanistiche nella maggior parte delle città) durante gli ultimi decenni.

La zona denominata Leopolda è sorta sui terreni delle Ferrovie (un tempo c’erano delle officine per la riparazione di locomotive e vetture) messi in vendita dall’Azienda e resi disponibili per nuove edificazioni dal piano di urbanizzazione comunale redatto al tempo della giunta Domenici, con Gianni Biagi Assessore all’Urbanistica. Il piano prevedeva lo sviluppo di strutture abitative, e quindi l’arrivo di centinaia e centinaia di abitanti, senza individuare alcuno spazio per servizi sociali, con il verde ridotto ai minimi termini delle aiuole spartitraffico e di alcuni fazzoletti di terra fra un edificio e l’altro.

Ne viene fuori una prima considerazione: l’Amministrazione, nel predisporre i propri interventi di pianificazione urbanistica, ha presenti in primo luogo gli interessi dei venditori dei terreni e dei costruttori, mentre le esigenze della cittadinanza (di avere un ambiente dotato di servizi e di verde) rimangono sullo sfondo, magari per essere citate nelle relazioni che accompagnano i piani. Ma il prevalere di tali interessi non si limita alla fase della pianificazione.

Le opere di urbanizzazione

Ai costruttori spettano le opere di urbanizzazione, ma le abitazioni vengono messe in vendita prima che tali opere vengano realizzate (è quello che si è verificato nella zona Leopolda, ma non credo che sia un caso isolato). Cosicchè quando le case cominciano ad essere abitate le opere di urbanizzazione sono ancora ben lontane dall’essere completate. Nella situazione della Leopolda ciò continua ad essere realtà a distanza di 5 anni da quando l’ultimo palazzo è stato finito.

L’Amministrazione, così sollecita nel garantire i diritti di edificazione garantiti dalla pianificazione urbanistica, si mostra impotente di fronte alle inadempienze dei costruttori. In tutto ciò si registra una notevole continuità di comportamenti

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fra la Giunta Domenici e quelle che l’hanno seguita.

Risposte politiche, risposte tecniche

Ultimamente, di fronte alla richiesta del Comitato che l’Amministrazione provveda a sanare un difetto di partenza riconvertendo a verde l’area su cui non è stato costruito l’edificio previsto a causa del fallimento della CEPA, la ditta costruttrice, l’Assessora all’Urbanistica Elisabetta Meucci (oggi Consigliera regionale) aveva detto di essere politicamente d’accordo, salvo poi passare la parola ai tecnici che hanno invece messo in evidenza l’impossibilità di procedere in tal senso. Ma il Sindaco non dovrebbe avere anche funzioni volte a tutelare la salute e la sicurezza delle persone? Va sottolineato che la realizzazione dell’immobile in questione si basava su una convenzione con il Ministero dell’Interno probabilmente non più in funzione a distanza di tanti anni e che sta nei poteri del Comune non rinnovare la concessione e definire, con una variante, una diversa destinazione dell’area.

Il ricorso all’utilizzo della cauzione per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione a carico della CEPA, divenuto obbligatorio dopo il suo fallimento, ha comportato oltre un anno di trattative con l’Assicurazione (trattative che non si sono ancora concluse). Altro che eliminazione dei lacci e lacciuoli quando si tratta di dare risposte concrete alle esigenze della cittadinanza!

Sull’altro costruttore che dovrebbe provvedere alle opere di urbanizzazione, il Consorzio ACLI/Giotto, l’Amministrazione, sempre a detta dei tecnici a cui l’Assessora demanda le risposte, vuole esercitare una “moral suasion” (ma visto che sono anni che tale opera di persuasione è in atto e che i risultati non sono stati certo significativi, non c’è molto da sperare per il futuro).

I progetti di sviluppo oltre la ferrovia

Il destino della Leopolda è strettamente collegato ai progetti urbanistici riguardanti gli spazi oltre i binari, quelli ancora in possesso delle Ferrovie.

Dai primi elementi che abbiamo si tratterà di un’ulteriore processo di cementificazione, fra l’altro, con edifici molto alti. L’Amministrazione si era impegnata ad un’ampia consultazione sui suoi progetti, ma per ora si sono avuti continui rinvii delle date previste al riguardo.

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Se il confronto non sarà solo d’immagine – com’è stato nell’operazione “cento luoghi” -, sarà necessario battersi per cercare di ridurre i volumi previsti, e le altezze degli edifici, per garantire il collegamento con Le Cascine, per recuperare nei nuovi spazi le strutture socializzanti e per i servizi sociali che mancano completamente nella zona della Leopolda.

Tali posizioni potranno essere portate avanti dal Coordinamento delle realtà di base esistenti nell’area Porta a Prato-San Jacopino, di cui il Comitato per la Rinascita della Leopolda fa parte.

E’ soltanto sulla base di progetti costruiti in modo partecipato, quindi insieme alla cittadinanza, che si potrebbe operare una svolta nella politica urbanistica comunale, facendo della Leopolda e dell’area oltre la ferrovia un virtuoso intreccio di funzioni culturali, ambientali, residenziali e dando così vita ad una cerniera attiva e vitale fra la zona centrale e la parte ovest di Firenze.

Per un’urbanistica non più non più solo al servizio dei venditori (di terreni) e dei costruttori.

*Moreno Biagioni, Comitato per la Rinascita della Leopolda

Brigata Sinigaglia… Sempre presenti

written by perUnaltracittà

Brigata Sinigaglia … Sempre Presente

C’è chi decise di tradire mettendosi al servizio dell’occupante nazista e di repubbliche fantoccio complici dei peggiori eccidi che la nostra storia ricordi, di torturare, di sparare dai tetti della nostra città contro civili inermi. C’è chi decise

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di combattere per la libertà e la giustizia, per l’uguaglianza, in clandestinità, nelle città come nei boschi, convinto che solo assumendosi il peso della lotta si può sperare, oggi come ieri, in una società migliore. Abbiamo raccolto il loro testimone e al loro fianco continueremo a camminare verso la libertà.

Sabato 12 /9 ore 15:00 camminata sui sentieri della resistenza dalla casina di Fontesanta verso Panzalla con arrivo al cippo della Marescialla

ore 19:00 al ritorno dalla camminata merenda ore 20:00 cena

ore 20:30 spettacolo teatrale del gruppo Operina ribelle dal titolo “E come potevamo noi cantar”

ore 22:00 concerto con I canti radagi Domenica 13/9

ore 11:00 appuntamento al cippo partigiano per i caduti della Brigata Sinigaglia in località Lonchio (Antella) con la presenza de Il coro del 900

ore 13:00 pranzo

Antifascisti/e, Parenti e Partigiani della Brigata Sinigaglia

Tutte le iniziative si svolgeranno alla casina di Fontesanta: da San Donato in

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Collina (Bagno a Ripoli) seguire a destra per Parco di Fontesanta.

Strage di Viareggio: No alla prescrizione!

written by Riccardo Antonini

Il disastro ferroviario del 29 giugno 2009, trasformatosi in strage con 32 Vittime e feriti gravissimi, rischia la prescrizione. Alcuni reati, con 3 anni di prescrizione, sono già decaduti (gli articoli del Testo unico Dlg. 81/08 sulla sicurezza nei luoghi di lavoro). Altri, come incendio colposo e lesioni gravi e gravissimi, sono a rischio.

Il processo in corso, al Polo fieristico di Lucca, è iniziato il 13 novembre 2013 e sul processo, pende la spada di Damocle della prescrizione. E’ (sarebbe) inaccettabile e impensabile che il reato di incendio colposo, motivo per cui hanno perso la vita 32 bambini, ragazze, donne e uomini, possa essere prescritto.

WCENTER 0XLDAFQLBO Una veduta dall’elicottero del luogo dove e’ esploso il treno a Viareggio in una foto del 30 giugno 2009 a V i a r e g g i o . A N S A / C A R L O FERRARO

Per questo l’Associazione dei familiari “Il mondo che vorrei” e Assemblea 29 giugno (nata dopo la strage) hanno deciso di essere giovedì 17 settembre di

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fronte a Montecitorio per una protesta forte e chiara (da Viareggio partirà almeno un pullman), per dire che non si può scherzare, che non si può giocare, su questa immane tragedia.

I familiari, per tre anni, hanno chiesto un incontro al precedente capo dello Stato, Napolitano, che si è sempre rifiutato; hanno chiesto un incontro al nuovo capo dello Stato, Mattarella, che ha risposto di non poterli incontrare perché c’è un processo in corso. Lo stesso Mattarella che in questi mesi ha incontrato più volte il cav. Moretti, principale imputato nel processo, si rifiuta di guardare negli occhi i familiari delle 32 Vittime.

Coerenti, Napolitano e Mattarella, con il fatto che lo Stato non si è costituito parte civile nel processo, che i governi Berlusconi e Letta hanno rinnovato la nomina a Moretti di Ad delle ferrovie e che il governo Renzi lo ha addirittura promosso Ad in Finmeccanica con una retribuzione milionaria (si parla di euro, naturalmente).

Giovedì 17 settembre a Montecitorio, e dopo di fronte al Quirinale per (tentare di) essere ricevuti da Mattarella.

La strage ferroviaria, ovviamente, riguarda la mancanza di sicurezza o, meglio, una politica di abbandono sulla sicurezza. Il cav. Moretti ha sempre dichiarato che non vi è un problema sicurezza e che “Viareggio” è stato uno “spiacevolissimo episodio”. Neppure il coraggio di definirlo incidente. Invece, proprio sulla sicurezza, accadono incidenti gravi e gravissimi.

Il 20 luglio di quest’anno, una porta di salita del treno regionale 3171 (Jazz) Firenze-Arezzo si è staccata ed è volata via mentre percorreva la galleria S.

Donato sulla “direttissima”. Un incidente potenzialmente gravissimo.

La notte del 4 agosto, a La Spezia, nello scalo ferroviario portuale, durante le manovre di un convoglio merci, Antonio Brino, 28 anni, dipendente della società SerFer, è rimasto schiacciato tra il convoglio e i respingenti del binario. Soccorso e sottoposto a delicati interventi chirurgici, il suo fisico ha resistito alcuni giorni, ma la mattina del 18 agosto si è arreso. Dal 2006, sui binari delle ferrovie hanno perso la vita 56 lavoratori! Una statistica drammatica ed impressionante.

Il 25 agosto, a Napoli, un treno di pendolari e viaggiatori va in fiamme. La prontezza del personale evita il peggio.

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Il 29 agosto, l’ultimo vagone di un treno con 150 passeggeri è uscito dai binari alla stazione di Piombino Marittima (Li). Grazie alla bassa velocità il convoglio non si è ribaltato. Il macchinista lo ha fermato a pochi metri dall’ingresso nella stazione.

Solo per citare gli ultimi fatti di cui siamo a conoscenza. Su altri, che avvengono sicuramente, riescono ancora a nasconderli. Ma già questi fatti mostrano quanto sia un optional la sicurezza in ferrovia, e che competitività, mercato e profitti non possono e non debbono essere subordinati alla sicurezza, alla salute e ad un servizio proprio al servizio dell’intera collettività.

*Riccardo Antonini, Assemblea 29 giugno

Lo scaffale del debito 4: David Graeber, Debito. I primi 5.000 anni

written by Gilberto Pierazzuoli

Tra i sei testi che vi stiamo proponendo a proposito del concetto di debito, questo è il più voluminoso proprio perché tenta di raccontarne la sua storia lunga ben 5000 anni. L’autore è un antropologo già insegnante a Yale ora alla Goldsmiths University of London, attivo nei movimenti americani da Seattle a Occupy. La chiave di lettura antropologica apporta a questi studi storici un contributo che serve principalmente a smascherare la gratuità delle affermazioni che economisti di varia scuola hanno detto in rapporto alla storia che riguarda il mercato, la moneta e il baratto. Ne consegue una indagine e una riflessione sui ruoli della coppia concettuale di stato e mercato rapportati a quello di debito. In discussione è l’attuale problematica connessa con l’indebitamento degli stati. O, meglio, è la ricetta proposta da alcuni stati e da organizzazioni sovranazionali per ottemperare alla restituzione dei debiti contratti. Essa, in termini semplicistici,

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consisterebbe in una forma di austerità accompagnata con l’obbligo del pareggio di bilancio. Il risultato di questa politica è una contrazione del welfare e l’apertura a pseudo riforme che incidono sui rapporti di lavoro contraendo salari, contributi e diritti acquisiti. Questa situazione di per sé da considerarsi un’assurdità, è però giustificata da un concetto profondamente radicato nel senso comune che afferma che i debiti devono essere pagati. Si entra perciò in un circolo vizioso per il quale, comunque e al di là degli evidenti effetti collaterali negativi dell’applicazione della ricetta, essa ci appare incontestabile. Il carattere morale e non strettamente economico di questi presupposti, conducono anche ad ampliare le ragioni originarie del problema. Siamo cioè in questa situazione perché abbiamo fatto il passo più lungo della gamba e altre congetture e giudizi morali che sono poi per esempio sfociati in una descrizione che tende a considerare i paesi del sud Europa esser stati immeritevoli e scialacquoni con anche una presupposta bassa efficienza lavorativa e di aver goduto così di privilegi che i laboriosi abitanti del centro nord Europa non si sono potuti permettere (per altro questa affermazione è, come abbiamo visto in altra recensione, smentita dai dati oggettivi).

A smontare l’affermazione che i debiti devono essere saldati, è l’osservazione che, se così fosse, non ci sarebbe nessuna ragione per non concedere un prestito stupido (p. 11). Nasce quindi, fin dalle prime pagine, un’ipotesi che vede il debito essere uno dei caratteri fondanti dell’esperienza sociale che anticipa e poi accompagna gli altri elementi che compongono l’insieme dei caratteri precipui del comparto economico con la notazione – da cui consegue il suo ridimensionamento – che quest’ultimo non abbia avuto i caratteri tali per poter da solo rendere conto di tutti gli aspetti sociali e psicologici delle relazioni tra gli umani. Per questo si amplia il campo semantico del debito fino a fargli comprendere anche le obbligazioni morali, con l’unica differenza che quest’ultime non possono essere esattamente quantificabili.

Primo risultato di questo approccio è la “scoperta” che il baratto non ha preceduto lo scambio monetizzato e che la propensione umana agli scambi affermata da Smith (ma accettata da tutti gli economisti classici) è semplicemente un altro mito duro a morire. Si scopre invece che tutti i documenti etnografici escludono di fatto l’esistenza di società costruite intorno al sistema del baratto,

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ma anche – contrariamente appunto a quel che pensava Smith – che le istituzioni

“politiche” (le organizzazioni sociali) precedono e non seguono la proprietà, il denaro e i mercati e non sono il modo di organizzarli e garantirli. Nasce da questo ambito di riflessioni il concetto che fa del denaro soltanto un metro di valutazione del quale inizialmente è difficile capire che cosa misura se non un qualcosa di particolare che non è altro che il debito. «In questo senso, il valore di un’unità di una data moneta non è la misura del valore di un oggetto, ma la misura della fiducia che si ha negli altri individui» (p. 50). Proseguendo sullo stesso terreno di indagine di stampo storico antropologico, di nuovo si smentisce il presupposto dell’economia classica che vede stato e mercato in opposizione, constatando invece che le società senza stato tendono a essere anche società senza mercati e che fondamentalmente sono stati gli stati a creare i mercati i quali hanno poi bisogno degli stati stessi per esistere. (p. 73)

Presso alcune popolazioni si ha come una pervasività del debito che fa percepire la sensazione che le intere vite siano un prestito temporaneo concesso dalla morte. Sarebbe questo un debito che per essere ripagato prevedrebbe l’annichilimento che viene invece sostituito soltanto con dei pagamenti parziali, una sorta di interessi sborsati tramite il sacrificio animale. Questa originaria visione con aspetti fondativi, permea nel sottofondo ogni tipo di organizzazione sociale costruendo intorno al debito i suoi caratteri moraleggianti, costituendo così il riferimento organizzante di una specie di inconscio collettivo che si dipana tutto intorno al debito, alla colpa e alla redenzione. Il significato originario di redenzione è infatti riacquistare, riottenere, saldare un debito. L’idea utilitarista dell’agire umano che permea i ragionamenti del pensiero moderno, viene smentita da altre forme di pensiero quale quello ad esempio che si può attribuire a popolazioni di cacciatori raccoglitori per i quali la dimensione pienamente umana rifiuta i calcoli economicistici rifiutandosi di misurare e voler ricordare chi ha dato cosa a chi, riducendo così l’umano, tramite il debito contratto, a schiavo del suo creditore. Là dove invece il debito creava schiavitù, si inventò il dispositivo del Giubileo attraverso il quale ogni debito veniva cancellato, le terre ridistribuite e gli schiavi per debiti liberati, consci che altrimenti i sistemi sociali e le relazioni tra individui, sarebbero collassate. D’altra parte la relazione in forma di debito, rimane un modo della responsabilizzazione reciproca. Ciò che rende la relazione di debito diversa da altre forme di scambio è che essa si presuppone avvenga tra uguali e non tra soggetti gerarchicamente determinati. Il credito presuppone un rapporto di fiducia che soltanto tra uguali può essere veritiero, a differenza dello scambio commerciale che è invece caratterizzato dal fatto di

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essere totalmente impersonale.

Muovendosi in questo ambito, Graeber, racconta anche una storia della moneta che ci si mostra da un lato non preso in considerazione nemmeno da M. Amato (qui), quello usato per organizzare i matrimoni nei quali esso rappresenta non tanto un pagamento, ma la testimonianza di un debito contratto nel passaggio di un soggetto da un clan all’altro, memoria di un debito e non una sua quantizzazione: denaro come pegno e non come misura. Parallelo al matrimonio c’è l’istituto del guidrigildo dove egualmente il denaro ha funzioni simboliche e non di valore perché le vite umane possono essere scambiate soltanto con altre vite umane e mai con oggetti fisici (p. 142) proprio per questo gli schiavi essendo privati dalle reti di mutua obbligazione che permettevano di dare loro identità pubblica, si potevano vendere e comprare. Questi esempi immettono nelle considerazioni sullo scambio elementi non mercantili quali l’onore che comunque, in alcuni casi, poteva esso stesso prezzato. Il termine τιμή può infatti essere tradotto ora con “prezzo”, ora con “onore”. A questo proposito l’autore conia la locuzione “economie umane” nelle quali i beni più importanti di una persona non si possono vendere o comprare, essendo oggetti caratterizzati dall’essere coinvolti in una rete di relazioni con gli esseri umani i quali non possono essere oggetto anch’essi di nessuna compravendita. Qui, una persona strappata dal proprio contesto, di fatto scompare.

Se si prendono in considerazione i concetti di moneta, mercato, debito, guerra e schiavitù si possono distinguere età diverse nelle quali il loro rapporto è indicativo dei caratteri stessi dell’epoca relativa. L’età assiale (termine preso in prestito da Jasper ed esteso sino all’ 800 d.C.) vede la nascita della coniazione e l’uso della moneta metallica per pagare i mercenari che usati in guerra producono schiavi che possono essere utilizzati nelle miniere di oro e argento che serviranno per la produzione delle monete stesse. In età assiale videro anche la luce le merci e i mercati in contemporanea con la nascita

delle religioni universali. Sempre secondo Graeber, nell’età successiva – nel Medioevo – queste due istituzioni iniziarono a fondersi. Anche in questo caso l’analisi spazia dall’India, alla Cina, all’Europa. In India, ad esempio, si trova l’istituto del prestito ad interesse che riesce a comprendere anche “l’interesse corporeo” del lavoro cioè di quello da rendere fisicamente nella casa o nei campi

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del creditore sino all’esaurimento del debito stesso. In Cina si mostra altresì il connubio tra burocrazia statale e promozione dei mercati che smentisce una volta di più l’ipotesi che esista una conflittualità di fatto naturale tra i due comparti.

Quello che è anche da sfatare è il matrimonio consensuale tra mercato e capitale che – come dimostra Braudel citato da Graeber – vede quest’ultimo alla ricerca di situazioni monopolistiche che di fatto limitano la competizione del mercato.

Sempre in Cina, in questo periodo, si manifesta il concetto della vita come un debito infinito spesso proveniente da vite precedenti, ma comunque mitigato dalle periodiche amnistie. Un altro aspetto ancora che caratterizza il Medioevo asiatico è l’influsso del Buddismo che permise l’accumulo di veri e propri capitali in forma dei tesori che i monasteri e i templi accumularono in seguito ai lasciti e alle donazioni che detta dottrina praticamente imponeva. Il Medioevo è dunque l’età che vede la scomparsa degli stati centralizzati con l’oro e l’argento che prendono la strada verso i luoghi sacri determinando una situazione nella quale l’accettazione del prestito a interesse oscilla tra l’equiparazione dell’interesse stesso con il rischio e il suo rifiuto in toto, con la posizione intermedia che condanna soltanto l’interesse predefinito che, in quanto tale, elimina il rischio.

Eccoci all’età dei grandi imperi capitalistici che per Graeber andrebbe dal 1450 al 1971 (l’ultima data l’avevamo già incontrata e segna il momento in cui Richard Nixon scollega il dollaro dalla copertura costituita dalla riserva aurea). Si ha un inizio nel quale la moneta si rarefà in Europa, mentre si espande in Cina tanto da poter assorbire la nuova disponibilità dei metalli preziosi provenienti dal nuovo mondo determinando anche la possibilità di un florido mercato tra Europa e Cina.

Verso il Capitalismo. I prodromi del capitalismo si possono manifestare a seguito di una serie di eventi concatenati. Una delle cause fu la promozione della moneta metallica a scapito del sistema di fiducia locale che si basava invece su cambiali o semplicemente sulla registrazione di chi era in debito con chi. L’imposizione forzata della moneta metallica provocò un aumento dei prezzi che si accompagnò alle recinzioni delle terre comuni (vedi anche M. Bloch, La fine della comunità e la nascita dell’individualismo agrario, Jaka Book, Milano 1978), fenomeni che produssero quella massa di disoccupati che fornirono la manodopera e costituirono l’esercito di riserva per la nascente industria. «Quasi tutto questo fu compiuto attraverso una manipolazione del debito» (p. 304) dichiara Graeber e confronta questa situazione con quella dei villaggi inglesi prima della rivoluzione industriale nei quali il credito rimaneva una questione di onore e reputazione e dove ogni sei mesi o una volta all’anno, le comunità organizzavano una giornata pubblica di “resa dei conti” nella quale, compensati i debiti tra loro, si pagava in

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moneta o in merce soltanto il debito residuo. Le cose funzionavano perché immerse in un quadro morale di massa che ne costituiva la costola economica, ma che era figlio di quella convivialità che si ritrovava e si definiva all’interno di relazioni costruite anche dentro le feste popolari quali il Natale e le Calende di maggio. Ad illustrare i cambiamenti dell’etica pubblica figlia di queste trasformazioni sociali è l’accoglimento di un termine quale il ”self-interest”

(interesse personale) che voleva descrivere la pulsione dominante dell’uomo di Hobbes. Concetto che fu accolto come cinico e machiavellico, ma che non tardò a diventare senso comune, con il risultato per il quale si pensò che la maggior parte delle decisioni importanti fosse basata su un calcolo razionale di vantaggio materiale. Curioso che tutto questo venisse descritto con un termine che riguardava la penale per il ritardato pagamento di un prestito. Si passa così da un’economia di credito a un’economia di interesse. Le radici di questa forma di pensiero hanno però un carattere teologico. L’uso del termine “interesse individuale” risale a Francesco Guicciardini che l’usò quale sinonimo o eufemismo per il concetto agostiniano di “amor proprio” opposto ad “amore di Dio”.

Quest’ultimo ci porterebbe alla benevolenza verso gli altri, mentre quello proprio testimonierebbe la presenza di un desiderio insaziabile di autogratificazione. Ma desiderio infinito in un mondo finito significano competizione senza fine. Concetto teologico chi si secolarizza, diventando ricerca infinita di profitto per soddisfare un interesse personale. La precedente rete di relazioni basate sulla reputazione si scardina e l’affermazione di Smith – per la quale possiamo accedere all’acquisto di carne o di birra non in relazione ad un atto di benevolenza dei negozianti, ma al tornaconto che essi troveranno per soddisfare il loro egoismo – diventa plausibile.

Affermazione questa che non corrispondeva ancora allo stato dei fatti e che invece diventerà veritiera soltanto poco dopo, quando la nozione di credito fu separata dalle relazioni di fiducia tra individui e si poteva produrre moneta con un tratto di penna. Questo poteva però portare a situazioni di grande oscillazioni dei prezzi; il sistema, in Inghilterra, si stabilizzò quando si adottò il gold standard (1717). Da allora in poi i meccanismi di assoggettamento del debito si faranno sempre più efficaci, è questo il caso di aziende locate lontano dalle abitazioni dei loro dipendenti che affiancano alla loro linea di produzione negozi e servizi ai quali è possibile accedere a credito con la possibilità di estinzione del debito contratto attraverso il lavoro prestato. Il dipendente «è completamente alla mercé del suo signore» (p. 339). Alla schiavitù per debiti si sostituì la servitù per gli stessi. Il matrimonio sbandierato tra capitalismo e libertà non può che liquidare come incidenti di percorso «tutti quei milioni di schiavi, servi, coolies e debitori

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schiavizzati» (pp. 340-341).

Il meccanismo del debito rende conto di più tipi di condizione, il rapporto di subordinazione tra operaio e padrone non ne esaurisce le possibilità. Graeber fa notare che nella Londra dei tempi di Marx – come lui certamente sapeva – «c’erano più lustrascarpe, prostitute, soldati, maggiordomi, venditori ambulanti, spazzacamini, fioraie, musicisti di strada, galeotti, nutrici e tassisti (…) che non operai (p. 344).

Ma eccoci ai giorni d’oggi, a quei giorni successivi all’operazione di Nixon che dichiara la non convertibilità del dollaro. La prima conseguenza fu di far schizzare alle stelle il prezzo dell’oro con la conseguenza simmetrica della svalutazione relativa del dollaro con l’ulteriore conseguenza di un enorme trasferimento di ricchezza dai paesi poveri, che non avevano riserve auree, ai paesi ricchi quali ad esempio Stati Uniti ed Inghilterra che mantenevano riserve in oro.

L’indebitamento successivo porterà ad una nuova forma di colonialismo e di subalternità per gran parte dei paesi cosiddetti in via di sviluppo. Il dollaro diventa la moneta di riserva globale. Qui entra in gioco un ulteriore meccanismo.

Attraverso spese per armamenti superiori ad ogni altro paese e per i consumi largamente promossi, gli Stati Uniti hanno un enorme deficit di bilancia commerciale, per questo una grande quantità di dollari circola all’estero e, con questi, le banche centrali estere possono soltanto comprare titoli del tesoro americano. Ma questi pagherò del tesoro americano sono parte integrante della base monetaria mondiale e quindi non saranno mai rimborsati, ma saranno continuamente rifinanziati. Il resto del mondo invece doveva osservare politiche monetarie restrittive e ripagare scrupolosamente i propri debiti. «Quando Saddam prese la decisione unilaterale di passare dal dollaro all’euro nel 2000, seguito dall’Iran nel 2001, presto il suo paese fu bombardato e occupato dalle forze statunitensi» (p.356). Graeber racconta anche i modi dello sviluppo delle relazioni debitorie e delle loro conseguenze sociali. Lo stop al finanziamento del welfare fu giustificato con la possibilità di potersi tutti permettere una casa di proprietà attraverso una richiesta di prestiti incoraggiata dai governi liberisti che, nello stesso tempo, non solo non arginavano le avventatezze finanziarie, ma incoraggiavano tutti a giocare in borsa. Nei soli Stati Uniti ci sono oltre 401.000

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fondi pensione usati spesso per fare scommesse finanziarie. L’indebitamento è ormai universale e non determinato da persone che giocano ai cavalli o che scialacquano in cianfrusaglie e questo avviene perché si è messo in atto un dispositivo culturale per il quale «le relazioni umane non possono essere messe in stand-by nello stesso modo delle immaginarie “spese discrezionali”: una figlia compie cinque anni una sola volta» e cose così. (p. 454, nota 31). La macchina della speranza è stata sabotata e molti non si possono immaginare un futuro al di fuori del capitalismo e del “libero mercato”.

Ma proprio sulla speranza che si dipanano alcune tra le ultime pagine. Ad esempio sul ripristino dei codici di onore, sulla fiducia, sulle comunità e sul mutuo supporto sui quali si erano basate le cosiddette economie umane. Sullo smascheramento dei meccanismi di assoggettamento che svelano che la differenza tra dovere a qualcuno un favore e dovergli un debito, sia che l’ammontare del debito può essere precisamente calcolato. Ma questo calcolo richiede un’equivalenza tra esseri umani del tutto particolare. Un’equivalenza che li estrapola dal proprio contesto così tanto da poter essere trattati come identici a qualcosa d’altro. Anche i mercati hanno una loro fisionomia. I primi mercati nascevano intorno alla possibilità di scambiarsi le merci preziose. Preziose perché saccheggiate e rese anonime. Anonime perché non avevano una storia e quindi potevano essere accettate dappertutto senza fare domande. Ma poi il mercato, allontanato dalla violenza originaria che l’aveva fondato, si sviluppa in qualcosa di completamente diverso, in reti di onore, fiducia e relazioni, dimensione questa da dover forse recuperare.

Con una impellenza lasciata sullo sfondo si conclude questa storia del debito, con una aspettativa, una richiesta, forse un programma al quale ci piacerebbe associarsi: «c’è da tempo bisogno di un giubileo del debito in stile biblico, che riguardi tanto i debiti internazionali quanto quelli dei consumatori» (p. 378).

Un giubileo laico che torni all’origine della sua istituzione nella quale venivano rimessi i debiti e non i peccati (ma anche ridistribuite le terre), da usare come parola d’ordine che cresca sull’onda di quello mediatico che si scatenerà tra poco in relazione a quello “santo” proclamato per il 2016, per infine comunicare e pretendere, oltre e non solo la misericordia* annunciata, ma i diritti e gli interessi degli ultimi.

*La misericordia è il tema del prossimo giubileo straordinario che Francesco ha proclamato per il 2016.

David Graeber, Debito. I primi 5.000 anni, il Saggiatore, Milano 2012.

Pagine 455 note comprese, escluso indici e bibliografia. Euro 23.00.

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A questi link le altre recensioni sul medesimo argomento:

https://www.perunaltracitta.org/2015/06/06/la-fabbrica-delluomo-indebitato/

https://www.perunaltracitta.org/2015/06/22/lo-scaffale-del-debito-2/

https://www.perunaltracitta.org/2015/07/02/lo-scaffale-del-debito-3/

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