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1. SISMICITÀ DEL TERRITORIO ITALIANO

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Academic year: 2021

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1.SISMICITÀ DEL TERRITORIO ITALIANO

1.1. Il terremoto

La Terra è composta al suo interno da rocce disomogenee per densità, temperatura e caratteristiche dei materiali che ne influenzano il comportamento meccanico; nel corso degli anni, sono stati elaborati numerosi modelli del suo funzionamento meccanico in grado di descriverne le trasformazioni quali, ad esempio, quelle messe in atto dai terremoti. Nel corso della storia, i terremoti hanno spesso condizionato la vita di intere comunità e le vicende di vaste aree geografiche; l’Italia, in particolare, è un Paese ad elevata sismicità, per la frequenza e l’intensità dei terremoti che hanno interessato il suo territorio. All’interno della Terra, solo gli strati più superficiali, crosta e mantello superiore, sono sede di attività sismica.

La crosta si divide in crosta oceanica e crosta continentale, le due presentano notevoli diversità: mentre la crosta oceanica è sottile e pesante, la crosta continentale è più spessa ma di densità minore, quindi più leggera.

La litosfera è la parte solida ed inorganica della Terra che comprende la crosta terrestre e la porzione più superficiale del mantello superiore, per uno spessore complessivo variabile tra i 70-75 km in corrispondenza dei bacini oceanici e i 110-113 km al di sotto dei continenti. La superficie di discontinuità sismologica tra questi due elementi viene detta

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Figura 1 - Struttura interna della Terra

La litosfera è frammentata in una serie di placche tettoniche o litosferiche, ai cui margini si concentrano i fenomeni geologici endogeni, come il magmatismo (incluso il vulcanismo), la sismicità e la orogenesi.

Le placche, dette anche zolle, sono suddivise in 7 zolle continentali e 14 zolle di dimensioni sub-continentali. In Figura 2 sono rappresentate le 7 zolle continentali e in particolare: (1) la zolla euro-asiatica; (2) la zolla nord-americana; (3) la zolla sud-americana; (4) la zolla africana; (5) la zolla indo-oceanica; (6) la zolla pacifica; (7) la zolla antartica;

sono inoltre rappresentate in giallo alcune zolle sub-continentali quali la zolla di Nazca, la zolla Adriatica e la zolla Araba.

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Figura 2 - Zolle continentali

Le zolle poggiano sul mantello che, non essendo un substrato rigido, permette a queste di muoversi. È proprio questo il concetto che sta alla base della cosiddetta teoria della deriva dei continenti, presentata dal Alfred Wegner nel 1915.

Wegner ipotizzò che 200 milioni di anni fa fosse esistito un unico continente, chiamato Pangea, che avrebbe successivamente iniziato a frammentarsi dando luogo ai continenti come li conosciamo al giorno d’oggi; a conferma della sua teoria, Wegner, provò che sulle coste dell’Africa e dell’America del Sud erano state trovate le stesse specie di fossili ed anche che, sulle coste dei due continenti, si trovavano gli stessi tipi di rocce. Le ipotesi che stavano alla base del moto delle zolle erano però discutibili, Wegner infatti sosteneva che il movimento delle zolle fosse causato dalla forza centrifuga, dalla forza di Coriolis e dall’attrazione della luna e del sole.

Negli anni ‘30 Holmes modificò la teoria di Wegner ipotizzando che la deriva dei continenti fosse causata da forze interne alla Terra e in particolare dalle correnti convettive all’interno del mantello.

La teoria di Holmes venne ulteriormente modificata negli anni ’50 ipotizzando che le zolle non si muovessero passivamente sopra il mantello a causa dei moti convettivi in esso presenti ma fossero direttamente coinvolte nei moti convettivi.

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Le zolle, muovendosi, interagiscono le une con le altre tramite i loro punti di contatto chiamati margini. A seconda del tipo di moto che si verifica fra due zolle interagenti, si distinguono vari tipi di margini.

Margini di SUBDUZIONE: l’attrito causato dal contatto tra due margini fa sì che una delle due zolle si muova verso il basso, questo avviene, per esempio, in caso di scontro fra crosta oceanica con crosta oceanica, una delle zolle sprofonda quindi verso il basso secondo un movimento noto come subduzione; la subduzione può avvenire anche nel caso di scontro fra crosta continentale con crosta oceanica, in questo caso la zolla oceanica, di densità maggiore e quindi più pesante, si muove verso il basso mentre la zolla continentale si deforma: nascono così nuove catene montuose.

Figura 3 - Rappresentazione del movimento dei margini di subduzione

Margini in DISTENSIONE: l’allontanamento di due zolle causa delle fratture e la crosta si lacera, i magmi profondi possono quindi risalire in superficie dando vita ad un’intensa attività vulcanica; questi prendono il nome di margini in distensione continentali.

Se viene raggiunto il livello del mare, le acque invadono la fossa che si è creata e la serie di vulcani che si erano in precedenza creati prende il nome di dorsale oceanica.

Figura 4 - Rappresentazione del movimento dei margini in distensione

Margini in COLLISIONE: lo scontro tra due zolle continentali, di uguale densità, fa sì che non ci sia subduzione ma che le due zolle si accavallino l’una sull’altra dando così origine a catene montuose interne ai continenti.

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Figura 5 - Rappresentazione del movimento dei margini di collisione

Margini TRASCORRENTI: quando il movimento reciproco di due zolle non genera né subduzione né accavallamento delle zolle, si verifica uno scorrimento laterale delle due zolle; il piano di contatto tra le due zolle prende il nome di faglia.

Figura 6 - Rappresentazione del movimento dei margini trascorrenti

I movimenti delle zolle determinano in profondità condizioni di sforzo e di accumulo di energia; quando lo sforzo a cui sono sottoposte le rocce supera il loro limite di resistenza, l’energia accumulata si libera e avviene il terremoto.

Il punto in cui ha origine il terremoto è detto ipocentro e la sua proiezione sulla superficie è detta epicentro. Rispetto ad un punto d’osservazione stabilito, si definiscono distanza ipocentrale e distanza epicentrale rispettivamente la distanza dall’ipocentro e dall’epicentro; la distanza dall’ipocentro all’epicentro è invece detta distanza focale.

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L’energia che si libera nell’ipocentro si propaga nel terreno sotto forma di onde che, attraversando la terra, giungono in superficie dissipando la loro energia. La dissipazione di tale energia è in larga parte influenzata dalla profondità dell’ipocentro. Infatti, mentre per i terremoti profondi (oltre 300 km di distanza focale), pur avendo un’elevata energia iniziale, si ha una grande dissipazione causata dal passaggio dell’onda sismica attraverso i vari strati del terreno con conseguenti scosse di bassa entità su vaste aree, per i terremoti crostali (fino a 25 km di distanza focale), pur avendo una modesta energia iniziale, si ha poca dissipazione dell’energia rilasciata nell’ipocentro e ne conseguono scosse di alta entità su aree limitate.

Le onde sismiche si attenuano all’aumentare della distanza epicentrale, infatti, se nelle vicinanze dell’epicentro si possono avere gravi danni sulle costruzioni, con l’aumentare della distanza, si riscontra una diminuzione dei danni sulle costruzioni (vedi Figura 8). La legge che regola questa diminuzione prende il nome di legge di attenuazione e, nel corso degli anni, numerosi Autori ne hanno proposto diverse interpretazioni.

Figura 8 - Attenuazione delle onde sismiche in funzione della distanza

La legge di attenuazione dipende dal tipo di suolo che viene attraversato dall’onda sismica, questo può però essere molto diverso da un sito all’altro e la legge di attenuazione non può che tener conto di un valore medio che approssima i diversi tipi di suolo attraversati dall’onda sismica.

Il suolo può però cambiare bruscamente le proprie caratteristiche geologiche da un sito all’altro e questo, può causare una diversità nel modo di propagazione delle onde sismiche su siti anche molto vicini fra loro: si parla in questo caso di risposta sismica locale.

A seconda del tipo di terreno e delle sue caratteristiche si possono presentare diverse situazioni come illustrato in Figura 9: si possono avere effetti di amplificazione locale in presenza di terreno di tipo alluvionale, si può verificare il fenomeno della liquefazione del

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terreno ovvero l’accumulo di pressione interstiziale in un terreno di tipo non coesivo (sabbia, ghiaia), che ne causa la perdita di resistenza e rigidezza al taglio a seguito di eccitazione sismica con conseguenti deformazioni permanenti, e si possono verificare eventi franosi in pendii con elevata acclività costituiti da terreni detritici o prevalentemente argillosi.

Figura 9 - Risposta sismica locale per terreni di caratteristiche diverse

1.2. Sismicità italiana

L’Italia, se paragonata al resto del mondo, non è tra i siti dove si concentrano né i terremoti più forti né quelli più distruttivi. La pericolosità sismica del territorio italiano può considerarsi medio-alta nel contesto mediterraneo e addirittura modesta rispetto ad altre zone del pianeta. Infatti, ogni anno nel mondo accadono diversi milioni di terremoti, stando a quanto stima uno dei principali centri sismologici internazionali ovvero il National Earthquake Information Center (NEIC) del servizio geologico degli stati uniti. Il NEIC ne localizza ogni anno tra 12.000 e 14.000, di cui 60 sono classificati come significativi ossia in grado di produrre danni considerevoli o morti e circa 20 quelli di forte intensità, con magnitudo superiore a 7.0.

La sismicità di un territorio è direttamente proporzionale alla frequenza con cui si manifestano i terremoti.

La sismicità italiana dipende essenzialmente dalla sua particolare posizione geografica, perché è situata al margine di convergenza tra due grandi placche, quella africana e quella euroasiatica.

Le placche in questione convergono lungo una direzione Nord-Ovest/Sud-Est. Analizzando nello specifico, la Sicilia settentrionale e la Calabria sono caratterizzate da

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una tettonica compressiva, cioè dovuta ad un meccanismo di rottura dovuto alla convergenza di due placche vicine in direzione perpendicolare alla faglia, che comporta un'elevata sismicità profonda.

Figura 10 - Placche tettoniche nel bacino mediterraneo

Spostandosi verso Nord tutta l'area appenninica è caratterizzata da una tettonica distensiva, cioè un meccanismo di rottura dovuto all’allontanamento di due placche vicine in direzione perpendicolare alla faglia, in direzione Nord-Est/Sud-Ovest. Sul versante occidentale dell'Appennino settentrionale (Garfagnana, Mugello e Casentino) sono presenti una serie di bacini distensivi, che comportano un'elevata attività sismica dell'area.

Le catena montuosa delle Alpi infine, è interessata da una tettonica compressiva in direzione Nord-Sud che si manifesta soprattutto con l'elevata sismicità dell'Italia nord-orientale.

1.3. Storia della sismicità italiana

Ogni giorno la penisola italiana è interessata da numerosi terremoti, sebbene la maggior parte di essi non sia percepibile dall'uomo.

In 2500 anni, si sono verificati più di 30.000 terremoti di media e forte intensità superiore al IV-V grado della scala MCS (Scala Mercalli-Cancani-Sieberg, scala non scientifica che misura l’intensità di un terremoto sulla base degli effetti che esso produce su persone, edifici e manufatti) e da circa 560 eventi sismici di intensità uguale o superiore all’VIII grado. Solo nel XX secolo, ben 7 terremoti hanno avuto una magnitudo uguale o superiore a 6.53, tra cui quelli a Messina e Reggio Calabria (1908), a Avezzano e Marsica (1915), in Lunigiana e Garfagnana (1920), in Irpinia (1980) e nelle Marche (1997). Tra gli ultimi si ricordano i terremoti in Abruzzo nel 2009, che ha raggiunto magnitudo superiore a 6, ed in

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Emilia Romagna nel 2012.

Dal punto di vista economico, questi eventi hanno causato danni consistenti, valutabili per gli ultimi quaranta anni in circa 135 miliardi di euro. A ciò si devono aggiungere le conseguenze non traducibili economicamente sul patrimonio storico, artistico, monumentale che da sempre è il simbolo del nostro Paese.

In Italia il rapporto tra i danni prodotti dagli eventi sismici e l’energia rilasciata nel corso di tali eventi è molto più alto rispetto ad altri Paesi caratterizzati da elevata sismicità, come la California e il Giappone. Ad esempio il terremoto del 1997 in Umbria e nelle Marche ha prodotto un danno economico stimabile intorno ai 10 miliardi di Euro, mentre quello della California del 1989 circa 14.5 miliardi di Dollari, pur essendo caratterizzato da un’energia dissipata di circa 30 volte maggiore.

Questo è dovuto principalmente all’elevata densità abitativa del nostro Paese e alla notevole fragilità del patrimonio edilizio Italiano. L’INGV sulla base delle rilevazioni dirette fatte attraverso la Rete Sismica Nazionale ha ricostruito la mappa della sismicità recente.

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Figura 11 - Sismicità del territorio italiano dal 1981 al 2002

Guardando la mappa degli ultimi 22 anni (1981-2002) di sismicità si nota che i terremoti recenti sono localizzati in aree distribuite principalmente lungo la fascia al di sotto degli Appennini, dell’arco Calabro e delle Alpi.

Al fine di attenuare gli effetti dei futuri terremoti e sulla base della sismicità del territorio, l’INGV ha definito la mappa della pericolosità sismica del territorio italiano (vedi Figura

12). Questa mappa si basa sull’analisi dei terremoti del passato, sulle informazioni

geologiche disponibili e sulle conoscenze che si hanno sul modo in cui si propagano le onde (e quindi l’energia) dall’ipocentro all’area in esame. Confrontando tutte queste informazioni è possibile ottenere i valori di scuotimento del terreno in un dato luogo a

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causa di un probabile terremoto, vicino o lontano che sia: tali valori sono espressi in termini di accelerazione massima orizzontale del suolo rispetto a g (l’accelerazione di gravità).

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La mappa di pericolosità ha validità limitata nel tempo (10% di probabilità di superamento in 50 anni) e costituisce il riferimento per la classificazione sismica dei comuni, oltre ad essere uno strumento fondamentale per la realizzazione di misure di prevenzione che consentano di ridurre gli effetti dei terremoti, per esempio costruendo edifici resistenti alle vibrazioni dei terremoti più forti che possiamo aspettarci in una determinata zona. Un territorio avrà una pericolosità sismica tanto più elevata quanto più probabile sarà, a parità di intervallo di tempo considerato, il verificarsi di un terremoto di una certa magnitudo. Dalla mappa emerge come in Italia esistano aree particolarmente “pericolose” dal punto di vista sismico, come la Calabria, l’Abruzzo, la Sicilia Meridionale e parte del Friuli- Venezia Giulia.

1.3.1. Statistiche annuali sui terremoti

Ogni anno sul territorio nazionale si verificano migliaia di eventi sismici di varia entità. Chi si occupa della registrazione e della localizzazione dei terremoti è la Rete Sismica Nazionale (RSN) dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv).

Nel corso del 2014 la RSN ha permesso di localizzare 24.312 terremoti, circa 3.000 eventi in più rispetto al 2013. In media sono avvenuti 66 terremoti al giorno, quasi un terremoto ogni 20 minuti.

I terremoti di magnitudo 1.5 o superiore sono stati meno di un terzo del totale: 7169, ma se ci limitiamo a contare i terremoti da magnitudo 2.5 in su (quelli per i quali l’Ingv effettua una comunicazione alla Protezione Civile) troviamo nel 2014 731 eventi, una media di 2 comunicazioni al giorno.

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Figura 13 - Distribuzione dei terremoti registrati dalla Rete Sismica Nazionale nel corso del 2014

Nonostante il numero di terremoti registrati nel 2014 sia stato maggiore degli anni precedenti, non sono stati registrati eventi di magnitudo superiore o uguale a 5.0.

Sono stati 2 gli eventi di magnitudo più alta, Mw 4.7, entrambi nel mese di aprile a distanza di tre giorni. Il primo è avvenuto il 5 aprile ed è stato localizzato nel Mar Ionio al largo della Costa calabra orientale nelle vicinanze di Isola Capo Rizzuto (provincia di Crotone). Il secondo evento di magnitudo Mw 4.7 è avvenuto il 7 aprile nelle Alpi Cozie in territorio francese, a pochi chilometri dal confine italiano.

Nel 2014 altri 14 eventi hanno avuto una magnitudo compresa tra 4.0 e 4.4 e 198 tra 3.0 e 3.9.

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Nel 2014 la maggior parte della sismicità si è manifestata attraverso sequenze sismiche. I terremoti, per la maggior parte, non si presentano isolati ma a gruppi di eventi; al crescere della magnitudo del terremoto principale generalmente cresce il numero di terremoti di una sequenza, anche se come vedremo più avanti questo non vale sempre. In genere, anche la durata di una sequenza può variare da alcune decine di minuti fino a molti mesi. Analizzando i dati del 2014 con una tecnica specifica (Reasenberg, 1985), sono state individuate oltre 400 sequenze. Di queste, 100 sono costituite da almeno 5 eventi ciascuna. Alcune sequenze hanno avuto breve durata e pochi eventi, altre invece sono durate diversi mesi e hanno superato il migliaio di terremoti registrati.

Figura 14 - Distribuzione geografica delle 100 sequenze sismiche italiane del 2014 con almeno 5 terremoti. Le sequenze sono rappresentate in base alla loro durata: da meno di una settimana fino ad oltre tre mesi

La figura sopra mostra le 100 sequenze individuate e non è difficile notare che esse hanno interessato praticamente tutte le zone sismiche italiane. Nella figura le sequenze sono rappresentate in base alla loro durata in giorni che varia da meno di una settimana a oltre tre mesi. Sono 9 le sequenze di durata maggiore di un mese, 28 tra una settimana ed un mese, 63 quelle di durata inferiore a 7 giorni.

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Figura 15 - Distribuzione geografica delle 100 sequenze sismiche del 2014 con almeno 5 terremoti. Le sequenze sono classificate e rappresentate in base al calcolo della loro magnitudo equivalente

In quest’altra figura le sequenze sono rappresentate in base alla loro “magnitudo equivalente” calcolata sommando l’energia liberata da tutti i terremoti della sequenza e valutando quale sarebbe stata la magnitudo di un unico evento che avesse liberato la stessa energia. Si nota che le due sequenze che hanno liberato l’energia maggiore sono avvenute al di fuori del territorio nazionale, non lontane dai nostri confini, e coincidono con le aree dove si sono verificati gli eventi di maggiore magnitudo nel 2014. Ad esempio la sequenza delle Alpi Cozie (evento principale avvenuto il 7 aprile, Mw 4.7 ), sul versante francese, ha liberato in due mesi e mezzo una energia equivalente a un terremoto di magnitudo 5.0; quella avvenuta in Slovenia, circa 35 chilometri a Est di Trieste (evento principale avvenuto il 22 aprile, Mw 4.3 ) ha avuto una magnitudo equivalente di 4.6. Altre sequenze che hanno avuto magnitudo equivalente superiore a 4.0 sono avvenute nel Mar Tirreno, nei pressi delle Isole Eolie; sul Pollino, dove anche nel 2014 è continuata la lunga sequenza iniziata anni prima; sui Monti del Matese; a sud di Firenze nella Val di Pesa, dove si è liberata un’energia (magnitudo equivalente M 4.4) in 337 terremoti avvenuti in soli 13 giorni.

La fascia appenninica centrale, che si estende verso nord a partire dalla città dell’Aquila, lambisce la provincia di Rieti e prosegue negli Appennini umbro-marchigiani fino a Città di Castello (PG) e Sansepolcro (AR), è stata anche nel 2014 l’area con il maggior tasso di sismicità di tutto il territorio nazionale (come numero di eventi). In questo settore

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appenninico sono state registrate le due sequenze italiane più durevoli nel tempo e più numerose di eventi dell’anno: la prima nei pressi di Pietralunga, con 1078 terremoti e quasi 4 mesi di durata, e la seconda nei pressi di Gubbio con 636 terremoti e oltre 7 mesi di durata. In realtà queste due sequenze appartengono a una stessa area sismogenetica che ha avuto nel 2014 un’attività quasi continua descritta in precedenza come sequenza sismica di Gubbio (PG).

Questa sequenza ha avuto periodi di grande attività soprattutto nei primi mesi dell’anno. La sismicità, che aveva prima interessato il settore tra Gubbio e Pietralunga, si è concentrata successivamente in una zona diversa, più a nordovest tra Umbria e Marche, circa a metà strada tra Città di Castello (PG) e Apecchio (PU), per poi interessare di nuovo l’area vicino a Gubbio. In totale sono stati oltre 12.000 i terremoti registrati nel 2014 in quest’area, la metà di tutti gli eventi registrati dalla Rete Sismica Nazionale: la gran parte di questi terremoti ha una magnitudo minore di 2, soltanto 400 terremoti hanno registrato una magnitudo uguale o superiore a questo valore. Come spiegato in un articolo del blog pubblicato alcuni mesi fa, la sismicità eugubina si è manifestata con le caratteristiche di uno sciame sismico.

L’andamento della sismicità eugubina durante il 2014 è ben evidenziato nel grafico sotto dove è rappresentato il numero di terremoti registrati mese per mese: si osserva un numero maggiore di eventi nei primi mesi dell’anno per poi scendere costantemente fino a una ripresa dell’attività nel mese di dicembre. Dal grafico è possibile notare anche la percentuale di eventi di magnitudo uguale o maggiore di 2.0 (in rosso) rispetto al totale.

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Figura 16 - Andamento del numero di terremoti della sequenza di Gubbio registrati mese per mese. Si nota che solo un piccolissimo numero di eventi (in rosso) ha una magnitudo uguale o superiore a 2.0

Di seguito si riportano alcune sequenze sismiche ritenute più significative nel corso del 2014.

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1) Sequenza di Gubbio

Massima magnitudo registrata nel 2014: Mw 3.4, 7 gennaio ore 15:51. Numero di eventi registrati nel 2014: 12270.

Figura 17 - Sequenza di Gubbio del 2014. Solo una trentina di eventi hanno avuto una magnitudo maggiore di 3.0 2) Sequenza sui Monti del Matese

Massima magnitudo registrata nel 2014: Mw 4.2, 20 gennaio ore 07:12. Numero di eventi registrati nel 2014: 160.

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3) Sequenza sulle Alpi Cozie (confine francese)

Massima magnitudo registrata nel 2014: Mw 4.7, 7 aprile ore 19:27. Numero di eventi registrati nel 2014: 370.

Figura 19 - Sequenza Alpi Cozie, a pochi chilometri dal confine italiano 4) Sequenza del Pollino

Massima magnitudo registrata nel 2014: Mw 4.0, 6 giugno ore 13:41. Numero di eventi registrati nel 2014: 360.

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5) Sequenza di Firenze e provincia

Massima magnitudo registrata nel 2014: Mw 4.0, 19 dicembre ore 10:36. Numero di eventi registrati nel 2014: 470.

Figura 21 - Sequenza a sud di Firenze nel dicembre 2014

1.4. Classificazione sismica del territorio nazionale

L’attenzione verso il concetto di prevenzione sismica del territorio italiano segue di pari passo il verificarsi di eventi distruttivi.

Tutto ha inizio nel primo decennio del ’900, con il R.D. del 18 Aprile 1909 n. 193, a seguito del disastroso terremoto che colpì nel 1908 i territori della Calabria e Sicilia (magnitudo 7.2). Da questo evento in poi si sono susseguite norme che classificavano il territorio italiano in due grandi categorie: aree sismiche, che comprendevano i territori colpiti da terremoti rilevanti, e tutto il resto dell’Italia, ritenuto non sismico.

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La prima classificazione sismica del territorio italiano fu promulgata con il Regio Decreto Legge 13 marzo 1927 n. 431. In questa norma era riportato un elenco dei comuni sismici italiani colpiti dai forti terremoti avvenuti dopo il 1908, mentre tutti i territori colpiti prima di tale data, la maggior parte delle zone sismiche d’Italia, non erano classificati come sismici e, conseguentemente, non vi era alcun obbligo di costruire nel rispetto della normativa antisismica. La lista originariamente consisteva, quindi, dei comuni della Sicilia e della Calabria gravemente danneggiati dal terremoto del 1908, e veniva modificata dopo ogni evento sismico aggiungendovi semplicemente i nuovi comuni danneggiati.

Nel 1974 fu promulgata una nuova normativa sismica nazionale contenente alcuni criteri di costruzione antisismica, e una nuova classificazione sismica, la lista, cioè, dei comuni in cui dovevano essere applicate le norme costruttive, aggiornabile qualora le nuove conoscenze in materia lo suggerissero, e nella quale tuttavia, fino al 1980, vennero inseriti semplicemente i comuni nuovamente colpiti da terremoti.

Gli studi sismologici e geologici che seguirono i terremoti del 1976 in Friuli e del 1980 in Irpinia, svolti nell'ambito del Progetto Finalizzato Geodinamica del Consiglio Nazionale delle Ricerche (C.N.R.), portarono ad un sostanziale sviluppo delle conoscenze sulla sismicità del territorio nazionale e permisero la formulazione di una proposta di classificazione sismica basata, per la prima volta in Italia, su indagini di tipo probabilistico della sismicità italiana. La proposta del C.N.R. fu presentata al Governo e tradotta in una serie di decreti da parte del Ministero dei Lavori Pubblici, tra il 1980 ed il 1984, che classificarono complessivamente 2.965 comuni italiani su di un totale di 8.102, corrispondenti al 45% della superficie del territorio nazionale, nel quale risiede il 40% della popolazione.

Una classificazione più sistematica del territorio arriva soltanto nel 2003, quando tutto il territorio nazionale viene classificato come sismico e suddiviso in 4 zone, caratterizzate da pericolosità sismica decrescente. Il documento di riferimento è l’O.P.C.M. n.3274 del 20 marzo 2003, “Primi elementi in materia di criteri generali per la classificazione sismica

del territorio nazionale e di normative tecniche per le costruzioni in zona sismica” (G.U.

n.105 dell’8 maggio 2003) in cui vengono emanati i criteri di una nuova classificazione sismica del territorio nazionale, basati sull’analisi della probabilità che il territorio venga interessato in un certo intervallo di tempo (generalmente 50 anni) da un evento che superi una determinata soglia di magnitudo. Inoltre, a differenza di quanto previsto dalla normativa precedente, scompare il territorio “non classificato” (che veniva di fatto

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interpretato come “non sismico”). Ad ogni Comune viene attribuita una zona sismica sulla base della seguente pericolosità:

Tabella 2 - Zone sismiche

Zona 1 Sismicità alta

È la zona più pericolosa, dove in passato si sono verificati danni gravissimi a causa di forti terremoti

Zona 2 Sismicità media

Nei comuni inseriti in questa zona in passato si sono avuti danni rilevanti a causa di terremoti abbastanza forti

Zona 3 Sismicità bassa I comuni inseriti in questa zona hanno avuto in pasato pochi danni

Zona 4 Sismicità molto bassa

È la meno pericolosa. Nei comuni in questa zona le possibilità di danni sismici sono basse.

Nelle prime tre zone della nuova classificazione è prevista l’applicazione della progettazione sismica con livelli differenziati di severità. Per la zona 4, di nuova introduzione, viene data, invece, facoltà alle Regioni di imporre o meno l’obbligo della progettazione antisismica. A ciascuna zona, inoltre, viene attribuito un valore dell’azione sismica utile per la progettazione, espresso in termini di accelerazione massima su suolo rigido (ag) :

- Zona 1= 0,35 g; - Zona 2= 0,25 g; - Zona 3= 0,15 g; - Zona 4= 0,05 g.

Sulla base della nuova classificazione risultano esserci 725 comuni in zona 1, 2344 comuni in zona 2, 3488 comuni in zona 3 e 3488 comuni in zona 4.

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Figura 22 - Zone sismiche italiane a seguito dell'OPCM 3274 del 2003

Un ulteriore importante aggiornamento dei criteri relativi alla pericolosità sismica sul territorio nazionale è stato adottato successivamente con l’O.P.C.M. n.3519 del 28 aprile 2006 "Criteri generali per l'individuazione delle zone sismiche e per la formazione e

l'aggiornamento degli elenchi delle medesime zone".

L’O.P.C.M. n.3519/2006 detta i criteri generali per l'individuazione delle zone sismiche e per la formazione e l'aggiornamento degli elenchi delle medesime zone. Sostanzialmente l'Ordinanza riprende la suddivisione (introdotta dall'O.P.C.M.3274/2003) del territorio italiano in quattro zone, introducendo degli intervalli di accelerazione (ag), con probabilità di superamento pari al 10% in 50 anni, da attribuire alle 4 zone sismiche. Il risultato è la suddivisione del territorio in dodici fasce che perfezionano la vecchia classificazione dell’O.P.C.M. 3274/2003.

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Figura 23 - Mappa pericolosità sismica a seguito dell'OPCM 3519 del 2006

Le attuali Norme Tecniche per le Costruzioni (Decreto Ministeriale del 14 gennaio 2008), hanno modificato il ruolo che la classificazione sismica aveva ai fini progettuali.

Precedentemente, per ciascuna zona veniva fornito un valore di accelerazione di picco e quindi di spettro di risposta elastico da utilizzare per il calcolo delle azioni sismiche, dal 1 luglio 2009 con l’entrata in vigore delle Norme Tecniche per le Costruzioni del 2008, per ogni costruzione ci si deve riferire ad una accelerazione di riferimento “propria” individuata sulla base delle coordinate geografiche dell’area di progetto e in funzione della vita nominale dell’opera. Un valore di pericolosità di base, dunque, definito per ogni punto del territorio nazionale, su una maglia quadrata di 5 km di lato, indipendentemente dai confini amministrativi comunali.

Sulla base del lavoro di affinamento e verifica della classificazione sismica fatta dalle Regioni nel giugno 2014 è stata pubblicata dalla Protezione Civile una nuova mappa di classificazione sismica comunale (vedi Figura 24).

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1.5. Classificazione sismica in Toscana

La prima classificazione sismica della Toscana si ha con il Regio Decreto del 13 marzo 1927 n.431 con il quale vengono dichiarati sismici poco più di 70 comuni appartenenti alle aree della Lunigiana, Garfagnana, Mugello, Alta Val Tiberina e Amiata. Come per il resto del territorio nazionale, i successivi decreti hanno apportato modifiche alla lista dei territori classificati come sismici o meno, sulla base del verificarsi di un evento sismico più o meno rilevante. In seguito all’evento sismico dell’Irpinia nel Novembre del 1980, furono adottati in tutto il territorio nazionale i Decreti Ministeriali relativi alla classificazione delle zone sismiche, tra cui quello relativo alla regione Toscana del 19 marzo 1982: con quest’ultimo la Toscana passò da 80 comuni classificati sismici a 182 comprendendo il 75% del territorio e l’80% della popolazione. Tutti i comuni toscani classificati simici ricadevano in zona 2 (sismicità media) mentre il resto del territorio era considerato non sismico. Successivamente si arrivò a un nuovo aggiornamento delle liste dei comuni classificati con l’Ordinanza 3274 del 2003 e alla classificazione approvata con Deliberazione di GR del 19 giugno2006 n. 431, vigente fino al 2012. Nella nuova classificazione sismica, la Regione ha introdotto la zona 3s, nella quale sono stati inseriti comuni a bassa sismicità, dove è però obbligatoria l’applicazione delle norme tecniche previste per la zona 2. Su un totale di 287 comuni:

- 90 sono stati inseriti in zona 2 (31,3% del territorio regionale), ad alta sismicità; - 106 in zona 3s (36,9% della superficie), a bassa sismicità;

- 67 in zona 3 (23,3% della superficie), con possibilità di modesti scuotimenti; - 24 in zona 4 (8,3%), la meno pericolosa.

La classificazione sismica attuale della Regione Toscana è stata approvata con Del. GRT n. 421 del 26 maggio 2014 ed è un aggiornamento che si è reso necessario al fine di rendere la classificazione sismica maggiormente aderente all’approccio “sito dipendente” introdotto dalle vigenti normative.

In generale i recenti aggiornamenti aggiornamento prevedono il riassetto dei comuni in 3 sole classi:

- 92 comuni sono stati inseriti in zona 2; - 164 comuni in zona 3;

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Figura 25 - Aggiornamento della classificazione sismica del territorio toscano a seguito della Delibera di Giunta Regione Toscana n. 421/2014

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