• Non ci sono risultati.

FONDAZIONE COSTRUIAMO IL FUTURO ESTRATTI DELLA SUMMER SCHOOL 2016

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2022

Condividi "FONDAZIONE COSTRUIAMO IL FUTURO ESTRATTI DELLA SUMMER SCHOOL 2016"

Copied!
25
0
0

Testo completo

(1)

1

FONDAZIONE COSTRUIAMO IL FUTURO

ESTRATTI DELLA SUMMER SCHOOL 2016

“OGGI NON VIVIAMO UN’EPOCA DI CAMBIAMENTO QUANTO UN CAMBIAMENTO D’EPOCA”

(papa Francesco)

GIARDINI NAXOS (ME)

22-24 LUGLIO 2016

(2)

2 INTRODUZIONE

di Maurizio Lupi1

La Summer School della fondazione Costruiamo il Futuro è giunta alla sesta edizione. Se fare politica vuol dire servire il bene comune, è certamente anche vero che politici non ci si improvvisa. Occorre procurarsi gli attrezzi e da questo punto di vista credo di potere affermare che la nostra Scuola corrisponda allo strumento giusto, perché valorizza il metodo dell’ascolto, del confronto, dell’incontro con gli altri. Si pongono domande cui tutti insieme cerchiamo di fornire risposta.

Ricorderete il film di Checco Zalone, “Sole a catinelle”. C’è una scena, in particolare, che mi sovviene ed è utile per impostare il ragionamento; mi riferisco al momento in cui il protagonista del film interviene, a modo suo, prendendo la parola nel corso di un incontro degli industriali a Portofino. C’è nel suo atteggiamento un’ironia sferzante, che rappresenta lo strumento attraverso cui dobbiamo cogliere la realtà. La politica come la conoscevamo non esiste più, ha mutato conformazione, stile, modelli interpretativi. Lo stesso Zalone prende con intelligenza di petto, nella scena del suo film, i due aspetti che hanno caratterizzato l’ultimo ventennio politico e che potremmo sintetizzare ricorrendo alla formula del “bipolarismo cattivo”.

La figura del probabile, futuro presidente degli imprenditori, riflette l’incapacità della classe dirigente di dare fiato e concretezza ad una visione, ad una prospettiva; le parole pronunciate non sono sufficienti a fornire risposte concrete ai problemi che vengono sollevati. L’altra faccia della medaglia è rappresentata dall’intervento di Zalone, che esprime il punto di vista della cosiddetta

“pancia” del Paese, in questo caso l’imprenditore medio, partendo dall’individuazione di giuste esigenze cui però non corrispondono adeguate soluzioni.

Ho utilizzato questo esempio per rimarcare che quel modo di fare politica non esiste più: il

“bipolarismo cattivo”, tutto proteso alla demonizzazione dell’avversario, o meglio del nemico, si è autodistrutto generando un terzo polo che incarna gli stessi “ideali” da cui ha tratto linfa.

Il mutato scenario, e ragiono in termini generali, presenta oggi nuove sfide, talvolta difficili da comprendere. Ma cosa vuol dire vivere in un’epoca nuova?

Cosa significa, parafrasando le parole di Papa Francesco, essere dinanzi ad un cambiamento d’epoca piuttosto che ad un’epoca di cambiamento? E quanti cambiamenti d’epoca si sono registrati nel corso della storia? Quando si sono verificati e quali ne sono stati i sintomi?

L’unica certezza è che ci sentiamo disorientati e confusi, è sempre stato così, dal momento che dobbiamo completamente rimetterci in gioco, essendo peraltro non più utili gli strumenti coi quali abbiamo interpretato finora la realtà, decifrandone la stessa complessità. In politica così come nella vita, nel lavoro e in tutti gli ambiti del sociale, occorre porsi in sintonia coi nuovi paradigmi, pena il rischio di generare risposte e proposte inadeguate.

Proseguo il mio ragionamento affidandomi alla scena di un altro film, questa volta “Ritorno al futuro”. Siamo nel 1989 e i protagonisti viaggiano verso un futuro che indica (particolare forse sfuggito ai più) una data allora inimmaginabile: il 21 ottobre 2015. Quello stesso orizzonte per noi è già oggi un passato.

1 Presidente della Fondazione Costruiamo il futuro.

(3)

3 Questo per dire che occorre attrezzarsi a vivere il futuro, dobbiamo immaginarlo, perché non è così lontano come sembra. Certo, si presenta in forme diverse da come uno se lo aspetta, ma per accettare e vincere le sfide che esso pone non possiamo non arrivarci preparati. Nel 1989, ad esempio, ritenevano che nell’ottobre 2015 si sarebbe viaggiato su automobili volanti; fra quindici anni, con quale tipologia di mobilità ci confronteremo, e di conseguenza quale modello di città dovremo costruire?

Tutto questo non è però sufficiente. Serve un passaggio ulteriore ed è quello ben descritto nel meraviglioso romanzo di Bruce Marshall, “Tutta la gloria nel profondo. Il mondo, la carne e padre Smith”, ambientato in Scozia agli inizi del Novecento, alla fine della Prima guerra mondiale.

Padre Smith, prete cattolico in un Paese protestante, si dà da molto da fare, incontra le persone, offre loro conforto, le aiuta. Ad un certo punto davanti alla sua parrocchia viene costruito un cinema, e ogni giorno egli guarda stupito le tante persone che invece di recarsi in Chiesa vanno al cinema. Osserva dalla finestra la fila che si forma e non nasconde il proprio disappunto, non riesce a comprendere il motivo per cui tanta gente possa vivere lontano da Dio soprattutto dopo una guerra che ha devastato l’Occidente. Ne parla con padre Bonnyboat, suo direttore spirituale, e questi gli risponde: “Mi dica padre Smith, cosa crede che aspetti tutta quella gente lì in coda? Non aspetta forse di togliersi la sete dell’avventuroso, del romantico, del bello? E Dio è infinitamente più avventuroso, più romantico e più bello di qualunque protagonista di film, ma la gente non lo sa e tocca a noi preti della Chiesa cattolica farglielo capire”.

Gli ideali, i valori in cui crediamo, quegli stessi che difendiamo, sono tali perché riflettono la verità delle cose; in quanto tali sanno affrontare il futuro, e possono affrontarlo se si attualizzano, se sono in grado di offrire risposte ai problemi sempre nuovi che man mano si affacciano nella storia.

Steve Jobs ha accettato la sfida del futuro, ma c’è un punto nel film che racconta la sua vita in cui egli viene ritratto mentre afferma: “Non sopporto di non avere il controllo su tutto”. Anche il più perfezionista tra i perfezionisti si deve arrendere di fronte alla constatazione del suo socio: “C’è qualcosa che non potrai mai controllare, ossia la persona e la sua libertà”. E quindi chiunque prepari e voglia costruire il futuro, anche in politica, dovrà essere consapevole della necessità di mettere al centro dell’azione il bene comune e la persona.

La sfida del futuro è una sorpresa, da vivere con sacrificio e determinazione, animati dall’idea di vincere; occorre però muoversi passo dopo passo, giorno dopo giorno, perché anche l’ignoto si affronta con un metodo, quello orientato al realismo.

La voglia di afferrare un traguardo immediato ed effimero (penso a quel che ha vissuto nei mesi scorsi Gianmarco Tamberi, il campione italiano di salto in alto che si è malamente infortunato alla vigilia dell’appuntamento più importante, le Olimpiadi), rende impossibile il raggiungimento del traguardo più grande al cui fine tutto era stato programmato.

(4)

4 LA BREXIT VISTA DA BRUXELLES

Intervento di Giovanni La Via2

Negli ultimi mesi si è sviluppato in seno al Parlamento europeo un intenso dibattito sulle ragioni che avrebbero dovuto orientare un pronunciamento dei cittadini inglesi favorevole alla permanenza in Europa o, al contrario, esortarli a scegliere un percorso del tutto differente.

Quella che David Cameron aveva immaginato come una sfida da vincere in funzione del proprio rafforzamento politico personale, si è rivelata in realtà un vicolo cieco. Certo, in pochi erano pronti a scommettere sull’affermazione del “leave”, accreditando maggiori possibilità di successo, sia pure non preponderante in termini percentuali, alla campagna portata avanti dai sostenitori del “remain”.

L’esito della consultazione popolare ha sorpreso tutti, e le preoccupazioni sono state acuite proprio dal fatto di non avere previsto uno scenario simile. Il disorientamento, poi, si lega agli atti successivi di implementazione post referendum, alle scelte politiche da compiere, al difficile percorso da intraprendere e ai tempi necessari per completarlo.

Due giorni dopo il referendum, un dibattito in plenaria all’Europarlamento ha messo in luce le preoccupazioni profonde delle forze politiche europeiste, persuase della necessità che il negoziato tra Unione e Gran Bretagna si svolga in tempi brevi, tenendo in primo luogo fermi i princìpi previsti dai Trattati comunitari per non concedere a Londra spazi di manovra. In sala era presente anche Niegel Farange, il leader dell’UKP che ha fatto della Brexit il cardine del suo agire politico:

indicato come il vincitore, in realtà si è dimostrato il vero sconfitto abbandonando la scena. Il suo intervento non ha convinto.

Ad emozionare l’Aula, vero mattatore, è stato un collega liberale scozzese cui il capogruppo Verhofstadt ha ceduto la parola. Una standing ovation che non si vedeva da tempo ha salutato il suo discorso, incentrato sulla difesa dei diritti di una Scozia in cui ha prevalso l’orientamento favorevole al “remain”, sacrificato all’indirizzo complessivo sulla Brexit deciso dagli elettori britannici, ciò che ha riportato alla ribalta il discorso sulle nuove ipotesi autonomiste nel Paese così come in Irlanda del Nord.

Cosa accadrà adesso, dopo le dimissioni di Cameron e l’insediamento di Theresa May?

Guardiamo ai primi incontri che la nuova inquilina di Downing Street ha tenuto con i principali leader europei, la Cancelliera tedesca Angela Merkel e il Presidente francese Francois Hollande.

Malgrado il differente approccio ricevuto (maggiore apertura da parte della Merkel, di contro alla rigida chiusura di Hollande), credo non sia sfuggita alla May la complessità di un contesto che lascia poco spazio all’autonomo orientamento inglese.

Quella europea è una grande famiglia nella quale convivono identità e sensibilità differenti, portate a sintesi in nome di un interesse superiore. Non tutti condividiamo le stesse politiche, e l’Italia, giusto per fare un esempio che ci riguarda da vicino, ha dovuto subire il regolamento di Dublino che impone ai Paesi di primo approdo la responsabilità del controllo e dell’accoglienza dei migranti, premendo a lungo per una modifica che speriamo possa concretizzarsi nel breve periodo. È un fatto oggettivo che su determinate questioni possano esistere punti di vista differenti tra gli Stati membri, ma è anche vero che l’Europa non è un menu alla carta.

2 Presidente della Commissione Ambiente, Sanità pubblica e Sicurezza alimentare del Parlamento europeo.

(5)

5 Tornando dunque alla vicenda Brexit, possiamo accettare che Londra negozi un accordo sul suo ritiro, ai sensi dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona, declinandolo in termini tali per cui si pretenderebbe di uscire dall’Unione ma restando nel mercato unico perché garantisce convenienza;

di accettare la libera circolazione dei capitali ma non quella dei lavoratori, dal momento che la manodopera straniera può sottrarre posti all’occupazione interna? Dobbiamo essere duri o flessibili nella conduzione della trattativa?

Muovendo dal presupposto che a tutti noi europeisti interessi la permanenza del Regno Unito in Europa, comincia a diffondersi l’idea di seguire un criterio improntato sulla fermezza, rilanciando ad esempio le condizioni che furono offerte in precedenza e che, naturalmente, verrebbero meno in caso di abbandono dell’Unione. Il nostro convincimento è che, a fronte di condizioni così dure, la Gran Bretagna potrebbe valutare l’ipotesi di sottoporre un nuovo quesito ai suoi cittadini, ciò che si può configurare come una possibilità di “recupero”.

Non nascondiamoci le difficoltà del momento. Altri Paesi potrebbero seguire l’esempio britannico, spinti dall’onda dei movimenti populisti; penso alla Grecia, alla Polonia, alla stessa Francia, dove Marine Le Pen reclama da tempo un referendum sulla permanenza in Europa.

E da parte nostra, quale risposta deve venire? Ѐ utile limitarsi a parlare alla pancia della gente, evidenziando solo ciò che in Europa, e dell’Europa, non funziona?

Oppure bisogna porre in risalto tutto quello che l’appartenenza al contesto comunitario ci ha dato e ci offre, intensificando al contempo gli sforzi per modificare, e migliorare, i meccanismi di funzionamento del sistema nel suo complesso?

Lavorare tutti insieme per l’Europa migliore, capace esprimersi con una voce sola sulle grandi questioni che riguardano la politica estera e della difesa, la tutela dell’ambiente come pure la regolamentazione dei fenomeni migratori: è questo a mio giudizio il percorso da seguire, rifuggendo dall’illusione che da soli, rintanandosi ognuno entro i propri confini nazionali, si possa fare meglio.

Ѐ ora di rimboccarsi le maniche: spetta in primo luogo alla politica fornire linfa al futuro, creando le condizioni perché questa idea di Europa forte possa finalmente trovare concretezza.

(6)

6 CAMBIARE LA COSTITUZIONE PER UN NUOVO INIZIO

Intervento di Lorenza Violini3

In capo alla relazione conclusiva predisposta dalla Commissione di esperti per le riforme costituzionali insediatasi nel 2013, si legge che “l’Italia ha bisogno di riforme in grado di ravvivare la partecipazione democratica, di assicurare l’efficienza e la stabilità del sistema politico e di rafforzare l’etica pubblica, princìpi e valori che costituiscono il tessuto connettivo di ogni democrazia moderna e ingredienti del suo successo nella competizione globale. Le proposte contenute nel rapporto possono concorrere a migliorare il funzionamento della nostra democrazia, contribuendo ad attivare processi di crescita economica e sviluppo sociale”.

Si è partiti nel 2013 con questo intento, da diversi anni se ne discute, ma non sono state fatte grandi riforme ad eccezione della modifica del Titolo V nel 2001.

Entrando nel merito della riforma costituzionale odierna e limitandoci a delineare solo il quadro generale, si individuano alcune principali questioni.

La prima concerne il superamento del bicameralismo perfetto: con la riforma cambiano le funzioni delle due Camere. Volendo schematizzare, con riferimento alla Camera dei deputati: essa è titolare del rapporto di fiducia con il governo, esercita la funzione di indirizzo politico, quella legislativa e quella di controllo sull’operato dell’Esecutivo. Il Senato della Repubblica, a sua volta, non esprime più il rapporto di fiducia, si pone quale Camera di rappresentanza delle istituzioni territoriali e di raccordo tra esse e lo Stato, concorre all’esercizio della funzione legislativa e a quello di raccordo con l’Unione europea, valuta le politiche pubbliche e l’attività delle pubbliche amministrazioni, verifica l’impatto delle politiche comunitarie sui territori.

Ai 95 senatori rappresentativi delle istituzioni territoriali, si affiancheranno i 5 componenti di nomina presidenziale, in carica per sette anni. I futuri senatori, tralasciando la questione tuttora aperta e connessa all’attuazione di una successiva legge ordinaria sulla definizione dei meccanismi di scelta, verranno eletti dai Consigli regionali con metodo proporzionale, e questo vuol dire che la fisionomia dell’organo sarà parzialmente politica, perché accanto agli esponenti delle maggioranze dei Consigli regionali vi saranno pure i rappresentati delle forze di opposizione. La durata del mandato coinciderà con quella dell’istituzione che ha proceduto all’elezione. Sull’elettorato passivo si è optato per la composizione mista del Senato, consiglieri regionali e sindaci, opzione che di per sé si presta a critiche per la quota minore assegnata proprio ai primi cittadini (non è secondario ricordare che le leggi dello Stato incidono spesso sulle realtà comunali). Non esiste mandato imperativo, a differenza di quel che avviene in Germania dove però il sistema è formulato in maniera diversa dal momento che la seconda Camera di rappresentanza è espressione del governo dei Lander, ciò che equivarrebbe alle nostre Giunte regionali. Specifico questo aspetto perché non mancano le critiche sull’assenza del mandato imperativo e sull’obbligo di votazione unitaria del nuovo Senato.

Quanto alla funzione legislativa, essa viene esercitata collettivamente dalle due Camere per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, per quelle che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni

3 Docente di Diritto costituzionale all’Università Statale di Milano.

(7)

7 fondamentali dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione del diritto e delle politiche dell’Unione europea, ed altro ancora su cui non mi dilungo.

Ogni provvedimento approvato dalla Camera dei deputati è trasmesso al Senato che entro dieci giorni, su richiesta di un terzo dei suoi componenti, può chiedere di esaminarlo. Nei trenta giorni successivi, lo stesso Senato può deliberare proposte di modifica del testo, sulle quali la Camera dei deputati si pronuncia in via definitiva.

Sulla questione relativa alle competenze delle Regioni, si è scelto di abolire l’attuale III comma dell’articolo 117 che prevede le materie sottoposte a legislazione concorrente. Accanto alla disciplina delle competenze esclusive dello Stato, viene definito un elenco di materie sulle quali si esercita la potestà legislativa delle Regioni, e questo nell’ottica di definire più chiari criteri di ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni che possa consentire di superare la stagione dei numerosi contenziosi di cui è stata investita la Corte costituzionale. Su proposta del Governo, infine, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale.

La riforma costituzionale, infine, non interviene sulla forma di governo, o su meccanismi che possano servire a rafforzare in modo strutturale il potere esecutivo, limitandosi a prevedere un miglioramento dell’aspetto funzionale con l’introduzione del cosiddetto “voto a data certa”: il Governo può chiedere alla Camera dei deputati che un disegno di legge indicato come essenziale per l’attuazione del programma di governo venga iscritto con priorità all’ordine del giorno e sottoposto alla votazione in via definitiva entro il termine di settanta giorni dalla deliberazione.

Intervento di Ferdinando Adornato4

I primi vent’anni degli ultimi due secoli sono stati attraversati da avvenimenti drammatici, che hanno segnato il corso storico successivo sempre all’interno di una tendenza, quella delle classi dirigenti delle democrazie europee occidentali, a governare la globalizzazione, fenomeno che non comincia certo adesso.

Pensiamo al congresso di Vienna nell’800 o alla prima guerra mondiale; riflettiamo sui drammi che l’Europa ha vissuto, ad esempio l’ascesa di Hitler o di Stalin.

I primi vent’anni di questo nostro secolo cominciano ad assomigliare a quelli dell’800 e del

’900; ci sono eventi drammatici, nuovi fenomeni all’orizzonte, ma un elemento a mio giudizio contribuisce a produrre una differenza negativa rispetto al passato: le classi dirigenti in tutto il mondo, mi riferisco in particolare alle democrazie occidentali, hanno paura della globalizzazione o sono incapaci di offrire ad essa una proposta di governo. Senza necessariamente richiamare il tema dell’immigrazione, è la paura il sentimento dominante che accomuna opinioni pubbliche e classi dirigenti europee.

Questo pone un grande punto interrogativo sul futuro. La povertà delle classi dirigenti è un tratto dell’epoca, basti pensare alla tendenza ad usare talvolta il Papa come surrogato di visione politica e culturale, conseguenza stessa dell’inesistenza di classi dirigenti capaci di riferirsi a dei valori e delineare dei progetti.

4 Presidente del Comitato Insieme per il Sì.

(8)

8 L’epoca che viviamo è segnata da una drammatica incapacità, e impossibilità, di decidere. Le gravi crisi internazionali, mi riferisco ad esempio alla Siria o all’Ucraina, non riescono a trovare soluzioni adatte all’equilibrio di forze contrapposte.

E l’Italia, nel quadro che ho appena delineato, rappresenta uno dei Paesi più deboli, impegnato dibattere da almeno quarant’anni sul grande tema della riforma dello Stato. Ѐ possibile che debbano trascorrere quarant’anni senza riuscire a modificare il proprio assetto costituzionale, ipotesi peraltro prevista dagli stessi Padri costituenti attraverso l’articolo 138 della Carta fondamentale?

La scomparsa stessa dei partiti, giustamente vituperati, ha eliminato in fin dei conti la corruzione? Sono scomparsi i partiti e abbiamo cominciato ad utilizzare la parola “contenitore”, a prescindere dall’esistenza stessa dei contenuti; si era ansiosi di identificarsi in un leader, e oggi abbiamo il leaderismo senza partiti, caratteristica peculiare della cosiddetta Seconda Repubblica fatta di alternanza di immutabili.

Un bipolarismo cieco e militare, con l’avversario politico additato come nemico oggetto di invettive e insulti, che non poteva non portare all’emersione di un terzo polo; ma non un polo moderato e centrista, bensì una componente fondata sull’antipolitica. Cresce lo spazio della protesta, che si identifica in Italia col Movimento 5 Stelle. La sola protesta non riuscirebbe però a coinvolgere così tante persone se non fosse sorretta dall’utopia, che ritorna in altro modo rispetto agli inizi del secolo (il sol dell’avvenire e le bandiere rosse) profittando della Rete, del web, dei social: è l’utopia di superare le forme di mediazione attraverso il ricorso alla democrazia elettronica.

Ora, è chiaro che prestando fede ad un’impostazione simile non si può che fare muro contro qualsiasi ipotesi razionale di riforma dello Stato. Un’opzione, restando al caso specifico italiano, di certo ulteriormente alimentata dagli errori commessi dal premier Renzi nel momento in cui si è assunto la responsabilità di legare al responso del referendum costituzionale la prosecuzione stessa del proprio impegno politico, col risultato di compattare tutte le forze di opposizione pure così diverse ed eterogene tra loro.

Chiudo con una punta di tristezza al pensiero che Silvio Berlusconi, l’uomo che più di ogni altro ha incarnato l’idea del cambiamento e dell’innovazione, condivida oggi le battaglie di Zagrebelsky, ovvero lo stesso giurista che lo dipingeva quale novello Mussolini.

Molte delle possibilità che il nostro Paese svolga un ruolo costruttivo in Europa passano per il voto di dicembre. Non è in gioco il destino di un leader o di un governo, ma il futuro stesso di una Nazione.

(9)

9 OSSERVARE, INTERPRETARE E FAVORIRE IL CAMBIAMENTO

Intervento di Giorgio De Rita5

Ragionare e parlare di futuro è naturalmente complicato; per avventurarsi su questo percorso è comunque utile guardare a come è cambiata la società italiana nel corso del tempo. Utilizziamo alcuni dati demografici degli anni ’70: la popolazione contava 55 milioni di persone, oggi siamo all’incirca sui 60 milioni, un dato che dunque non ha fatto registrare grandi stravolgimenti.

L’aspetto che al contrario ha avuto maggiore incisione è l’invecchiamento della società: siamo passati da un’età media di 34 anni negli anni ’70, a un tasso di anzianità maggiore di dieci 10 anni, nonostante la presenza di giovani coppie di immigrati e la percentuale sempre più significativa di bambini anch’essi immigrati. È aumentato il numero di persone over 65, che negli anni ’70 risultavano già pensionate ma che oggi risultano ancora forze lavoratrici attive (dal 12% all’attuale 22-23%). Si è modificata anche l’aspettativa di vita, con un incremento di un decennio sulle speranze del passato, ciò che chiama in causa un problema di qualità della vita stessa, ed è cambiato il tessuto sociale della società italiana, la composizione e le modalità di relazioni familiari. Le famiglie proprietarie di casa erano già tante, il dato medio era all’epoca intorno al 48% a fronte dell’80% odierno. Sono poi interessanti le cifre sugli stranieri: negli anni ’70 erano registrati 63- 64mila residenti, oggi se ne contano poco meno di 6 milioni; erano straniere 2 persone ogni 100 abitanti, ora il dato si è quadruplicato con oltre 80 stranieri ogni 1000 abitanti.

Quanto al capitolo sull’istruzione, negli anni ’70 il titolo di studio più diffuso era la licenza di scuola elementare (73%), e si sono compiuti enormi passi in avanti da allora, pur dovendo comunque sottolineare che il tasso di laureati italiani è ancora oggi molto basso rispetto alla media europea.

Abbiamo un tasso di occupazione (questo è il dato che preoccupa maggiormente) che è passato dal 46% al 43%, a significare che nonostante all’epoca ci fossero i ragazzi figli degli anni

’60 i quali in qualche modo stavano preparandosi a fare impresa e a costruirsi un futuro, il processo di progressivo inserimento nel mondo del lavoro si è interrotto a partire dalla metà degli anni ’90 esaurendosi un ciclo di crescita.

Il numero di imprese italiane è oggi superiore a 6 milioni, e quelle cosiddette individuali, al netto dei 4 milioni di partite Iva, sono oltre 1 milione e mezzo; il 15% circa delle aziende, una su sei, ha fisionomia individuale e un titolare immigrato.

Anche la spesa delle famiglie è sostanzialmente cambiata, lasciandosi alle spalle quella arcaica e contadina del passato dal momento che la crescita del reddito ha spostato parimenti il paniere delle spese: oggi si spende molto meno per il cibo e sono aumentati i costi connessi all’abitazione. Come pure sono triplicati quelli sanitari, senza dimenticare che oggi più di dieci milioni di persone rinunciano alle cure. Le famiglie hanno ridotto le spese e i consumi, in qualche modo percependo la crisi che arrivava hanno iniziato un processo di accumulazione. Dal 1995 in avanti, e ancora nel 2016, il risparmio delle famiglie italiane cresce. Questo si traduce in riduzione degli investimenti, sobrietà nei consumi, contrazione della domanda interna, meno lavoro, pur se in qualche modo la patrimonializzazione in termini di denaro sta crescendo: è il segno della paura, dovuta ai continui annunci di baratro imminente.

5 Segretario generale del Censis.

(10)

10 Dove possiamo trovare spazi di soluzione? Abbiamo sempre parlato della fabbrica brutta, sporca, lontana, da smantellare. Oggi c’è una fabbrica diversa, intelligente, digitale, c’è il cosiddetto

“manufacturing 4.0”, un modo diverso di intendere il manifatturiero, e non è un caso che l’Italia stia trovando proprio in questa dimensione le risorse per uscire dalla crisi. Il nostro è storicamente un Paese di esportazione di servizi di architettura e ingegneria: abbiamo disegnato ponti, autostrade, gallerie e canali in tutto il mondo. Negli ultimi anni siamo però diventati importatori netti di servizi e proprio la difficolta sui settori più innovativi, a maggior valore aggiunto, più globalizzati, ha accentuato la condizione di crisi.

E dunque, quale modello di società emerge in questi anni? Una società sobria, impaurita, che mette al primo posto la sicurezza materiale; una società che si sta richiudendo su se stessa, in cui l’incertezza è il tratto qualificante delle scelte.

Ma al tempo stesso una società in transizione, che ha bisogno di pensare il futuro.

“La società non sta mai ferma”, scriveva Leopardi; essa è sempre in transizione.

Quale epoca si è chiusa? A mio giudizio è finita l’epoca dello sviluppo, quella prefigurata nel 1949 nel discorso del presidente Truman all’Unione, con il famoso quarto punto in cui si riconosce che noi occidentali possediamo le tecnologie, le capacità, gli uomini e la volontà per superare i problemi delle aree sottosviluppate.

Si è trattato del grande sogno iniziato in quegli anni e continuato per i successivi decenni. Oggi probabilmente non ha più senso parlare di un’epoca dello sviluppo, poiché andiamo verso un’epoca diversa nella quale risulta estremamente complicato declinare idee sulla crescita continua. Anche Paolo VI ha messo al centro della sua riflessione durante il pontificato la parola “sviluppo”;

basterebbe rileggere la bellissima enciclica “Populorum Progressio”, pubblicata nel 1967, in cui il Santo Padre sostiene che lo sviluppo è la nuova parola della pace, richiamando al contempo anche il concetto di responsabilità individuale: ciascuno, aiutato o impedito da chi gli sta intorno, ha la responsabilità del proprio successo e del proprio fallimento.

Comprendere cosa sia la realtà non è certamente semplice. Per Felice Balbo, cattolico e comunista, intellettuale, filosofo, appartenente ad una élite aristocratica, la realtà è qualcosa che si muove come un fiume e la nostra responsabilità sta nel costruire gli argini adeguati. E come non citare Papa Francesco, il quale invita, come artigiani, a plasmare in questa realtà il sogno di Dio?

Guardando al futuro, vediamo che la realtà sta cambiando. Innanzitutto mutano i fondamentali: il senso di proprietà (la macchina non interessa più perché c’è il car sharing, la casa non interessa più perché la si può prendere in affitto), così come la famiglia (si pensi al numero di bambini nati fuori dal matrimonio e alle famiglie allargate); cambia l’impresa, oggi soggetta ai vincoli e ai limiti del mercato domestico e internazionale.

Come si governa e si accompagna il cambiamento? Pensando al futuro, promuovendo il nuovo, ma al tempo stesso cercando la forza di fare profezia con le parole del passato, ciò che chiama in causa il concetto stesso di identità.

Occorre riconoscere l’inquietudine che anima le società di tutto il mondo, e non a caso nei testi di Papa Francesco la parola “inquieto” è quella che forse ricorre più di qualsiasi altra. Inquietudine non è paura o insicurezza, ma voglia di rimettersi in cammino, di affrontare le sfide: l’inquietudine a cui il Papa ci chiama come cattolici, e che la globalizzazione ci impone per poter guardare al futuro.

(11)

11 Intervento di Luca Colombo6

Siamo immersi nel mondo digitale. Se in passato le innovazioni tecnologiche erano accessibili solo alle grandi aziende che possedevano risorse e capacità, oggi chiunque può usufruire di tutta una serie di servizi. Pensiamo, giusto per fare un esempio, al settore dei viaggi: fino 10-15 anni fa, le prime agenzie online, come Expedia o LastMinute.com, erano viste con scetticismo; oggi uno dei primi player al mondo, con circa 550.000 notti in albergo prenotate ogni giorno, è Priceline.com.

La rivoluzione digitale tocca numerosi aspetti della vita quotidiana, ed è meglio cavalcare il fenomeno piuttosto che subirlo. Lo comprendono oramai anche aziende lontane dal mondo digitale, consapevoli che il consumatore ha modificato radicalmente il proprio comportamento.

La tecnologia non è però l’elemento vincente, perché al centro resta sempre l’individuo. A fare la differenza, per noi di Facebook, è infatti il consumatore; cerchiamo di capire quel che vuole offrendo di conseguenza i servizi che ne assecondino le esigenze. Le persone al centro, desiderose di connettersi e di condividere passioni e interessi: oggi chi riesce a comprenderlo può cogliere risultati straordinari.

I costi della tecnologia sono così bassi che una buona idea può cogliere di sorpresa anche le grandi aziende. Qualche tempo fa, nelle Filippine, un progetto ha avuto dell’incredibile. Nelle Filippine vi sono tante abitazioni prive di finestre, che nel corso della giornata restano al buio.

Ebbene, l’idea di un gruppo di individui ha permesso di cogliere un’opportunità notevole: nella regione c’è abbondanza di bottiglie di Coca-Cola, e una bottiglia riempita d’acqua ed esposta per metà alla luce solare diffonde per rifrazione la luce solare nella parte di bottiglia sottostante, divenendo fonte di illuminazione. A costo zero e con un impatto sociale non indifferente.

Le grandi aziende del digitale vivono di tutta una serie di partnership. Si prenda il caso di Facebook, che ha 14.000 dipendenti nel mondo: tanto viene realizzato negli Stati Uniti in termini di sviluppo del prodotto, però molto si intreccia con il lavoro dei soggetti che operano sulla piattaforma, come ad esempio le agenzie che gestiscono pagine per conto delle aziende o i professionisti che organizzano campagne su misura delle imprese. Al di là dei numeri del sistema nel suo complesso, ciò che conta rilevare è che vengono a crearsi nuove filiere, ben diverse da quelle con le quali ci si confrontava in passato. Questo consente di chiarire il concetto stesso di

“apertura”, ovvero fornire a tutti l’accesso a una determinata piattaforma; noi non produciamo contenuti e non siamo noi a generare traffico.

Guardiamo a Tesla, la società fondata da Elon Musk. Hanno numerosi brevetti sull’immagazzinamento di elettricità, e il punto fondamentale non è solo quello di predisporre un buon motore elettrico o disegnare una buona carrozzeria, dal momento che se le batterie non riusciranno a trattenere e rilasciare energia con le giuste proporzioni quelle stesse macchine non avranno grandissime prospettive future.

Tutti i brevetti sono stati rilasciati nel giugno 2015, operazione certamente non consueta, perché si ritiene che condividere quegli asset potrebbe consentirne, attraverso il lavoro in comune, uno sviluppo ulteriore anche in termini di crescita del mercato. Ѐ questo uno dei migliori esempi, a mio giudizio, per comprendere il mutamento in corso e le nuove logiche che orientano il funzionamento del sistema rispetto al passato, lasciandosi alle spalle abitudini e tradizioni.

6 Country manager di Facebook e Instagram.

(12)

12 Intervento di Giulio Sapelli7

Il più grande cambiamento che muove il mondo è il ritorno della storia, benché Fukuyama, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, ne avesse teorizzato la fine.

Da un punto di vista economico generale, aveva capito tutto un economista statunitense, Alvin Hansen, il quale sul finire degli anni ’30 scrisse un libro, oggi ripreso senza essere citato, che annunciava la stagnazione secolare: abbassamento dei tassi di profitto, nuove tecnologie che non avrebbero aumentato la produttività del lavoro bensì la disintermediazione.

Torna la storia, nel senso che riemergono Paesi che durante il ’700 dominavano il mondo, in primo luogo Cina e India. Non è vero che il sistema cinese sia un’economia di mercato, non corrisponde a realtà il tentativo di dipingere quel Paese come distante dal modello comunista; la crisi che oggi investe la Cina ha caratteristiche simili a quella prodottasi in Unione Sovietica, con l’aggravante che non si riescono a spostare i contadini dalle campagne alle città.

La globalizzazione stessa, lungi dal rappresentare un fenomeno nuovo, è in realtà un dirompente ritorno. Nessun dubbio sul fatto che il mondo fosse più interconnesso dopo la Prima guerra mondiale. Quella post-bellica fu anche un’era di nazionalismi: in Europa esistevano 28 monete, poi caddero i grandi imperi, quello zarista, quello ottomano, l’austro-ungarico. Oggi ascoltiamo Trump, come pure Sanders e la Clinton, evocare il neo-isolazionismo tipico dell’età di Monroe.

Guardiamo a quel che avviene in Medio Oriente, ossia il ritorno all’assetto territoriale precedente lo scoppio del primo conflitto mondiale. E lo stesso Erdogan, se da un lato rappresenta il fallimento della Nato, dall’altro non simboleggia forse nuove forme di protagonismo ottomano?

La storia torna con il suo carico di risvolti negativi. Il destino dell’Italia è agricolo- commerciale, sosteneva Einaudi (a mio giudizio l’uomo più infausto della politica nostrana), noi non dobbiamo puntare sull’industria ma solo sulle piccole imprese. Da un lato la storia torna perché abbiamo le imprese manchesteriane, come le definisco io, che non riescono a sostituire la grande impresa pubblica; poi arrivano i cattolici e prendono il testimone: Camaldoli è un grande certificato economico prima che spirituale, un po’ come la Caritas Veritate, il più importante documento di economia apparso dopo il secondo dopoguerra, in cui si parla di più forme di proprietà, capitalismo, no profit.

Torna pericolosamente la storia a cui noi italiani avevamo cercato di opporci, dalla divisione internazionale del lavoro al destino delle classi dirigenti. Un grande giurista tedesco cattolico, nel 1964 eletto presidente della Corte costituzionale, asseriva che in fondo gli Stati liberali non hanno le forze morali per autosostenersi, quindi ciò che deve fare l’economia occorre venga fissato in Costituzione ed imposto da un ordine giuridico. Riprendendo Rousseau, lo Stato liberale da solo non può imporre un fondamento morale, che egli individuava nella religione. Tutti auspichiamo il ritorno di un ordinamento morale fondato sulla soggettività personale, ciò che non vuol dire algoritmi e neppure neoliberalismo.

7 Storico ed economista.

(13)

13 ONESTA’, REGOLE E LEGGI. TUTTA QUI LA GIUSTIZIA?

Intervento di Monsignor Michele Pennisi8

“Esiste un bene che saremmo lieti di possedere perché ci è caro per sé e non per i vantaggi che ne conseguono?”. La questione insorge in uno dei dialoghi di Platone, “La Repubblica”.

Glaucone riflette sul bene e sul male, interroga il suo maestro Socrate. “Ho una grande voglia di sentire – soggiunge – cosa sia giusto e ingiusto e che potere hanno per sé sull’anima dell’uomo”.

Perché sembra che gli uomini facciano le leggi dando “nome di legittimo e giusto a ciò che è stabilito dalla legge”.

Sarebbe, dunque, questa “l’origine della giustizia e la sua essenza”?

Ecco come è posta fin dalle origini del pensiero occidentale la domanda sul fondamento della legge umana e sulla sua giustizia. Domanda, questa, quanto mai attuale.

Il prof. Andrea Simoncini, costituzionalista dell’Università di Firenze ha scritto: “Perché obbediamo al diritto? Io penso che ultimamente non si possa giustificare l’esistenza di un ordinamento giuridico e del suo carattere vincolante soltanto sul presupposto che esiste una minaccia dell’uso della forza nel caso in cui qualcuno violi queste regole. Dobbiamo far riferimento a qualcosa d’altro […] c’è bisogno di una fondazione pre-giuridica, altrimenti l’impalcatura del diritto si regge sul niente, alla base ha come un vuoto”.

Il diritto attiene all’uomo, attiene alla struttura più profonda della persona umana.

La cultura giuridica dominante ci ha abituati a pensare al diritto come a un fatto che attiene anzitutto ed essenzialmente al potere.

“Una questione fondamentale che si pone per il sistema democratico – ha scritto Benedetto XVI quando era ancora il cardinale Ratzinger – è se la volontà di una maggioranza possa veramente e legittimamente tutto. Può essa rendere legittima qualsiasi cosa, vincolando poi tutti, oppure la ragione si trova al di sopra della maggioranza, così che non può mai diventare realmente un diritto ciò che è contro la ragione?”.

Tutti subiamo la convinzione che la legge non sia altro che un comando imposto dal potere legislativo, esecutivo e giudiziario a cui adeguarsi, giusto o meno che sia, un atto di volontà dell’autorità costituita: iustum quia iussum.

Questa concezione è figlia dell’Illuminismo, che tuttora permane sotto le spoglie del positivismo giuridico, dominato dalla convinzione che tutto ciò che non rientra strettamente nel diritto positivo non merita di essere preso seriamente in considerazione, a partire dal diritto naturale.

Don Luigi Giussani invita a non trascurare il legame profondo tra il fatto giuridico e la struttura antropologica della persona umana, attraverso una delle categorie chiave del suo insegnamento, quella di “esperienza elementare”.

Esperienza elementare dice di un contenuto, perché l’esigenza della giustizia (al pari della bellezza, della verità, dell’amore) è una “impronta interiore” che accomuna ogni persona umana.

L’esigenza di giustizia non rimanda a una universalità di valori astratti, ma piuttosto a una

“legge iscritta nel cuore di ogni uomo”. L’esigenza di giustizia ha la natura anzitutto di un

“principio critico” di carattere metodologico alla luce del quale ciascuno può e tende a valutare e a giudicare ogni fatto umano.

8 Arcivescovo di Monreale.

(14)

14 Ci deve essere un rapporto fra diritto e giustizia, fra legalità e moralità. Non c’è chi non veda l’urgenza di un grande ricupero di moralità personale e sociale e quindi di legalità con il contributo delle diverse componenti sociali, civili, politiche e religiose, e soprattutto mediante una più convinta e decisa educazione delle coscienze di tutti.

Gli uomini, per la loro natura sociale, costituiscono non un semplice aggregato di individui, ma una comunità di persone nella quale i bisogni e le aspirazioni di ciascuno, gli eguali diritti e i simmetrici doveri, si collegano e si coordinano in un vincolo solidale, ordinato a promuovere il pieno sviluppo della persona umana e la costruzione del bene comune. Ciò implica l’affermazione di «regole di condotta», connaturate al concetto medesimo di società, che non soltanto rispecchiano giudizi di valore universalmente riconosciuti, ma presiedono al corretto sviluppo dei concreti rapporti tra gli uomini, equilibrando le individuali libertà e orientandole verso la giustizia. Senza tali regole, una società libera e giusta non può consistere.

Se mancano chiare e legittime regole di convivenza, oppure se queste non sono applicate, la forza tende a prevalere sulla giustizia, l’arbitrio sul diritto, con la conseguenza che la libertà è messa a rischio fino a scomparire. La «legalità», ossia il rispetto e la pratica delle leggi, costituisce perciò una condizione fondamentale perché vi siano libertà, giustizia e pace tra gli uomini.

D’altra parte le leggi devono corrispondere all’ordine morale, poiché, se il loro fondamento immediato è dato dall’autorità legittima che le emana, la loro giustificazione più profonda viene dalla stessa dignità della persona umana creata ad immagine e somiglianza di Dio per cui vindice della sua dignità non è semplicemente lo Stato, ma Dio stesso.

Il rispetto della legalità è chiamato ad essere non un semplice atto formale, ma un gesto personale che trova nell’ordine morale la sua anima e la sua giustificazione.

Proprio perché l’autentica legalità trova la sua motivazione radicale nella moralità dell’uomo, la condizione primaria per uno sviluppo del senso della legalità è la presenza di un vivo senso dell’etica come dimensione fondamentale e irrinunciabile della persona.

Che la questione morale venga messa al centro dell’attenzione della politica italiana, è un bene in quanto mette in discussione la pregiudiziale separazione tra etica e politica, sostenuta da chi teorizza che tutte le esperienze della vita umana sono autonome dalla morale.

In concreto bisogna, però, chiedersi se la “questione morale” sollevata da improvvisati Catoni non sia usata come una clava contro i propri avversari politici e se dietro campagne moralistiche non si nascondano ipocritamente interessi economici e strumentalizzazioni elettorali di basso profilo.

Il fariseismo moralistico può reggersi sulla lottizzazione dei principi morali in base alla quale si dichiara bene solo ciò che uno mostra di poter osservare e male ciò che fanno gli altri, filtrando i moscerini e ingoiando i cammelli come dice Gesù nel Vangelo.

La moralità non consiste in uno sforzo improbo di coerenza con principi astratti, ma è desiderio e tensione continua verso il bene che non si scandalizza della propria e altrui fragilità perché scaturisce dalla riconoscenza per l’esperienza di un amore gratuito.

Il cristiano a partire dalla presenza di Gesù Cristo nella propria esistenza deve tendere alla coerenza fra fede e vita, ricordando che il santo non è colui che non cade mai, ma colui che dopo essere caduto si rialza perché Qualcuno gli tende misericordiosamente la mano.

Il moralismo è, invece, osservare delle regole astratte per sé stesse e può degenerare nel fariseismo nella misura in cui è la persona a stabilire il criterio del bene e del male con il quale generalmente assolve sé stessa e condanna gli altri.

(15)

15 Ѐ l’atteggiamento di chi pensa di avere le mani pulite, ma non si accorge di avere il cuore sporco.

La moralizzazione della vita pubblica passa attraverso una mobilitazione delle coscienze, un rinnovato impegno educativo che porti ad un cambiamento della mentalità. Spesso l’educazione finisce per essere solo “istruzioni per l’uso”, come usare della vita, senza farsi troppo male, come se bastasse questo per essere felici.

Si danno ai giovani delle ricette per farsi male il meno possibile: rincretinisci quanto vuoi in una discoteca, ma prima di prendere la macchina aspetta un attimo, così non vai a sbattere; non bere troppo, che ti fa male; è meglio se non ti fai, perché “la droga ti spegne”, ma se proprio ti devi fare, almeno usa una siringa nuova, e via dicendo.

Il risultato di questa impostazione è il relativismo morale che porta al nichilismo. Le ultime conseguenze del nichilismo sono espresse da Camus: “Se a nulla si crede, se nulla ha senso e se non possiamo affermare nessun valore, tutto è possibile e nulla ha importanza. Non c’è né pro né contro, né l’assassino ha torto o ragione. Si possono attizzare i forni crematori, come anche ci si può consacrare alla cura dei lebbrosi. Malizia o virtù sono caso a capriccio”.

Umberto Galimberti ha pubblicato un libro che ha un titolo assai significativo: “L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani”. L’autore riconduce il malessere che appare diffuso tra la gioventù all’atmosfera nichilista del nostro tempo. Egli non vede altra via d’uscita che il ritorno a una “misura” della vita propria della grecità classica, ritorno motivato con il fatto che Dio sarebbe

“davvero morto” e quindi sarebbe vana la ricerca di un senso in qualche modo assoluto della nostra esistenza. Ma la morte di Dio ha portato alla morte dell’uomo e a considerare l’umanesimo un fenomeno culturale ormai superato.

Ѐ necessario invece educare ai valori morali aiutando a rispondere alle domande fondamentali di ogni uomo. Oggi “la dittatura del relativismo”, come l’ha chiamata il Santo Padre Benedetto XVI, è l’atmosfera dominante nei giovani ma anche nei ragazzi.

Un fattore, legato intimamente al senso della legalità, è la ricerca del bene comune che fa applicare la regola d’ora: “fai agli altri ciò che vorresti che gli altri facciano a te”. La crescita del senso della legalità ha come necessario presupposto un rinnovato sviluppo dell’etica della socialità e della solidarietà.

L’educazione alla legalità vada coniugata con l’educazione alla socialità e ad una cittadinanza responsabile, nell’ambito di una educazione globale alla pace.

La Conferenza Episcopale Italiana ha voluto sottolineare questo stretto legame con tre Note pastorali che costituiscono una piccola trilogia: “Educare alla legalità” (1991), “Stato sociale ed educazione alla socialità” (1995) ed “Educare alla pace” (1998). Legalità, socialità, pace: sono valori strettamente collegati, non dissociabili uno dall’altro. La loro attualità è permanente.

La questione morale presuppone il rapporto fra morale e vita teologale vissuta nella fede, speranza e carità: le regole debbono scaturire dallo stupore dell’incontro con Cristo, perché solo dalla gioia può scaturire un cambiamento di vita.

Un esempio: don Luigi Sturzo che cercò di moralizzare la vita pubblica attraverso il suo impegno diretto di cristiano e di sacerdote. Di fronte alla cruda realtà dell’immoralità nella vita pubblica, don Sturzo non si rifugia in sagrestia, non considera la politica tout court una “cosa sporca”, non ha paura di frequentare le piazze e le strade, i municipi e i ministeri, ma si impegna, rischiando di persona, per dare speranza al popolo umiliato e offeso attraverso una profonda riforma morale fondata nell’educazione delle nuove generazioni ai princìpi cristiani della giustizia e dell’amore,

(16)

16 che per lui non sono dei princìpi astratti ma dei valori concreti che i cristiani, trasformati dall’incontro con Cristo, hanno il compito di realizzare nella società.

Nell’opera “Politica e Morale”, Sturzo parlerà dell’impegno politico come di un modo per realizzare la carità cristiana, essendo la politica “un ramo dell’amore del prossimo”. In un articolo, scritto durante l’esilio londinese nel 1938 e pubblicato in “Nouvelle Revue Théologique”, Sturzo scriveva: “Ricevendo una delegazione di giovani belgi, il Papa Pio XI diceva loro che la politica bene intesa è una forma di carità. Questo principio è fondamentale in teologia morale, per quanto esso non lo sia, sfortunatamente, nella pratica, sia per quelli, talvolta i migliori, che si scansano dalla politica come da una cosa “sporca”, lasciandola ai cattivi […]; sia per quelli che, occupandosene, non si sentono più legati dalle leggi morali con le quali sarebbe assai difficile, per essi, fare della politica come la fa tutto il mondo (o meglio come la fa il mondo). Mi sembra necessario andare ancora più a fondo a ricercare fino a qual punto l’esercizio della politica possa diventare un dovere di giustizia, e quando, più generalmente, esso sia imposto dalla carità”.

Sturzo non si fermò a denunce generiche e astratte, ma intervenne spesso e puntualmente in alcuni nodi cruciali della storia del nostro Paese con analisi spietate, che non mancano di attualità.

Ecco cosa scrisse nel 1958 quel vecchio di ottantasette anni a proposito della moralizzazione della vita pubblica, senza farsi eccessive illusioni ma neanche senza un pessimismo disperato: “Una parola, moralizzare la vita pubblica ! Dove e quando essa è stata mantenuta sulla linea della moralità? Non ieri, non oggi, non da noi, non dai nostri vicini, non dai paesi lontani. Eppure è questa l’aspirazione popolare: giustizia, onestà, mani pulite, equità. Che cosa è mai la concezione dello Stato di diritto se non quella di uno Stato nel quale la legge prende il posto dell’arbitrio;

l’osservanza della legge sopprime l’abuso; la malversazione e la sopraffazione non restano impunite? Bene facciamo come si fa nelle case; in primavera ed in autunno pulizia generale [...]. Ѐ vero ci sporchiamo le mani, ma c’è l’acqua e il sapone a ripulirle più volte [...]. Noi vogliamo che lo Stato come ente responsabile della pubblica amministrazione, pur facendo valere le proprie benemerenze, riveda le proprie colpe e si emendi [...]. Lo Stato non immunizza il male né lo tramuta in bene; fa subire ai cittadini gli effetti cattivi delle azioni disoneste dei propri amministratori, governanti e funzionari, mentre produce benefici effetti con la saggia politica e la onesta amministrazione”.

Fra le altre denunzie circostanziate c’è questa: “Più grave (dell’assenteismo degli impiegati soprattutto in certi carrozzoni inutili) è l’andazzo di molti uffici centrali e periferici, statali e locali, per il disbrigo degli affari privati. Se nella mente dei cittadini è penetrata l’idea che per avere disbrigato un affare occorre la bustarella, o la percentuale per il premuroso intermediario, si deve concludere che le storielle circolanti di bocca in bocca non siano tutte inventate [...]. Che ci stanno a fare nei corridoi e nelle antisale dei Ministeri e per le scale stesse certe persone che oramai gli uscieri conoscono? Perché non tenere sgombri gli ambulacri? Anche nelle antisale delle banche si vedono certi figuri ben noti ai funzionari [...]. Per quanto sto segnalando non vorrei dare l’impressione che tutta l’amministrazione statale sia corrotta; farei torto al personale tradizionalmente corretto e zelante; ma il sistema dei controllati-controllori, da me denunziato dieci anni fa, vige ed è generalizzato, le promozioni a salti mortali demoralizzano coloro che contano sulla regolarità della carriera e sulla disciplina del personale. Per giunta la differenza di stipendio fra il personale dei dicasteri statali e parastatali è tale da ripercuotersi sul morale di tutta la classe impiegatizia e sulla stessa pubblica opinione. Ciò spinge i più audaci e i più fortunati a darsi alla politica [...]. L’anello di congiunzione della partitocrazia con la burocrazia politicante e con il

(17)

17 funzionarismo degli enti statali e parastatali, che amministra miliardi senza rischio e senza corrispondente responsabilità, è un incentivo allo sperpero, al favoritismo, alla inosservanza delle leggi, e rende difficile qualsiasi retta amministrazione governativa”. E concludeva: “Pulizia morale, politica e amministrativa; solo così potranno i partiti presentarsi agli elettori in modo degno per ottenere i voti; non mai facendo valere i favori fatti a categorie e a gruppi; non mai con promesse personali di posti e promozioni; ma solo in nome degli interessi della comunità nazionale, del popolo italiano, della Patria infine; perché la moralizzazione della vita pubblica è il miglior servizio che si possa fare alla Patria nostra” (gennaio 1958).

La moralizzazione della vita pubblica è legata per Sturzo ad una concezione religiosa della vita che si traduce nell’amore cristiano verso Dio e il prossimo strettamente collegato con la giustizia. Il senso della giustizia, della moralità e della legalità non è un valore che si improvvisa.

Esso esige un lungo e costante processo educativo. La sua affermazione e la sua crescita sono affidati alla collaborazione di tutti, ma in modo particolare alla famiglia, alla scuola, alle associazioni giovanili, ai mezzi di comunicazione sociale, ai vari movimenti che nel Paese hanno un potere di aggregazione e un compito educativo, ai sindacati, alle organizzazioni di categoria, agli ordini professionali, ai partiti e alle varie istituzioni pubbliche.

La comunità cristiana, con le sue varie strutture, è anch’essa impegnata in quest’opera formativa: le parrocchie attraverso la catechesi e le molteplici iniziative culturali, formative e caritative; l’insegnamento di religione ha un ruolo importante, l’associazionismo, specie giovanile, con un’attenta considerazione dell’itinerario formativo della persona; il volontariato che si pone al servizio delle persone in difficoltà e che è chiamato a testimoniare la dedizione, la condivisione, la gratuità in una funzione non solo di supplenza delle carenze sociali, ma anche propositiva, per eliminare le cause che generano le molte povertà materiali e spirituali delle quali l’uomo di oggi soffre.

L’affievolirsi del senso della legalità nelle coscienze e nei comportamenti denuncia una carenza educativa in rapporto non solo alla formazione sociale dei cittadini, ma anche alla stessa formazione personale.

È necessario far emergere nell’opera educativa in modo vigoroso la dignità e la centralità della persona umana, l’importanza del suo agire in libertà e responsabilità, il suo vivere nella solidarietà e nella legalità.

Intervento di Giovanni Legnini9

Provo a declinare la bellissima frase pronunciata da papa Francesco, “oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca”, partendo dal punto di vista complementare a quello proposto da monsignor Pennisi, di cui mi hanno colpito il richiamo alla legalità che presuppone dei valori e al fariseismo moralistico, come pure i riferimenti a Don Giussani e a Benedetto XVI.

Alla questione di come poter riconoscere ciò che è veramente giusto e servire la giustizia nella legislazione, non è mai stato facile trovare risposta.

9 Vicepresidente del Csm.

(18)

18 Questa problematica si connette a quella della inadeguatezza degli ordinamenti come pure alla crisi della statualità, nel senso che oggi gli Stati nazionali non riescono più, attraverso l’attività legislativa, ad offrire capacità di previsione del futuro.

Immaginare di prevedere attraverso lo strumento normativo alcune delle evoluzioni rapidissime tipiche di questo tempo è esercizio pressoché impossibile. E del resto, lo affermo con cognizione di causa, negli ultimi anni il legislatore, più che le vesti del “pensatore” ha indossato quelle del “ri- pensatore”, ossia si è trovato costretto ad intervenire continuamente sulla stessa materia dal momento che la realtà procedeva in modo più spedito rispetto alla capacità di regolare e disciplinare un dato fenomeno.

Le fonti del diritto, altro elemento da prendere in considerazione, sono diventate multilivello: l’ambito sovranazionale, europeo ma non solo, sovrasta quello nazionale.

E la giurisdizione sta oggettivamente ampliando il suo ruolo non perché i giudici siano animati dalla volontà di invadere ambiti riservati ad altri poteri, ciò che pure è accaduto in certe fasi storiche, ma perché la crisi valoriale e l’incapacità degli ordinamenti di fornire risposte determinano quale conseguenza nuove domande, tra cui per l’appunto un aumento della domanda di giustizia. Se il legislatore può anche non esprimersi su un determinato aspetto, ciò non è però consentito al giudice, in ragione del nostro stesso assetto costituzionale: tenuto a mente questo scenario, si comprendono magari meglio anche le polemiche sulla cosiddetta “giurisprudenza creativa”, sull’invasione di campo, sull’opera di supplenza, che accompagnano il dibattito sui rapporti tra politica e magistratura.

Quale risposta fornire, a questo punto? L’unica possibile è quella che pone al centro la riscoperta dei valori connaturati all’esercizio della funzione politica, la buona politica che papa Francesco ha invitato a coltivare con passione e dedizione; e che, parimenti, offra gli strumenti affinché la magistratura possa compiere, nei limiti imposti dalla funzione, il suo prezioso lavoro in un contesto molto difficile.

Voglio concludere questo ragionamento citando Rosario Livatino, il giudice ragazzino ammazzato ventisei anni fa, che nell’unico discorso pubblico a noi noto di cui ha lasciato traccia, quello pronunciato a Canicattì, così si espresse: “La magistratura, per restare ancora fedele al dovere costituzionale di fedeltà alla legge, altro non cerca, anche per evitare ondeggiamenti, incertezze ed ulteriori ingiusti rimproveri, che di poter disporre di dettati normativi coerenti, chiari, sicuramente intelliggibili […]”.

Da un lato è l’invocazione rivolta alla politica, che deve assumersi la responsabilità di fornire risposte ai cittadini attraverso la predisposizione di leggi chiare, coerenti, che corrispondano nei limiti del possibile alla concretezza del vivere quotidiano; e dall’altro si rivolge al giudice, il quale, nel responsabile esercizio di un compito vitale per la società, non può che essere vincolato al dettato costituzionale e alla legge stessa.

(19)

19 VIVERE NEL 2030

Intervento di Gianni Oliosi10

Delineo per cominciare un quadro d’insieme, basandomi sostanzialmente sulle relazioni della Cea, l’associazione che riunisce tutti i costruttori europei di automobili. Occorre tenere in considerazione il fattore ambientale, e quindi il carico che il clima sta subendo da alcuni comportamenti che sono naturali, periodici.

A questo si legano le politiche di regolazione delle emissioni, più o meno attive in tutti i paesi, il mutamento dell’economia, come pure il discorso relativo alle risorse energetiche. L’urbanizzazione è un fenomeno ineluttabile: si prevede che da qui al 2030 circa il 60% della popolazione mondiale risiederà in grandissimi agglomerati urbani diffusi, e va da sé che bisogna preoccuparsi soprattutto della mobilità urbana. Si ritiene che siano almeno sei i punti centrali dai quali muovere per arrivare ad una mobilità sostenibile nel più breve tempo possibile.

Immaginiamo il 2030: il primo punto inderogabile è l’approccio integrato tra tutti gli stakeholder, tra tutti i partner della mobilità, chi la chiede, chi la usa, chi la offre, chi la regola. La rivoluzione della connettività chiama in causa possibili interazioni con la sicurezza, e quindi la privacy, come pure la possibilità di esplorare nuovi modelli di business; il miglioramento continuo e l’interazione del trasporto pubblico è altrettanto fondamentale, così come un argomento sempre più decisivo sul modello di vita in città è quello relativo alla consegna delle merci, ovvero porsi il problema di metodi innovativi di distribuzione.

La Cea ritiene che la mobilità sostenibile debba fondarsi su tre pilastri: economia, società e ambiente. Quanto al primo aspetto, occorre poi porre attenzione sulla produzione di veicoli, sulla distribuzione di merci e sulla creazione di infrastrutture. Investendo circa 49 miliardi di euro ogni anno in ricerca e sviluppo, l’industria automobilistica punta sulla sicurezza, sulla comodità e sul confort, sull’hardware soprattutto, e da qui il recente accordo tra Intel, Mobiline e Bmw per sviluppare l’auto a guida autonoma nel 2021. Per guida autonoma si intendono una serie di servizi di gran lunga superiori a quelli di cui già godiamo, con l’uomo, il driver ovviamente sempre al centro della guida.

Desidero sottolineare un aspetto connesso alla sharing economy: per bisogno o per differente cultura delle nuove generazioni, la proprietà sta perdendo valore a vantaggio dell’utilizzo.

Se già potevamo registrarne i primi sintomi con la diffusione del leasing o del noleggio auto, oggi con il fenomeno del carsharing questo aspetto si amplifica: i residenti in città sono sempre meno disposti ai disagi provocati dal traffico, parcheggi introvabili, caos ed emissioni nocive.

Guardiamo al futuro ed a ciò che si vorrebbe avere: maggiori spazi pubblici, parcheggi ordinati, stazioni di ricarica delle auto elettriche, mobilità integrata, meno emissioni, più fluidità del traffico.

Il carsharing punta sulla mobilità a svantaggio della proprietà. Ma perché questo fenomeno possa sviluppare appieno le sue potenzialità occorre molta interazione, essendo nell’interesse di tutti che la città sia più vivibile. Da qui ad esempio la necessità che ad agire sia non solo l’industria dell’auto, ma anche quella della mobilità, le associazioni ambientaliste e ovviamente le amministrazioni cittadine.

10 Senior consultant communications and governmental affairs BMW AG.

(20)

20 Immaginiamo per un attimo di essere già nel 2030, immaginiamo di avere realizzato l’interazione armonica tra i vari strumenti della mobilità, ad esempio un trasporto pubblico connesso con la mobilità individuale privata, che preveda una sola tessera per usare il carsharing, il bikesharing, la metro oppure l’autobus.

Ѐ la rivoluzione della connettività quella destinata a cambiarci la vita e, nello specifico, a modificare radicalmente il sistema della mobilità tradizionale. Da qui al 2030 credo saranno sempre più le pubbliche amministrazioni ad attivare dei percorsi virtuosi, visto che già ora indicano regole e stimolano progetti pilota finalizzati al miglioramento della qualità di vita nelle città.

Intervento di Fabio Lazzerini11

Emirates è una compagnia dove lavorano circa 70mila persone, che al momento dispone di 240 aerei (presto raddoppieremo il dato), una flotta molto giovane, 5 anni e 7 mesi (ciò che tra l’altro garantisce poco inquinamento rispetto al passato grazie ai materiali da costruzione);

un’azienda che nell’ultimo trentennio ha sempre fatto profitto, capace di chiudere lo scorso anno con un utile netto di un miliardo e novecento milioni di dollari.

Se i numeri dicono tutto nel business, dietro il successo deve comunque esserci la cultura e soprattutto una visione ben precisa che pone al centro il cliente, investendo su di esso e cercando di soddisfarne le esigenze.

Chiarezza negli obiettivi, dunque, e ambizione di fare sempre meglio, secondo la logica che un viaggio, una vacanza non cominci al momento dell’atterraggio bensì appena si sale a bordo dell’aereo. Cultura vuol dire anche accogliere il passeggero con un sorriso ed offrirgli tutta una vasta gamma di servizi a bordo di modo che il tragitto possa risultare confortevole.

Un altro aspetto fondamentale è quello relativo alla pianificazione e all’efficienza nella gestione, fattori non completamente prevedibili a cospetto di un mondo in rapida evoluzione. E del resto, è mai esistita un’epoca immobile?

Bisogna guardare al 2030 con grande ottimismo e determinazione, il cambiamento è insito nella natura umana, rappresenta una grande ricchezza che occorre saper interpretare, con flessibilità e adattandosi alle circostanze. Soprattutto mantenendo le aspettative che ognuno si è dato.

Le aziende vivono di brand, ed Emirates ha l’ambizione di diventare uno dei cento brand più conosciuti al mondo, non fermandosi all’ambito delle compagnie aeree ma spaziando in ogni settore del life style. L’importante, però, è riuscire a muoversi sempre sul filo della coerenza tra ciò che si promette e quel che si dà. Guardiamo, per fare un esempio, al modello Ryanair, titolare di un brand perfettamente centrato: promettono di portarvi nel minor tempo possibile e con un costo abbordabile da un punto A ad un punto B. Basta, non vi dicono nulla di più, non vi invitano a salire a bordo di un aereo dove potrete viaggiare in tutta comodità.

Loro non ve lo dicono e voi non ve lo aspettate; sarete comunque soddisfatti per essere arrivati a destinazione a poco prezzo, incuranti dei possibili disguidi e delle possibili criticità registrate.

Discorso diverso avviene con Emirates.

La cultura, cui mi riferivo in precedenza, rappresenta anche il fondamento di scelte difficili da compiere. Tra i tanti esempi possibili, ne cito uno, ovvero quello relativo al capitolo delle alleanze su cui si esercitano numerose compagnie aeree nel mondo. Emirates ha scelto di non

11 General manager di Emirates.

Riferimenti

Documenti correlati

Anche la “Summer School AIRESPSA – INAIL 2012” è frutto di un impegno e di un lavoro costante svolto dall’Associazione per favorire coloro che

In the last 15 years Università Cattolica has extensively invested in the area of healthcare management through the creation of different research centers and programs such as: (i)

The program, entirely offered in English, is organized by the Africanistic section of the Department of Cultures, Politics and Society (CPS Africa) of the University of

La seconda edizione della Summer School “La critica cinematografica” è stata promossa dalla Regione Puglia, dal Centro Studi della Fondazione Apulia Film Commission e

Nel 2018 le morti sul lavoro sono aumentate del 9% rispetto al 2017, più di tre morti al giorno di cui nessuno si interessa più nei media.. Per non parlare del lavoro nero

L’Associazione Airespsa anche quest'anno ha rinnovato il proprio impegno verso i propri iscritti e a favore di tutti gli operatori della sicurezza nei luoghi di lavoro,

Lavoro di sintesi delle proposte sul tema della giornata Chairman Luca Baiguini. Al Termine della giornata: brevi presentazioni su argomenti monotematici a

Data: 07 settembre: 09.30 - 13.30 / 14.30 - 18.30 Programma del corso:. Il ruolo delle risorse umane nelle organizzazioni complesse Human factor: definizione