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Capitolo 1 Il mito di Orfeo nell’antichità

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Capitolo 1

Il mito di Orfeo nell’antichità

1.1 Uno sguardo sul mito

Il concetto di mito si può ritrovare in molti campi e per l’uomo moderno questa parola esercita sicuramente un certo fascino, riecheggiando una nostalgia che indica una realtà ricca di significato, nascosta o perduta nelle profondità del passato e che potrebbe essere riportata alla coscienza come rimedio ad un presente che appare troppo razionale e incomprensibile allo stesso tempo.

Riuscire a trovare una definizione soddisfacente di cosa sia un mito non è impresa facile, ma nemmeno una definizione potrà essere sufficiente a spiegare il significato profondo che si cela dietro ad una semplice parola la cui storia perdura ormai nei secoli.

Il mito naturalmente è un racconto ma bisogna sapere come questi racconti si siano formati, consolidati, trasmessi e conservati nonostante il passare del tempo. Il fatto che il mito consista in una narrazione lo spiega già l’etimologia del termine, ma questo è solo il punto di partenza tradizionale che però, in questo caso, non risulta essere di grande aiuto. Purtroppo non esiste un’etimologia affidabile, il che già di per sé sembra testimoniare la sua antichità:

Le mythe raconte une histoire sacrée; il relate un événement qui a eu lieu dans le temps primordial, le temps fabuleux des

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«commencements » […] C'est donc toujours le récit d'une « création » on rapporte comment quelque chose a été produit, a commencé à être. 2 Nel vocabolario greco si possono trovare numerosi termini con il significato di parola o racconto; due di essi sono particolarmente significativi. Il primo termine mythos, indica un racconto vero, che racchiudeva le origini di un popolo e le spiegazioni di alcuni dei più grandi misteri dell’umanità. Il mito era il mezzo con cui un popolo tramandava la sua storia prima che la scrittura fosse inventata e, pertanto, tale tesoro era generalmente affidato ai più vecchi e più saggi sotto forma di canti. Per avere un esempio della sacralità del racconto e del suo cantore, si pensi ad Omero ed alla sua figura avvolta nel mistero, ma sempre guardata con ammirazione dai posteri.

Al mito si opponeva, inizialmente, il logos, un discorso calcolato ed ordinato che non aveva alcuna pretesa di verità:

Il logos della mitologia, in accordo con quello della sofistica, non tiene in nessun conto la verità; piuttosto, esso ha di mira la persuasione.3

Lasciando momentaneamente da parte l’etimologia della parola, vale però la pena chiedersi quale fosse la funzione dei miti e per quale scopo fossero nati. Sebbene ogni popolo conservasse e tramandasse miti diversi, gli studiosi hanno notato che il fenomeno del mito è comune a tutte le civiltà primitive. Benché vi siano differenze apparenti, nei miti di ogni civiltà tendono a ricomparire gli stessi temi, tra cui il diluvio universale, la nascita del mondo del Chaos, l’età dell’oro, etc. Ben lontani dall’essere semplici favole, questi miti rappresentavano una prima forma di verità di fede e coloro che li ascoltavano ritenevano che i fatti narrati fossero realmente accaduti. Il mito, infatti, era strettamente legato al rito religioso: durante le cerimonie sacre, i

2M. Eliade, Aspects du mythe, Paris, Gallimard, 1963, p. 16.

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partecipanti rivivevano le vicende di dei ed eroi, potendo così trovare risposte ai misteri della vita. In particolare, lo scopo del mito era quello di trasmettere di generazione in generazione i fondamenti morali, le credenze, le leggi divine ed umane ed i valori su cui il popolo stesso si fondava. Essi rappresentavano una memoria collettiva, che nelle moderne comunità primitive continua ad essere tramandata in questa forma:

Du fait que le mythe relate les gesta des Êtres Surnaturels et la manifestation de leurs puissances sacrées, il devient le modèle exemplaire de toutes les activités humaines significatives.4

Sfortunatamente, non è possibile datare con certezza la nascita del mito. Popoli diversi hanno dato vita a miti diversi in epoche diverse. Tuttavia, è possibile affermare che l’istituzione del mito nacque molto prima della nascita della scrittura. Prova ne è il fatto che, nell’antica Grecia le figure di aedi e rapsodi, ossia dei cantori e recitatori professionisti erano diffusissime ed avevano il compito di tramandare oralmente canti sugli dei e sugli eroi:

La majorité des mythes grecs ont été racontés et, par conséquent, modifiés, articulés, systématisés, par Hésiode et Homère, par les rhapsodes et les mythographes.5

Nel corso del tempo si sono susseguite varie età mitiche, come per esempio l’età dell’oro che comprende i miti delle origini come le cosiddette Cosmogonie e Teogonie 6 oppure l’età degli eroi, che vede la rinascita del genere umano, in cui si inserisce la vicenda di Giasone e gli Argonauti in cerca del vello d’oro. La figura che spicca di più tra questi ultimi è quella del grande cantore Orfeo.

4 M. Eliade, Aspects du mythe, cit., p. 17.

5M. Eliade, Aspects du mythe, cit., p. 14.

6 La Teogonia di Esiodo è senz’altro una delle opere più famose sul tema della nascita

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Bisogna anche riflettere sul ruolo che il mito ebbe nella cultura greca. Il mito ebbe una funzione fondamentale nel sistema sociale dei Greci: esso costituì il tessuto connettivo della loro cultura dall’epica alla lirica, al teatro drammatico, alla storiografia, alla filosofia e infine all’arte figurativa, e sotto il profilo delle sue molteplici funzioni ai diversi livelli rituale, religioso, politico e antropologico, si configurò come un vasto repertorio comune di usi, costumi, comportamenti e valori:

Vissuto come storia, il mito fondava e legittimava il presente dei Greci e assieme allo sviluppo delle arti plastiche contribuì al processo di antropomorfizzazione degli dei. Il racconto mitico era un elemento fondamentale di coesione culturale e religiosa nella frammentazione politica delle città.7

Il mito fondava e legittimava il presente dei Greci, stabilendo la posizione dell’uomo nella realtà, fondando tutte le componenti dell’esistenza. Dopo il VII secolo il mito, però, incomincia ad essere privato dei significati religiosi che gli erano stati attribuiti e viene separato da ciò che viene considerata la realtà.

Ma vi fu un tempo in cui il mito, in quanto immagine di ciò che è vero, comprendeva in sé tutta la realtà nella sua essenza, risultando così per l’uomo un vero modello di vita, il valore supremo che conferisce significato all’esistenza. Esso costituisce la prima forma di comunicazione in cui l’uomo organizza un discorso intorno alla complessità del reale; e rappresenta l’espressione antica della consapevolezza delle numerose difficoltà che coinvolgono l’esistenza umana.

Infatti i miti e le immagini mitiche si ritrovano ovunque, laicizzati, degradati, modificati ma non esiste cultura, antica o moderna che non ne possieda. Molti

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miti si assomigliano, pur appartenendo a popoli vissuti in epoche diverse e in luoghi molto lontani. Ciò che può cambiare è il nome dei personaggi, l'ambientazione e anche alcuni particolari ma l'intreccio e il significato delle storie restano sempre gli stessi. Il mito ha quindi una valenza universale. Si può anche pensare che certi miti siano nati da qualche avvenimento storico e chi si spostassero da un paese all'altro diffondendosi e raccontando fatti veramente accaduti che venivano poi tramandati, di luogo in luogo, in forme differenti.

Ovviamente il mito può variare nel corso della storia, diffondendosi in regioni sempre più lontane, alcune sue parti possono essere dimenticate, la fantasia del narratore ne può aggiungere altre, può succedere che più miti vadano a fondersi in un unico racconto, ma ciò che importa è che alcune situazioni, alcuni personaggi, rimangano sempre costanti. Inoltre per quanto riguarda le società tradizionali una delle necessità è che il mito venga mantenuto così com'è:

Malgré leurs modifications au cours du temps, les mythes des «primitifs» reflètent encore un état primordial. Il s'agit, au surplus, de sociétés où les mythes sont encore vivants, où ils fondent et justifient tout le comportement et toute l'activité de l'homme.8

Le età che si sono susseguite sono il centro di molti miti della civiltà greca e le vicende in essi narrate hanno conosciuto grande successo nel mondo occidentale: non soltanto gli autori latini si sono appropriati di tali vicende, mettendole anche al centro del loro teatro, ma i loro personaggi immortali vivono in teatri più moderni come quello di Racine, Cocteau e Pasolini. E’ evidente, dunque, che secoli e secoli dopo, autori con storie ed origini

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differenti hanno scelto di rielaborare tali miti racchiudendo temi e topoi che li fanno rivivere e che li rendono sempre attuali.

Questa attualità può senz’altro essere trovata nella vastità di temi che essi affrontano. Benché, infatti, il patrimonio mitologico greco sia sterminato, alcuni elementi sembrano accomunarli tutti. Al giorno d’oggi non si sente parlare di mito bensì di varianti del mito e la variante è appunto il modo in cui ogni popolo racconta uno stesso mito e il modo in cui, nonostante il passare del tempo, persista all’interno della società contemporanea.

1.2 Il mito di Orfeo

Uno dei miti che è arrivato fino ai giorni nostri senza mai essere dimenticato è il mito di Orfeo, che ha trovato la sua fonte di immortalità soprattutto nella letteratura e nella poesia.

Secondo la Biblioteca di Apollodoro, una delle più importanti enciclopedie di mitologia greca, Orfeo sarebbe figlio della musa Calliope e del re tracio Eagro, sebbene venga poi attribuita la vera paternità al dio Apollo:

Da Calliope ed Eagro (ma, in realtà da Apollo), nacquero: Lino, che fu ucciso da Eracle, e Orfeo che suonava la cetra e col suo canto muoveva pietre e alberi.9

La caratteristica che contraddistingue il personaggio di Orfeo è la sua abilità nel suonare la lira, per mezzo della quale era addirittura in grado di incantare la natura e perfino di ammansire le bestie feroci. Il mito narra inoltre la morte dell’amata ninfa Euridice, uccisa dal morso di un serpente. Orfeo, distrutto

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dal dolore, decise pertanto di tentare di riportarla sulla terra scendendo negli Inferi dove, sempre grazie al potere della sua lira, riuscì a far commuovere Ade il quale acconsentì a lasciarla tornare nel mondo dei vivi a patto che Orfeo camminasse davanti a lei senza voltarsi a guardarla, finché non fossero giunti nuovamente a vedere la luce del sole. Durante il viaggio, il cantore violò questo patto poco prima di aver lasciato il regno dell’oltretomba, portando così Euridice a morire per la seconda volta.

Come spesso accade per quasi tutti i miti, non si conosce quale fosse la versione originale e pertanto se prevedesse un finale tragico o invece un lieto fine. Alcuni interpreti sostengono l’ipotesi che in origine la catabasi del poeta prevedesse il lieto fine:

Fra gli argomenti addotti a sostegno di una versione originaria differente da quella successivamente accreditata in età romana, vi è il riferimento a un passaggio di Diodoro Siculo, nel quale si afferma che Orfeo “per amore verso la moglie ebbe l’incredibile coraggio di scendere nell’Ade e, affascinando Persefone con la melodia, la persuase a favorire i suoi desideri e a concedergli di riportare su dall’Ade la sua donna già morta. […] Diodoro confermerebbe, insomma, che in origine prima della “romantica invenzione” virgiliana, Orfeo avrebbe effettivamente riportato alla luce la sposa perduta.10

La storia di Orfeo è di fatto molto antica, pare infatti risalire al VI secolo a.C. Lo testimoniano il poeta greco Ibico di Reggio, che in uno dei suoi frammenti accenna a “Orfeo dal nome famoso” e Pindaro che, intorno al V secolo a.C. nella sua famosa opera Le Pitiche si riferisce ad Orfeo come “padre dei canti per virtù d’Apollo/ Orfeo molto lodato”11.

Risale all’incirca agli stessi anni, una testimonianza archeologica importante rinvenuta a Delfi. Una metopa raffigurante la nave Argo con a bordo due cantori, accanto a uno dei quali compare la scritta Orphas. Si evince pertanto

10 U. Curi, La cognizione dell’amore. Eros e filosofia, Milano, Feltrinelli, 1997, p. 100. 11 Pindaro, Le Pitiche, Roma, Fondazione Lorenzo Valla 1995, Pitica IV, vv. 175-177.

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che intorno al VI secolo a.C. Orfeo fosse già noto non solo come abile cantore, ma anche come partecipante alla spedizione degli Argonauti. Il personaggio di Orfeo come musico e ammaliatore è inserito anche da Apollonio Rodio nelle Argonautiche12 in cui viene presentato come eroe culturale e sommo artista, capace di intrattenere i compagni di viaggio e di dare innumerevoli prove della sua abilità: possiamo ricordare il momento in cui gli Argonauti, giunti in prossimità dell’isola delle Sirene, furono tentati dalla loro voce ammaliatrice ma Orfeo, per mezzo della sua lira, riuscì a persuaderli a resistere alle loro lusinghe:

Un vento propizio spingeva la nave, e ben presto furono in vista di Antemoessa, l’isola bella dove le melodiose Sirene, figlie dell’Acheloo incantano e uccidono col loro canto soave chiunque vi approdi.[…]

E anche per loro, senza esitare

Mandavano l’incantevole voce, e quelli già stavano per gettare a terra le gomene, se il figlio di Eagro, il tracio Orfeo, non avesse teso nelle sue mani la cetra bistonica e intonato un canto vivace, con rapido ritmo, in modo che le loro orecchie rimbombassero di quel rumore, e la cetra ebbe: la meglio sulla voce delle Sirene.13

La prima testimonianza che ci è giunta in riferimento alla catabasi di Orfeo si trova all’interno della tragedia Alcestidi Euripide14. Admeto, re di Fere e marito di Alcesti, si difende davanti al coro affermando che, se solo avesse avuto le stesse abilità di Orfeo nell’ammaliare con la sua voce i sovrani degli Inferi, sarebbe stato pronto a ripetere l’impresa di scendere nell’oltretomba per riportare in vita sua moglie. Le parole affrante di Admeto non dicono

12 A. Rodio, Le Argonautiche, Milano, BUR, 2013. 13 A. Rodio, Le Argonautiche, cit., vv. 891-895; 902-909.

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nulla sull’eventuale riuscita dell’impresa di Orfeo, ci fanno soltanto capire che egli è un Orfeo disarmato che non potrà mai ripetere le gesta del cantore:

Magari avessi la voce e il canto di Orfeo, per ammaliare la figlia di Demetra o il suo sposo e così portarti via dall'Ade. Scenderei tra le ombre, e né il cane di Plutone né Caronte, il nocchiero delle anime potrebbero impedirmi di restituirti alla luce. Ma così come stanno le cose, aspettami, finché non giunga il mio ultimo giorno: prepara la dimora, dove tu e io abiteremo insieme.15

Mentre nella mitologia greca si hanno per lo più riferimenti frammentari al mito, la cultura latina si distingue per la sua completezza, come testimoniano le versioni di due grandi autori, Virgilio e Ovidio.

I due poeti, rispetto agli autori della cultura greca, hanno manifestato un interesse nei confronti del mito di Orfeo che si focalizza soprattutto sulla tematica amorosa ma, come i loro predecessori ellenici, hanno esaltato il potere poetico-musicale affiancato alla figura di Orfeo e il respexit.

Virgilio inserisce nel finale del quarto libro delle Georgiche16 il mito di Orfeo ed Euridice, utilizzando la tecnica dell’epillio17 come espediente per collegare tra loro le due storie. L’apicoltore Aristeo aveva importunato la ninfa Euridice e questa, per sfuggire alle sue attenzioni, era stata morsa da un serpente. Il cantore Orfeo, sposo della ninfa, scese negli Inferi dove, grazie alla dolcezza della sua musica, riuscì a convincere i sovrani infernali a restituirgli l’amata, ma avrebbe dovuto rispettare la promessa fatta: mentre tornava sui suoi passi, non si sarebbe dovuto voltare fino a quando non fosse

15 Euripide, Alcesti, cit., vv. 357-368.

16P. Virgilio Marone, Georgiche, Milano, Garzanti 1982 Libro IV.

17 L'epillio, breve componimento d'indole epica scritto in esametri, è, accanto all'elegia

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giunto nuovamente nel regno dei vivi. Ovviamente Orfeo infranse questo patto, perdendo per sempre la sua Euridice.

[…] fermo, ormai vicino alla luce, vinto da amore,

la sua Euridice si voltò incantato a guardare.18

Contrapposto al concreto pragmatismo di Aristeo, Orfeo è il cantore del mito, capace di dominare le forze misteriose della natura, ma a sua volta dominato dalla forza irrazionale dell’amore, che lo condanna al fallimento. Il lungo racconto di amore e di morte che chiude il componimento di Virgilio ha quindi un significato che va ben oltre il racconto stesso e che si riflette sull’intera concezione del poema. L’Orfeo virgiliano non è semplicemente un poeta innamorato, è un poeta che fa dell’amore l’unico tema del suo canto e l’unica ragione della sua vita, ovvero un amante poeta elegiaco. Il confronto tra Orfeo e Aristeo nel finale delle Georgiche diventa quindi un discorso sulla poesia.

Il mito di Orfeo viene trattato in maniera ancora più estesa all’interno delle

Metamorfosi di Ovidio19, riporta componenti che erano assenti o poco sviluppate nella versione virgiliana. In particolare, rispetto a quanto accade in Virgilio per questo episodio, vengono inseriti alcuni elementi quali le nozze di Orfeo e il suo discorso alle divinità infernali. In generale, Ovidio cerca di fornire una trattazione completa dell’episodio, quasi sempre integrativa, nel senso che, rispetto a quella di Virgilio, colma molte omissioni e rende più esplicito e più evidente quanto viene presupposto o appena accennato. In lui la ripresa si caratterizza come un ampliamento, dove la versione virgiliana appare più essenziale. Quando Ovidio affronta il mito del poeta, che con la dote del canto riesce a riconquistare la sposa perduta e di

18 P. Virgilio Marone, Georgiche, cit., vv. 489-491.

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nuovo la perde per un eccesso d’amore, nelle Metamorfosi la poesia elegiaca non solo ha ottenuto il riconoscimento di un proprio spazio letterario autonomo, ma ha anche esaurito la propria stagione produttiva. Il risultato è quindi qualcosa di sorprendentemente lontano dall’epillio patetico scritto nel finale delle Georgiche.

Per quanto riguarda il “respicere”, Luigi Galasso nel commento alle

Metamorfosi afferma che nelle Georgiche è la dementia che si impadronisce

di Orfeo, amantem, vittima del furor di cui lo accusa Euridice, che solleva in maniera poco adatta alla situazione, pesanti rimproveri. Invece in Ovidio, Euridice non pronuncia nessuna parola di lamento, tanto meno di biasimo: eventualmente potrebbe lamentarsi soltanto di essere stata amata troppo. Infatti come possiamo leggere nel testo ovidiano:

Non erano lontani dalla

superficie terrestre, e qui Orfeo, per amore temendo che non gli venisse a mancare ed avido di vederla, volse volse indietro gli occhi, ed ella subito scivolò indietro e, tendendo le braccia e cercando

di afferrarla ed esserne afferrato, non prese altro che aria cedevole.20

Le attestazioni classiche del mito di Orfeo ci presentano dunque elementi importanti soprattutto a partire dalle testimonianze latine in cui Orfeo si volta a guardare Euridice e ciò diventerà uno dei punti fondamentali delle numerose rielaborazioni letterarie del mito che si susseguiranno nei secoli, specialmente per quelle novecentesche.

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Capitolo 2

La riscrittura del mito di Orfeo

La letteratura non ha mai smesso di riprendere i miti antichi e di sottoporli a costanti riscritture che hanno permesso di attualizzare il mito stesso facendo risaltare temi importanti dell’epoca. Queste storie che sono diventate immortali all’interno delle letterature antiche hanno attraversato i secoli assumendo, con il passare del tempo, i significati che ogni epoca ha attribuito loro. Da personaggi ad archetipi, i miti hanno offerto, uno dopo l’altro, fonti di ispirazione e si sono trasformati in punti di riferimento per la creazione poetica. Hanno oltrepassato i confini dei generi letterari e hanno interessato la scrittura teatrale, poetica e narrativa.

Ogni scrittore può provare ad osservare il tema a suo modo e proiettare la sua visione e la sua interpretazione, poiché in ogni opera che prende spunto dai miti e dai personaggi mitologici, l'autore costruisce non una storia ma piuttosto una meta-storia che è innestata sul mito d'origine. L'autore ha allora non soltanto la libertà assoluta del creatore (come lo ha sempre quando crea una storia) ma utilizza molti più elementi rispetto al solito introducendo nella sua opera tutto ciò che il mito utilizzato può evocare, tutto ciò di cui è caricato prima del suo intervento e l'autore può (ma non vi è obbligato) utilizzare questo contesto che accompagna sempre un mito generalmente conosciuto. Questa universalità della mitologia spinge così gli artisti ad esprimere la loro visione dei temi universali.

Ogni epoca della storia occidentale si è confrontata con i classici, con la pesante eredità di un patrimonio letterario diventato anche patrimonio di

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tradizioni, di gusti e di convenzioni. È importante sottolineare come l’utilizzo dell’antico da parte di autori moderni sia una premessa indispensabile per arrivare ad una nuova creazione originale che a sua volta sarà nel corso del tempo portatrice di nuove tendenze culturali.

Il Novecento è stato il secolo forse più influenzato dal mito di Orfeo ed Euridice: poeti, narratori, drammaturghi, registi hanno ripreso la vicenda del grande cantore e della sua amata ninfa. Le numerose e significative variazioni che furono apportate al nucleo originario del mito evidenziano che ci fu un sostanziale cambiamento nel corso del XX secolo, frutto dell’inesorabile scorrere del tempo che si traduce in un progressivo allontanamento dalle antiche versioni mitiche.

Il mito di Orfeo è sempre stato presente all’interno della cultura europea nonostante i mutamenti avvenuti all’interno delle varie letterature nazionali. Gli episodi legati alla leggenda restano gli stessi fissati da Virgilio e Ovidio, ciò che viene modificato è il senso stesso della vita e della morte di Orfeo. I poeti di ogni paese cercano di rivedere in Orfeo caratteristiche intrinseche della loro mentalità nazionale e soprattutto della propria epoca. Le letterature europee in cui ebbe una maggior diffusione la riscrittura del mito di Orfeo furono quella spagnola, quella italiana e soprattutto quella francese.

2.1 La riscrittura del mito di Orfeo in Spagna

Il mito di Orfeo nella letteratura spagnola è stato recentemente studiato da Pablo Cabañas21 e la sua ricerca ha messo in rilievo i temi principali che sono stati sviluppati dagli autori spagnoli, in primo piano abbiamo quello della

21 P. Cabañas, El mito de Orfeo en la literatura española, Madrid, Consejo Superior de

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fedeltà. Molti autori tra cui Calderón de la Barca in El divino Orfeo22 del

1634, descrivono soprattutto la costanza coniugale e la lotta dell’eroe contro tutto e tutti al fine di restare fedele a Euridice e a se stesso.

Per quanto concerne il tema della fedeltà amorosa di Orfeo possiamo constatare che dal momento in cui Orfeo si innamora di Euridice niente e nessuno potrà separarlo dal suo amore, nemmeno la morte. La sua discesa agli Inferi per recuperare la sua amata supera la sua natura e la condizione umana, uguagliando se stesso agli dei e di fatto superandoli, poiché è impossibile per qualsiasi essere umano attraversare il limite che separa il mondo dei vivi dal mondo dei morti. La fedeltà di Orfeo basata sull'amore supera quindi qualsiasi ostacolo.

Sempre secondo Pablo Cabañas un altro tema molto importante è quello della catabasi di Orfeo e del suo voltarsi indietro a guardare la sua amata. Se Orfeo si è guardato indietro non esiste un motivo particolare ma ciò è avvenuto semplicemente come conseguenza della sua fedeltà coniugale e della disgrazia a cui viene condannato. Guardare Euridice colma il desiderio del suo amore disperato senza sapere se ciò che otterrà sarà la ricompensa promessa oppure, come avverrà la sua punizione. Il protagonista quindi affronta il suo destino mediante le sue umane debolezze, cercando di lottare strenuamente ma dovendosi arrendere al tragico destino. Come afferma Cabañas:

La firmeza amorosa de Orfeo y Eurídice era tan característica que llegó a ser comparada con la de los amantes mitológicos más populares, en plano de igualdad y aun de superación: Leandro y Hero. Ariadna y Teseo. Píramo y Tisbe, etc…; y cuando el poeta personalmente quiere ponderar su amor lo compara al de de estas parejas sempiternas.23

22 C. de la Barca, El divino Orfeo [1634], Kassel, Reichenberger, 1999. 23 P. Cabañas, El mito de Orfeo en la literatura española, cit., p. 40-41.

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Su questo punto le versioni spagnole attingono da quanto affermato nelle

Georgiche da Virgilio e anticipano le versioni francesi in cui Orfeo è afflitto

dalla disgrazia. I rari momenti di felicità saranno il punto di partenza che lo faranno cadere nel dolore e nell’angoscia.

2.2 La riscrittura del mito di Orfeo in Italia

Per quanto riguarda l’Italia ci sono stati notevoli sviluppi nel corso dei secoli soprattutto nell’ambito della letteratura drammatica.

La storia del mito di Orfeo all’interno del teatro italiano esordisce con l’opera pastorale di Angelo Poliziano, la Fabula di Orfeo24. Egli è stato

indubbiamente una delle menti più eccelse del primo Umanesimo; la totale dedizione allo studio della letteratura e della cultura antiche lo portarono ad un elevato livello di conoscenza delle materie umanistiche consentendogli di riutilizzare generi letterari e motivi classici con estrema originalità, adattandoli all’epoca e al gusto contemporaneo.

Quest’opera segna il punto di svolta nella storia della letteratura drammatica italiana e si colloca in un momento in cui il pubblico aristocratico avrebbe desiderato un rinnovamento rispetto alla convenzionale opera teatrale. Si tentò quindi di creare una fusione tra poesia e suono che divenne poi il dramma musicale.

Man mano che ci si allontana dall’Umanesimo, il mito di Orfeo nella drammaturgia italiana perde sempre più il suo carattere classico acquisendo il volto di una società scettica e amante del lusso.

Nell’Italia del Seicento il mito di Orfeo ha ispirato soprattutto i musicisti: la frequenza di questo mito è la testimonianza del suo valore simbolico e

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fondante, nel momento in cui si stava creando un nuovo linguaggio musicale, capace di rappresentare e di muovere gli affetti e le emozioni del pubblico. Anche nel secolo successivo il mito continua a farsi sentire in musica con l’opera di Christoph Willibald Gluck. L’Orfeo e Euridice, su libretto di Ranieri de’ Calzabigi, venne rappresentata per la prima volta nell’ottobre del 1762 a Vienna e fu il primo lavoro nel quale Gluck riuscì a mettere in pratica la sua aspirazione di riforma dell’opera seria.

Come Marina di Simone all’interno di Amore e morte in uno sguardo: il mito

di Orfeo e Euridice tra passato e presente25 della complessa vicenda di

Orfeo, il Novecento elabora in particolare due temi importanti: quello del poeta-cantore e quello del gesto fatale del voltarsi indietro, il respicere, che causa la perdita definitiva di Euridice.

Uno degli autori che ha posto la sua attenzione sul mito orfico è Cesare Pavese. Egli riporta alla luce e rielabora in maniera originale gli antichi miti greci che, dopo una guerra devastante, rischiavano di essere oscurati. All’interno dei Dialoghi con Leucò26 del 1947, nel racconto L’inconsolabile,

Pavese considera il respicere di Orfeo un atto dovuto, dovuto a se stesso poiché ogni esperienza in quanto tale è una tappa fondamentale in un cammino necessario che conduce il poeta alla ricerca di sé:

Sappi dunque che un uomo non sa che farsi della morte. L’Euridice che ho pianto era una stagione della vita. Io cercavo ben altro laggiù che il suo amore. Cercavo un passato che Euridice non sa. […] Ho capito che i morti non sono più nulla. […] Non m’importò nulla di lei che mi seguiva. Il mio passato fu il chiarore, fu il canto e il mattino. E mi voltai.27

25 M. Di Simone, Amore e morte in uno sguardo: il mito di Orfeo e Euridice tra passato e presente, Firenze, Libri Liberi, 2003.

26 C. Pavese, Dialoghi con Leucò, Torino, Einaudi, 1968. 27 C. Pavese, Dialoghi con Leucò, cit., p. 78.

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Il poeta rinuncia volontariamente a Euridice perché ella può ancora alimentare il suo canto. Il suo gesto può esser considerato crudele ma, allo stesso tempo, eroico perché va al di là della sua persona e compie questo atto solo in nome della poesia.

2.3 Le riscritture mitiche novecentesche e la riscrittura del mito di Orfeo

in Francia

In Francia, nel corso del XX secolo si hanno molti cambiamenti e novità per quanto riguarda le forme, i modi di far letteratura e il pubblico a cui sono rivolte le varie opere.

Esiste una grande differenza tra la ricezione del tema del mito di Orfeo nella cultura italiana rinascimentale e il corrispondente fenomeno francese. Il mondo francese non conosce l’opera italiana di Angelo Poliziano e quindi nelle prime riscritture mitiche può far riferimento soltanto alle fonti classiche: Apollonio Rodio, Virgilio e Ovidio.

Benché siano numerose le opere letterarie francesi che attraverso i secoli hanno ripreso il personaggio di Orfeo, risulta tuttavia difficile fare una ricostruzione rappresentativa della storia dello sfortunato amore orfico. Per incontrare una realizzazione drammatica degna di attenzione si deve aspettare il XVIII secolo con la tragedia Orphée en machine (1736) di François-Joseph Chancel, autore ormai dimenticato dal mondo contemporaneo.

Il grande successo del mito di Orfeo inizia con l’arrivo del XX secolo, le poche testimonianze che si erano susseguite nel corso dei secoli precedenti, si vanno adesso moltiplicando in maniera esponenziale.

Il Novecento francese conosce soprattutto una fortuna teatrale della storia di Orfeo e Euridice. I testi più importanti, che testimoniano meglio

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l’atteggiamento degli autori moderni nei confronti del mito, sono l’Orphée28

di Cocteau e l’Eurydice29 di Anouilh. Il mito perde la sua versione originaria

e diventa lo specchio del quotidiano. Sia Cocteau che Anouilh trasformano Orfeo e Euridice in una coppia di coniugi borghesi, nel primo caso e di innamorati per quanto riguarda l’opera di Anouilh. In entrambe le versioni i due protagonisti del mito perdono ogni dignità mitica, spogliandosi della loro eroicità e trasformandosi in persone reali e comuni.

Queste rielaborazioni mitiche novecentesche diventano anche l’occasione per fare un’approfondita riflessione sul ruolo del poeta, della poesia e dell’arte all’interno del mondo contemporaneo, sulla sua natura e l’esistenza nel mondo quotidiano.

Lo scrittore e saggista Maurice Blanchot proporrà una versione del mito in cui considererà Orfeo e Euridice due amanti infelici, dando una versione simbolica dello sguardo di Orfeo e della figura del poeta. Come spiega Blanchot all’interno del suo saggio Lo spazio letterario30 del 1955 Orfeo-artista voltandosi a guardare Euridice la perde in quanto donna ma allo stesso tempo le attribuisce fama ed eternità nell’opera letteraria.

Lo sguardo di Orfeo, che voltando trasgredisce alla promessa fatta agli dei degli Inferi, vive nella contraddizione tra il desiderio per Euridice che è donna ed essere vivente destinata alla morte e allo stesso tempo l’immortalità della donna amata all’interno dell’opera letteraria nonostante il destino del poeta sia un enigma. Quindi se da un lato egli desidera essere ricordato fino all’eternità dall’altro si sente sconfitto per aver perso la donna amata. Come si può leggere in Blanchot:

28 J. Cocteau, Orphée. Tragédie en un acte et un intervalle [1925], Paris, Stock, 1927. 29 J. Anouilh, Eurydice [1941], Paris, Gallimard, 1980.

30 M. Blanchot, Lo spazio letterario [1955], trad. it. Gabriella Zanobetti, Torino, Einaudi,

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La profondità non si consegna apertamente, e si rivela soltanto dissimulandosi nell’opera. […] Ma il mito dimostra ugualmente che il destino di Orfeo è anche di non sottomettersi a questa legge ultima; e, certamente, volgendosi verso Euridice, Orfeo distrugge l’opera, l’opera immediatamente si disfa, e Euridice ritorna nell’ombra [...] Ma il non volgersi verso Euridice, significherebbe ugualmente tradire, essere infedele alla forza senza misura e senza prudenza del suo impulso […] la vuole vedere non quando è visibile ma quando è invisibile, […]avere vivente in essa la pienezza della sua morte.31

La letteratura francese così vicina all’antichità, ha saputo assimilare le figure e i miti antichi per costruire la propria tradizione poetica e soprattutto teatrale. Gli autori del XX secolo si mettono alla prova e si confrontano con il mito per mettere in risalto la loro identità e le forme da loro utilizzate devono riuscire ad adattarsi facilmente alla letteratura. Gli eroi della tradizione antica vengono ripresi in chiave moderna e gli autori impongono agli eroi stessi il loro stile e la deformazione del proprio sistema di idee. La riscrittura mitica è il mezzo attraverso il quale è possibile affrontare temi troppo complessi per l’epoca del primo dopoguerra come la violenza e la guerra. Questo modo di trattare il mito permette di stilizzare i personaggi e far risaltare il significato universale della storia raccontata.

La componente classica del mito viene ripresa e lasciata intravedere soltanto in filigrana, utilizzandone principalmente nomi e trame ma aggiungendo situazioni nuove tratte dalla storia contemporanea. Il genere che più di tutti viene utilizzato dagli scrittori francesi per la ripresa mitica è il teatro. Nel XX secolo molti autori si sono dedicati alla riscrittura dell’antico, di cui tra i più importanti possiamo ricordare André Gide, Jean Giraudoux, Jean Anouilh e Jean Cocteau.

André Gide32 lavorò alla rielaborazione mitica tra gli anni Venti e gli anni Quaranta del Novecento, ossia nella fase più feconda di questa attività. Egli

31 M. Blanchot, Lo spazio letterario cit., p. 147-148.

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prende spunto per le proprie opere soprattutto dalla mitologia greca. Analizzando con cura i protagonisti dei suoi scritti a carattere mitologico, ci si rende facilmente conto che l’autore non focalizza la propria attenzione sul comportamento degli dei ma sulle vicende di eroi umani come Ulisse, Teseo, Edipo o di creature semi-divine come Narciso e Prometeo33. Uno dei genitori degli eroi è spesso d'origine divina ma è sempre il lato umano che viene accentuato nei miti greci. La divinità dell'eroe resta piuttosto un segno dell'esistenza unica e straordinaria, è eletto ed il suo destino lo attende per essere compiuto. Ciò che affascina Gide è la trasparenza dell'esistenza pura, della forza della volontà umana ma allo stesso tempo l'irreversibilità del destino: poiché l'eroe rappresenta un grande paradosso che descrive perfettamente la condizione umana - il destino dell'eroe è ben tracciato in anticipo, inevitabile, a volte pericoloso ma l'eroe deve attivare tutte le sue forze per compierlo. Si può facilmente intuire che questa concezione della vita e del destino umano deve essere affascinante per un protestante come André Gide poiché il protestante comunica con il dio senza intermediario, cioè egli resta di fronte al suo destino da solo e può cercare la strada giusta soltanto nel suo cuore. Gide ha considerato la necessità di far rivivere l'individuale e si può dire che cerca di liberare i protagonisti permettendo loro di vivere la loro vita unica, irrevocabile e libera.

Per quanto riguarda Giraudoux, egli arriva a teatro solo dopo essersi affermato come ottimo romanziere. Quella della scrittura scenica è, dunque, una scelta intenzionale piuttosto che un impulso naturale. Giraudoux nega di essere stato influenzato da opere precedenti e indica un percorso ben diverso che ricollega l’originale classico alla sua riscrittura novecentesca con una linea diretta. Il lavoro sul mito è stato un atto di memoria capace di riportare

33 P. Adinolfi, André Gide e la riscrittura del mito: una lettura de “Le Prométhée mal enchaîné”, «Contatti, passaggi, metamorfosi. Studi di letteratura francese e comparata in

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a galla l’attualità del suo tempo. Dalla tragedia classica, Giraudoux vuole passare ad una tragedia borghese privata di un lirismo poetico che non può più appartenerle. Le riprese mitiche di Giraudoux mettono in risalto una dimensione borghese in cui coesiste una visione comica e tragica e da cui emergono i processi di imborghesimento della società contemporanea. Michel Lioure sottolinea come Giraudoux avesse sviluppato, riguardo alla questione mitica, una sensibilità già presente nella sua produzione drammatica, giustificando il gusto per il mito e per la sua riscrittura con l’assoluta passione per la letteratura34.

Un altro autore che ha avuto un ruolo importante nella ripresa del mito nel corso del Novecento francese è Jean Anouilh. La sua prima tragedia è

Eurydicedel 1941 che modernizza la leggenda di Orfeo ma l’opera che lo caratterizza più di tutte rimane Antigone35 (1943). Anouilh cancella la

dimensione sacra, scegliendo di modificare il ruolo e il carattere dei personaggi e di sopprimere alcuni lati, interiorizzando l’elemento tragico che diventa segno della condizione umana. Egli gioca quindi con la tradizione e la modernità, ricordando la persistenza delle problematiche universali e dandone una visione personale ma allo stesso tempo dando la possibilità di trasgredire la tradizione. Anouilh mescola sentimenti vecchi e nuovi e i suoi personaggi appartengono ad una dimensione atemporale.

Nel Novecento anche Victor Segalen si è distinto per aver ridato vita in maniera originale al mito di Orfeo.

Per quanto riguarda Orfeo si tratta, da una parte, di un racconto pubblicato nella rivista Mercure de France nel 1907 ed intitolata Dans un monde sonore e dall’altra parte, di un dramma lirico in cinque atti, l’Orphée-roi, di cui

34 S. Coyault, A, Duneau, M. Lioure (a cura di), Giraudoux et les mythes,

Clermont-Ferrand, Presses Universitaires Blaise Pascal, 2006, p. 17.

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Debussy avrebbe dovuto comporre la musica e che conobbe una pubblicazione postuma, senza la musica sperata, nel 1921.

Il compositore e il librettista dell'Orphée-roi tentano di confrontarsi con il mito classico e con la sua tradizione interpretativa, abbandonando nel testo come nella musica i sentieri tradizionali, appellandosi anche alle culture extraeuropee. La lettura del mito di Orfeo da parte di Debussy e Segalen vuole inoltre integrare modelli figurativi, che si ispirano ad alcuni motivi ripresi dall'opera del pittore Gustave Moreau, il quale aveva rappresentato il mitico cantore in alcuni dei suoi dipinti. Nella concezione del mito espressa in pittura, Segalen vide una traccia estetica, una rinnovata forza creatrice e interpretativa, in sintonia con la sua immaginazione poetica, alla quale riferirsi durante la stesura dell'Orphee-roi.

Un'opera su Orfeo, ambientata in un tempo lontano e una cultura antica, lo attirava molto. Realizzare un tale progetto gli avrebbe pure permesso di riscoprire la tragedia antica e combinarla con l’accompagnamento musicale moderno. Segalen, per riuscire in questa frammentazione del mito classico, si rifiuta di ispirarsi alle fonti tradizionali. Il canto di Orfeo è sempre stato accompagnato dalla lira ma in quest’opera di Segalen oltre che strumento musicale è considerato anche come la sua compagna, la sua forza. Pierre Brunel in Mythocritique. Théorie et parcours dichiara :

Entre la voix pure et la parole, chantée ou non, la lyre était peut-être un instrument de réconciliation, je n’ose pas dire une bouée de sauvetage. Elle est l’attribut traditionnel d’Orphée et, à elle seule, elle signale sa présence. Orphée chez les Thraces, sur la peinture de vase conservée au musée de Berlin, porte la lyre entre les bras.36

36 P. Brunel, Mythocritique Théorie et parcours, Paris, Presses Universitaires de France,

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Come afferma il critico, Segalen è l’unico tra i suoi contemporanei a dare così tanta importanza alla lira, tanto da farla diventare un personaggio effettivo all’interno dell’opera.

La rappresentazione di un eroe mitico sarebbe quindi soltanto il punto di partenza di una visione poetica che, essendo una volta riconosciuta diventa un’interpretazione unica e individuale.

Ma l’autore che è stato considerato da molti critici il più grande mitografo del XX secolo è Jean Cocteau.

La mitologia esercitò su Cocteau un fascino fondamentale, al punto da fare di lui lo scrittore, il poeta ed il pittore del nostro secolo per il quale i miti sono stati la principale fonte d'ispirazione. Grazie alla sua creatività i miti conobbero un’importante attualizzazione e ritrovarono un nuovo splendore anche quando i riferimenti fatti dall’artista erano fortemente personali:

L'homme cherche à se fuir dans le mythe. Il s'y emploie par n'importe quel artifice. Drogues, alcool ou mensonges. Incapable de s'enfoncer en lui-même, il se déguise. Il décolle de ce qu'il éprouve et de ce qu'il voit. Il invente. Il transfigure. Il mythifie. Il crée. Il se flatte d'être un artiste. Il imite, au petit pied, les peintres qu'il accuse d'être fous.37

Sono in primo luogo le grandi leggende classiche che gli offrivano, grazie alla loro eloquenza, i mezzi di espressione che gli hanno permesso di rivelare i lati oscuri. Il mondo dei miti antichi affascinava molto Cocteau e gli permetteva di parlare di argomenti essenziali della vita, attraverso un linguaggio semplice ma allo stesso tempo enigmatico. I personaggi leggendari di Edipo e di Orfeo incarnano in modo esemplare l'esistenza umana nell'opera di Cocteau.

L'originalità di Cocteau consiste essenzialmente nell’utilizzare le sequenze narrative della favola antica, adattandole alle sue ossessioni personali e ai

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bisogni di un pensiero che può esprimersi soltanto attraverso una deformazione del pensiero stesso. Egli attraverso il mito riesce ad affrontare le difficoltà e i fantasmi della propria vita, proiettando il suo essere e attribuendo ai personaggi una forte personalità che riesce a rendere così moderna la visione mitica.

Il personaggio di Antigone38 aveva per l’autore un’importanza molto particolare. Quand’era ancora un bambino conobbe la tragedia di Sofocle che gli fornì lo spunto per la sua prima opera teatrale basata sulla mitologia antica. Cocteau cerca di far rivivere il mito in maniera innovativa e la rielaborazione che ne fa è più ridotta rispetto alla tragedia di Sofocle ma nell’insieme resta fedele all’originale, mantenendo le vicende e le intenzioni morali che le erano state attribuite.

Per Cocteau il mito è soprattutto la verità di un universo completo dove, in tempi immemori, regnava l’unità assoluta tra gli dei, gli esseri umani e le cose. La sua opera si presenta come lo sforzo sovraumano di reintegrare questo universo che l’uomo ha perso completamente e che potrà ritrovare soltanto tornando alla sua natura mitica originaria. Questo spiega la presenza costante di svariati eroi che costellano l’opera coctoniana. Egli si sbarazza di modi e artifici al fine di dare una forma inimitabile e originale alle sue opere. La poesia mette a nudo la difficoltà di essere se stessi e Cocteau concepisce il mito come il linguaggio diventato verità esistente e concreta. Come afferma Cocteau nel suo diario Le passé défini:

J’ai toujours préféré la mythologie à l’histoire parce que l’histoire est faite de vérités qui deviennent à la longue des mensonges et que la mythologie est faite de mensonges qui deviennent à la longue des vérités.39

38 J. Cocteau, Antigone; suivi de Les mariés de la Tour Eiffel [1922], Paris, Gallimard,

2007.

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Cocteau cerca di mettere a nudo le sue paure attraverso elementi e immagini che risultano cariche di un grande valore simbolico e che grazie a questo si riesce a capire l’essenza del suo essere artista a tutto tondo.

I temi mitologici contenuti nell’opera di questo grande autore costituiscono quindi una forte innovazione letteraria basata sull’immaginario e sul fantastico in un secolo in cui il pensiero è principalmente orientato verso un’evoluzione scientifica.

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Capitolo 3

L’Orphée di Cocteau e i temi principali dell’opera

3.1 L’Orphée

Jean Cocteau ha spesso raccontato come il teatro abbia esercitato un certo fascino già dalla sua infanzia e come il mito, soprattutto quello di Orfeo, sia stato onnipresente nella sua vita e all’interno delle sue opere. Cocteau ritrova nelle figure dell’antichità l’espressione più consona per esprimere il suo mondo interiore facendo così in modo da rispondere anche alle domande che attanagliano l’uomo del XX secolo. Cocteau in Journal d’un inconnu afferma di preferire decisamente il mito alla storia:

La mythologie grecque, si l’on s’y plonge, nous intéresse davantage que les déformations et simplifications de l’Histoire, parce que ses mensonges restent sans alliage de réel, alors que l’Histoire est un alliage de réel et de mensonge. Le réel de l’Histoire devient un mensonge. L’irréel de la fable devient vérité.40

La mitopoiesi per Cocteau ha una funzione ben precisa ossia quella di creare una nuova dimensione che sia diversa dalla quotidianità dell’individuo, in cui egli si possa rifugiare, il mitografo ricorre quindi alla favola per trovare un universo in cui la realtà sia diluita e ampliata così che il mito apra le porte ad un altro mondo.

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Cocteau scrisse la sua pièce Orphée41 a Villefranche-sur-Mer durante l’estate

del 1925 ossia nella fase centrale del periodo di conversione e porta i segni dello stato quasi mistico del poeta. Originariamente quest’opera era stata pensata in modo totalmente diverso poiché doveva essere la storia della Vergine e Giuseppe infatti sempre in Journal d’un Inconnu scrive:

Ma pièce Orphée devait être primitivement une histoire de la Vierge et de Joseph, des ragots qu’ils subirent à cause de l’ange (aide-charpentier), de la malveillance de Nazareth en face d’une grossesse inexplicable, de l’obligation où cette malveillance d’un village mit le couple de prendre la fuite. L’intrigue se prêtait à de telles méprises que j’y renonçai. Je lui substituai le thème orphique où la naissance inexplicable des poèmes remplacerait celle de l’Enfant Divin. L’ange y devait jouer un rôle, sous l’aspect d’un vitrier. 42

Una motivazione per questo cambiamento di prospettiva da parte di Cocteau si ipotizza possa essere legato al fatto che il tema orfico sia considerato più universale rispetto a quello biblico, permettendo così all’autore di affrontare con più libertà la questione delicata della poesia e del ruolo del poeta all’interno della società contemporanea.

La pièce andò in scena per la prima volta al Théâtre des Arts di Parigi il 17 giugno del 1926 grazie alla compagnia di Georges Pitoëff e con la regia di Jean Hugo. Si presenta come una tragedia in un atto e un intervallo e tratta le vicende che riguardano Orfeo e la sua sposa, rispettando in maniera abbastanza fedele le attestazioni classiche del mito. Nella pièce vengono ripresi tutti gli elementi del mito tradizionale ma vengono aggiunti nuovi elementi che cambiano in maniera evidente l’opera.

Per riuscire a capire bene l’intreccio della storia è necessario definire le linee essenziali della pièce così da poterla successivamente analizzare.

41 J. Cocteau, Orphée. Tragédie en un acte et un intervalle [1925], Paris, Stock, 1927. 42 J. Cocteau, Journal d’un inconnu, cit., p. 48.

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Il sipario si alza su Orfeo che cerca di decifrare i messaggi trasmessi a colpi di zoccolo da un cavallo misterioso che lo aiuta a creare le sue composizioni poetiche sotto lo sguardo di rimprovero di Euridice che si lamenta della troppa attenzione del marito per questo animale e così scoppia una lite, al culmine della quale Orfeo rompe un vetro della finestra per fare salire a casa Heurtebise, un vetraio ambulante sospettato di essere in rapporti troppo intimi con Euridice. Orfeo esce per inviare una sua composizione, dettatagli dal cavallo, ad un concorso nazionale di poesia ed Euridice ne approfitta per chiedere consiglio a Heurtebise riguardo all’atteggiamento di Orfeo dal giorno in cui il cavallo è entrato nelle loro vite. Nel frattempo Euridice lecca il veleno nascosto in una busta inviatale da Aglaonice, capo di un circolo di donne dai costumi anticonformisti di cui Euridice faceva parte, e in punto di morte manda Heurtebise a cercare Orfeo. È a questo punto che entra in scena la Morte, accompagnata da due aiutanti, che mette in opera strani macchinari per fare morire Euridice e che uccide il cavallo con una zolletta di zucchero avvelenata che Heurtebise aveva destinato allo stesso scopo. Al suo rientro a casa Orfeo trova la moglie morta e si pente di averla trascurata a causa del cavallo, così Heurtebise gli rivela che è possibile raggiungere il mondo dei morti passando attraverso lo specchio:

Je vous livre le secret des secrets. Les miroirs sont les portes par lesquelles la Mort va et vient. Ne le dites à personne.43

È quello che farà Orfeo con il pretesto di restituire alla Morte un paio di guanti che aveva dimenticato. Heurtebise rimane quindi solo in casa e arriva un postino che recapita una lettera. Dopo un brevissimo intervallo, si ripete la scena del postino, seguita dal ritorno in scena di Orfeo che è riuscito a recuperare Euridice a condizione di non guardarla più altrimenti la avrebbe

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persa nuovamente. Ma i tentativi di rispettare questa condizione innervosiscono i due coniugi che riiniziano a litigare a causa del passato di Euridice. Orfeo, spinto da Euridice, perde l’equilibrio e la guarda: Euridice scompare. Fingendo di avere causato la sua morte premeditatamente, Orfeo apre la lettera che era stata recapitata durante il suo viaggio nell’aldilà: è una lettera minatoria anonima. Si ode in lontananza un insistente rullo di tamburi: sono le Baccanti capeggiate da Aglaonice che reclamano la testa di Orfeo. Secondo loro, l’acrostico della frase inviata da Orfeo al concorso di poesia «Madame Eurydice Reviendra Des Enfers» forma una parola ingiuriosa nei confronti della giuria. Orfeo si affaccia quindi sul balcone per cercare di calmarle ma viene decapitato e la sua testa rimbalza sulla scena. Euridice si sporge dallo specchio per portare con sé il corpo invisibile di Orfeo. Entra il Commissario per interrogare Heurtebise, sospettato dell’omicidio; secondo la sua versione dei fatti, le Baccanti erano venute ad acclamare Orfeo e lo hanno visto sporgersi insanguinato al balcone e cadere morto. Durante l’interrogatorio Heurtebise fugge non visto dentro lo specchio; è quindi la testa di Orfeo, che Heurtebise aveva poggiato su un piedistallo come se fosse un busto, a rispondere alle domande del Commissario. Quest’ultimo si accorge della fuga ed esce di scena portando con sé la testa. Nell’ultima scena vediamo il trio riunito nell’aldilà: i personaggi pranzano insieme nella più completa serenità. Prima di mettersi a mangiare Orfeo recita una preghiera:

Mon Dieu, nous vous remercions de nous avoir assigné notre demeure et notre ménage comme seul paradis et de nous avoir ouvert votre paradis. Nous vous remercions de nous avoir envoyé Heurtebise et nous nous accusons de n’avoir pas reconnu notre ange gardien. Nous vous remercions d’avoir sauvé Eurydice parce que, par amour, elle a tué le diable sous la forme d’un cheval et qu’elle en est morte. Nous vous remercions de m’avoir sauvé parce que j’adorais la poésie et que la poésie c’est vous. Ainsi soit-il.44

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È proprio nella preghiera finale che si trova la traccia più evidente, ma anche più superficiale, della conversione che Cocteau attraversava al momento della stesura di Orphée. Nel resto dell’opera non si fa alcun riferimento esplicito alla religione cristiana, anche perché gli avvenimenti si svolgono in una Tracia stilizzata e modernizzata ma pur sempre pagana. Del resto nel periodo della stesura di Orphée la fede di Cocteau cominciava già a vacillare, fino alla rottura definitiva con Jacques Maritain avvenuta nell’ottobre successivo.

L’opera, definita dallo stesso Cocteau «tragédie en un acte et un intervalle», è composta da un atto ed è divisa in 13 scene di diversa lunghezza, si divide in due parti poiché il sipario si abbassa e subito si rialza (intervallo) per indicare un cambiamento di situazione. In questo intervallo avviene la discesa agli inferi di Orfeo, che non viene mostrata sulla scena e quando il sipario viene rialzato viene ripetuta la scena dell’arrivo del postino che si era svolta prima dell’abbassarsi del sipario. Questo intervallo sottolinea la mancanza di spostamento temporale che si ha tra il tempo umano e quello divino.

Cocteau ambienta la tragedia, che alla fine tragedia non è, nel tempo presente cercando di mettere in evidenza le debolezze e la loro normalità di una moderna coppia borghese. L’autore mostra quindi un qualcosa che si affaccia in maniera evidente al quotidiano e in un certo senso scavalca completamente il mito classico.

I dialoghi, inoltre, insistono sulla quotidianità: la conversazione è di tipo colloquiale proprio per sottolineare la normale consuetudine della vita all’interno di una coppia. Il linguaggio riesce a ridimensionare in maniera adeguata il mito antico, privandolo di tentazioni, di sentimentalismi di ascendenza romantica e di tentazioni neoclassiche. Se non fosse per i nomi

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di cui sono portatori, Orfeo ed Euridice sembrerebbero a tutti gli effetti una normale coppia borghese, con i loro litigi e i loro screzi quotidiani.

Importante è anche lo spazio in cui i personaggi si muovono e interagiscono. Cocteau si sofferma puntigliosamente nelle didascalie che precedono il prologo e che riguardano la descrizione dell’ambiente e dei costumi, proprio per sottolineare la loro importanza. Come nota anche uno studioso dell’opera teatrale di Cocteau, Gérard Lieber:

Il testo, tale come appare nella sua pubblicazione, è pieno di importanti note riguardanti i costumi e l’ambiente da una parte, la messa in scena dall’altra, come per assicurarsi uno svolgimento meticoloso della rappresentazione.45

Lieber continua la sua osservazione sottolineando come le didascalie siano molto tecniche e non né una interpretazione né una riflessione, ma vogliono dare alla pièce la sua giusta rappresentazione, controllando il suo buon svolgimento. Orphée è dunque un testo teatrale in cui il proprio autore orienta nei minimi particolari la mise en scène; il margine di libertà del regista e degli attori è inconsistente.

Partendo dall’opera stessa si notano particolari interessanti come per esempio la dedica all’inizio dell’opera, la descrizione dei costumi e dell’ambientazione e il prologo dell’autore.

Cocteau scrive la dedica a Georges Pitoëff, grande attore e regista teatrale francese di origine russa. Orphée è una creazione della compagnia Pitoëff in cui sia Georges, sia la moglie Ludmilla hanno anche recitato: il primo nel ruolo di Orfeo e la seconda nel ruolo di Euridice. Cocteau in questa dedica accenna al difficile ruolo del drammaturgo e sottolinea il ruolo del pubblico e della critica nell’opera teatrale:

45 G. Lieber et al., Jean Cocteau. Quaderni del Novecento Francese, Roma, Bulzoni,

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Vous savez à quoi s’expose un dramaturge écorché vif. Mais, au théâtre, le public réserve des surprises et ne préjuge pas. La critique, elle, sauf quelque exceptions, ne réserve aucune surprise.46

La pièce viene dedicata ai figli della coppia Pitoëff perché loro vivono «de plain-pied avec le mystère» e sono l’esempio del pubblico ideale che Cocteau vorrebbe avere per le proprie opere.

J’offre la pièce à vos enfants, et je souhaite qu’ils ne perdent jamais l’enfance, ou qu’ils la retrouvent grâce au cœur, au génie, hérités de votre femme et de vous. 47

Cocteau associa quindi tutta la famiglia Pitoëff alla sua pièce di cui il felice epilogo, ossia Orfeo e Euridice rivivono il loro amore terreno anche in paradiso, è l’elogio dell’amore e della ricchezza del cuore che il poeta ha trovato nel suo direttore artistico.

Per quanto riguarda lo scenario ad occuparsene è stato Jean Hugo. Autore delle maschere e dei costumi di altre opere teatrali, il pittore si occupa della scenografia d’Orphée, che sarà la sua ultima e la più importante collaborazione nel teatro di Cocteau. Egli lavorò a stretto contatto con l’autore tanto che il risultato sono state le lunghe descrizioni che abbiamo all’inizio dell’opera per quanto riguarda i costumi e la scenografia.

Cocteau vuole che i costumi utilizzati dai personaggi siano abiti dell’epoca in cui la tragedia è rappresentata in modo da evidenziare che la leggenda sopravvive senza considerare il fattore temporale. Orfeo e Euridice sono vestiti con abiti campagnoli, Heurtebise con la tuta da operaio, un foulard scuro intorno al collo e delle espadrillas bianche. La Morte ha le sembianze

46 J. Cocteau, Orphée. Tragédie en un acte et un intervalle, cit., p. 9. 47 J.Cocteau, Orphée. Tragédie en un acte et un intervalle, cit., p. 10.

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di una giovane donna con un elegante abito da sera rosa con una voce secca e distratta. Per il ruolo della morte Cocteau si rivolge a Mireille Havet, giovane commediante dilettante straniera che faceva parte della compagnia Pitoëff.

L’azione della pièce si svolge in un salone della villa di Orfeo che l’autore descrive come un salone curioso e assomiglia «aux salons des prestidigitateurs». Il cavallo si trova al centro una nicchia, due tavoli e tre sedie bianche arredano la scena. Cocteau dice che ogni piccolo particolare sulla scena ha il suo ruolo e afferma:

Au reste ce décor épouse les personnages et les événements d’une manière aussi naïve et aussi dure que modèle et toile peinte se mélangent sur le camaïeu des cartes-portraits. 48

Prima dell’inizio dell’opera, come già detto in precedenza, è presente il prologo che viene recitato da Orfeo. Egli afferma che il prologo stesso non è dell’autore ma degli interpreti e Orfeo chiede al pubblico di aspettare la fine della «tragédie» per esprimere un giudizio sulla tragedia, dichiarando anche che la sua richiesta è mossa dal fatto che gli attori interpretano un’opera dallo svolgimento complesso e recitano molto in alto e senza reti di soccorso quindi ogni minimo rumore potrebbe metterli in pericolo:

La tragédie dont il nous a confié les rôles est d’une marche très délicate. Je vous demanderai donc d’attendre la fin pour vous exprimer si notre travail vous mécontente. Voici la cause de ma requête : nous jouons très haut et sans filet de secours. 49

Dobbiamo quindi adesso porre l’attenzione su ciò che rende Orphée una delle opere che tratta vicende mitiche come una delle più innovative del Novecento francese.

48 J. Cocteau, Orphée. Tragédie en un acte et un intervalle, cit., p. 17. 49 J. Cocteau, Orphée. Tragédie en un acte et un intervalle, cit., p. 19.

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È evidente che Cocteau riprende il mitologema orfico rispettandolo ma pur sempre rimaneggiandolo a suo modo; le innovazioni apportate all’intreccio tradizionale hanno proprio la funzione di avvicinarlo al sistema poetico-simbolico proprio dell’autore. Fra queste, salta agli occhi l’inserimento, accanto alla coppia mitica, di un terzo personaggio di discendenza ultramondana: l’angelo. Nella poetica di Cocteau la figura dell’angelo riveste un ruolo di primaria importanza, essendo egli un vero e proprio strumento di poesia. Nel caso di Orphée questo suo ruolo viene particolarmente accentuato. Alcuni studiosi fanno notare che la funzione di Heurtebise all’interno della pièce è analogo al ruolo di Hermes in una delle attestazioni classiche del mito. Hermes nella mitologia greca ricopre, fra le altre, due funzioni precise: egli è il messaggero degli dei, è dunque l’angelo per eccellenza, colui che fa la spola fra il mondo degli umani e quello degli immortali per stabilire un contatto fra i due. Nella versione antica del mito Hermes ha la funzione di sorvegliare le entrate e le uscite dall’Ade e di guidare gli sposi nel loro contatto con l’altro mondo e con il soprannaturale. La sua funzione coincide nella pièce di Cocteau con quella di Heurtebise: anche lui è la guida di Orfeo, ma anche di Euridice, alle prese con un mondo differente dal loro, come è anche il guardiano dello specchio, ovvero della porta del regno dei morti. Non è un caso che egli sia presentato sotto l’aspetto di un vetraio, con le sue lastre di vetro legate sulla schiena, che vengono a rappresentare così un paio di ali stilizzate. Sempre secondo la logica per cui il soprannaturale discende in questo mondo assumendo un aspetto familiare ai suoi abitanti, l’angelo è un comunissimo vetraio ambulante, così come era un aiutante falegname nella concezione originaria della pièce.

Un’altra delle innovazioni introdotte da Cocteau è il cavallo che ha il compito di trasmettere la poesia. Questo animale è il veicolo che il soprannaturale ha scelto per manifestarsi ad Orfeo ed è proprio l’animale che fra i primi è stato addomesticato dall’uomo, quindi quello a lui più familiare. Orfeo subisce il

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fascino magico del cavallo, cioè dell’aldilà, e per assecondare questa fascinazione sacrifica la sua carriera affermata di poeta ufficiale per addentrarsi verso le origini stesse della poesia. Ed è proprio questo che Euridice gli rimprovera:

Tu étais chargé de gloire, de fortune. Tu écrivais des poèmes qu’on s’arrachait et que toute la Thrace récitait par cœur. Tu glorifiais le soleil. Tu étais son prêtre et un chef. Mais depuis le cheval tout est fini.50

Euridice, donna tutta terrena, non riesce a capire come Orfeo possa rinunciare alla gloria che ha conquistato con le sue poesie per inseguire un altro genere di poesia, una poesia che non è di questo mondo e che per questo è affascinante. Orfeo ribatte ad Euridice, cercando di farle comprendere il suo nuovo orizzonte poetico:

Colle ton oreille contre cette phrase. Ecoute le mystère. […] Nous nous cognons dans le noir ; nous sommes dans le surnaturel jusqu’au cou. Nous jouons à cache-cache avec les dieux. Nous ne savons rien, rien, rien. «Madame Eurydice reviendra de enfers », ce n’est pas une phrase. C’est un poème, un poème du rêve, une fleur du fond de la mort.51

Orfeo comprende ed assume in pieno la sua inferiorità nei confronti del soprannaturale. Si rende conto che il cavallo altro non è che un pezzo visibile dell’immensa «machine infernale» (come il titolo di una delle opere principali di Cocteau) ordita contro di lui dagli dei. Riesce a capire che la poesia dettatagli dal cavallo è strettamente imparentata con il sogno e con la morte. Non per questo si arrende o cerca, come Euridice, di lottare contro il mistero, ma al contrario si accanisce ad indagarlo e si lascia assorbire nel gioco del nascondino con gli dei. La cosa che però non è chiara è l’interpretazione da dare alla figura del cavallo: alla luce della preghiera

50 J. Cocteau, Orphée. Tragédie en un acte et un intervalle, cit., p. 27, sc. I. 51 J. Cocteau, Orphée. Tragédie en un acte et un intervalle, cit., p. 28-29, sc. I.

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finale dell’opera in cui si parla dell’animale come di un’incarnazione del male e di Euridice come della salvatrice di Orfeo si potrebbe pensare che Cocteau avesse bisogno di introdurre sul palcoscenico un mezzo con cui la Morte potesse fare uscire di scena il cavallo oppure un’altra ipotesi che personalmente avvaloro è che il cavallo e i suoi messaggi costituiscono soltanto la prima fase del cammino di Orfeo verso la poesia; dopo avere percepito che la vera poesia non è quella ufficiale che termina con la gloria ma piuttosto quella il cui inizio e il cui fine non sono riscontrabili in questo mondo, il poeta deve impegnarsi a raggiungere il mondo dei morti per potere attingere ad essa senza intermediazioni.

La terza ed ultima novità evidente che Cocteau inserisce nello schema del mito è la presenza di un quarto personaggio, che è la Morte in persona. Questo personaggio appare sul palco solo per una breve scena, al centro del dramma, ma la sua presenza è molto importante non tanto per il suo ruolo all’interno dell’economia drammaturgica, quanto piuttosto per la sua rappresentazione. Cocteau ce la presenta così :

La Mort est une jeune femme très belle en robe de bal rose vif et en manteau de fourrure. Cheveux, robe, manteau, souliers, gestes, démarche à la dernière mode. Elle a de grands yeux bleus peints sur un loup. Elle parle vite, d’une voix sèche et distraite. Sa blouse d’infirmière aussi doit être l’élégance même.52

La Morte non ha niente a che vedere con l’iconografia classica che l’accompagna. Il tratto che la caratterizza è l’eleganza; questa eleganza è l’esteriorizzazione superficiale del fascino che essa esercita sul poeta. Il personaggio che raffigura la morte deve avere delle qualità che gli

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permettano di sedurre Orfeo e di legarlo a sé, tanto da fargli trascurare la sua vita terrena per incamminarsi verso di lei.

La Morte entra dunque in scena una sola volta in tutta l’opera e lo fa per compiere il suo lavoro in abito da sera, accompagnata da due aiutanti in camice da chirurghi, mascherina di garza e guanti in lattice. I personaggi escono fuori dallo specchio, secondo la norma per cui, come spiega Heurtebise ad Orfeo, «les miroirs sont les portes par lesquelles la Mort va et vient». I tre personaggi intraprendono un misterioso rituale per provocare il passaggio di Euridice dalla vita alla morte. La Morte indossa anche lei un camice sopra il vestito, lava le mani con l’alcool e infila dei guanti da chirurgo. Azraël mette in moto un rumoroso marchingegno e regola delle manopole seguendo le indicazioni dettategli dalla Morte. Quest’ultima intanto si è fatta bendare gli occhi e comincia ad eseguire una «gesticulation lente de masseuse et d’hypnotiseur autour d’une tête invisible». Infine la Morte arrotola una bobina di filo che esce fuori dalla camera di Euridice, ad un’estremità del quale è attaccata una colomba; mentre i due aiutanti gesticolano in maniera bizzarra, la Morte taglia il filo e la colomba vola via. Dopo avere consumato questo rituale i tre scompaiono da dove sono venuti. Questi sono quindi gli elementi innovativi che rendono l’opera di Cocteau unica nel suo genere, soprattutto per la profondità dei temi che affronta. A questo punto è bene riflettere sul finale dell’opera o per meglio dire i finali dell’opera poiché in realtà ne abbiamo ben due: il primo si svolge sulla Terra mentre il secondo si svolge in Paradiso. Entrambi i finali ovviamente rispondono a esigenze diverse: quello sulla Terra è incentrato soprattutto sull’arte poetica e sul ruolo che il poeta ha mentre il secondo finale è focalizzato sull’amore dei due sposi che, come avveniva in Ovidio, continua anche dopo la morte.

Se la scena XII della pièce ricalca a modo suo la tradizione, l’interrogatorio del commissario all’angelo Heurtebise e poi alla testa di Orfeo è un’aggiunta

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