• Non ci sono risultati.

Parte terza. Imputabilità e neuroscienze.

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Parte terza. Imputabilità e neuroscienze."

Copied!
44
0
0

Testo completo

(1)

Parte terza. Imputabilità e neuroscienze.

1. Neuroscienze diritto penale.

Con il termine neuroscienze si è soliti delineare una particolare branca del sapere medico che si occupa di approfondire “l’insieme delle discipline scientifiche che studiano il sistema nervoso, con lo scopo di avvicinarsi alla comprensione dei meccanismi che regolano il controllo delle reazioni nervose e del comportamento del cervello. La neuroanatomia130, la neurofisiologia131, la neurofarmacologia132, la neurochimica133, la neurologia134 devono, infatti, essere studiate in un modo integrato e complementare per poter capire la complessità del cervello”.135.

Lo scopo delle neuroscienze è, pertanto, quello di individuare i meccanismi di funzionamento dell’apparato nervoso e celebrale umano, ricostruendo i processi cognitivi e chimico-elettrici che sovrintendono sia all’esecuzione dei movimenti corporali (consci e inconsci), sia alla realizzazione delle istanze decisionali.

Se il diritto e le neuroscienze, pur occupandosi dello stesso oggetto di indagine (che poi è il soggetto umano, i suoi moventi e la sua condotta) potessero continuare ad esercitare un magistero “parallelo”, non vi sarebbe ragione di indagare ulteriormente la questione: “alla scienza i fatti, al diritto i valori. Degli esseri umani si occupino le scienze, al diritto interessano le persone”.136.

In realtà, non si può non rilevare come le moderne neuroscienze cognitive rappresentino l’espressione di una visione complessiva della natura umana che in quanto tale, è destinata ad investire fin dalle fondamenta l’architettura concettuale del sapere giuridico,

130

Branca dell’anatomia che studia l’organizzazione anatomica del sistema nervoso.

131 Branca della biologia e della filologia umana che studia il funzionamento dei neuroni e delle reti neuronali.

Caratteristica peculiare di questa scienza è lo studio e il monitoraggio dell’attività elettrica delle singole cellule nervose e di strutture nervose più complesse.

132

Studio e sperimentazione di farmaci con indicazioni neurologiche.

133

Branca della biochimica che applica i propri metodi allo studio delle molecole e dei processi chimici implicati nel funzionamento del sistema nervoso.

134

Studio medico-anatomico del sistema nervoso.

135

Dizionario della lingua italiana on line WorldReference, Voce “Neuroscienze”.

136

Bianchi A., Neuroscienze e diritto: spiegare di più per conoscere meglio, in Bianchi A., Gulotta G., Sartori G., (a cura di), Manuale di neuroscienze forensi, Milano, 2009, XI.

(2)

costringendolo comunque ad un profondo ripensamento. Il riferimento comune, dunque, è il cervello, la cui struttura e funzionamento vengono indagati con i metodi propri delle scienze naturali. “Non più la comprensione dei rapporti tra cervello e mente, ma lo studio di come la mente emerga dal suo substrato biologico, il cervello appunto”.137

Nonostante il persistere di un lessico che implicitamente suggerisce l’idea che la mente sia un oggetto, la maggior parte dei neuroscienziati ritiene acquisito che la mente sia un processo derivante dall’attività cerebrale.

La mente, in parole povere, è ciò che il cervello fa. Se il cervello è ferito, anche la mente deraglia.

Le neuroscienze studiano, quindi, il sistema nervoso, analizzano la comprensione del pensiero umano, le emozioni ed i comportamenti biologicamente correlati, attraverso cui si manifesta o non manifesta lo stesso, utilizzando strumenti altamente scientifici, atti ad esaminare molecole, cellule e reti nervose.

Le tecnologie neuroscientifiche spiegano come funziona, si sviluppa e degenera il sistema nervoso. Gli studiosi del campo si chiedono cosa sia la mente, in che modo gli individui percepiscano le loro emozioni, quali siano le cause di disturbi neurologici e psichiatrici. Molte ricerche empiriche hanno dimostrato come il paradigma ed i metodi neurologici siano in grado di apportare significativi contributi alla comprensione di comportamenti rilevanti in ambito giuridico, quali lo sviluppo della maturità del minore nel giudizio e l’effetto del polimorfismo genetico predisponente ai comportamenti violenti ed aggressivi.

La neuropsicologia classica, come scienza descrittiva, si situa alle origini delle moderne neuroscienze. Già fin dal XIX secolo, infatti, eminenti neuropsicologici (Broca, Wernicke, Lichteim e così via) avevano cominciato a correlare il comportamento osservato con le lesioni cerebrali riscontrabili autopticamente post-mortem.

Ma è solo con l’avvento delle moderne tecniche di neuroimaging o imaging celebrale, in vivo, che le neuroscienze moderne hanno compiuto un balzo avanti, potendo finalmente esplorare con accuratezza il funzionamento cerebrale normale durante l’esecuzione di compiti controllati.

In quest’ultima fase del loro sviluppo, le neuroscienze hanno gradualmente assimilato i modelli messi a punto negli ultimi trent’anni, dalla psicologia e dalla neuropsicologia

(3)

cognitiva, discipline che avevano a loro volta profondamente rinnovato lo studio dei fenomeni mentali, rispetto ai tradizionali paradigmi di derivazione comportamentista, fenomenologica e psicodinamica138.

Lo sviluppo delle neuroscienze è stato particolarmente intenso a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, ed intorno al 2002 si è sviluppata la consapevolezza della necessità di un’organica riflessione etica sulle neuroscienze, con il diritto che di lì a poco ha seguito a ruota. “Il rapporto tra neuroscienze e diritto sembra così essere passato, nel giro di pochi anni, dallo stato di accostamento esotico o controverso (innovativo soprattutto per la novità delle neuroscienze, una disciplina nuova e ancora un po’ misteriosa al grande pubblico) a quello di argomento di cui è gioco forza parlare, visto che investe concetti come quelli di libero arbitrio e di concezione monistica o dualistica dell’individuo, che inevitabilmente hanno a che fare con il mondo delle norme sociali che regolano sanzioni e responsabilità umane: il diritto, appunto”.139.

Una nuova generazione di tecnologie conosciute con il nome di Brain imaging ha permesso di “vedere” il cervello in azione, di “vedere” come funziona la mente, di fare luce sulle radici biologiche dei comportamenti e delle scelte.

In pochi anni, tecniche come la Tomografia ad emissione di positroni 140(Pet) e la Risonanza magnetica funzionale141 (FMRI) hanno permesso di conoscere, in modo

138

Il percorso logico comune a tutte le neuroscienze cognitive è grosso modo il seguente: risalire all’indietro dall’esperienza fenomenica e dal comportamento (tradizionali oggetti di indagine delle vecchie scienze della mente) verso componenti elementari misurabili, chiamati endofenotipi, e da questi ai rispettivi correlati neurobiologici (anatomici, fisiologici, biochimici, ecc.) ed infine ai determinanti genetici, esplorandone a fondo i meccanismi di funzionamento molecolare. Oltre che al cervello ed ai geni, molta importanza viene pure attribuita all’evoluzione, cioè ai processi regolatori che presiedono all’emergere e sopravvivere delle specie viventi.

Le neuroscienze non negano l’importanza dei fattori culturali, educativi ed ambientali che sono all’opera nel modellare e rendere unica la storia individuale di ciascuno. L’approccio neuroscientifico sottolinea che il ruolo dei fattori epigenetici è comunque vincolato dalla struttura biologica con cui interagisce.

Non si può negare che importanti ricerche empiriche hanno dimostrato come il paradigma ed i metodi neuro scientifici siano effettivamente in grado di apportare contributi alla comprensione dei comportamenti rilevanti in ambito giuridico.

139

Santossuosso A., Le neuroscienze e il diritto, Pavia, 2009, pag. 13.

140Metodica di diagnostica per immagini. L’esame si basa sulla somministrazione di radio farmaci, caratterizzati

dall’emissione di particelle chiamate positroni. Le indagini di medicina nucleare, come la PET, prevedono la

somministrazione di una piccola quantità di una sostanza radioattiva (radio farmaco), al fine di indagare le caratteristiche funzionali degli organi e degli apparati nei quali il radio farmaco si localizza. Dopo essere stato somministrato per via endovenosa, il radio farmaco si distribuisce nel corpo del paziente permettendo di ottenere delle immagini diagnostiche, che possano essere interpretate dai medici specialistici. L’acquisizione delle immagini avviene attraverso l’utilizzo di una macchina che registra le radiazioni che escono dal paziente in seguito alla somministrazione e dell’accumulo del radio farmaco. Tratto da humanitas.it

141

Tecnica diagnostica di rappresentazione grafica, che permette di valutare la funzionalità di un organo o un apparato del corpo umano. Questa tecnica consente di visualizzare la risposta emodinamica (cambiamenti del contenuto di ossigeno dei capillari e del parenchima, ossia il tessuto che compone la massa principale, attiva e funzionale di un agglomerato cellulare, parte di un organo o organo in toto.) correlata all’attività neuronale del cervello o del midollo spinale, nell’uomo o in altri animali. È noto, infatti, che le variazioni del flusso sanguigno e dell’ossigenazione sanguigna nel cervello sono strettamente correlate all’attività neurale: quando le cellule nervose sono attive, consumano l’ossigeno trasportato dall’emoglobina degli eritrociti che attraversano i capillari sanguigni locali. Effetto di questo consumo di

(4)

scientificamente oggettivo, cosa succede quando pensiamo, leggiamo, guardiamo, ricordiamo e così via. Completate le mappe delle funzioni motorie e sensoriali, i ricercatori sono passati all’area deputata alle funzioni superiori (la corteccia prefrontale) dove risiedono, ad esempio, le capacità di esprimere giudizi, di prevedere le conseguenze e controllare gli impulsi. È palese l’interesse di questo nuovo sapere per tutti coloro (magistrati, avvocati, consulenti, ecc.) che collaborano nell’ambito della giustizia.

Da quanto detto fin ora, appare chiaro come un grande ambito di applicazione delle neuroscienze è rappresentato dalle problematiche connesse all’imputabilità.

In effetti, come abbiamo visto nei capitoli precedenti, il paradigma su cui si fonda la responsabilità penale è dato dalla verifica del libero arbitrio, della colpevolezza ed imputabilità del soggetto agente, sempre che egli abbia agito con coscienza e volontà. Proprio su questo punto si inseriscono le neuroscienze, le quali possono aiutare la dottrina e la giurisprudenza a capire quando l’individuo sia veramente libero e responsabile delle proprie azioni o piuttosto determinato nel suo agire.

L’esperto chiamato a valutare il vizio di mente deve pronunciarsi su quanto il libero arbitrio sia conservato o quanto eventualmente la malattia lo abbia ridotto in modo significativo.

Dunque, quali implicazioni possono avere in ambito forense le nuove conoscenze scientifiche sul cervello umano? Quali ausili offrono al perito psichiatra chiamato ad esprimersi sulla capacità di intendere e di volere e sulla pericolosità dell’imputato?

I neuroscienziati, in particolare, pongono la questione nei seguenti termini: se l’aggressività è riconducibile a precisi circuiti nervosi, è possibile che un’alterazione congenita, morfologica o funzionale degli stessi possa portare ad un comportamento abnorme che sfugga al controllo intenzionale dell’individuo, pur non essendo riconducibile a nessuna patologia accertata? È possibile parlare di libero arbitrio se la genetica molecolare ha individuato con certezza un certo allele, che aumenta in maniera significativa la spinta verso situazioni estreme, fuori dunque, dalla legalità?

La finalità, data dal rapporto multidisciplinare tra medicina, diritto ed etica, in quest’ottica è rivolta alla valutazione dell’imputabilità, al suo allargamento o restringimento, ai fini

ossigeno è un aumento del flusso sanguigno nelle regioni ove si verifica maggiore attività neurale. La FMRI utilizza le proprietà magnetiche dei nuclei degli atomi costituenti la materia e il nostro corpo. I segnali di risonanza delle molecole magnetizzabili vengono misurati mediante l’aiuto di campi magnetici ed onde radio.

(5)

della determinazione in concreto del trattamento sanzionatorio, più idoneo a tutelare lo Stato, l’individuo e la collettività.

Si vuole, pertanto, indagare sulla capacità di intendere e di volere del soggetto che pone in essere una condotta attiva od omissiva da cui dipenda l’esistenza del reato.

In realtà, come ha evidenziato la Corte di Cassazione nella già richiamata sentenza Raso, lo stesso legislatore, nel disciplinare l’imputabilità, scegliendo la tecnica della normazione sintetica, ha reso, di fatto, il ricorso a metodologie estranee al diritto penale parte integrante del giudizio di imputabilità.

Stabilire se un soggetto è capace di intendere e di volere soggiace ad una valutazione integrata del giudice, che applica la norma ex art. 85 c.p. e dell’esperto in materia, sia egli psichiatra, psicologo o neuroscienziato, che dimostri come l’infermità mentale alteri la capacità rappresentativa e volitiva del soggetto, autore della fattispecie criminosa. Giudice e scienziato, pertanto, lavorano insieme l’uno per l’altro. Il primo definendo le regole della sua discrezionalità altrimenti detta libero convincimento; il secondo stabilendo, in primo luogo, lo stato mentale in cui versava il soggetto agente al momento della commissione del fatto e, a seguire, se esso possa aver influito in maniera determinante o, da ultimo, deterministica, sulle sue capacità di discernimento o controllo degli impulsi, poi materializzatisi in azioni od omissioni penalmente rilevanti.

Le tecniche scientifiche oggi disponibili consentono un’analisi approfondita del cervello umano e queste hanno reso possibile la formulazione di alcune ipotesi di connessione tra attività fisiche e attività mentali: in termini generali si può dire che se i processi mentali assumono rilievo ai fini giuridici, l’individuazione e l’accertamento del loro correlato neurale può essere un’efficace prova di essi.

All’interno della definizione in senso lato delle neuroscienze, ed in particolare di quelle che possono definirsi “neuroscienze giuridiche”, si ricomprendono le più diverse ricerche neuroscientifiche aventi un’applicazione giuridica diretta od indiretta.

In realtà, non è facile distinguere all’interno della citata materia le diverse applicazioni e categorie che man mano con il progredire della scienza si manifestano.

(6)

Un primo esperimento di organizzazione delle diverse ricerche sembra potersi strutturare secondo tre categorie fondamentali:142

a. Le neuroscienze forensi (la prova neuroscientifica nel processo);

b. Le neuroscienze criminali (lo studio neuroscientifico del soggetto criminale);

c. Le neuroscienze normative (lo studio neuroscientifico del “senso di giustizia” e del ragionamento morale).

Le prime si occupano dei dati neuroscientifici rilevanti ai fini della valutazione giudiziaria: in altri termini, dell’idoneità delle teorie e delle metodologie della neuroscienza a costituire valida prova scientifica all’interno del processo.

Il tema assume un valore culturale oltre che strettamente tecnico-giuridico: esso si inserisce all’interno del più vasto dibattito sul ruolo della scienza nei processi, dibattito che, per quanto riguarda le “scienze del comportamento”, assume valenze del tutto peculiari. I rapporti tra diritto e psichiatria si sono storicamente caratterizzati per un reciproco movimento di legittimazione: il diritto che cerca nelle scienze psichiatriche un fondamento di giustificazione razionale, e queste ultime che trovano nel riconoscimento giuridico un momento di legittimazione come scienze “mature”.

Le neuroscienze criminali, invece, rappresentano lo studio del fenomeno criminale attraverso le nuove metodologie delle neuroscienze. Queste ricerche possiedono un focus diverso, anche se sovrapponibile, rispetto alle precedenti neuroscienze forensi.

L’obiettivo è quello di disegnare una geografia neuro-comportamentale del soggetto criminale; esse ricercano le caratteristiche corporee (e dunque neurologiche) costanti e determinanti dell’agire criminale143. Si consideri che nella misura in cui si pongono in relazione necessitante le “caratteristiche cerebrali” con modelli di comportamento antisociale, si riaprono implicitamente tutte le questioni relative al determinismo biologico della criminalità: “it is not him, it is his disease”.

142

in Bianchi A., Gulotta G., Sartori G., (a cura di), Manuale, cit., 17. Gli Autori precisano che trattasi di una partizione sommaria e nella quale ci sono fortissime aree di sovrapposizione (lo studio neuroscientifico del soggetto criminale coinvolge sia la ricerca genetica che le modalità di rappresentazione in giudizio; lo studio neuropsicologico dei “giudizi normativi” coinvolge, per stessa impostazione metodologica, sia soggetti normali –il normale senso di giustizia- che soggetti criminali –l’eventuale senso di giustizia patologico – ecc.): tuttavia resta l’importanza che una disciplina giovane (la psicologia giuridica appunto) sappia fare tesoro delle esperienze acquisite ed organizzare quindi l’apporto di conoscenza al mondo del diritto secondo una chiarezza sistematica che renda possibile e non equivoca l’interazione a tutti i livelli.

143

Si può citare l’esempio delle immagini funzionali nei soggetti antisociali ove sono state evidenziate chiaramente delle disfunzioni dei lobi temporali e frontali. Studi con la PET hanno mostrato l’esistenza di associazioni tra un ridotto metabolismo nella corteccia frontale e storie di comportamento ripetutamente violento, vite con storie di aggressione e di omicidio.

(7)

Attribuire al disease la causa del crimine significa, come già sostenuto dalla Scuola Positiva, escludere il principio di responsabilità e la funzione retributiva della pena.144 Il delinquente, vittima esso stesso della malattia che lo induce al delitto, va messo semplicemente nelle condizioni di non nuocere ed eventualmente di essere curato. Per questi motivi le neuroscienze criminologiche appaiono culturalmente ambivalenti: se da un lato le moderne tecnologie sembrano aprire nuovi orizzonti di comprensione del fenomeno criminale, dall’altra le conseguenze che esse proiettano sul piano del diritto e della criminologia sono tutt’altro che inedite.

Alcuni, non a caso, parlano di “neo-lombrosismo”: differenti sono le metodologie di individuazione dei deseases del criminale (neuroimaging anziché la craniometria), ma sostanzialmente analoghe le conseguenze sul piano giuridico. Come conseguenza centrale di una criminologia biologicamente fondata ed implicitamente neuro-riduzionista, si ha la messa in crisi del libero arbitrio del soggetto criminale come fondamento dei sistemi retributivistici.

Vale la pena accennare che esiste una tradizione di ricerca che si potrebbe definire della “neuroscienza del libero arbitrio”. Essa, infatti, indagando le componenti neuropsicologiche più specifiche dell’agire deliberato, si pone su un piano ancora più a monte rispetto alle applicazioni dirette.

La neuroscienza del libero arbitrio procede all’analisi minuziosa dei rapporti tra intenzione, coscienza dell’azione e processi di controllo, sia nei soggetti sani (la fisiologia del libero arbitrio), che nei soggetti portatori di disturbi mentali (la patologia del libero arbitrio). Può così parlarsi di neuroscienze dell’azione imputabile: avere una rappresentazione della normalità del “volere” permette di avere una base di riferimento per i confronti con la patologia nella quale ricondurre le ipotesi di “non imputabilità per assenza della capacità di volere”.

In ultimo, le neuroscienze normative145 includono ricerche eterogenee accomunate dal ruolo “metagiuridico” che esse possono svolgere: non è sfuggito alla letteratura più attenta,

144

Cfr. prima parte.

145 Occorre distinguere il concetto di “neuroscienze normative” da quello di “neuroscienze legislative”. Le prime, infatti,

si riferiscono allo studio, attraverso i metodi delle neuroscienze, del senso di giustizia in generale e dei meccanismi neuropsicologici attraverso i quali si struttura la costruzione spontanea di una norma giuridica e del rispetto verso quest’ultima; le seconde si riferiscono, invece, agli eventuali contributi dati dalle neuroscienze alla stessa genesi legislativa di una norma giuridica (si pensi all’eventualità, di cui sopra, di un’eliminazione di sistemi retributivistici della pena in nome di una visione neuro deterministica dell’agire criminale).

(8)

infatti, che lo studio neuroscientifico dei giudizi normativi e della cognizione morale si inserisce direttamente nell’annoso dibattito tra “giusnaturalismo” e “giuspositivismo”. In questa macrocategoria si possono così includere sia le ricerche di carattere normativo che le ricerche relative alla neuropsicologia dei meccanismi attributivi e delle modalità con cui viene costruita la responsabilità individuale nell’interazione sociale.

Gli attuali dati provenienti da studi effettuati con la FMRI supportano una teoria del giudizio morale secondo la quale nei compiti di giudizio morale si realizza una dinamica interattiva tra processi cognitivi e processi emozionali146.

Si può affermare che, al di là delle più immediate applicazioni forensi, la vera sfida intellettuale delle neuroscienze giuridiche sta proprio nel tentativo di confronto tra i modi di ragionare scientifico e le esigenze dell’agire pratico e, in un certo senso, spontaneo del diritto e della società.

Appare opportuno, giunti a questo punto, una breve panoramica delle più importanti e recenti tecniche neuroscientifiche:

Neuroimaging

Abbiamo già accennato come lo sviluppo di questo settore scientifico sia stato sospinto proprio dalla creazione e applicazione delle tecniche di neuroimaging.

146

Vengono utilizzati due tipi di giudizi morali: quelli che chiamano morali personali (guidati principalmente da risposte socio-emozionali) e quelli definiti morali impersonali (retti da processi cognitivi di carattere più neutro, in potenziale contrasto con quelli affettivi o emozionali). Questi diversi tipi di giudizio morale sono stati analizzati attraverso un disegno sperimentale in cui veniva chiesto ai soggetti di risolvere diverse situazioni problematiche. In particolare, sono stati proposti un dilemma morale impersonale (un treno fuori controllo procede verso cinque persone che saranno uccise se il treno non verrà deviato in qualche modo. L’unica maniera per salvare queste cinque persone è premere un

interruttore che porterà il treno su un altro binario, dove però ucciderà una persona al posto di cinque. Devieresti il treno per salvare cinque persone alle spese di una soltanto?) e un dilemma morale personale (un treno minaccia di uccidere cinque persone investendole. Tu ti trovi vicino ad uno sconosciuto di grossa stazza su una passerella che attraversa i binari, a metà strada tra il treno in corsa ed i cinque malcapitati. L’unico modo per salvarli è spingere giù di sotto dal ponte lo sconosciuto sui binari. Facendo in questo modo lui morirà, ma il suo corpo fermerà il treno e gli altri cinque sopravvivranno. Condanneresti a morte la sua vita per salvare quella degli altri cinque?). In tali ricerche si è potuto dimostrare che nel corso delle risoluzione dei dilemmi morali personali nei soggetti sperimentali aumentava l’attività di quelle aree del cervello che sono solitamente associate con le emozioni e la cognizione sociale (corteccia prefrontale mediale, giro cingolato posteriore, amigdala). Mentre le aree cognitive del cervello associate con il ragionamento astratto e con il problem solving mostravano un aumento dell’attività quando i soggetti valutavano i dilemmi morali impersonali. Il fatto che i tempi di risposta fossero in media più lunghi nelle prove in cui i partecipanti giudicavano come appropriate le violazioni morali personali, avvalorava l’ipotesi che ci fosse un conflitto sottostante tra fattori emozionali e processi di controllo cognitivo (ossia un contrasto tra argomenti di tipo utilitaristico e argomenti di carattere relazionale-emotivo). Non venivano, infatti, osservati effetti comparabili nei giudizi morali impersonali. Sembra evidente che quando i partecipanti rispondono in modo utilitaristico (giudicando accettabile una violazione morale personale in cambio di un significativo vantaggio personale), coinvolgono non solo il ragionamento astratto, ma anche i meccanismi cognitivi di controllo-inibizione per controllare le risposte socio-emozionali stimolate da questi dilemmi.

(9)

Tali tecniche permettono di ricostruire tridimensionalmente le struttura e la funzione del cervello, producendo, attraverso calcoli elaborati, le c.d. “neuro immagini”. Il modello alla base di queste tecniche è quello secondo cui i neuroni, per potersi scambiare informazioni trasmettendo scariche elettriche attraverso le connessioni sinaptiche, necessitano di un’energia che, nel cervello, è prodotta bruciando glucosio con ossigeno. Poiché glucosio ed ossigeno sono trasportati dal sangue là dove c’è necessità (c’è quindi lo scambio sinaptico dei neuroni) ecco che in quella regione del cervello vi sarà maggiore afflusso di sangue. Oggigiorno il consumo di glucosio ed il flusso ematico nelle diverse strutture corticali e sottocorticali possono essere misurati con notevole risoluzione temporale e spaziale e con tecniche non invasive, da metodologie di esplorazione funzionale del cervello, quali in particolare la Tomografia ad Emissione di Positroni (PET)147 per il consumo di glucosio e la Risonanza magnetica funzionale (fMRI)148 per il flusso ematico; quest’ultima è la tecnica maggiormente usata negli studi sperimentali in quanto utilizzata anche in prove relative a compiti cognitivi molto complessi e di particolare rilievo quali prendere decisioni, mentire, rispettare o meno le convenzioni morali e sociali.

Altre tecniche attualmente in uso ed in corso di sviluppo sono la Tomografia Computerizzata (TC)149, la Risonanza Magnetica (RM)150, la Tomografia ad Emissione di Fotone singolo (SPECT)151.

Lo studio dell’amigdala e delle regioni prefrontali

L’amigdala fa parte di un sistema di collegamento tra sinapsi che agisce sotto l’impatto di forti stimoli sensoriali (es. pericolo). Sono di particolare interesse le interazioni tra le regioni del cervello in cui vengono generate le emozioni (l’amigdala appunto) e le regioni prefrontali responsabili della ragione.

147 Vedi supra nota 140. 148

Vedi supra nota 141. Quest’ultima viene indicata dagli scienziati ed esperti come la tecnica con più alto grado di affidabilità (superiore al 90%) nell’identificazione delle attivazioni neuronali nel momento in cui viene affermato il falso dal soggetto analizzato, sulla base della scoperta che quando si mente, il cervello lavora di più, attivando due aree in particolare: la corteccia frontale dorso-laterale e la corteccia cingolata anteriore. Ciò potrebbe offrire un’efficace azione

lie-detection.

149

Metodica diagnostica per immagini, che sfrutta radiazioni ionizzanti (raggi X) e consente di riprodurre sezioni o strati corporei del paziente ed effettuare elaborazioni tridimensionali. Per la produzione delle immagini è necessario

l’intervento di un elaboratore di dati.

150

La risonanza magnetica nucleare è una tecnica di indagine sulla materia basata sulla misura di campi magneti e onde radio, che fornisce immagini dettagliate del corpo umano.

151

Tecnica diagnostica, molto simile alla radiografia, basata sull’utilizzo di radiazioni ionizzate (raggi gamma), in grado di fornire dati biotopologici in 3D.

(10)

Peraltro, un’indagine di questo tipo potrebbe aiutare nella verifica delle dichiarazioni rilasciate da testimoni o addirittura essere utile agli avvocati ed al giudice nella scelta di una giuria, ove spesso le componenti sociali che determinano le convinzioni ed emozioni di un potenziale giurato nell’approccio ai diversi casi hanno un forte impatto (nei sistemi di common law).

Le tracce della memoria: l’ippocampo.

L’ippocampo permette di mantenere traccia, coscientemente recuperabile, delle proprie esperienze attraverso la c.d. memoria a lungo termine.

Le conclusioni di un’esperienza lasciano traccia e diventano recuperabili nel momento in cui si attiva la cosiddetta “memoria di lavoro” e possono poi regolare l’azione mediante le conclusioni dell’esperienza.

In ambito processuale questa tecnica potrebbe avere un forte impatto nel riconoscimento del responsabile di un reato, da parte delle vittime, il cui volto viene spesso dimenticato a causa dello stato di shock in cui si incorre in seguito ad un forte trauma, ma anche per capire se la negazione del reato da parte di un imputato, ad esempio, corrisponda con l’effettiva estraneità alla vittima.

Le tracce della memoria: il Brain Fingerprinting.

Scienza forense che utilizza l’elettroencefalografia (EEG) per determinare se le informazioni specifiche sono memorizzate nel cervello di un soggetto. Lo fa misurando le risposte elettriche celebrali a parole, frasi o immagini presentate su uno schermo di un computer.

Il metodo si basa sulla rilevazione di onde celebrali, chiamate p300, attraverso elettrodi posti in corrispondenza del cranio della persona da analizzare: a fronte di determinati stimoli forniti al soggetto, l’apparecchio misura ed analizza al millesimo di secondo l’andamento dell’attività elettrica nel cervello quando questo reagisce a qualcosa che riconosce.

La tecnica, non invasiva, ha evidenziato una percentuale prossima al 100% nell’esattezza e verificabilità del risultato conseguito e si ritiene che questo metodo possa rivestire un’importanza decisiva nella lotta al terrorismo e nell’individuazione di eventuali colpevoli del reato.

(11)

Parallelamente al perfezionamento delle tecniche di indagine cerebrale, vi è stato un avanzamento nella costruzione di test neurocognitivi che sempre più accuratamente permettono di studiare i meccanismi psicologici e cerebrali sottostanti le funzioni di interesse. La messa a punto di compiti cognitivi sempre più sofisticati ha permesso di affrontare argomenti tradizionalmente considerati intrattabili dal punto di vista scientifico, quali l’empatia, i valori morali, le scelte razionali, le scelte emotive e così via. Questo permette di valutare in modo quantitativo la presenza della simulazione-dissimulazione, della capacità di pianificazione, di comprendere e provare emozioni, delle abilità di ragionamento e giudizio morale mediante un esame neuropsicologico mirato.

L’utilizzo di queste tecniche di neuroimaging ha reso così possibile andare ben oltre lo studio delle tematiche tradizionali delle scienze cognitive (linguaggio, memoria, attenzione, ecc.) e di affrontare, con un approccio empirico, tematiche che una volta erano esclusivamente riservate alla speculazione filosofica, quali il libero arbitrio, il ruolo delle emozioni nelle scelte e nei processi decisionali.

Stabilita, quindi, una correlazione anatomica e funzionale tra un’elaborazione mentale, giuridicamente rilevante e l’attivazione di una determinata regione cerebrale, sarà possibile introdurre nel processo una prova di disfunzionamento cerebrale a sostegno della non esistenza della corrispondente attività mentale?

Questo lo snodo fondamentale.

In giurisprudenza l’applicazione delle neuroscienze al tema dell’imputabilità è un approdo recentissimo. È nota la pronuncia del Tribunale di Como datata 20 maggio 2011152, nella quale il giudice ha riconosciuto l’esistenza di un vizio parziale di mente – e, come tale, idoneo a giustificare una diminuzione della pena – anche sulla base delle risultanze derivanti da uno studio sul soggetto reo svolto attraverso lo strumento del c.d. imaging cerebrale.

La difficoltà della giurisprudenza di legittimità ad aprirsi a tale disciplina è, tuttavia, evidente ed emerge in molte sentenze.

Occorre inoltre considerare che la tecnica dell’imaging celebrale appare idonea a determinare una modifica nello stesso concetto giuridico di infermità mentale in quanto, “nel cervello del soggetto sano e in quello del soggetto disturbato queste funzioni opererebbero in modo diverso, per cui il secondo non riuscirebbe a bloccare le risposte

152 Gip Como, 20.05.2011, in Guida al diritto (on line), 30 agosto 2011, con nota di P. MACIOCCHI, Gip di Como: Le

(12)

automatiche. Accade, pertanto, che soggetti con un lobo frontale mal funzionante possano più facilmente commettere illeciti, anche se non esposti ad ambienti particolarmente sfavorevoli, ovvero che, in presenza di una certa componente genetica, eventi traumatici possano generare reazioni aggressive altrimenti non verificabili. In questo modo è possibile distinguere stabilmente fra un soggetto infermo ed uno normale, ma anche operare una differenziazione all’interno dello stesso tipo di disturbo, ad esempio tra schizofrenici violenti e schizofrenici non violenti, ecc.; come pure tra un grave disturbo di personalità ed uno lieve, essendo presenti solo nel primo i correlati microstrutturali evidenziabili alla c.d. Voxel-Based Morphometry (VBM)”153.

L’utilizzo di metodologie d’indagine tanto innovative è stato osservato con grande interesse da parte della dottrina processual-penalistica, che risulta divisa in tre correnti. Secondo una prima corrente di pensiero, l’influsso del sapere neuroscientifico sarebbe in grado di snaturare la fisionomia del processo penale, trasformando l’imputato da soggetto di giudizio a oggetto di indagine processuale. Tale opinione, infatti, ritiene che la forza pervasiva dell’indagine sul dato reale finirebbe per cooptare la centralità del giudizio giuridico-normativo sotteso all’istituto dell’imputabilità, determinando un impoverimento della dogmatica ricostruttiva del reato idonea a ripercuotersi anche in sede applicativa e, più specificamente, processuale.

In base ad altra impostazione, invece, l’influsso delle neuroscienze andrebbe ridimensionato: esse, infatti, costituirebbero soltanto uno strumento deputato all’osservazione e all’acquisizione del dato empirico, e, come tali, rileverebbero, prevalentemente in ambito probatorio e nel campo delle indagini giudiziarie.

Secondo una terza opinione, fatta propria dalla pronuncia del Tribunale di Como, il sapere neuroscientifico opererebbe su un duplice livello, consentendo, da un lato, una più consapevole recezione del dato materiale in ambito processuale, e, dall’altro, l’acquisizione di un’evidenza obiettiva in grado di circoscrivere gli ampi margini di discrezionalità insiti nei tradizionali metodi di indagine e di valutazione degli elementi probatori154. Non si tratterebbe, pertanto, di introdurre nel processo penale criteri deterministici da cui inferire automaticamente che ad una certa alterazione morfologica del

153

Cit. Collica M.T., Il riconoscimento del ruolo delle neuroscienze nel diritto penale, in Diritto penale contemporaneo, pag. 10.

(13)

cervello conseguono certi comportamenti e non altri, ma di ricercare le possibili correlazioni fra le anomalie fisiche presenti in certe aree del cervello e il rischio di sviluppare comportamenti aggressivi, antisociali o socialmente inaccettabile. In tale prospettiva, la lettura in esame giunge ad affermare che il valore del contributo reso dalle neuroscienze al diritto penale consisterebbe non nel giustificare l’adozione di schemi deterministici nella ricostruzione del legame causale fra la patologia mentale e il reato commesso, ma nel dare una rappresentazione più precisa dell’infermità mentale dell’imputato.

Resterebbe al giudice, quindi, come predicato dalle Sezioni Unite, sia il giudizio sull’intensità e la gravità della patologia, sia il sindacato sul processo motivazionale che ha portato alla commissione del reato.

Senza dubbio, come evidenziato da autorevole dottrina, i progressi della scienza nello studio del cervello hanno accentuato uno stato di crisi, presente in tutte le discipline che si occupano a diverso titolo della mente dell’uomo e del suo comportamento: dalla neurologia alla psichiatria, dalla psicologia all’antropologia, dalla criminologia al diritto. “Quello che si sta delineando con l’avvento delle neuroscienze è una nuova immagine dell’uomo che mette in discussione molte delle pregresse certezze […] i fenomeni vengono interpretati secondo una grana via via più fine, grazie ad una loro lettura lessicale più particolareggiata, da parte di nuove discipline che hanno ristretto i settori d’indagine e le competenze e che interagiscono con altre”155.

Per sondare quale di queste impostazioni sia più coerente con i principi fondamentali del diritto e del processo penale, occorre analizzare le due fasi che compongono il giudizio sull’imputabilità, ossia la diagnosi del disturbo e la valutazione dei suoi effetti sulla capacità di intendere e di volere del reo al momento di commissione del fatto.

155 Forza A., La sfida delle neuroscienze: verso un cambiamento di paradigma?, in Dir. pen. e proc., 2012 nr.11, pag.

(14)

2. La diagnosi e la valutazione dell’infermità: la perizia.

La diagnosi, come sappiamo, è un elemento imprescindibile della pratica medica, ed in particolare è lo strumento utilizzato dai clinici e dai ricercatori per identificare le caratteristiche essenziali dei pazienti, per definire la terapia, per la divulgazione scientifica. In psichiatria, invece, il processo è differente, in quanto segni e sintomi non sono obiettiva bili. Gran parte della valutazione dipende dalla relazione psichiatra-paziente, dall’osservazione del comportamento del soggetto e dalla raccolta di dati anamnestici. Uno strumento che trova ampio spazio nella formulazione delle diagnosi psichiatriche è quello dei test psicodiagnostici, sulla base esclusiva dei quali, però, nonostante abbiano un relativo valore di obbiettività, nessuno psichiatra oserebbe formulare una diagnosi.

Negli anni Settanta, in seguito alla diffusione del DSM,156 si assistette al passaggio dalla diagnosi clinica tradizionale a quella fondata su criteri operazionali (DSM appunto), in base ai quali una diagnosi deve essere applicata solo a coloro che manifestano certe caratteristiche e soddisfano determinati criteri. La novità del DSM consisteva nel garantire alle diagnosi maggiore attendibilità grazie alla presenza di criteri per ogni disturbo mentale; esse inoltre non erano considerate definitive ma probabili, cioè con un indice di attendibilità157 variabile a seconda dei disturbi. Nei disturbi di personalità, per esempio, l’indice di attendibilità è molto più basso che nella schizofrenia: proprio la misurazione del coefficiente di accordo per il DSM III del 1980, rivelò che, su cento psichiatri, poco più di sessanta formulavano la stessa diagnosi per il medesimo paziente.158

Va comunque sottolineato che quanto il DSM guadagnava in attendibilità, perdeva in validità, cioè in capacità di riferirsi effettivamente ad una determinata malattia.

Ai fini forensi, che qui naturalmente sono decisivi, anche nell’Introduzione dell’ultima edizione del manuale viene sottolineato un aspetto non marginale, ovvero che

quando le categorie, i criteri e le descrizioni del DSM vengono utilizzati a fini forensi, sono molti i rischi che le informazioni diagnostiche vengano utilizzate o interpretate in modo scorretto. Questo a causa dell’imperfetto accordo tra le questioni di interesse fondamentale per la legge e le informazioni contenute in una diagnosi clinica. Nella

156

La cui prima edizione risale al 1952. Vedi supra Parte Seconda.

157 L’attendibilità è il grado con cui operatori diversi concordano su una diagnosi fatta indipendentemente l’uno dall’altro. 158

(15)

maggior parte dei casi la diagnosi clinica di un disturbo mentale del DSM non è sufficiente a stabilire l’esistenza ai fini legali di “un disturbo mentale”, “una disabilità”, “una malattia mentale”.[…]L’assegnazione di una particolare diagnosi non implica uno specifico livello di compromissione o di invalidità proprio perché la compromissione, la capacità e l’incapacità variano ampliamente all’interno di ogni categoria diagnostica. Coloro che devono prendere decisioni in merito e che non appartengono all’ambito clinico dovrebbero essere eruditi del fatto che una diagnosi non comporta nessuna implicazione riguardante le cause del disturbo mentale dell’individuo o della compromissione ad esso associata. […] Il fatto che la sintomatologia di un individuo soddisfi i criteri per una diagnosi del DSM non ha nessuna implicazione per quanto riguarda il livello di controllo che egli può esercitare sui comportamenti associati al disturbo.[…] Il DSM può facilitare la comprensione da parte dei giudici delle caratteristiche rilevanti di un disturbo mentale, fornendo un compendio basato su una revisione della letteratura clinica e di ricerca pertinente.159

Nonostante la comunità psichiatrica avesse raggiunto un importante traguardo di condivisione rispetto a questo sistema classificatorio, il tempo ne ha rivelato anche tutti i limiti; e ad oggi la questione nosografica è ancora irrisolta e problematica.

In questo campo, oggi si utilizzano due tipi di approccio. Il primo è quello c.d. categoriale (o descrittivo), in base al quale si individuano una serie di sintomi, cui si fanno corrispondere precise “entità nosologiche” (le malattie), che rappresentano le diagnosi cliniche, si tratta, per l’appunto, dell’approccio del DSM. Il secondo approccio, quello dimensionale, si fonda sulle ipotesi che le variabili cliniche osservate si distribuiscano lungo un continuum. La valutazione attendibile di un soggetto dovrebbe consistere nell’individuazione di variabili significative, e nella definizione di quel soggetto rispetto a queste variabili.

In questo quadro appare, dunque, evidente importanza dell’apporto delle neuroscienze. Contrariamente alle diagnosi basate sul DSM, infatti, gli strumenti della neuroimaging presentano il vantaggio di fornire un riscontro dimensionale dei disturbi mentali: si tratta di un rilievo di grande importanza in quanto l’interprete, nel valutare l’incidenza dell’infermità sulle capacità del reo, dovrà apprezzarne, in primo luogo, la rilevanza da un

159

(16)

punto di vista quantitativo, e, in seguito, verificarne l’apporto in un’ottica dinamico-causale.

Durante la c.d. “fase di acquisizione della diagnosi”, pertanto, l’impiego delle neuroscienze sarà in grado di dare adito a due diversi risultati.

In primo luogo, esso appare idoneo a generare una vera e propria modifica del concetto di infermità penalmente rilevante, rendendo rilevanti anche le ipotesi in cui, a causa di un’anomalia o una lesione celebrale, il reo mantenga la propria capacità cognitiva ma non quella empatica, emozionale ovvero il controllo sui propri impulsi.

In tal caso, in considerazione dell’impossibilità, per il soggetto agente, di tenere una condotta diversa da quella illecita, l’adesione alla concezione normativa della colpevolezza o, ancor meglio, alla categoria della qualificazione soggettiva, non potrà che condurre alla dichiarazione di irresponsabilità penale.

Trova così migliore spiegazione l’assunto della giurisprudenza di legittimità secondo cui il novero dei disturbi in grado di dar luogo ad un vizio di mente non dovrebbe essere limitato alle sole patologie aventi un inquadramento medico, ma anche ai disturbi che – per intensità, pregnanza e forza causale – danno luogo ad una diminuzione rilevante delle facoltà cognitive del soggetto agente: in questo senso, le neuroscienze hanno dimostrato come anche simili patologie, oltre a generare deviazioni dell’Io razionale capaci di compromettere la capacità di intendere e di volere del reo, presentino altresì una base empirica concretamente misurabile, seppur meno evidente.

Il secondo effetto è quello di adeguare lo statuto dell’imputabilità al principio b.a.r.d.160, agevolandone altresì la verifica processuale, diversamente frenata dalla natura indiretta dell’accertamento, specie in ipotesi di particolare difficoltà (es. sdoppiamento della personalità, Sindrome di Münchhausen161). L’impossibilità di verificare con certezza l’influsso della malattia mentale sul processo motivazionale alla base del reato non poteva che portare all’assoluzione, ovvero alla concessione dell’attenuante della seminfermità. L’adozione di tecniche neuroscientifiche nell’indagine penale funge da elemento di razionalizzazione del sistema: la possibilità di operare su una base fenomenica maggiormente univoca e dettagliata, infatti, rafforza l’efficacia del giudizio controfattuale teso ad accertare l’efficienza causale del disturbo mentale sulla deliberazione criminosa.

160

Acronimo di “Beyond Any Resonable Doubt” (it. “Al di là di ogni ragionevole dubbio”), oggi fissato all’art. 533 c.p.p.

161 Denominazione del disturbo psichiatrico in cui le persone colpite fingono la malattia o un trauma psicologico per

(17)

Una parte minoritaria della dottrina ha contestato tale valore, dubitando della stessa capacità esplicativa delle neuroscienze162, cui andrebbe riconosciuta funzione meramente descrittiva, sottolineando come le risultanze positive che si sono avute in sede sperimentale siano spesso state il frutto di distorsioni emotive dei pazienti, affetti da una sorta di deferenza verso le macchine e gli strumenti neuroscientifici. In effetti, però, TAC, FMRI, PET, MEG possono fornire informazioni utili a vere e proprie diagnosi di sede, volte ad individuare la presenza di alterazioni micro – anatomiche e funzionali. Gli stessi esami, inoltre, vengono spesso usati per operare sia delle diagnosi di natura (miranti a riscontrare la riconducibilità di un certo sintomo ad una ben determinata alterazione) che delle diagnosi funzionali (dirette ad indicare le possibili conseguenze di un certo disturbo). Di maggior peso la critica concernente la rispondenza delle neuroscienze ai requisiti gnoseologici richiesti dalla sentenza In Re Daubert, segnatamente la conoscenza e la marginalità del tasso d’errore, mentre le neuroscienze presenterebbero un tasso d’errore molto variabile163.

La prassi migliore, peraltro in rapida evoluzione, dimostra che il tasso d’errore degli esperimenti condotti con gli strumenti della TAC e della FMRI sarebbe verificabile attraverso un sistema di convalida incrociata dei risultati. Anche in questo caso, inoltre, andrebbe considerato il carattere relativo delle scienze naturali che studiano l’uomo, da colmare attraverso correttivi nel caso concreto.

In tale prospettiva, le neuroscienze, “proprio perché basate su un metodo sperimentale, si prestano forse più di altri rami della psicologia classica, ad un controllo di affidabilità dall’esterno, garantendo importanti procedure di ripetizione della prova e di raccolta e analisi statistica dei dati. Sono, tra l’altro, gli stessi specialisti del settore a richiedere che si proceda sempre alla valutazione della scientificità della disciplina che produce la prova, dell’ammissibilità delle prove e, una volta prodotta, del suo risultato”.164

Nella valutazione della capacità di intendere e di volere del soggetto al momento di commissione del reato, occorre considerare sia l’intensità di manifestazione del disturbo, sia la sua incidenza sul reato commesso.

162

Collica M.T. , Il riconoscimento del ruolo delle neuroscienze nel diritto penale, in Diritto penale contemporaneo, p. 8.

163

Cit. VUL – KANWISHER, Begging the question: the nonindependence error in fMRI data analysis, Foundations

and,in Betzu, op.cit. pag. 18.

164

(18)

Rispetto a tali elementi, l’indagine scientifica mostra dei limiti, vuoi perché non vi è piena corrispondenza tra l’infermità accertata e quella penalmente rilevante, vuoi perché essa può intervenire solo successivamente alla commissione del reato.

Nella valutazione occorrerà indagare sui motivi che hanno spinto il soggetto a delinquere, sulla percezione del significato dei suoi atti e sui suoi eventuali rapporti con la vittima per comprendere non solo se l’autore del reato fosse, al momento del fatto, astrattamente capace di intendere e di volere, ma anche se l’esistenza di una determinata tipologia di infermità psichica abbia rivestito un ruolo propulsivo nella commissione dello specifico crimine contestato.

Tale operazione – che costituisce una ricostruzione dinamica e psicologica del reato – muove da una matrice cognitiva di stampo controfattuale, si snoda in due passaggi e si avvale di leggi di copertura, criminologia e medicina legale.

Il primo passaggio consiste in uno studio del reato e delle sue modalità di commissione: partendo da essi e ripercorrendo le fasi di realizzazione degli eventi, attraverso l’utilizzo dello strumento interpretativo dell’analisi criminologica sarà, infatti, possibile contestualizzare la capacità di intendere e di volere del reo e la possibilità per quest’ultimo di comprendere e dominare i propri impulsi antisociali al momento della commissione del fatto. In questa prospettiva, l’analisi della condotta tenuta dal soggetto agente avrà un’importanza pregnante, rappresentando l’unico dato d’indagine concreto e inoppugnabile.

Il secondo passaggio consiste nella ricostruzione del grado di incidenza del disturbo mentale sull’iter generativo del reato, attraverso il noto procedimento logico di ipotesi contro il fatto, ossia assumendo l’assenza dell’infermità onde inferire se il reato sarebbe stato ugualmente commesso.

Sul primo passaggio le neuroscienze hanno scarsa competenza, sul secondo possono fornire informazioni indirette, ad esempio studiando il comportamento del soggetto in situazioni analoghe a quella in cui è stato commesso il reato. Tuttavia, applicazioni più recenti, sebbene sperimentali, evidenzierebbero la possibilità di recuperare le tracce dell’esperienza passata, o, più precisamente, come il soggetto ricorda nella sua mente l’accaduto, valutando in base a ciò l’incidenza del disturbo sull’atto delittuoso.

(19)

 La perizia.

Protagonista indiscussa dell’iter di diagnosi e valutazione dell’infermità è la perizia.

Essa viene tecnicamente definita come un “mezzo di valutazione della prova”, ed è in sostanza un parere scritto e motivato.

Disciplinata dall’articolo 220 c.p.p., essa “è ammessa quando occorre svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche. Salvo quanto previsto ai fini dell’esecuzione della pena o della misura di sicurezza, non sono ammesse perizie per stabilire l’abitualità o la professionalità del reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell’imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche.”

La perizia può essere disposta nella fase di cognizione dal Gip o dal Pubblico Ministero; nella fase dibattimentale, dal Gup o dal Giudice del dibattimento, o ancora nella fase di esecuzione della pena, dal Magistrato di sorveglianza.

Essa è denominata perizia, se richiesta dal giudice, e consulenza tecnica se richiesta dal Pubblico Ministero o da un avvocato delle parti in causa. Perizia e consulenza tecnica possono essere richieste per l’indagato, per la vittima, per un testimone, e nella fase di esecuzione della pena, per il condannato o l’internato.

A norma dell’art. 221 c.p.p. il perito potrà essere scelto sia fra gli psichiatri iscritti negli appositi albi, sia fra quelli non iscritti. Può anche essere disposta una perizia collegiale, così come lo stesso quesito può essere proposto disgiuntamente a più periti, ovviamente in casi di particolare complessità.165 Se lo psichiatra non è iscritto all’albo il giudice è tenuto a motivare la propria scelta; anche se, ad onor del vero, il difetto di motivazione, comunque, non rappresenta che una mera irregolarità, senza alcun effetto sull’efficacia della nomina.

La perizia può, inoltre, essere rinnovata in ogni stato e grado del procedimento di merito, anche in appello. In quest’ultimo caso l’espletamento di una perizia psichiatrica implica la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale (art. 603 c.p.p.), e può essere disposta solo se il giudice ritiene di non essere in grado di decidere allo stato degli atti. In caso di rigetto della

165“in tema di perizia, non costituisce violazione processuale (né lesione del diritto di difesa) l’affidamento da parte del

giudice di distinti incarichi peritali, aventi il medesimo oggetto, a più persone fornite di particolare competenza nella specifica disciplina, sempre che ricorra la condizione che le valutazioni da compiersi siano di notevole complessità, ovvero richiedano distinte conoscenze in differenti discipline [..]” così Cass.Pen., sez.II, nr. 13151 del 2.4.2001 in

(20)

relativa richiesta di parte, la decisione del giudice, allorquando sia logicamente e congruamente motivata, è incensurabile in Cassazione, trattandosi di giudizio di fatto.

Si afferma che la perizia è un mezzo di prova discrezionale, la cui adozione è rimessa alla valutazione insindacabile del giudice di merito;166 e, come chiarito dalla Corte di Cassazione, essa deve essere disposta dal giudice soltanto nel caso in cui siano stati già acquisiti seri elementi indiziari i quali rendano necessaria un’indagine sullo stato di mente dell’imputato.167

La giurisprudenza ha elaborato in proposito una casistica sufficientemente consolidata. Così, ad esempio, “non costituisce indizio di malattia mentale la tossicodipendenza” e “l’anamnesi familiare non è di per sé sufficiente a giustificare l’accoglimento della richiesta di perizia psichiatrica, ove non appaia integrata da concrete ed attuali manifestazioni morbose del reo.”

La valutazione del giudice in ordine alla decisione di disporre o meno la perizia, in ogni caso, non può limitarsi alla verifica della presenza di caratteri sintomatici di una vera e propria malattia clinicamente diagnosticabile, ma deve estendersi anche alla considerazione di quegli aspetti di condotta criminosa o della personalità del suo autore che destino comunque perplessità in ordine alla spontaneità ad autonomia della deliberazione di commettere il reato.

Peraltro, quando ricorrano elementi tali da far ragionevolmente sospettare la sussistenza di qualche disturbo psichico giuridicamente apprezzabile, il giudice deve accertarlo in concreto nell’ambito del procedimento in corso e non può fare rinvio ad accertamenti peritali espletati in altri procedimenti. Questo soprattutto per l’accertamento dell’infermità o della seminfermità di mente ai fini del giudizio sull’imputabilità, e ciò sia perché l’infermità può risultare rilevante ai fini dell’imputabilità soltanto per una certa categoria di reati, sia perché, non risolvendosi sempre in uno stato permanente, va valutata specificamente con riferimento al tempo del commesso delitto.168

166

“la perizia è un mezzo di prova essenzialmente discrezionale, essendo rimessa al giudice di merito, anche in presenza di pareri tecnici e documenti medici prodotti dalla difesa, la valutazione della necessità di disporre indagini specifiche; non è, pertanto, sindacabile in sede di legittimità, se sorretto da adeguata motivazione, il convincimento espresso da quel giudice circa l’esistenza di elementi tali da escludere la situazione che l’accertamento peritale richiesto dovrebbe dimostrare.” Cass. Pen., sez. V, nr. 1476 del 6.2.1998.

167 Così Cass. Pen., sez. VI, nr. 15444 del 21.11.1990. 168

(21)

Anche nel caso in cui si debba accertare l’incapacità di stare coscientemente in giudizio ai fini della sospensione del procedimento, il potere del giudice di disporre la perizia del soggetto è comunque un potere discrezionale: ai sensi dell’art. 70 c.p.p., infatti, essa deve essere disposta solo se occorre.169

Nell’ambito del procedimento penale, il conferimento dell’incarico viene effettuato con l’indicazione dei quesiti specifici cui il perito, con la propria attività, è chiamato a rispondere; generalmente il perito psichiatra è tenuto a rispondere a due quesiti classici, relativi all’imputabilità del soggetto e alla sua pericolosità sociale. In tal caso il quesito è formulato nei seguenti termini:

“Dica il perito, valutato l’imputato, presa coscienza degli atti e fatte le acquisizioni e gli accertamenti che riterrà opportuni, se , al momento dei fatti per cui si procede, egli era capace di intendere e di volere, oppure se la capacità di intendere e di volere era totalmente o grandemente scemata. In tal caso dica, inoltre, se il soggetto sia, allo stato, socialmente pericoloso.”

Tuttavia, il mandato può essere assegnato al perito-psichiatra anche per valutare altre questioni quali ad esempio la maturità o meno di un minorenne, la capacità di partecipare coscientemente al processo, le condizioni di inferiorità psichica della vittima del reato etc., in tali casi i quesiti saranno diversi.

La perizia psichiatrica è dunque uno studio, una valutazione delle condizioni psichiche dell’imputato, che richiede competenze tecniche psichiatriche e medico-legali, perché la risposta ai quesiti non è l’individuazione di una patologia a carico dell’imputato, ma la “dimostrazione” della presenza di disturbi psichici rilevanti, aventi valore di infermità, e che abbiano inciso sulla capacità di intendere o volere, in relazione a un fatto-reato. Il compito del perito non è di dimostrare se un soggetto era sano di mente quando ha commesso un reato ma, al contrario, di evidenziare se quell’azione, giuridicamente rilevante, sia stata sintomatica o meno di disturbi psicopatologici che hanno intaccato la capacità di intendere o volere del soggetto in esame.

Il processo diagnostico deve essere conseguentemente rivolto alla ricostruzione di un’infermità o di uno stato psicologico che potrebbero non essere più presenti al momento

169

Il successivo art. 72 c.p.p. prevede ulteriori verifiche periodiche sullo stato di mente dell’imputato, già ritenuto processualmente incapace, da eseguire mediante ulteriori accertamenti peritali; i quali devono essere disposti nelle forme e con le garanzie tipiche della perizia in senso tecnico, quale disciplinata dagli artt. 220 ss c.p.p.

(22)

in cui viene eseguita la valutazione. Il perito dovrà quindi calarsi nello stato di mente del soggetto al momento dei fatti ed a tal fine eseguire uno studio attento di tutti gli atti e i documenti esistenti, compresi i verbali di polizia giudiziaria, le testimonianze e le dichiarazioni rilasciate sia nell’immediatezza dei fatti che successivamente, in modo tale da poter ricostruire, per quanto possibile, a posteriori, la situazione che si rappresentava al soggetto esaminato al momento dei fatti, le sue sensazioni, i suoi ricordi, i suoi vissuti e coglierne le possibili incongruenze.

Concretamente, una perizia è fatta, oltre che del suddetto studio della documentazione processuale, anche di colloqui, esami psichici, somministrazione di test, valutazione internistica ed esami strumentali, come elettroencefalogrammi, tac e risonanze magnetiche celebrali.

Pertanto, l’indagine del perito psichiatra incontra alcune interferenze che la diversificano rispetto a quella clinica, dal momento che talvolta può risultare influenzata da condotte di simulazione e/o dissimulazione.

Lo psichiatra incaricato, dopo i primi colloqui orientativi con il soggetto, dovrà svolgere ogni accertamento che risulti utile alla luce della migliore scienza. Ovviamente perché il lavoro del perito abbia una sua dignità è necessario che non sia basato solo su sporadici incontri con il soggetto da esaminare. A tal fine è, altresì, necessario che il magistrato e le strutture carcerarie mettano il perito nelle condizioni di svolgere il proprio lavoro secondo gli standard necessari per stabilire con il soggetto da esaminare un proficuo rapporto relazionale, non influenzato da presenze esterne o da condizioni che non favoriscano la riservatezza necessaria.

Problematica è la situazione verificatasi in alcuni casi in cui il periziando rifiuti il colloquio con il perito facendo venire meno una delle condizioni per l’accertamento del vizio di mente. Tale rifiuto non impedisce l’accertamento periziale, anche se lo rende per lo meno più difficoltoso, e può essere riferibile secondo gli psichiatri a varie cause come la reale innocenza, o una strategia defensoriale, o una patologica valutazione del reato che induce il soggetto a negarlo, non assimilando egli, in relazione alla sua patologia, il proprio atto ad un reato.

(23)

Per quel che attiene al vizio di mente, come affermato dal Prof. Ugo Fornari,170 perché i criteri di risposta ai quesiti del magistrato siano corretti, è necessario: far riferimento ad una classificazione delle malattie mentali chiara, semplice e comprensibile; impostare la classificazione su criteri restrittivi, riconoscendo valore di malattia solo ai disturbi psicotici o ai gravi disturbi di personalità; essere consapevoli che non si sta discutendo in termini di verità, ma di convenzioni; formulare un’ipotesi diagnostica e di funzionamento della personalità; valutare un reato in rapporto a un quadro psicopatologico, facendo riferimento non ad una categoria diagnostica, ma ad un funzionamento patologico-psichico correlato a quei sintomi.

In termini più tecnici, il perito deve:

1) Formulare una diagnosi (criterio nosografico);

2) Analizzare e descrivere i disturbi in atto (criterio psicopatologico);

3) Esaminare le compromissioni delle funzioni dell’IO (criterio dinamico funzionale); 4) Valutare se il comportamento criminale messo in atto è o meno sintomatico dei

disturbi psicopatologici riscontrati ( criterio criminologico);

5) Specificare il tipo e il grado di compromissione della capacità di intendere o volere, al momento del fatto. Se la condizione psicopatologica emersa sia in fase florida o spenta, se rappresenti un quadro statico o dinamico (criterio forense).

Su questi principi metodologici la comunità degli psichiatri è certamente d’accordo, ma se si entra nel dettaglio, ad esempio nella valutazione del criterio dinamico-strutturale che esamina le funzioni dell’Io, si aprono importanti questioni irrisolte.

Senza considerare che la dottrina medico-legale pretende che, nella valutazione dell’imputabilità, sia possibile evidenziare la sussistenza tra una determinata condizione psicopatologica e uno specifico fatto-reato. Vi deve quindi essere una connessione psicopatologica tra l’infermità e il fatto.

In ultima analisi sarà comunque il giudice “peritus peritorum” a valutare le conclusioni del perito. Peraltro egli dovrà verificare non solo il grado di attendibilità del giudizio tecnico, ma anche se esso costituisca l’unica soluzione tecnica possibile o se ve ne siano altre, sia pure meno attendibili ed, in caso di possibili alternative, quale, possa risultar la più persuasiva. Il giudice potrà quindi aderire alle conclusioni peritali (ipotesi più frequente), come potrà disattenderle, anche d’ufficio.

170 Psichiatra, professore ordinario di psicopatologia forense presso l’università di Torino. Ha condotto perizie

(24)

Sul piano del trattamento penale, le conseguenze variano a seconda delle risposte del perito, sempre che il giudice le condivida. Se l’autore del reato è ritenuto capace di intendere e volere, è considerato pienamente imputabile e sarà applicata una pena corrispondente alla gravità del reato commesso. Se invece è riconosciuto un vizio parziale di mente, il soggetto è ritenuto imputabile, ma la pena viene ridotta (generalmente di un terzo) e, in caso di riconoscimento della pericolosità sociale, sarà disposta una misura di sicurezza in una Casa di Cura e Custodia, in cui, di norma, il reo viene condotto dopo aver scontato la pena in carcere. Infine, se l’imputato è considerato incapace di intendere e volere e socialmente pericoloso, non è imputabile e nei suoi confronti viene adottata la misura dell’Ospedale psichiatrico giudiziario. In realtà quest’ultima misura non trova più l’applicazione automatica dal 2003, quando la Corte Costituzionale con Sentenza nr. 253, dichiarò incostituzionale l’automatismo del ricovero in Opg per il prosciolto per infermità mentale socialmente pericoloso, e in alternativa consentì di utilizzare, in condizioni di libertà vigilata, le comunità terapeutiche dei servizi psichiatrici territoriali.

Vi è, infine, un’ultima ipotesi, che sembra non verificarsi mai nei nostri tribunali, ma che in realtà è contemplata dall’art. 530 comma 2 c.p.p..

Tale articolo prevede l’assoluzione tutte le volte che permanga un dubbio sulle condizioni mentali del soggetto al momento del fatto. I dubbi sulla capacità di intendere e volere di un imputato, infatti, sono sempre risolti dai giudici o affermando la sua piena imputabilità o ricorrendo alla formula della seminfermità. È una prassi fondata sul fatto che l’imputabilità si ritiene presunta, fino a prova contraria, e che questa prova la deve fornire l’imputato.

3. Fallacie probatorie delle neuroscienze in tema di vizio di mente.

Come abbiamo già evidenziato, il legislatore del 1930 offre un giudizio di imputabilità c.d. misto che, per l'appunto, si struttura su due livelli: patologico e psicologico-normativo. Il primo livello rappresenta il momento diagnostico, di accertamento e di inquadramento del disturbo psichico; il secondo è caratterizzato dall’indagine sulla rilevanza da attribuire a siffatto disturbo in ragione della sua incidenza sui processi intellettivi e volitivi dell’individuo.

(25)

L’indagine circa la rilevanza del disturbo è, quindi, di duplice natura: psicopatologica e normativa.

La prima compete all’esperto, il quale sulla base delle conoscenze scientifiche a sua disposizione dovrebbe spiegare al giudice se, perché e come la diagnosticata infermità mentale abbia annientato o semplicemente compromesso la capacità di comprendere e quella di volere dell’imputato.

Al giudice invece spetta in via esclusiva il compito di risolvere, alla luce di tale verifica, le questioni di responsabilità penale, e quelle che attengono all’interpretazione della disciplina codicistica, all’applicazione coerente e razionale delle categorie dogmatiche coinvolte e alla rilevanza da riconoscere alle istanze politico-criminali.

Dalla soluzione di tali questioni dipende l’ultima parola sulla capacità di intendere e di volere di colui che ha commesso il reato. Per non violare questo patto di “esclusiva normativa” sull’imputabilità penale, che implica riconoscere “nel concetto dell’imputabilità la sua primaria componente normativa”, occorre allora “sfuggire all’ipoteca metodologica di un distorto naturalismo”171

. Gli apporti delle neuroscienze rendono invece difficile questa fuga, con il rischio di una “saturazione di empiria” di un modello esplicativo, quello dell’imputabilità, che lascia sì ampi spazi ai contributi delle scienze empiriche, ma che non potrà mai in essi esaurirsi. Potremmo definire questa posizione una necessaria esplicazione del principio generale di autonomia del diritto penale, il quale rifiuta qualsiasi sua subordinazione nozionale e funzionale ad altri rami dell’ordinamento o ad altre discipline, tale da fare del diritto penale un puro diritto sanzionatorio. In altre parole, quando il diritto penale richiama direttamente concetti o categorie tipici di altre discipline, come a proposito dell’infermità mentale nel giudizio di imputabilità, per esigenze specifiche dell’attribuzione penalistica di responsabilità, questi concetti inevitabilmente possono o devono essere forgiati in modo tale da rispondere a queste esigenze, naturalmente nel rispetto del vincolo di realtà.

E, ai fini del vizio di mente, la realtà fattuale del fenomeno infermità mentale non si esaurisce nella descrizione di una patologia funzionale del cervello (il primo piano del giudizio di imputabilità); essa implica anche l’esame dell’incidenza patologica sulla capacità di intendere e di volere (il secondo piano del giudizio per l'appunto). Il modello offerto dalle neuroscienze finora, per la sua natura descrittiva e non anche esplicativa, non

171

Riferimenti

Documenti correlati

Uguale in senso aristotelico : la parte non può essere uguale ( identica ) al tutto che la contiene , in quanto il tutto ha sempre qualche elemento che la parte non ha ;

Musil – Lei lo scrive chiaramente – è un critico tagliente e feroce della psicologia forense ma ancor prima ma ancor più – e questo nella sua mail è meno chiaramente

G REGG , When vying reveals lying: the timed antagonistic response Maz, in Applied Cognitive Psychology, 21(5), 2007, pp.. 16 modo, poi, gli esiti dei test aIAT e TARA non

A livello cognitivo, la capacità di agire presuppone che il soggetto abbia capacità decisionale, ciò significa che egli: (i) sia in grado di comprendere, ovvero ritenere,

Nella valutazione della capacità di intendere e di volere del soggetto al momento di commissione del reato, occorre considerare sia l’intensità di manifestazione del

L’essenza del concetto di imputabilità e di malattia mentale nel mondo anglosassone è rappresentata dalle Mc’Naghten Rules (risalenti alla fine del

Finalmente arrivano informazioni sul complice della Signora Violet, l’abilissima ladra arrestata da Numerik.. Gli indizi sono contenuti in una busta chiusa: l’ispettore Numerik la

Ma le domande che si pongono sono anche altre: sempre alla luce delle neuroscienze, qual è il rapporto tra mente, corpo, cervello e azioni.. Come accogliere le neuroscienze al tavolo