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FORESTE «DISUMANE» PER CERVIDI

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Academic year: 2021

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FORESTE «DISUMANE» PER CERVIDI

La Foresta, intesa quale bosco in senso allargato, ospita oggi non solo Animali Non Umani ma anche Animali Umani totalmente di - staccati dall’ecosistema forestale. Boschi, selve e foreste, pur con significati diversi, avevano in passato un profondo significato sim- bolico e costituivano luoghi d’iniziazione. Oggi, questo loro potere è svanito. Alla luce delle esigenze generali dei Cervidi (qui descritte brevemente), si sostiene che è necessario passare da una gestione passiva, fondata spesso da programmi di fruizione turistica non formatori e diseducanti, ad una gestione attiva. Considerando l’antico potere simbolico del Cervo e quello nuovo ma altrettanto importante del Capriolo, sarà necessario riconsi- derare la foresta come luogo specialmente vocato per una nuova educazione e formazione alla Natura. L’Uomo che si addentra in una Foresta per Cervidi (o per altre specie) dovrà, allora, in futuro, «disumanizzarsi» e riprendere, nella Selva, quel percorso iniziatico – quindi formativo – che ha oggi smarrito. Sono esposti di seguito alcuni suggerimenti pratici per far sì che l’Uomo sperimenti, sempre alla luce delle esigenze biologiche dei Cer- vidi, quell’antico legame con la Foresta e con ciò che è Selvatico.

Parole chiave: foresta; Cervidi; simboli; iniziazione; deumanizzare.

Key words: forest; deer; symbols; initiation; dehumanize.

1. F

ORESTA

,

BOSCO

,

SELVA

Preferisco non occuparmi in questo scritto degli aspetti tecnico-strut- turali di boschi o foreste adatte alla vita dei Cervidi, nel nostro caso le spe- cie autoctone in Italia e cioè il Cervo e il Capriolo.

La mia attenzione sarà invece rivolta agli aspetti simbolici e quindi formativi di un bosco adatto a queste due specie. Una foresta da Cervidi, certo, ma per l’Uomo.

E allora anche le parole più semplici hanno valore.

Foresta, bosco, selva. Sono la stessa cosa? La distinzione può non essere importante per il forestale. Lo è invece dal punto di vista particolare da quale intendo partire. Le differenze ci sono.

(*) Presidente Onorario dell’Associazione Italiana per la Gestione Faunistica.

– L’Italia Forestale e Montana / Italian Journal of Forest and Mountain Environments 64 (2): 73-89, 2009

© 2009 Accademia Italiana di Scienze Forestali doi: 10.4129/ifm.2009.2.02

(2)

La foresta è un ambito naturale esteso e coperto d’alberi.

Il bosco è diverso. Bosco, voce dall’etimologia incerta, forse da un ger- manico – celtico busk - bosch – poi mutato in Busch (ted.) - Bush (ingl.) ma con il significato riduttivo di boscaglia è, nel senso comune del termine, qualcosa di meno della foresta. Anch’esso è un insieme di alberi, in genere di alto fusto eppure più fitti e quindi non facile da percorrere. Il bosco si relaziona bene, e a non a caso, con la boscaglia.

Dice Dante (Inferno, Canto XIII, vv. 2-6)

«…

quando noi ci mettemmo per un bosco che da neun sentiero era segnato.

Non fronda verde, ma di color fosco;

non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;

non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco.»

Sarà anche meno esteso il bosco e persino meno importante della foresta ma ha una caratteristica: una certa qual impenetrabilità.

Il bosco non ha altre connotazioni particolari. Tuttavia, vi è come un sospetto, veicolato anche dal linguaggio comune, «è tutto un bosco», che si tratti di un ambito lasciato a sé stesso, mal gestito e non governato. Nel quale insomma la mano dell’Uomo si avverte ma non è attiva. Anche la sua (ricon- quistata?) selvatichezza ovvero la sua non permeabilità sono doti negative in quanto collegabili all’incuria, alla trascuratezza e non alla volontà di (ri)creare qualcosa di «nuovo». È una dimenticanza. E come tale, colpevole.

E la selva? È un termine aulico, inusuale e quindi, caratteristica della lin- gua italiana, nobile.

Selva è qualcosa di molto più selvaggio, indomito, non contaminato e poco impattato. Che genera maggiore rispetto. Perché, diversamente dal bosco, la selva è un «incolto» naturale: è lo stato primitivo. E l’incontaminato si ammira: la selva selvatica, appunto.

Mentre, se l’Uomo interviene non deve poi lasciare a sé stesso ciò che è stato plasmato dalla sua mano. È come se scattasse un’etica della responsabi- lità. Hai manipolato la Natura? La hai trasformata? Bene, il tuo dovere è pro- seguire. A gestirla.

Selva è un termine di poca fortuna, oggi. Ma i suoi figli sono vivi e vegeti.

E molto attivi nell’immaginario collettivo: selvatico, selvaggio, selvaggina. La Fauna è il complesso di tutti gli animali selvatici, qui nel semplice significato di senza padrone, perché molti di loro non appartengono al bosco.

La selva è dunque il luogo prediletto dei «liberi», uomini e bestie, di

coloro che non hanno qualcuno sopra di loro. Di banditi, di reietti, di fuo-

rilegge, di eremiti. Di orsi, lupi, cervi, cinghiali. Inselvatichirsi significa tor-

(3)

nare libero: per gli uomini però in senso negativo, cioè senza freni, senza regole, guidati dall’istinto, come le fiere.

Selva, quale fitto intrico di alberi e alta vegetazione. La selva è oscura, densa, tenebrosa. Aspra e forte e nel cuore mette paura (sempre Dante). È il nostro inconscio, sconosciuto, che temiamo e di cui non vorremmo sape- re. Oppure un io nascosto in cui sprofondiamo per una sfida avventurosa.

Ma torniamo alla foresta: Foresta deriva da foris (fuori), uno spazio esterno, estraneo e diverso, alternativo alle terre coltivate.

Nel Medioevo le «foreste» erano spazi incolti a disposizione delle comunità rurali (G

ALLONI

, 1993), delle quali sia nobili che regnanti cerca- vano di appropriarsi per costituirvi zone di caccia esclusive, riservate a loro solamente.

È dal settimo secolo che i potenti cercano rendere nuovamente foreste tali zone, incolte appunto, sottraendole alla libera disponibilità delle genti locali. E va sottolineato che poiché la fauna interessante per la nobiltà era costituita da fiere e da cervi come pure da cinghiali, l’imboschimento di tali zone, le silvae forestis viene chiamato inforestatio, letteralmente, oggi, fore- stazione di zone incolte (G

ALLONI

, op. cit.).

Con il tardo medioevo la differenza fra silva – termine «ambientale» – e foresta (termine giuridico) viene a cadere.

Poiché è sulle selve foreste che si esercita ormai, quando si può, un diritto esclusivo di caccia, con severissime sanzioni, foresta diviene un ter- mine stremante duro, rigido, che suppone un’autorità superiore assai poco magnanima e, diremmo oggi, per nulla affatto liberale.

Il guardiano di codesti boschi, di varia misura, estensione e origina- rietà, il forestarius, è odiatissimo. E non è un caso che il paladino dei deboli sia stato Robin Hood, un vero e proprio bracconiere.

Se questa è l’origine dei termini, almeno in lingua italiana, si compren- de come nell’immaginario di ciascuno il termine foresta, contrapposto a selva ed a bosco esprima un concetto di vincolo e di estraneità prima che di naturalità. Forestiero ne è una buona derivazione.

Il Medioevo contrassegna molto di più che l’epoca romana il nostro modo di vedere e di rapportarsi con la foresta. L’ombra lunga di Roma si esprime piuttosto e più profondamente sulla Fauna (e quindi sulla caccia) e sull’atteggiamento pratico nei confronti del bosco.

Res nullius, cosa senza padrone la prima, gli animali selvatici, che appartengono al primo che li uccide, cattura o solamente li insegue. Risorsa non proprio necessaria, la seconda, la selva foresta (per i Romani, tuttavia), e pur in zone dove la legna invernale sarebbe preziosa: soppiantata nella scala dei valori dalla tranquilla pecora e dai miti bovini.

È un atteggiamento solo apparentemente schizofrenico, come si

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vedrà. Del bosco, della selva, della foresta permane un concetto negativo non sempre temperato, apertamente, da quello che per altri popoli ha avuto un significato buono e salvifico.

Sintetizzando ed estremizzando: abbandono infernale (il bosco), bestia- le libertà (la selva), occhiuti divieti (la foresta).

2. L

A FUNZIONE IMMAGINIFICA DELLA FORESTA

Ma questo assieme di alberi, che da questo momento sintetizzerò sem- plicemente in «foresta», è anche varco, ingresso, spazio, ambito di passaggio.

E l’idea che la foresta non sia soltanto un insieme di piante contorte, ma qualcosa di ben più profondo non è estranea alla nostra cultura. Anche se bisognerebbe vedere a fondo le differenze che intercorrono fra Nord e Sud, Oriente ed Occidente.

In generale, le eccezioni non sono molte. Almeno in passato la foresta era uno spazio iniziatico. Possedeva una chiara funzione di crescita. Si entrava e… si usciva migliori, diversi.

Foreste (boschi, selve), sono ambiti naturali che ospitano, oggi, non solo Animali Non Umani ma anche Animali Umani spesso totalmente «di- staccati» dall’ecosistema forestale. E che vi penetrano in modo casuale.

La foresta sta ormai perdendo la sua capacità di influenzare l’intimo dell’Uomo. In Europa. E, in Italia, questa sconfitta, definitiva e totale, è più che prossima.

La foresta. Uno spazio diverso per essere diversi. Un ambito del quale il cittadino aveva bisogno. Come abbiamo noi, bisogno degli animali, anche per riconfermare la nostra umanità.

Ma la foresta che oggi si vuole deve essere invece sempre meno

«altra». Non deve essere estranea. Deve essere il contrario di ciò che era:

penetrabile, addomesticata, rassicurante

1

. Accogliente.

Quindi, un luogo di «degenerazione». Per chi vi entra e per lei mede- sima. Nel bosco non ci si introduce per riconfermare la propria umanità e i modi civili grazie all’assaporata diversità ma per essere riconfermati nei propri pregiudizi cittadini. Come la città, la foresta deve essere allora sicu- ra, comoda, organizzata, conoscibile e conosciuta. Senza veli, senza mistero.

Il mistero è rischio, fa paura.

La foresta non deve far cambiare. Non deve suggerire che forse c’è

1Non è da escludere che questa nuova visione sia influenzata anche dalla oggettiva pericolosità della città stessa (non tutta, d’accordo), sia dal punto di vista del rischio fisico che da quello della salubrità.

(5)

qualcosa di sbagliato, non deve rimettere in gioco. No. Deve dire invece:

Ma bravo passante! Va bene così.

Scrive ironicamente S

CHECKLEY

(prima edizione italiana del 1961) nel suo romanzo Status civilization:

Si addentrò nel bosco. Attorno sentiva il rumore degli animali e il cinguettio di invisibili uccelli, in mezzo alle piante, lontano, vide un cartello bianco con la scritta:

«Parco Nazionale di Forestdale. Gitanti e Campeggiatori sono i Benvenuti»

Barrent, anche se poteva benissimo immaginare che era assurdo pensare a un bosco vergine nelle vicinanze di un astroporto, provò un certo disappunto.

Anzi, su di un pianeta vecchio e progredito come la Terra, forse non c’erano più terre vergini.

«Buona sera» disse una voce vicino al suo orecchio.

Barrent balzò di lato e cercò di afferrare la pistola.

«Una serata incantevole» continuò la voce. Qui al Parco Nazionale di Forest- dale la temperatura è di venticinque gradi centigradi, umidità 23 per cento, barometro fisso su ventinove virgola nove. I vecchi campeggiatori, ne sono sicuro, avranno già riconosciuto la mia voce. Ai nuovi amanti della natura che sono tra voi, chiedo il permesso di presentarmi. Sono Quercia, la vostra vec- chia amica. A tutti, vecchi e nuovi, do il mio benvenuto in questo parco nazio- nale.»

«Le gioie della natura» continuò Quercia «sono alla portata di ognuno. Pote- te godere della solitudine completa, pur essendo a soli dieci minuti dai tra- sporti pubblici. Per quelli che amano la compagnia abbiamo giri turistici attra- verso le varie radure. Raccomandate agli amici questo Parco Nazionale. I veri amanti della natura potranno trovare ogni comfort.»

Nella pianta si aprì un piccolo portello e ne uscirono un sacco a pelo, un ther- mos, e una scatola di cibi.

«Vi auguro una piacevole serata» disse Quercia. «Godete le meraviglie della natura. Ora la National Symphony Orchestra diretta da Otto Krug vi farà ascoltare «Le radure dell’altopiano», di Ernst Nestrichala, incisione effettuata dalla National North American Broadcasting Company. La vostra amica Quercia vi saluta e augura la buona notte.

Da altoparlanti nascosti tra i rami giunsero le note della musica.

Barrent scosse la testa, poi, decidendo di prendere le cose come venivano, mangiò, bevve il caffè del thermos, e si coricò nel sacco a pelo.

...

Al mattino, la quercia amica gli fornì la colazione e tutto il necessario per radersi. Barrent mangiò, e dopo essersi lavato e rasato si incamminò verso la città vicina. Aveva in mente un piano ben preciso.

2

2La citazione testuale è tratta dalla riedizione effettuata a cura del Club degli Editori nel 1976, p. 325-326.

(6)

In questa lunga citazione, assolutamente profetica dato che negli Stati Uniti del 1960 non tutta la Natura era manipolata, ci sono tutti gli elementi per comprendere ciò che cittadini, amministratori e, purtroppo anche diverse categorie professionali, desiderano dalla foresta.

Un prolungamento alberato della città. Ben ripulito. Sicuro. Chiaro.

Noto.

Cosa era – invece – la Foresta? Era ed è – dovrebbe essere – anche un simbolo. Di contatto ed unione. Fra terra e cielo. Come l’Albero. Le sue radici e la chioma, specularmente contrapposti, rappresentano la continuità fra il sotto invisibile e il sopra percepito. La grande mano delle radici e che afferra e tiene, non solo in senso figurato, la terra e la chioma libera che si scuote al vento. Anche questo un ulteriore simbolo dell’Uomo e per l’Uomo.

L’animale che meglio personifica questa unione, questo rapporto, è il Cervo. I palchi poderosi che come le foglie cadono e sono poi ricostruiti sono foreste viventi e che si muovono.

Il potere simbolico del Cervo, animale da sempre legato alla foresta

3

è ben noto. È un animale guida, psicopompo

4

e solare nonché simbolo di rin- novamento (G

ALLONI

, op. cit., p. 88) che stabilisce il contatto con il sopra (i palchi). Il colore bianco di molti cervi dei miti e delle leggende è poi un segno palese della loro soprannaturalità (sempre G

ALLONI

, op cit., p. 90).

Molti eroi si perdono nella foresta inseguendo un cervo. E ne derivano profondi cambiamenti. Anche la femmina di cervo è un animale sacrale ed impersona il femminile senz’altro. Mircea Eliade (citato da G

ALLONI

) stabi- lisce ancora una connessione fra la caccia al cervo, il suo inseguimento e la fondazione di nuovi stati nonché la scoperta di nuovi territori.

3. I C

ERVIDI E LA FORESTA

Una foresta adatta al Cervo è una foresta iniziatica vera e propria. Il Cervo ha poche esigenze, ma queste sono grandi, estese. Molto spazio, in primo luogo. Secondariamente, nel paesaggio nazionale ed europeo, una buona copertura ed acqua.

5

È una specie impegnativa che nelle foreste col- tivate provoca gravi problemi.

D’altra parte è giusto ammettere che sono le foreste coltivate a creare i problemi. All’ecosistema. E allora, di chi è la colpa?

3Anche se, da un punto di vista paleontologico, il Cervo è una specie che si sviluppa nelle ampie praterie ricche d’erba e la conquista del bosco è, da parte sua, molto più recente.

4Nella mitologia, lo psicopompo è la guida delle anime dei defunti.

5Con qualche eccezione, per esempio i cervi scozzesi.

(7)

È molto significativo e la dice lunga sulla visione del bosco da parte di alcuni forestali assai influenzati dagli aspetti della... gestione fondata su una visione cartesiana e newtoniana: cioè riduzionistica e meccanicistica (C

IANCIO

e N

OCENTINI

, 1996, p. 230) che questa specie non sia per nulla desiderata e, quando possibile, ridotta ad aspetti vestigiali.

Ma il bosco non è un assieme di legname (forse, purtroppo) ancora in piedi. Come vorrebbe qualcuno della vecchia scuola.

Foreste e Cervo sono un binomio inscindibile. La «selva» e quindi il bosco per Cervidi, ché queste sono le specie, è un luogo che deve essere restituito al suo significato.

L’altra specie che entra nel nostro discorso è il Capriolo.

6

Il quale tut- tavia non ha antichi significati simbolici. Questa specie è inoltre spesso interpretata come un piccolo di Cervo grazie anche all’interpretazione effet- tuata da Walt Disney, sul testo originario dell’ungherese Siegmund S

ALZ

-

MANN

(in arte Felix S

ALTEN

, Bambi. Eine Lebengeschichte aus dem Walde, 1923). Ma Bambi è in realtà un Capriolo!

Un animale che è quasi l’esatto contrario del Cervo. Molto esigente per l’alimentazione lo è invece poco per spazio, copertura ed acqua. Per questi motivi ha attraversato ed attraversa tuttora un momento di notevole fortuna grazie all’abbandono e al conseguente rimboschimento naturale di molte zone sfruttate in passato dall’agricoltura e dalla zootecnia.

A

NDERSEN

et al. (1998) sottotitolano la loro monografia sul Capriolo così: La Biologia del Successo. E tale è stato.

Il Capriolo è il più bel regalo dell’abbandono.In tal senso, questa specie è un simbolo nuovo. Eppure, un bosco da Cervo non è esattamente un bosco da Capriolo in quanto decisiva è, per quest’ultimo, la frammentazio- ne a mosaico, la capillarità degli elementi diversificanti (radure, margini, incolti, siepi ecc.) e la ricchezza dello strato cespugliare.

E, nota importante, il Cervo è conflittuale nei confronti del Capriolo nel senso che limita fortemente la sua presenza, sino a ridurla ad aspetti non avvertibili.

Pur senza dimenticare che una foresta con cervi è meno rassicurante e

«assicurata» di una con caprioli, quest’ultima molto più accettabile per il forestale cartesiano, non va dimenticato che il Capriolo è der Hirsch des kleinen Mannes, il Cervo dei poveri e come tale oggi può e deve avere un significato simbolico.

6Il Cinghiale va considerato, come del resto suggerisce Dante, seppur erroneamente, una specie della macchia, della boscaglia, del forteto. Sempre Dante nel Canto XIII dell’Inferno: Non han sì aspri sterpi né sì folti / quelle fiere selvagge che ’n odio hanno / tra Cecina e Corneto i luoghi cólti.

(8)

Laddove è ricomparso ha cambiato gli atteggiamenti dell’Uomo. Da poche decine di soggetti alla fine della seconda guerra mondiale si è giunti oggi a più di 500.000, distribuiti senza soluzione di continuità dalle Alpi all’Appennino centrale. E questa riconquista, localmente lenta, altrove esplosiva, ha fatto percepire che la Natura potesse, ancora e in qualche modo, inselvatichirsi.

La prima categoria umana a cambiare è stata quella dei cacciatori.

Una circostanza abbastanza incredibile se si pensa che si tratta di un corpo alquanto tradizionalista e poco incline ad accettare il nuovo. In tutte le Regioni d’Italia, con due parziali eccezioni, questa specie è oggi cacciata in modo selettivo, una forma di caccia che significa osservare e valutare, prima di decidere. E quindi di avere un progetto non solo contingente ma anche di ampio respiro.

È vero, non sempre è così. Ma le differenze di questa nuova categoria con quella cui appartiene il cacciatore tradizionalista sono evidenti.

Il selettore pianifica e prevede, ma, in genere, non «mette ordine» e soprattutto, non ha la pretesa di farlo.

Il suo approccio è poco forzante (lo si nota appunto dal suo atteggia- mento con i cani) e sarebbe quindi ecologicamente e ideologicamente più vicino ad un apprezzamento dell’equilibrio naturale, disposto quindi ad accettare la presenza del Grandi Predatori.

Nelle cacce tradizionali

7

infatti, la spinta emotiva che induce a violare senza colpe la legge non scritta di non dare la morte (a un altro essere), è l’a- zione del cane.

È il cane l’intermediario che consente di trasgredire questo principio etico: Non Uccidere!

E quest’azione è un’azione leale, non insidiosa: il Cane, come il Lupo farebbe parte di un ordine naturale. Molti tradizionalisti, infatti, ritengono che solamente la caccia con i cani sia la vera caccia.

La spinta emotiva che consente al selezionatore «puro»

8

di abbattere è invece molto diversa.

L’effetto catalizzatore prodotto dalla cinotecnica è assente o ridotto alle fasi finali, come per esempio la ricerca con il cane da traccia.

9

7La caccia tradizionale per eccellenza è quella che viene effettuata con il cane, di diverse razze e specializzazioni. Il termine cinegetica, sinonimo dotto di caccia, esprime perfettamente il concetto.

8Intendendo in tal senso un cacciatore di soli Ungulati.

9Non deve essere sottovalutata l’importanza sostanziale del cane da traccia. Mossa da valuta- zioni pratiche e quasi «etiche» (non sprecare una risorsa, non far soffrire inutilmente) ha non in secon- do luogo un significato di riappropriazione dalla fase emotiva del rapporto con il cane, circostanza che chiude in un certo senso il cerchio delle passioni.

(9)

La caccia di selezione è appunto ricerca ed attesa, in silenzio, ascoltan- do i rumori del bosco e apprezzandone gli aspetti più remoti.

Come fanno Lupo e Lince.

In conclusione, mentre il cacciatore con il cane (tradizionalista) ritiene giusta e bella la sua azione in quanto ordinatrice del disordine naturale, il selettore è diverso.

Il selettore riceve meglio i valori connessi con la selvaticità della Natu- ra. È più vicino alla foresta come è e non come dovrebbe essere, secondo un suo punto di vista. Unilaterale.

Parafrasando una bella intuizione di C

IANCIO

e N

OCENTINI

(op. cit., p. 237) Occorre guardare alla Fauna non più come a una palestra per produr- re carni o divertimento, ma come a un sistema complesso il cui «disordine» è un «ordine» non compreso. Un sistema la cui vitalità e ricchezza è misurata dalla biodiversità. Ed è il Capriolo che ha provocato questo cambiamento e che sta migliorando la situazione venatoria nazionale. Non è poco.

4. I C

ERVIDI COME SIMBOLO ATTUALE

. I

L

C

APRIOLO

Vorrei ritornare ancora al significato moderno di queste due specie, una ancora legata ai suoi significati simbolici (il Cervo) l’altra per nulla affatto epperò ricca di nuovi e importanti stimoli. A cambiare.

Il Capriolo, si ripete, è sicuramente una specie poco conflittuale, molto apprezzata e parecchio tollerata. Questa tolleranza e, in non pochi casi, la notevole simpatia che si nutre nei suoi confronti hanno certamente origine nel modesto impatto che il Capriolo ha nei confronti delle attività produttive. Del resto, si tratta di un collegamento non casuale perché la ricolonizzazione del Capriolo è avvenuta proprio grazie all’abbandono della montagna, con ricostituzione di estesi ecotoni, assai vantaggiosi per questa come per altre specie.

A parte situazioni locali e puntuali, il Capriolo riscuote pertanto un notevole credito.

In tal senso la percezione del valore di questa specie è uniformemente diffusa in tutto il nostro Paese e in tutte le categorie.

Predomina tuttavia nei suoi confronti un sovraccarico di emozioni da parte della componente più cittadina, la quale, del resto, è quella che conosce di meno il Capriolo. Il mito di Bambi è importante: una circostanza oltremo- do curiosa (voluta da Salten) è che in lingua italiana Bambi richiama appunto bambino, cioè un piccolo di Uomo. Con tutti i possibili riferimenti emotivi.

Bambi è stato usato spesso in Italia (solo in Italia?) come arma impro-

pria dagli ambientalisti cioè come pretesto per vietare o chiudere la caccia

(10)

al Capriolo anche colà dove essa era ed è ben gestita. Da parte di tutti i movimenti verdi e ambientalisti. O quasi.

Non vorrei dare l’impressione di ironizzare sulle motivazioni di questo importante settore dell’opinione pubblica. Il punto che mi trova dissenzien- te è la confusione fra gli aspetti di conservazione e gli aspetti etici, propri di ogni rapporto fra comunità umana e animali. A mio giudizio è estremamen- te scorretto e dannoso non separare bene gli uni dagli altri.

I risvolti pratici vanno affrontati con la verità della scienza e della tec- nica. Un fatto va provato.

Gli aspetti etici sono più difficili da districare. Si può tentare di farlo, accettando di lavorare per una morale condivisa.

Purtroppo e con dispiacere, va ricordato che la tendenza prevalente è quella di mescolare, ad arte, la scienza, la tecnica e l’etica.

Nella conservazione non si può fare di peggio.

5. I C

ERVIDI COME SIMBOLO ATTUALE

. I

L

C

ERVO

Ma l’essere animale simbolico aiuta sino ad un certo punto.

Dipende dalle forze evocatrici che suscita. Se quelle negative prevalgo- no sulle positive, la partita diviene molto difficile, com’è il caso del Lupo.

Ma anche se la simbolicità è accattivante, conta piuttosto, e molto, la dura realtà. E il Cervo obbliga al realismo. Quando il Cervo arriva (se non c’era) o aumenta in modo notevole, e questo avviene spesso, è quasi la vita sociale di una comunità a dover cambiare. O a pensarci seriamente di doverlo fare.

Il Cervo provoca immediatamente una crisi. Il danno dovuto a investi- menti stradali è notevole e pone seri problemi anche sotto l’aspetto dell’inco- lumità fisica. L’assetto del territorio, il suo reticolo stradale sono messi in discussione: non si può ignorare che questi animali devono raggiungere in qualche modo i quartieri di svernamento.

E se ne sono impediti da recinzioni continue, com’è il caso dell’alta Val Venosta dove una barriera di diversi km, a difesa dei frutteti, blocca letteral- mente gli spostamenti da un versante all’altro?

E non basta: molti cervi, pochi caprioli. E danni al bosco.

Ancora: il Cervo si vede, molto. L’impatto ottico è notevole.

E allora viene quasi considerato un animale domestico: un bovino un po’ strano.

Le comunità montanare, alpine e appenniniche, non rifiutano il Cervo.

Ma hanno, tutte, e le differenze sono minime, il medesimo approccio pragmatico: troppi cervi (cosa vuol dire troppi?) non vanno bene. E allora:

preferibilmente, no. Niente cervi.

(11)

In questi casi gli aspetti simbolici non contano più nulla.

Se il Cervo rende la vita difficile, via il Cervo. Soprattutto se non c’è ancora.

Ho descritto più una tendenza che una realtà di fatto. Non sono poi tantissime le comunità ancora così coese sul bene comune.

Per gli albergatori per esempio, quando non possiedono un frutteto, molti cervi vanno anche bene.

È a questo punto impossibile penetrare nella complessità dei rapporti innescati dal Cervo. Nei suoi confronti prevalgono gli aspetti utilitaristici e difetta piuttosto il riconoscimento, in specie da parte delle comunità valli- giane, degli errori urbanistici e infrastrutturali commessi.

Dovrebbe metterci in crisi, ma in realtà nella crisi ci finisce lui, il Cervo, lo psicopompo traghettatore iniziatico.

6. U

NA SINTESI SUI VALORI SIMBOLICI

Sintetizzando, i valori simbolici nuovi e vecchi di queste due specie tipiche del bosco - boscaglia (il Capriolo) e della foresta (il Cervo), ritengo si possa affermare che:

Il Capriolo è una specie non simbolica, gradita a tutti, di grande impatto emotivo, attuale e moderno. È un possibile veicolo di sentimenti virtuosi ma anche proprio perciò, potenzialmente diseducanti, soprattutto nei confronti di cittadini. Di per sé tenderebbe ad un’immagine accattivan- te, buona e non selvaggia della natura. La circostanza non deve stupire per- ché è un Kulturfolger, cioè una specie favorita dalle modificazioni produtti- ve di un certo tipo. Va considerato quale animale formatore (di sensibilità ambientale – P

ERCO

, 1995) ma questa potenzialità va accuratamente dosata e prevista. È inoltre specie pioniera dell’immaginario selvatico. Attraverso il Capriolo la Natura è meno antropizzata. Il Capriolo è l’Amico Ritrovato.

Il Cervo è invece specie simbolica e simbolo essa medesima, carica di significati latenti e non consci. È connesso al senso alto del bosco, al suo mistero e alla sua riservatezza. Modernamente è visto tuttavia come un pro- blema da risolvere in un’ottica economicistico-venatoria di corto respiro.

Non può essere una specie formatrice senza aver risolto prima il problema della sua sopravvivenza, distribuzione ed abbondanza il ché significa anche, come detto, aver correttamente impostato strutture ed infrastrutture, con- nessioni faunistiche, ambiti estesi. La gestione del Cervo dovrebbe portare con sé ad una riflessione sul necessario ritorno dei Grandi Predatori.

Quanto il Cervo sopravviene, le persone sensibili si accorgono dei

propri errori e delle malefatte ambientali. Il Cervo è il Redentore Severo.

(12)

7. P

ER UNA

F

ORESTA CARICA DI SIMBOLI

Come deve essere una foresta da Cervidi, per rispondere alle poten- zialità educativo-formatrici di loro? Potrei rispondere. Senza Uomo. Ma sarebbe una sciocchezza.

Oppure, come sostengono molti: con divieti, segnalazioni. Di quello che è permesso o di quello che è vietato. Una svolta culturale.

10

Organizzare la fruizione, dicono questi perbenisti, non so se più ingenui o solo astuti. Rego- lamentarla. Insegnare. Ma soprattutto far fruire, di certo con le giuste regole, perché è la fruizione corretta la chiave per una corretta conservazione.

A dir il vero non si capisce per conservare che cosa.

Di per sé la fruizione è un utilizzo. Di per sé l’utilizzo significa consu- mo. Di per sé il consumo è una conservazione alterata.

Vediamone il paradosso. Organizzata la fruizione si è in grado di fer- marla, quando i fruitori sono tanti e i danni percepibili? La risposta è no, la fruizione è una strada di non ritorno. Una volta innescata un’abitudine non si possono imporre regole diverse. Che sarebbero ovviamente e giustamente divieti e limitazioni. Un’area fruita trasforma l’eccezione in regola, l’evento saltuario in normale, l’accesso casuale in tradizione. Le tradizioni sono invincibili, soprattutto, quando rispondono a pulsioni elementari. E la Natura, la Foresta sono un grande richiamo.

Ma a parte l’ineluttabilità della fruizione, del cui effetto valanga amministratori e progettisti fanno finta o non si avvedono proprio, il pro- blema è un altro.

Quali sono i vantaggi della fruizione?

Questo è il nodo. Questa la responsabilità.

Non intendo accennare ai vantaggi economici. Il turismo e anche l’e- coturismo hanno altre vie e altre regole. Quest’ultimo in particolare si fonda sì attente progettazioni, in Italia ignote, e su previsioni calibrate e adeguatamente monitorate.

I vantaggi di cui intendo parlare sono quelli culturali.

Gli amministratori sanno che non sarà prodotto un vero reddito. La fruizione è semplicemente una scollatura, appena appena un po’ più profonda, di una bella ragazza. Che resterebbe bella ed interessante anche se fosse un po’ più accollata. Ed ancor di più, qualora sorridesse, e meglio.

Meglio un bel sorriso che un abbigliamento volgare. E per la Natura.

10Chi sostiene la necessità di una svolta culturale dovrebbe sapere che non c’è più molto tempo.

Rinviare, come si dice, «alle scuole», la formazione di un nuovo cittadino significa prevedere la non riso- luzione del problema. Non credo sia una questione di ingenuità. Penso piuttosto ad una certa malafede dei patiti della necessità della svolta culturale iniziata da e nelle… scuole.

(13)

Meglio un aspetto naturale che la ripulitura di tutti i sentieri (le minigonne vertiginose), i cartelloni in piena foresta (il silicone), l’accesso permesso a chiunque, in qualsiasi modo (meglio non dire cosa).

8. L

A FRUIZIONE DANNATA

. E

CHE DANNA

Amministratori e progettisti pensano: Chi penetra in una foresta accre- sce, di per sé, la propria sensibilità. Entra animalescamente sbracato ed esce cittadino civile, conscio dei valori acquisiti.

Non è mai vero.

È invece reale l’opposto. Lo sgargiante e tonitruante Animale Umano penetra nel bosco e cerca di modificarlo per le sue necessità. Rifiuta l’insicu- rezza e la complessità della foresta. Vuole ordine, sentieri puliti, cartelli, indicazioni. Nulla lasciato al caso, tutti i misteri svelati. Nessun dubbio: per di qua si arriva Valleoscura, 30 minuti, osservare i faggi secolari (cartellino sui più belli). Accanto ad un fiore strappato, l’indicazione scolpita su una tabella di ferro (arrugginita): Paeonia officinalis, pianta protetta, cartina geo- grafica illeggibile per la scala, disegno bruttino, 100 righe di testo a corpo 10, qualche errore, colori sbiaditi, tacche, segni ed altre piccole lordure.

Ma tanto non lo legge.

E non lo leggerebbe, anche se fosse fatto bene.

E se lo leggesse i suoi valori non cambierebbero.

Perché?

Perché si è parlato alla testa e non al cuore.

Perché abbiamo tolto alla foresta il suo essere vero, la sua possibilità iniziatica. Il suo mistero, il suo fascino. Che è dato dalle cose da scoprire.

Aiutati, anche. Ma che ci sia una fatica. Uno forzo vero. Cercare di penetra- re in quella oscurità. Vedere e poi riflettere. Con un libro, con un esperto. E ritornarvi, accrescendo il piacere. E comprendere che ci sono altre cose da scoprire, tanto da vedere ancora e da osservare, sotto altri punti di vista.

Solo così è possibile penetrare nei valori arcani della foresta.

Perché, ancora? Perché abbiamo compreso le sue esigenze, i suoi diritti. Di rimanere tale.

Il bosco non è la casa dell’Uomo.

La foresta è disumana.

E tale deve ridivenire.

Accrescere la diversità del bosco. Questo è l’imperativo. Diversità da assumere in tutti i suoi significati, anche tecnici e selvicolturali.

Ma soprattutto, diversità dalle cose umane.

Non è forse un paradosso che la bestialità aumenti nei centri urbani in

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modo quasi correlato all’ammorbidimento dell’animalità della Natura? Per esser uomini non abbiamo bisogno forse del confronti con i nostri dissimili? E se o quando tutti gli animali e la Natura saranno mansuefatti, le bestie andran- no cercate e create fra gli uomini. Forse non ne siamo troppo lontani.

11

Parla della musica, certo, Joseph Freiherr von E

ICHENDORFF

(1788- 1857), quando descrive la Grundmelodie, la melodia fondamentale, che simile ad una misteriosa corrente attraversa il mondo e percorre, anche inav- vertita, il cuore dell’uomo. Ma in tutti i romantici la Musica e la Natura sono la medesima cosa.

N

OVALIS

(pseudonimo di Friedrich Leopold von H

ARDENBERG

, 1772- 1801), uno dei più intensi fra i promotori del movimento, afferma testual- mente: Bisogna romantizzare il mondo. Così se ne riscopre il significato origi- nario. E ciò significa conferire a ciò ch’è comune un senso più alto, al quoti- diano un aspetto misterioso, al noto la dignità dell’ignoto, al finito l’apparen- za dell’infinito.

Il suggerimento, applicabile nel nostro caso, non va inteso come il rifiuto della ricerca, di scoprire i profondi perché della Natura, quanto di non violare, nella pratica – e di questo si tratta! – la sua riservatezza.

Il senso di mistero e l’umiltà sono del resto il patrimonio dello scien- ziato che più indaga e più sa di non sapere. Abbastanza. Un processo conti- nuo. Di tensione verso l’ignoto.

Che si vorrebbe negare alla foresta umanizzandola e togliendole ogni velo.

Penso di aver chiarito a sufficienza il mio pensiero. È più che necessa- rio oggi, indispensabile anzi, restituire agli spazi naturali, qui la Foresta, il loro mistero.

Per farlo non occorrono i divieti.

12

Ma una diversa progettazione che vorrei definire quello di una Natura Parlante, che si esprime da sé. Senza cartelli ed indicazioni. Che favorisce la scoperta autonoma e quindi la valo- rizzazione delle proprie capacità. Da addestrare ed affinare.

Una Foresta che «parli» all’Uomo. Ma con il suo linguaggio «natura- le», che è necessario scoprire.

11Che la fruizione spontanea degli spazi naturali sia un problema drammatico in Italia non deve stupire. Rispetto ai confinanti (Slovenia, Austria, Svizzera e Francia), l’Italia ha la maggiore densità di popolazione (193 abitanti per kmq) a fronte del 35% del territorio sito in zone disagevoli (montagna). Se le possibilità di fruizione sono testimoniate – anche – dal numero di autoveicoli circolanti ogni 1000 citta- dini, va rilevato che, rispetto al 1955 questa cifra è aumentata di quasi 44 volte (da 13 automobili ogni 1000 abitanti a 570) ed è la più elevata al livello dell’Unione Europea.

12Del resto, del tutto inutili in Italia.

(15)

Nella pratica, riportare nella Foresta il Rispetto.

Ma il Rispetto è legato alla Paura.

La Foresta non deve essere accattivante: deve mettere in soggezione.

Ci si deve chiedere ogni momento se, forse, non si rischia un pochino a addentrarsi in essa.

La vile Spregiudicatezza, madre della Noncuranza e sorella dell’Oblio deve lasciar campo alla Paura.

I nostri boschi dovrebbero essere resi, oggi, meno sicuri. In realtà basterebbe renderli meno prevedibili e il pavido cittadino difenderà la Natura con le sue armi. A casa, allora, davanti al televisore.

A questo punto è giusto passare alle indicazioni concrete nella pro- spettiva di deumanizzare i boschi.

9. U

NA

F

ORESTA

«

DISUMANA

». E

QUINDI EDUCATRICE

Riprendendo un concetto già espresso da tempo sull’importanza non tanto del recupero degli ambiente naturali, in specie di quelli montani, ma del derecupero di essi (

PERCO

, 1987) perfettamente in linea con quanto oggi sostenuto da L

ATOUCHE

(2008), provo ad esplicitare una serie di suggeri- menti.

Desentierare. Molti sentieri vanno occultati. La penetrazione va impedita con elementi del paesaggio. L’errore è quello di mantenerli o ripristinar- li e stabilire dei divieti di accesso impossibili da far rispettare. Un sentie- ro va semplicemente cancellato. Per farlo, basta occludere fisicamente o schermare il suo accesso, lasciando alla natura il rimanente compito.

Deripulire. I sentieri e gli accessi, naturalmente. Sui percorsi vanno inseriti o lasciati ostacoli (tronchi trasversali anche all’altezza del petto, massi ecc) e asperità tali da impedire al frequentatore di camminare senza sapere cosa sta facendo.

Desegnalare. Non è affatto vero che la segnaletica è indispensabile. Ciò che esiste oggi è assolutamente più del troppo. Ed è sufficiente ad una per- sona normale per non perdersi. Più segnalazioni equivale a meno magia.

In una situazione virtuosa la segnaletica andrebbe tolta, lasciando al massimo la numerazione del sentiero (cfr. segnavie CAI, già eccessivi).

Cartelloni (il minimo veramente indispensabile) ed altro andrebbero inseriti solo alla periferia dei centri abitati. Una buona guida cartacea o umana farà il resto.

Desportivizzare. Lo sport, qualsiasi tipo di sport, cavallo, mountainbike,

parapendio, sci fuori pista e da fondo, ciaspole ecc, sono la negazione

della fruizione consapevole della Foresta, integrata nei suoi valori. Si

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tratta di esercizio fisico che vede nell’ambiente naturale una palestra più o meno adatta (e se non lo è si cerca di farla diventare) alla propria pas- sione. Da ultimo va ricordato che la denominazione «pista ciclopedona- le» è un ossimoro. O l’una attività o l’altra.

Deassicurare. Vanno evidenziati i pericoli ai quali si incorre penetrando nella Foresta. Ovviamente, solo ed esclusivamente nelle periferie dei paesi a contatto con gli ambiti naturali. In questa ottica anche l’eviden- ziazione di ingressi simbolici che rafforzino la diversità fra l’urbanizzato e il naturale è importante.

Develocizzare. Vanno rafforzate tutte le condizioni che fanno, letteral- mente, perdere tempo sia nel senso di far rallentare il percorso per go dere/osser vare meglio la Natura, che con il significato di non ammettere traversate veloci. Ciò significa quindi limitazioni alla stra- dalità e divieti di percorrenza con mezzi a ruote di qualsiasi tipo, chiudere «a tempo» determinati percorsi o strade, defacilitare e deri- pulire (cfr.) ecc.

Defacilitare. La penetrazione nella Foresta e, più in generale, in tutti gli ambienti naturali immuni dal significato di appendice urbana, deve essere resa poco agevole nel senso che va fatto – emotivamente – com- prendere che si tratta di un ambiente altro, con proprie regole, che richiede un approccio diverso.

10. C

ONCLUSIONI

Le suggestioni, in un certo senso insite negli ambienti naturali, ma qui soprattutto della foresta e dei boschi in generale, vanno modernamente recuperate.

Questo patrimonio non tanto più economico ma emotivo-formativo deve essere posto con forza all’attenzione dei pianificatori.

Buoni mezzi per farlo sono (anche) i Cervidi, per la suggestione che emanavano, sia come simbolo antico (il Cervo) che come «mito» moderno (il Capriolo). La Fauna selvatica osservabile possiede intrinsecamente un potere di immedesimazione che non va perduto, ma va utilizzato per la for- mazione di una «nuova» sensibilità.

Questo approccio non riguarda solo i cacciatori e i forestali, le tradi- zionali categorie di fruitori – utilizzatori di foreste e Cervidi, ma l’intero corpo sociale.

L’approccio attuale alle zone alberate è in sintonia con le «perversio-

ni» ideali dell’Uomo, una specie in grado di trasformare irreversibilmente

ciò che lo circonda (L

ANTERNARI

, 2003), con profonde conseguenze non

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solo sull’ecosistema ma anche della sua sensibilità ed emotività, del suo essere «umano».

Per tali motivi ritengo insufficiente, oggi, un’ulteriore individuazione di regole sia pure motivate e tecnicamente corrette. La strada è piuttosto quella della disumanizzazione, un percorso culturale, spirituale ed emotivo di apprezzamento della diversità com’è.

Solamente in tal modo la specie umana potrà «disumanizzarsi» nella Natura e riprendere, nella Selva, quel percorso iniziatico – quindi for - mativo – che ha oggi smarrito.

SUMMARY

«Inhuman» forests for deers

Forest, in the sense of large wood, gives shelter not only to Non Human Animals but also to the Human Animals that are very distant from forest ecosystem. Forests and Woods had in the past a deep symbolic significance and they were initiation places. Today, this power has vanished. Taking into account the ancient symbolic power of deer and roe, new but important, it will be necessary to reconsider forests as the suitable place for a new educational approach to Nature. When one goes into a

«Deer forest» it is necessary to «dehumanize» oneself and start again along the lost initiatory way. The paper presents some practical advices to move humanity back to its ancient link with Nature and Wilderness.

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