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Quarta Parte
Una storia semplice
I.
I.
I.
I. Il romanzo
Il romanzo
Il romanzo
Il romanzo: introduzione
: introduzione
: introduzione
: introduzione
I.1 Genesi e critica
Sciascia aveva pubblicato nel novembre del 1988 Il cavaliere e la morte1, un romanzo con il quale si riavvicinava alle seduzioni del poliziesco e che, con l’intensa riflessione del Vice, in cui si incarna l’autore, pareva il libro destinato all’addio. La morte arriverà, invece, dopo un anno e, nel frattempo, Sciascia continua a dedicarsi alla scrittura, ai libri già nati e a quelli che ha in mente: si interessa a una edificante ma poco nota vicenda di fraternità2 e ricerca documenti per poterla divulgare, ma non riuscirà a completarla; concorda con la Bompiani la raccolta degli articoli di A
futura memoria (se la memoria ha un futuro) e, con l’amica Elvira Sellerio, progetta un’antologia di
saggi, Fatti diversi di storia letteraria e civile, per la collana che lui stesso aveva ideato. Ma si appassiona soprattutto alla preparazione di Una storia semplice.
Scrive, «metà a macchina e metà a mano, malamente e con molti errori»3, il nuovo libro che vedrà la luce in una ventina di giorni appena, ma che, ironia della sorte, uscirà nelle edicole il giorno stesso della sua morte, grazie a una mobilitazione frenetica dello staff della casa editrice Adelphi, voluta dal direttore Roberto Calasso, il quale riuscirà a pubblicarne centomila copie in sole tre settimane4.
1 L’incisione di Dürer Il cavaliere, la morte e il diavolo ispira il titolo del libro, ma quest’ultimo elemento scompare,
forse anche perché non c’è più bisogno dell’incarnazione del male e delle sue tentazioni per trovarne traccia nel mondo.
2
Il riferimento è alla storia di un avvocato bresciano, Enzo Paroli, che, sebbene antifascista, salvò la vita allo scrittore e giornalista siciliano, Telesio Interlandi, fascista apprezzato da Mussolini, il quale gli aveva affidato la direzione della rivista La difesa della razza. A raccontarlo è ancora M.COLLURA, Il maestro di Regalpetra – Vita di Leonardo Sciascia, Milano, TEA,2000, p. 361 e ss.
3 L.S
CIASCIA, Fuoco all'anima. Conversazioni con Domenico Porzio, Milano, Mondadori, 1992, p. 112. Sciascia stesso racconta l’esperienza a Domenico Porzio durante la lunga intervista: dice di aver impiegato appena «una decina di giorni a Milano e altrettanto a Palermo» a scriverlo e mesi a concepirlo e prefigurarlo, benché poi la vasta materia pensata si fosse ridotta drasticamente nel lavoro di scrittura. Ibidem, p. 112.
4 Le cifre riferite da Giuseppe Traina in relazione alle copie vendute si riferiscono all’edizione Piccola Biblioteca
Adelphi, 1989: 15 ristampe e 360.000 copie vendute, almeno fino al 1999. Traduzioni in francese, catalano, spagnolo, inglese, russo. Cfr. G. TRAINA, Leonardo Sciascia, cit., p. 215. Quanto all’adesione alla casa editrice Adelphi, è illuminante la lettera dallo scrittore indirizzata il 19 novembre 1986 a Mario Andreose, della Bompiani, nella quale scrive: «Mi piace il libro Adelphi, mi piacciono gli scrittori con cui da Adelphi mi trovo in compagnia; e mi piacciono i lettori che seguono l’Adelphi, anche se sono di minor numero dell’Einaudi o della Bompiani». E se pure la causa dell’avvicinamento di Sciascia all’Adelphi è stata la delusione seguita ai quindici anni di disinteressato lavoro per la Sellerio, colpisce il suo entusiasmo giovanile. G.LOMBARDO, Il critico collaterale. Leonardo Sciascia e i suoi editori, Milano, La vita felice, 2008, p. 183.
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La storia, come riferisce lo stesso Sciascia, avrebbe dovuto occupare, nella fantastica autodettatura del testo cui si era dedicato negli ultimi tempi, intristiti da cure estenuanti, circa trecento fitte pagine, uno sproposito per la sua consueta misura:
Ma appena ho trovato quel poco di energia che mi ha permesso materialmente di scriverlo, sono venute fuori una cinquantina di pagine: e mi pare di non aver lasciato fuori nulla di tutto quello che avevo mentalmente scritto nelle trecento. Il romanzo è veramente un apologo: ma è meglio così. Per me certamente, per i lettori lo spero5.
Un labor limae portato ai limiti estremi, che approda a un racconto tra i suoi più incisivi, proprio per la forma lapidaria che incalza il lettore, senza permettergli la minima distrazione. La critica inneggia per lo più a Il cavaliere e la morte come al suo libro più genuino, in quanto contiene in maggiore quantità – ed è indubitabile – echi autobiografici6, per la malattia che sta divorando il Vice e per le tante riflessioni che ne mettono a nudo l’inesausto lavorio mentale.
A me pare, invece, che proprio l’aver svelato troppo di sé renda questo libro meno autenticamente sciasciano di Una storia semplice: in esso, infatti, per scoprire l’anima dell’autore, si dovrà ricorrere ora ai personaggi ora alle pieghe della storia, leggendo in controluce, come Laurana quando esamina il ritaglio dell’“Osservatore Romano”. Solo di tanto in tanto, infatti, si colgono emergenze autobiografiche o riverberi della personalità dello scrittore, per esempio attraverso il brigadiere: la sua emancipazione grazie alla cultura conquistata con tenacia, la ricerca di una forma linguistica essenziale ed efficace, ottenuta con una severa selezione e l’eliminazione di ogni scoria retorica, oltre che con un’oggettivazione che diventa intelligenza della stessa materia trattata, e ancor più la sua ansia di verità e di giustizia alludono tacitamente al percorso di Sciascia. Ma è soprattutto attraverso il professore che emerge la condizione dell’autore: la sua sofferenza fisica dovuta al male che ne aveva minato la salute rimanda a quella dello scrittore, condannato – come il suo personaggio – a una «inalienabile dialisi». Basterà richiamare alla memoria la folgorante battuta da lui pronunciata: «ad un certo punto non è la speranza l’ultima a morire, ma il morire è l’ultima speranza»7, per leggervi la disperazione pacata, mai urlata, dell’uomo Sciascia-Franzò. Superfluo aggiungere che l’antidoto più potente al dolore di cui è impregnato il testo, il mezzo più naturale per tentare di distogliere la mente dal tormentato presente è costituito dalla
5 B. C
RAVERI, Intervista a Sciascia, in “la Repubblica”, 28 ottobre 1989. In questo numero, come supplemento al quotidiano verrà pubblicato anche il primo capitolo di Una storia semplice, che folgorerà Emidio Greco. Il testo dell’intervista era già comparso su “Le Monde” il 6 ottobre 1989.
6
Giuseppe Traina scrive in proposito che «Sciascia ha finalmente abbassato la guardia e ha svelato al lettore quel ribollente “sottosuolo” di emozioni, desideri e paure che Calvino gli aveva rimproverato di schermare sempre» (G. TRAINA, Leonardo Sciascia, Milano, Bruno Mondadori, 1999, p. 68). Dunque uno Sciascia meno schivo, meno recalcitrante a svelarsi, perché provato da una malattia debilitante che lo rende più vulnerabile, tant’è che piange spesso, scusandosene, secondo la testimonianza di Matteo Collura (M.COLLURA, Il maestro di Regalpetra – Vita di Leonardo
Sciascia, cit., p. 363). Meno Sciascia.
7 L.S
CIASCIA, Una storia semplice, Milano, Adelphi, 1989, p. 51. Sarà questa l’edizione adottata per il presente lavoro ed è pertanto a tale edizione che si farà riferimento per tutto il corso della trattazione, indicando le pagine in parentesi.
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fervida attività di un pensiero portato all’investigazione, che lo induce a trovare nel cruciverba la chiave interpretativa della vita, non tanto con l’illusione di poterlo risolvere, quanto «per raccontare un’iniziazione, il tragitto di un uomo nel suo viaggio più avventuroso, dentro la conoscenza»8, con la passione di una indomita ricerca della verità e più ancora degli «ingranaggi della ragione che la cerca»9.
Così come per l’autore antidoto al pessimismo10 senza soluzione è stata la scrittura, veicolo alle sue idee, alla sua protesta contro le tante facce della menzogna, in nome quanto meno del dubbio.
Sciascia racconta che l’idea questa volta gli era venuta da un’esperienza realmente vissuta11: tempo addietro gli era capitato, in macchina con i familiari, durante il tragitto da Palermo a Racalmuto, di notare un assembramento di persone nei pressi di un treno fermo in aperta campagna a causa di un semaforo inspiegabilmente rosso e di essere stato incaricato dal capotreno di andare a svegliare il capostazione nel vicino casello ferroviario di Campofranco. Un’incombenza strana, che addebitava al torpore e all’indolenza dei suoi conterranei. Si può anche arguire che un altro elemento ispiratore emerga dal tema del quadro rubato, nel quale si riconosce La natività di Gesù, del Caravaggio, custodito nell’oratorio palermitano di San Lorenzo e poco tempo prima effettivamente trafugato: è lo scrittore stesso a darne indizio in quella specie di zibaldone che è
Nero su nero12.
8 V.C
ERAMI, La poetica della povertà, in “Il Messaggero”, 21 novembre 1989.
9 Nell’illustrare come la Sicilia abbia rappresentato per lo scrittore una sorta di «speculum in aenigmate» attraverso cui
penetrare l’arcano del vivere, e ancor più come lo stesso indaghi non solo il presente ma anche la storia, anzi i «sottoscala della storia» da cui riesuma vicende d’archivio a suo avviso emblematiche della difficile se non impossibile ricostruzione della verità, spesso contraffatta, Gesualdo Bufalino mostra di ammirare grandemente nell’amico questa capacità «di scansare ogni inerte vangelo ideologico per obbedire agli scatti della coscienza e ai turbamenti dell’intelligenza». Fino alla fine. G. BUFALINO, Per Leonardo, in AA. VV., La Sicilia, il suo cuore. Omaggio a
Leonardo Sciascia, Palermo-Racalmuto, Fondazione Sciascia-Fondazione G. Whitaker, 1998, p. 29.
10
Nella citata intervista di Benedetta Craveri, all’immancabile domanda sul «pessimismo innato, atavico e disperato degli uomini di Sicilia» che trapela dalla sua penultima opera (ultima edita all’epoca dell’intervista), Sciascia si difende, sia giustificandosi con la considerazione di quanto fosse difficile e improbabile conciliare le vicende della Sicilia, dell’Italia e tutto sommato del mondo intero con una visione ottimistica, sia ribattendo con il paradosso di continuare a dare la «più bella prova d’ottimismo scrivendo su ciò che Machiavelli chiamava la “verità effettuale” delle cose ed incassando per questo le reazioni più violente degli imbecilli, per non dire di più», poiché in realtà vero pessimismo sarebbe stato a suo avviso (e di Moravia che si era in tal modo espresso nel recensire Il cavaliere e la morte) la rinuncia a scrivere, finendo così col «lasciar libero corso alla menzogna». La sua caparbietà nello scrivere lo induce dunque a professarsi «in definitiva, un inguaribile ottimista». B.CRAVERI, Intervista a Sciascia, cit.
11 Dei numerosi commenti all’episodio, cito soltanto quello di Paolo Mattei che ricorda come nei romanzi di Sciascia ci
sia spesso «qualcuno che dorme o sonnecchia, che non fa il suo dovere, ma ha il potere per condizionare le vite degli altri». P.MATTEI, Dovere e potere, in “Avanti!”, 21 novembre 1989.
12
Il libro è definito una sorta di “diario pubblico di un letterato” e contiene articoli di Sciascia raccolti nel denso decennio che va dal 1969 al 1979. Il titolo è una risposta semiseria a quanti già dal decennio precedente lo accusavano di pessimismo: un gioco linguistico che richiama alla memoria la «nera scrittura sulla nera pagina della realtà» dell’indovinello veronese contenuto ne Il giorno della civetta. Nell’articolo in questione Sciascia ironizza sul fatto che il prefetto di Palermo, sebbene insediato da ben cinque anni, avesse dichiarato di non essere stato informato della presenza di un Caravaggio nell’oratorio di San Lorenzo, se non a furto del dipinto avvenuto. Ai nostri fini preme rimarcare l’espressione adottata dall’autore su alcuni aspetti della vicenda: «debbo confessare che m’appassiona», come ha poi dimostrato, raccontandone nell’ultimo dei suoi romanzi. Cfr. L.SCIASCIA, Nero su Nero, Milano, Adelphi, 1991, p. 23.
310
Poco importa, tuttavia, proseguire l’indagine in questa direzione, perché la storia interessa per altri motivi, a cominciare dalla diversa raffigurazione della mafia. Rispetto al suo primo poliziesco, la mafia13 che descrive Sciascia si è radicalmente trasformata, è «diventata un fenomeno più vasto, indefinibile e – visibilissima nei suoi molteplici effetti – invisibile nella sua gestione, nei suoi capi, nei suoi legami, nelle sue connivenze e protezioni»14: una sorta di multinazionale del crimine, poiché ha scalato i vertici di tutta l’economia italiana, tanto di quella ufficiale impoverita da numerosi contraccolpi15, quanto di quella illegale, sempre più fiorente e ormai fondata non solo sul mercato agricolo e immobiliare, ma sui più svariati settori, compresi «la droga e il traffico delle armi»16. Se lo scrittore poteva narrare di contrapposizione tra Stato e malavita all’epoca de Il giorno
della civetta (già molto attenuata in A ciascuno il suo, a causa dei cambiamenti della società e della
famiglia mafiosa), ora racconta di una fusione totale tra l’organizzazione criminale e lo Stato, la cui vecchia dialettica è stata sostituita da reazioni schizoidi. In Una storia semplice Sciascia non ritiene indispensabile menzionare la connivenza tra mondo politico e mafia, perché lo Stato stesso, diventato organizzazione mafiosa, vive il paradosso autarchico di creare vittime e colpevoli al suo interno, in quanto gli elementi deviati del sistema non sono più “fuori” ma dentro al sistema.
Un elemento ulteriore di forza di questo romanzo sta nelle tracce di quel processo lento e inesorabile di riconciliazione con il padre d’elezione, Pirandello, che caratterizza la conclusione della vita di Sciascia. L’omaggio all’illustre drammaturgo non si avverte solo alla superficie del testo: il riferimento alle lettere di Pirandello, «tracce di una perduta civiltà dei padri»17, per ricercare le quali il diplomatico Roccella18 ritorna improvvidamente in patria, l’esplicita citazione del nume Pirandello, o ancora il nome stesso della vittima, affine a quello di Giustino Roncella19, personaggio di A suo marito, romanzo intitolato anche Giustino Roncella nato Boggiolo (1911), costituiscono, senza dubbio, i fili di una trama, dominata e addirittura provocata da Pirandello. Ma sono, forse, elementi meno vistosi e talvolta criptici a dar corpo all’omaggio e a fonderlo totalmente nell’opera,
13 Sciascia ha sempre seguito con grande attenzione i fenomeni legati alla mafia e azzardato perfino previsioni già dal
lontano 1957, a proposito del rischio di una stabilizzazione della vecchia organizzazione “agricola”, se fosse riuscita a infiltrarsi nel processo di industrializzazione, come poi accadde realmente.
14 L.S
CIASCIA, I nipoti di don Vito, in “Corriere della Sera”, 25 agosto 1982, in ID., A futura memoria (se la memoria
ha un futuro), Milano, Bompiani, 1989, pp. 37-39.
15 Vari fattori avevano concorso a fare della mafia, pronta ad approfittare delle debolezze del sistema-Stato e a
riconvertire o allargare i propri interessi, una presenza sempre più insinuante e importante, che qui cito solo en passant: la grave crisi petrolifera col celebre picco del 1973, che innescò trame speculative devastanti; l’arretramento delle industrie; il rientro massivo nella depressa terra d’origine da parte di tanti siciliani emigrati, che fece per la prima volta dai tempi della guerra superare i rientri rispetto agli espatri; la conseguente disoccupazione dilagante; il declino del padronato agricolo isolano; una politica basata su interessi di parte e molto altro ancora.
16 L.S
CIASCIA, I nipoti di don Vito, cit., p. 38.
17 G.T
RAINA, Leonardo Sciascia, cit., p. 215.
18
Domenico Cacopardo si discosta dalle teorie correnti a proposito del nome di Roccella: a suo avviso «Sciascia aveva conosciuto il giornalista, deputato radicale e sindaco di Riesi Franco Roccella, generoso siciliano della diaspora e del ritorno, che lo aveva di poco preceduto nell’estrema traversata» e, pertanto, ritiene di potervi ravvisare elementi autobiografici. D.CACOPARDO, Una storia semplice, ovvero su una giustizia ancora possibile, in M.D’ALESSANDRA,S. SALIS (a cura di), Nero su giallo – Leonardo Sciascia eretico del genere poliziesco, Milano, La vita felice, 2006, p. 128.
19 Ad avanzare quest’ipotesi è Massimo Onofri, il quale, pur registrando l’osservazione di Salvatore Claudio Sgroi
sull’ampia diffusione del cognome Roccella in Sicilia, preferisce optare per la filiazione onomastica dal romanzo di Pirandello (M.ONOFRI, Storia di Sciascia, Roma-Bari, Laterza, 1994, p. 278).
311
rendendolo di fatto conditio sine qua non della scrittura. Si pensi al rapporto quasi filiale che lega il giovane detective al professore, all’adozione del padre da parte del giovane figliastro, e ancor più alle risonanze del pensiero, di un’ereditarietà spirituale prima rifiutata e infine rivendicata, appunto come sarebbe accaduto con un padre vero, dei cui insegnamenti prima contestati si appropria, sentendone l’appartenenza.
E si pensi al «fenomeno di improvviso sdoppiamento» (p. 55) del commissario, che, mostrando di sapere dov’era localizzato l’interruttore della luce in solaio, pur nella semioscurità (Lagandara, invece, aveva dovuto consumare un’intera scatola di fiammiferi), realizza in pieno lo spirito pirandelliano:
«In quel momento è diventato il poliziotto che dava la caccia a se stesso». Ed enigmaticamente, come parlando tra sé, aggiunse: «Pirandello». (p. 55)
A parlare è il professor Franzò, evidente alter ego di Sciascia, il quale altrove rivendica il merito di aver introdotto il dramma pirandelliano nel romanzo poliziesco, aggiungendo che solo una cosa gli avrebbe dato piacere: che questo almeno gli venisse riconosciuto20.
E si direbbe che, ormai, la peculiarità dei suoi gialli venga interpretata anche grazie a tale chiave di lettura e a lui venga ascritto il merito di questa ispirazione pirandelliana, come fa Massimo Onofri21, che indica nella narrazione dell’ultimo libro di Sciascia un pretesto per altre divagazioni e per l’approdo a Pirandello.
Del resto, basterà come sempre leggere quanto scrive l’autore stesso agli inizi del 1989, nel saggio intitolato Pirandello, mio padre: «Tutto quello che ho tentato di dire, tutto quello che ho detto, è stato sempre, per me, anche un discorso su Pirandello»22.
I.2 Fabula e intreccio
L’enigma nasce da un primo misterioso delitto che viene a turbare l’atmosfera di festa (è la vigilia di San Giuseppe), che si respira nel paesino siciliano in cui è ambientata la storia. Un diplomatico in pensione, il console Giorgio Roccella, fa inaspettatamente ritorno al paese natio, in
20 A registrare tale desiderio di Sciascia è Marcelle Padovani, nella celebre intervista: «...Utilizzo spesso il discorso del
romanzo poliziesco, questa forma di resoconto che tende alla verità dei fatti e alla denuncia del colpevole, anche se non sempre il colpevole si riesce a trovarlo. Arrivo persino a pensare che oggi una cosa sola mi farebbe piacere. Si ricorda che cosa diceva Malraux a proposito di Faulkner? Che questi aveva realizzato l’intrusione della tragedia greca nel romanzo poliziesco. Si potrebbe dire di me che ho introdotto il dramma pirandelliano nel romanzo poliziesco».
L.SCIASCIA,La Sicilia come metafora, intervista di Marcelle Padovani, Milano, Mondadori, 1979, p. 88. A sua volta
Matteo Collura commenta acutamente l’attitudine di Sciascia a scardinare l’impianto classico del genere giallo poliziesco: «Del resto, questa scelta nella sua produzione è intuibile dall’apprendistato letterario: partito da testi illuministi, approda al sottile disincanto di Brancati; e così è come se una bomba, lungo il percorso, venisse a cadere nell’ordine che si vuole regni e trionfi alla fine di ogni romanzo che si possa definire giallo o poliziesco. Quell’ordigno si chiama Pirandello...». Cfr. M.COLLURA, Il maestro di Regalpetra – Vita di Leonardo Sciascia, cit., pp. 192-193.
21 M.O
NOFRI, Storia di Sciascia, cit., p. 278.
22 L.S
312
Sicilia, dopo un’assenza di circa quindici anni, e si reca nella vecchia villa di proprietà che avrebbe dovuto essere in stato di abbandono (solo un sacerdote aveva facoltà di controllarne le condizioni, di tanto in tanto, e di riferirne al proprietario), per ricercare delle lettere di Pirandello a suo nonno e di Garibaldi al suo bisnonno, ma scopre qualcosa che lo sorprende e lo spaventa, inducendolo a chiamare subito in questura, per sollecitare un sopralluogo delle Forze dell’Ordine. Quando l’indomani mattina Lagandara, il solerte brigadiere sul cui personaggio si basa buona parte della storia, si reca nella villa di campagna, «contrada Cotugno», da dove era partita la telefonata, trova Roccella ucciso da un colpo di pistola alla tempia, con il capo reclinato sulla scrivania, accanto a un foglio bianco su cui campeggiano le parole «Ho trovato», seguite da un punto fermo. Lagandara pensa subito che possa trattarsi di un omicidio, perché avverte proprio in quel punto fermo, da cui «sarebbero stati estratti significati esistenziali e filosofici» (p. 16), un’astuzia in più dell’assassino che ha tentato di mascherare il suo delitto con l’apparenza di un suicidio. Commissario, questore e magistrato cercano di liquidare rapidamente il caso, avallando la tesi del suicidio, ma il proliferare di eventi e la comparsa di nuovi personaggi impedisce alle tre autorità di liberarsi agevolmente del problema. Innanzitutto il vecchio amico di Roccella, il professor Franzò, riferisce informazioni sui colloqui avuti con Giorgio, fornendo buoni motivi per contrastare l’archiviazione del caso per suicidio: il diplomatico non solo gli aveva fatto visita non appena giunto in paese e confidato il perché del suo viaggio da Edimburgo, dove ormai viveva stabilmente, ma gli aveva anche telefonato con una certa apprensione dopo il suo arrivo in casa, un po’ stupito di trovare attivata una linea telefonica nella sua villa disabitata e «molto sorpreso, forse impaurito» (p. 35) di aver scoperto nel suo solaio un quadro famoso che era stato rubato altrove. Poi, il duplice omicidio di due dipendenti delle ferrovie alla stazione di Monterosso, di cui si dedurrà la complicità23 con la banda di ladri, spacciatori e ricettatori, che avevano scelto come quartier generale proprio la villa abbandonata dello sventurato Roccella (divenuti costoro testimoni scomodi del trasferimento precipitoso di merce illegale, compreso il quadro rubato, per l’arrivo imprevisto di Roccella, erano stati “di necessità” soppressi). Infine, la testimonianza del conducente della Volvo che, mandato a “svegliare” il capostazione presumibilmente addormentato, aveva trovato un uomo, erroneamente da lui ritenuto il capostazione, «con altri due uomini che stavano arrotolando un tappeto», di «tela grezza, ruvida» (p. 38), di un metro e mezzo circa: in realtà il dipinto trafugato, avvolto dal
23
Alla fine della storia, quando il questore ricostruisce gli eventi, dirà di costoro che «erano già della congrega, anche se marginalmente, a livello di diffusori, di spacciatori [...]. Indubbiamente, a vedersi arrivare tutta quella roba voluminosa e compromettente, capostazione e manovale si spaventarono. Protestarono, minacciarono: e furono uccisi. Erano già stati uccisi quando arrivò alla stazione l’uomo della Volvo». E chiarisce quindi che costui non vide il capostazione e il manovale, ma i loro assassini (p. 63). Non si saprà se la loro complicità fosse coatta o meno.
313
rovescio. A poco a poco lo scenario si va delineando con chiarezza agli occhi dell’investigatore Lagandara, che tuttavia fatica non poco a far valere le sue deduzioni, mentre, in un carosello esilarante di gag, gli inquirenti fanno a gara a non capire e, piuttosto che collaborare, a ostacolarsi. Il sospetto, tuttavia, che nella casa del diplomatico si svolgesse un losco traffico di droga («un odore di zucchero bruciato, di foglie di eucalipto bruciate, di alcool» – p. 52 –, che proveniva dai magazzini della villa, fa desumere che trattasi appunto di sostanze stupefacenti) aumenta vertiginosamente. Si arriva così al passo falso del commissario che, accendendo nel solaio della villa, senza difficoltà, l’interruttore della luce, in precedenza risultato introvabile al giovane brigadiere, tradisce, nel fervore delle indagini, un’ingiustificabile dimestichezza con il luogo. A capire al volo il coinvolgimento del suo capo nell’omicidio di Roccella e certamente in tutta la vicenda criminale è, pertanto, il giovane poliziotto Lagandara, che ne rimane sconvolto e si rivolge al professor Franzò, come all’unico interlocutore affidabile che potrebbe dargli conforto e aiuto, e che accetta di buon grado. Ma gli eventi incalzano e l’indomani il commissario, consapevole di essere stato scoperto, prova a eliminare lo scomodo investigatore, sparandogli, in una scena da
western che il film esalterà con la forza delle immagini. Sarà Lagandara, però, ad avere la meglio,
in quel duello che non avrebbe mai voluto né ipotizzato, e a colpire dritto al cuore il commissario che si accascerà sulle sue carte «copiosamente insanguinandole» (p. 60). Si tratta di legittima difesa, ma, finalmente compatti, sia il questore che il magistrato e il colonnello sentenzieranno che la vicenda, disonorante per lo Stato a causa di un suo rappresentante corrotto, andrà taciuta, presentando la morte del commissario come un incidente (la versione ufficiale sarà di incidente: uccisione involontaria da parte del subalterno che stava pulendo la pistola d’ordinanza). L’uomo della Volvo, che era stato fermato, sospettato e pretestuosamente “trattenuto”, viene finalmente scagionato e, quando si accorgerà che quello che aveva ritenuto il capostazione, intravisto nella stazione di Monterosso, era in realtà padre Cricco, ovvero il parroco del paese, uno dei cardini della banda criminale, penserà bene di non rimanere nuovamente invischiato nelle trame della legge e deciderà di tornarsene da dove era venuto, deliberatamente scegliendo di non far emergere quella parte di verità di cui è depositario, calpestando il senso civico residuo che gli avrebbe imposto di rivelare l’identità di un delinquente così anomalo:
Pensò di tornare indietro, alla questura. Ma un momento dopo: «E che, vado di nuovo a cacciarmi in un guaio, e più grosso ancora?»
Riprese cantando la strada verso casa (p. 66).
E con questo canto liberatorio del cittadino qualunque che, soffocando l’ultimo palpito d’onestà, si sente sollevato dal grave peso della verità, si chiude il breve romanzo: al netto
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cinquantasette paginette, di piccolo formato, meno di una quarantina, dunque, di un corrispondente formato tradizionale, ma dense e inquietanti come poche.
I.3 Titolo ed epigrafe
Nel leggere il titolo dell’ultima fatica letteraria di Sciascia ci si domanda perché mai egli abbia voluto caratterizzarla con una qualificazione apparentemente riduttiva. Di primo acchito la lettura di questo che può difficilmente essere definito un romanzo breve, visto che è poco più che un racconto lungo24, può trarre in inganno proprio per la sua sinteticità e l’esilità della forma: la lettura del testo sconfesserà il titolo, in quanto la storia è tutt’altro che semplice, sviluppando una trama complessa di traffici di droga e oggetti d’arte, ricettazioni, storture familiari, e una corruzione tentacolare che coinvolge, questa volta a chiare lettere e non solo in termini di sospetto come succedeva in A ciascuno il suo, esponenti della Chiesa cattolica e tutori delle Forze dell’Ordine. Il tutto senza il ricorso a parole come mafia o droga, in una sfida linguistica con se stesso (che il regista Emidio Greco vorrà fare sua) e con un ritmo narrativo che pare prevedere un lettore in grado di reagire al testo in tempi minimi.
Il finale riserva una duplice sorpresa, di cui il narratore ha però disseminato numerosi indizi. Il titolo costituisce dunque l’ennesima provocazione, perfettamente in linea con lo stile consueto dello scrittore, tanto che è lui stesso a farsi il verso, quando fa dire al commissario, «tra incredulità e preoccupazione»: «Che storia complicata» (p. 31). L’aggettivo “semplice”, quindi, più che alla storia, si riferisce alla semplificazione interessata con cui viene contrabbandata: l’insabbiamento e la mistificazione della verità, che fa comodo alle alte sfere, a qualunque gerarchia di potere esse appartengano. Pur trattandosi di una vicenda di provincia, in realtà la storia appare universale.
Nel dittico costituito dalle due opere finali, Il cavaliere e la morte e Una storia semplice, Sciascia ha invertito la modalità di soluzione25: nella prima, la storia è semplice davvero, ma viene resa complicata da chi vuole intorbidare le acque, arrivando a inventare un gruppo terroristico inesistente; nella seconda, la storia è intricata, ma viene spacciata per una ordinaria faccenda di furto, degenerata in omicidio, dal potere che ha interesse a occultare la verità.
In un modo o nell’altro, la verità soccombe e l’impunità si rinsalda.
La snellezza del testo è l’esito estremo del lungo lavoro dell’autore che, come lui stesso dichiara, per un anno intero ha cavato tutto il superfluo dalla sua scrittura per arrivare a consegnare
24
Credo che la definizione datane da Fernando Gioviale, che parla di novella, quanto a rapidità e capacità di concentrazione e condensazione, e di romanzo, quanto a ricchezza dell’intreccio, sia perfettamente centrata. Cfr. F. GIOVIALE, Marta e Nietta. Genealogia di un eterno ritorno, in ID. Scenari del racconto. Mutazioni di scrittura
nell’Otto-Novecento, Caltanissetta-Roma, S. Sciascia, 2000, p. 184.
25 Svolge queste osservazioni con la solita perspicacia G.T
315
alle stampe una storia asciutta, fondata sul quel simple discours su cose maledettamente complicate, che costituisce la sua cifra stilistica più significativa.
Nell’affrontare l’analisi dell’epigrafe di Una storia semplice non si può prescindere dalla considerazione che essa rappresenta gioco-forza il suo lascito spirituale.
«Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia» (Dürrenmatt, Giustizia).
Ancora una volta, dunque, Sciascia rivela in limine i suoi propositi e, se in A ciascuno il suo questi erano esposti in forma negativa (ciò che non avrebbe fatto), in Una storia semplice la sua volontà di perseguire la giustizia si esprime in forma positiva, sia pure come sforzo estremo. Ma nel crollo totale dell’utopia di una giustizia giusta, in una situazione personale di bilancio conclusivo, difficile pensare che Sciascia abbia potuto cedere alla tentazione di scrivere un giallo gratificante alla maniera classica che tanto ha aborrito, e il romanzo d’addio, difatti, si delinea piuttosto come l’ennesima denuncia: la sua ultima “scrittura civile” sotto mentite spoglie di un racconto di piacevole lettura.
Come l’autore stesso indica, la citazione è tratta da Giustizia di Dürrenmatt.
Proviamo a scoprire, anche in questo caso, quale molla sia scattata nello scrittore siciliano quando ha scelto di affidare proprio a quella frase la summa del messaggio da lasciare al lettore.
Nel romanzo dello scrittore svizzero la frase è pronunciata dal protagonista e narratore della vicenda, l’avvocato Spat26, alcolizzato e fallito, che presenta già nel nome una sorta di predestinazione: il vocabolo tedesco spät, infatti, significa “tardi, in ritardo”, e ciò può alludere a una intempestività nella corsa a raggiungere un traguardo della vita o più semplicemente a un ritardo nel capire, nel cogliere un segnale, come appunto è successo a costui che, non comprendendo in tempo la pericolosità del soggetto che aveva di fronte, si è lasciato irretire da uno scaltro e cinico assassino, per poi giungere a una disperazione così cupa da concepire l’eliminazione dell’infido individuo e il proprio suicidio.
La vicenda, notevolmente complessa, si ricostruisce in analessi attraverso la confessione resa da Spat al sostituto procuratore circa l’omicidio del losco individuo, di cui si ritiene erroneamente colpevole, e il proprio suicidio (questo realmente consumato). Nell’incipit della relazione-confessione, Spat scrive:
Voglio costringermi a esaminare ancora una volta i fatti che hanno portato all’assoluzione di un assassino e alla morte di un innocente. Voglio riflettere ancora sui passi che sono stato indotto a fare, sulle misure che ho preso, sulle possibilità che sono state trascurate. Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse restano alla giustizia27.
26 In alcuni testi il personaggio è denominato Spaet, variazione del medesimo vocabolo. Anche in questo caso, quindi, il
significato del nome comune corrispondente è “tardi, in ritardo”.
27 F.D
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L’assassino ingiustamente assolto cui si riferisce è il suo cliente, il dottor Kohler, che aveva ucciso in un locale pubblico, al cospetto di altri avventori, un professore e che, condannato con prove testimoniali, aveva architettato la propria riabilitazione e scarcerazione grazie all’intervento dello sprovveduto avvocato Spat, il quale aveva fatto riaprire il caso e, travolto dalla luciferina abilità del dottore e dagli eventi, non aveva saputo contrastare il diffondersi di un’immotivata notizia riguardo all’innocenza di Kohler e alla colpevolezza di un altro personaggio, Benno, che a sua volta preferisce il suicidio al processo che gli si prospetta28. La sua autodenuncia, così come la sua disamina dei fatti, appare solo un esercizio sterile e fine a se stesso di logica a posteriori: in verità, il progetto di “giustiziare” Kohler non si è concretato, vuoi per la sua mancanza di destrezza, vuoi perché comunque la pistola era stata sorprendentemente caricata a salve, e, pertanto, il suo suicidio immotivato non ha alcun senso. In fin dei conti il suo desiderio di «scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse restano alla giustizia» resterà frustrato: quali possibilità restano alla giustizia se il colpevole esce a furor di popolo dal carcere, l’innocente (almeno riguardo all’accusa specifica) si uccide, e l’avvocato raggiunge la consapevolezza tardiva di essere stato raggirato e di essere divenuto complice, a sua volta, sia pure per inettitudine, della morte di un uomo?
E, d’altra parte, quali possibilità restano alla giustizia in Una storia semplice, se perfino i suoi due ultimi baluardi, le Forze dell’Ordine e l’ambiente ecclesiastico, esprimono in pieno la marcescenza della società?
Sciascia questa volta ha barato sin dall’inizio col suo lettore circa le sue reali intenzioni, benché ancora oggi ci sia chi legge in questa epigrafe un timido, contraddittorio annuncio di fiducia nella giustizia, “malgrado tutto”. E invece il messaggio è il più amaro che ci si possa attendere: lo scrittore fa propria l’espressione di quello che nel romanzo viene etichettato come un «buon fanatico della giustizia»29, e che però è clamorosamente perdente tanto più quando cerca di contrastare, coi suoi mezzi inadeguati, la farsesca interpretazione che della giustizia si sta dando, e toglie al lettore perfino la residua, debolissima speranza di una qualche resistenza al tracollo degli ideali.
Il carosello di personaggi che si susseguono sgomenta: il prete è un criminale incallito; il commissario un assassino, pronto a ripetere il gesto omicida pur di salvarsi; il brigadiere è un onest’uomo, alimentatosi di saldi principi contadini, ma non è abbastanza coraggioso da respingere il compromesso svilente e ribellarsi al seppellimento della verità; da ultimo perfino l’onesto cittadino (l’uomo della Volvo) si convertirà all’omertà, al silenzio complice, decidendo di glissare
28 In realtà Benno non è cristallino e innocente quale si potrebbe pensare, bensì un personaggio dai numerosi scheletri
nell’armadio: implicato in traffico di droga e in una vicenda di stupro della figlia di Kohen, era, tuttavia, estraneo all’uccisione del professore. Si comprende come Kohen abbia usato il suo avvinazzato avvocato per ottenere la vendetta cui aspirava ai danni di Benno, obiettivo reale dell’intera macchinazione, in un perverso ma efficace gioco “à la bande”, che nel biliardo si riferisce al colpire una palla per far sì che questa ne spinga un’altra in buca.
29 F.D
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sul proprio dovere di denunciare gli illeciti piuttosto che lasciarsi di nuovo coinvolgere in prima persona.
Non si può non rimarcare il turbamento che suscita una conclusione così poco edificante, così tragicamente apocalittica sulle possibilità di una giustizia sulla terra: anche se la storia si svolge in un remoto paese di provincia, è evidente che quella società corrotta non costituisce una deriva isolata, ma l’espressione di una condizione assolutamente pervasiva.
L’effetto della frase pronunciata dall’io narrante di Giustizia viene, come nei casi precedenti, potenziato dalla collocazione esterna, paratestuale, che ne amplifica la portata semantica: essa, che funge da epicitazione, diventa necessariamente chiave di chiusura, chiamando in causa il lettore implicito, e non soltanto un narratario preciso interno alla diegesi (nel libro di Dürrenmatt, il sostituto procuratore al quale scrive il protagonista) e porgendo il messaggio dello scrittore al suo pubblico. Il lettore solo alla fine lo comprenderà pienamente, rendendosi conto che perfino l’anafora dell’«ancora»30, assente nell’ipotesto, finisce con l’acquistare il sapore di uno scherzo amaro: non c’è possibilità alcuna che la giustizia prevalga, non resta nessuna possibilità (se mai ci sia stata) alla giustizia.
Eliminiamo il «forse» e rassegniamoci.
I.4 L’ultimo poliziesco di Sciascia: una storia di cittadini al di sopra di
ogni sospetto
Sciascia è solito dissacrare i dogmi del poliziesco, come si è visto nell’analisi degli altri due romanzi, e certamente il suo spirito ironico e libertario non viene meno in Una storia semplice. È ovvio, tuttavia, che, nell’intervallo venticinquennale trascorso da A ciascuno il suo, le “regole” hanno perso la forza prescrittiva di un tempo e che il patto narrativo tra scrittori del genere e lettori presenta clausole in fase di rinnovamento. Lo scrittore di gialli appare sempre meno vincolato ai canoni, dai quali deroga a volte inconsapevolmente, mentre il lettore è sempre più disilluso nei confronti di un finale consolatorio, che avverte come fasullo: non si tratta ancora del lettore dei nostri giorni, del tutto privo della speranza che la giustizia possa trionfare, nella vita come nella letteratura, e che, formatosi su di una certa narrativa gialla contemporanea e temprato dalla crudezza di una filmografia brutalmente realistica31, si mostra del tutto disincantato, ma di un lettore che ha comunque maggiore dimestichezza con le trasgressioni che non con le regole.
30
Il secondo «ancora» che figura nella citazione («le possibilità che forse ancora restano alla giustizia») è una modifica operata da Sciascia sul testo di partenza.
31 Originariamente tale produzione era quasi esclusivamente d’oltreoceano e, in quanto tale, poteva essere intesa come
descrittiva di mondi lontani e perciò non in grado di contaminare, ma da tempo ormai anche il nostro cinema e la nostra televisione propongono film e fiction ambientati in contesti italiani, in cui dominano corruzione e violenza.
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Se, perciò, ci avvarremo comunque del confronto del racconto di Sciascia con le norme è per constatare, in controtendenza, un parziale riavvicinamento alla tradizione, e per sottoporre il testo a un vaglio omogeneo rispetto agli altri due, al fine di raccogliere con metodo indizi utili anche al futuro confronto filmico.
Dopo la fase decostruzionistica in cui spariva perfino l’attribuzione certa della colpa, nel finale del romanzo si ritrovano, invece, un’indicazione sufficientemente esplicita dei colpevoli e la presenza nel plot di un paio di espedienti ricorrenti nel genere, quali l’intuizione illuminante e l’errore fortuito del colpevole.
Anche per quanto riguarda la figura dell’investigatore, cui è affidata la soluzione dell’intrigo, si notano differenze rispetto a quella dell’“anti-detective” sul modello del professor Laurana (se non altro, non farà una fine da “cretino”, ma ucciderà il colpevole «cretino»), benché si distanzi alquanto anche da personaggi precedenti, compreso il Vice, del quale tuttavia condivide il desiderio di chiarezza: è giovane e sano, siciliano, ambisce a fare carriera all’interno dell’arma (in virtù della laurea che sta cercando di conseguire), è di origini contadine, ed è sveglio, lucido, pronto di riflessi, insomma è dotato di tutti i requisiti per condurre indagini e risolvere enigmi, come un
detective tradizionale.
Per di più, Lagandara è solo, il più solo degli investigatori sciasciani, tutti comunque «alla fine battuti, accerchiati in un mondo senza speranza o in cui la speranza si spezza prima di realizzarsi»32. L’isolamento non gli deriva da una “elezione” celeste, malgrado le buone doti descritte (i limiti che vedremo lo umanizzano molto), né dalla provenienza geografica, che rendeva Bellodi estraneo al contesto, e neppure dalla cultura umanistica di Laurana (o di Rogas o del Vice), che lo allontanava dallo stuolo di investigatori pragmatici e poco dediti a sofismi filologici o letterari. Per Lagandara la solitudine non scaturisce solo dall’incomprensione che lo circonda, poiché a lui tocca la solitudine estrema: è il suo stesso mondo, l’arma nella quale nutriva incondizionata fiducia, a rivelarglisi corrotta e nemica, e proprio nella persona di quell’uomo che aveva considerato modello da imitare e ammirare, e che invece lo avrebbe ucciso, se non avesse aperto gli occhi in tempo.
Quanto alle vittime, in questo romanzo sono eccezionalmente quattro, diversamente dal numero tre standardizzato dai primi due polizieschi di mafia. Evidentemente Sciascia, fermo restando che il morto al quale si attaglia la definizione di vittima è il solo Roccella, continua a ritenere l’omicidio come l’unico delitto plausibile alla base di un romanzo poliziesco, in conformità con il giallo classico, mentre si attiene al proprio modus scribendi, consolidato attraverso l’annoso tirocinio di infrazioni ai codici e di creazione di statuti personalizzati, per l’assenza di punizione per quasi tutti i criminali della banda, prete compreso. L’eccezione è costituita dal commissario assassino che, cercando di farla franca anche a costo di eliminare il brigadiere, sarà castigato con la morte.
32 E.M
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La presenza di più investigatori, di diversi comparti, non costituisce ormai una deroga dalla nona legge33 di S.S. Van Dine, quanto piuttosto un espediente per ironizzare sui vari esponenti delle Forze dell’Ordine, che si ostacolano a vicenda, in un carosello di intromissioni, scavalcamenti e tentativi di primeggiare, scadendo spesso nel comico se non nel ridicolo. Carabinieri, polizia e magistratura si troveranno d’accordo, infatti, solo alla fine del romanzo, quando si faranno reciprocamente eco con quel triplice «Incidente!» che, giustificando l’uccisione del commissario ad opera del brigadiere fatto passare per maldestro («mentre pulisce la pistola»), insabbierà il caso mentre l’uomo della Volvo opta per l’omertà.
Per quanto attiene, inoltre, alla banda criminale, con la sua connotazione mafiosa, si tratta di un tema narrativo così sedimentato in Sciascia da costituire un filone: l’associazione a delinquere34 rappresenta la prassi nei romanzi analizzati.
Si può ancora parlare, invece, di violazione delle norme in relazione al colpevole: un esponente delle Forze dell’Ordine, un inquirente ufficiale.
In questo caso, va a buon diritto rispolverata la quarta legge di Van Dine, che così recita:
Né l’investigatore né alcun altro dei poliziotti ufficiali deve mai risultare colpevole. Questo non è un buon gioco: è come offrire a qualcuno un soldone lucido per un marengo; è una falsa testimonianza.
E, in effetti, scoprire colpevole il commissario è uno smacco per qualunque lettore di gialli: se pure oggi, forse, qualche lettore non si meraviglierebbe più di tanto dinanzi a un commissario omicida, perché sa che può aspettarsi esponenti delle forze dello Stato corrotti e disonesti al pari della comune delinquenza (vuoi per una sorta di contagio del male insito nella realtà criminosa nella quale sono immersi, vuoi per reazione al sentirsi mal ripagati da quello Stato di cui sono stati servitori), è pur vero che in un libro di oltre vent’anni fa egli pensa di poter rintracciare finalmente la giustizia anelata. Che il commissario “laureato” (come lo definisce con deferenza Lagandara), tranquillo uomo d’ordine di una piccola località della Sicilia, che, per rinfrancarsi, va «a festeggiare San Giuseppe da un amico, in campagna» (p. 12), si riveli uno spietato assassino, il lettore di Sciascia fatica ad accettarlo in ogni epoca. E lo sconvolge il fatto che i loschi traffici di mortiferi stupefacenti vedano partecipe perfino padre Cricco, un sacerdote questa volta impegnato attivamente nell’esercizio del crimine, tanto da sporcarsi le mani: costui, infatti, non si limita a prestare il manto protettivo della propria apparente onorabilità, come l’alto prelato innominato che funge da Conte zio ne Il giorno della civetta o come l’arciprete di A ciascuno il suo, né intende vestire i panni del giustiziere a suo modo moralizzatore, come don Gaetano di Todo modo, ma è un
33
Come si ricorderà, la stessa prevedeva il ricorso a un solo deduttore, in quanto «mettere in scena tre, quattro, o addirittura una banda di segugi per risolvere il problema significa non soltanto disperdere l'interesse, spezzare il filo della logica, ma anche attribuirsi un antipatico vantaggio sul lettore. Se c'è più di un poliziotto, il lettore non sa più con chi sta gareggiando». La tipologia contemplata non è, come si noterà, analoga a quella del romanzo analizzato.
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delinquente al pari dei mafiosi suoi compari e anche di più, dato l’oltraggio all’abito35 che indossa, che non può essere sottaciuto.
Il lettore riceve la prima sorpresa quando intuisce un qualche coinvolgimento del commissario dal fatto che i suoi «occhi si erano invetrati come di terrore» (p. 53), per essersi incredibilmente tradito, quando ha mostrato di conoscere la collocazione dell’interruttore nel solaio della villa di Roccella; ma è ancora disposto a concedergli attenuanti: magari è stato nella villa per smascherare la truffa e non ha potuto svelare le sue mosse al sottoposto, per non sciupare l’esito dell’operazione, oppure è sì colpevole, ma ha agito per legittima difesa e via di questo passo. Quando, però, intenzionalmente si prepara a uccidere anche l’onesto brigadiere, il lettore comprende che uno dei cardini del giallo ha ricevuto un duro colpo, e forse percepisce una certa slealtà da parte del narratore, che lo ha messo in confusione, creando un detective colpevole contro lo statuto del ruolo36.
In una rete di rimandi con i romanzi precedenti e con A ciascuno il suo in particolare si registra, poi, l’attenzione alla scrittura da parte dell’investigatore, ma, in linea con l’asciuttezza scarnificata del romanzo, si tratterà non già dello studio di una parola, come accade a Laurana, o di «associazioni di parole che rivelano la colpa» (lettera I della regola n. 20), bensì della riflessione accorta su un semplice segno d’interpunzione, quel punto fermo aggiunto dall’assassino all’annotazione che la vittima stava scrivendo al suo arrivo.
Ancora una volta, dunque, la scrittura come metascrittura e come strumento di ricerca di un’ipotesi di verità, con buona pace delle restrizioni di Van Dine.
Un’ultima considerazione deve necessariamente riguardare il ruolo attivo che, anche in questo finale, il narratore impone al suo lettore-ermeneuta: a lui toccherà far combaciare le tessere del mosaico-verità, completando la ricostruzione del brigadiere con quelle informazioni complementari scoperte dal conducente della Volvo, unico personaggio ad aver dedotto il coinvolgimento di padre Cricco nella trama criminale. Era stato così in Todo modo, quando al lettore venne delegato il compito di sciogliere l’enigma a posteriori, a lettura ultimata cioè, tornando a leggere l’epigrafe per dedurre che era quella la chiave della soluzione. Sarà così anche questa volta, poiché al lettore viene affidato il compito di chiarire il mistero, superando, magari solo per brevi attimi, il tempo del racconto, per rientrare dalla dimensione fantastica e come sospesa della lettura in quella concreta e contingente del mondo reale: e così, una volta dipanata la matassa delle complicità con la messa a fuoco di tutta la vicenda, al lettore dell’ultimo Sciascia non resterà
35 Non è un caso che il narratore precisi questa condizione accessoria e non costituzionale: quando l’uomo della Volvo
realizza l’identità del finto capostazione dice a se stesso: «Quel prete... l’avrei riconosciuto subito, se non fosse stato
vestito da prete» (p. 66. Corsivi miei). Come dire che l’abito fa solo provvisoriamente il monaco.
36 Sciascia appare molto attento al concetto di slealtà nel ruolo di narratore, come attestano i numerosi riferimenti, sia
nelle opere che nelle dichiarazioni (Cfr. L. Sciascia, Prefazione a A. Christie, L’assassinio di Roger Ackroyd, Milano, Mondadori, 1979, pp. 219-220). Ciò non lo esime dal servirsi di tale slealtà, in questo caso e in altri, come nell’inganno teso al lettore in Todo modo, laddove il narratore appare reticente e perciò inaffidabile, in quanto, essendo egli stesso l’omicida di don Gaetano, omette quelle informazioni e quei passaggi narrativi o riflessivi che lo comprometterebbero agli occhi del lettore.
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che meditare sull’epigrafe, per rendersi conto che l’estremo messaggio dell’autore è un’amara consapevolezza del definitivo declino di ogni ideale di giustizia in una terra, la nostra, dove collusioni tra i massimi poteri e la mafia, ottusità o negligenza delle istituzioni hanno inciso sulla coscienza civica collettiva, determinando una desolante débâcle morale, cui concorrono il disinteresse per la cosa pubblica, l’apatia e il cinico egoismo.
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II.... Il film
Il film
Il film
Il film: introduzione
: introduzione
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II.1 Genesi e critica
Quando il 28 ottobre 1989 viene pubblicato sul supplemento del quotidiano “La repubblica” lo stralcio iniziale del romanzo Una storia semplice, Emidio Greco, regista colto e amante della letteratura, già estimatore dell’opera di Sciascia, ne rimane folgorato e si adopera per ottenere in anteprima dalla casa editrice Adelphi il libro, al quale confermerà il suo apprezzamento, specialmente per la struttura narrativa «di acciaio inossidabile». Alla morte dello scrittore, circa una decina di case produttrici si fa avanti per accaparrarsi i diritti cinematografici, mentre gli eredi richiedono adeguati requisiti culturali, morali e professionali per concederli, come si legge in una nota compostamente orgogliosa della produzione, la Claudio Bonivento Production e B.B.E. International37. Greco vince la sfida anche grazie alla stima che in lui nutre lo scrittore e giornalista Domenico Porzio, amico della famiglia Sciascia, che ne caldeggia la candidatura.
È il 4 marzo del 1991 quando Greco dà inizio alle riprese che dureranno otto settimane38. Sono trascorsi oltre venticinque anni dalla prima realizzazione di una trasposizione cinematografica da un libro di Sciascia, e ormai si contano numerosi film, dagli esiti vari, di matrice sciasciana, ma per lui è il primo approccio, e non sarà l’unico, perché a distanza di ulteriori undici anni, nel 2002, girerà un’altra pellicola, Il consiglio d’Egitto, dalla medesima fonte.
Greco, all’epoca, ha già maturato un paio di esperienze di trasposizioni da opere letterarie,
L’Invenzione di Morel39 (1974) da Bioy Casares ed Ehrengard (1982, redistribuito nel 2003) da
37 Quando si occupa del film di Greco, Claudio Bonivento è già un produttore affermato, grazie al successo ottenuto con
Mery per sempre, nel 1989, il film di Marco Risi sulle vite spezzate di giovani in un carcere minorile, etichettato come
ritorno al neorealismo. Nel 1990 inoltre ha prodotto una sorta di sequel di Mery per sempre, quel Ragazzi fuori che non bissò il precedente successo, ma che lo caratterizzò come produttore attento alle tematiche civili.
38 Queste informazioni sono state tratte dalle Note della produzione, consultate presso la Biblioteca del Centro
Sperimentale di Cinematografia di Roma, p. 7.
39 Per quanto riguarda questo primo film, al quale il regista è sembrato molto legato e per il quale la critica converge nel
definirlo il film più borgesiano che sia stato prodotto, durante l’intervista inedita che mi ha rilasciato, Emidio Greco si è così espresso: «Quando ho letto il libro di Casares ho trovato nella forma-romanzo un sentimento della vita, che aveva l’impronta netta di Borges. [...] Non mi parve vero di trovare nella forma romanzo un racconto, che a mio avviso si
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Karen Blixen, vincitore nel 1983 del premio “Cinema e Società” per il miglior film tratto da un’opera letteraria. A far scattare la molla è sempre una qualche corrispondenza di intenti con l’autore scritturale, un feeling che nasce leggendo e, in questo caso, ce ne sono diverse, a partire dalla comune “formazione” borgesiana40, che lo ha appassionato alla metaletteratura fin da ragazzo: saranno le tracce di Borges in questo testo a fargli amare il racconto:
Sciascia è uno dei pochi scrittori che tenta di portare nella forma-romanzo un sentimento borgesiano e che, col passare del tempo, è stato sempre più borgesiano, con una sua particolarità: cerca di conciliare la contraddizione fra l’attenzione etica e illuministica a dare senso e ragione alle cose e una sorta di totale disincanto nei confronti della possibilità di riuscirvi. Questo sentimento in Sciascia parte da Pirandello e approda a Borges, secondo me. In particolare, il tentativo di conciliare questi due aspetti contradditori viene compiuto proprio in Una storia semplice.
Greco, che – non dimentichiamolo – collabora sempre alle sceneggiature dei suoi film e che per questa sceneggiatura scritta insieme ad Andrea Barbato ottenne il Nastro d’argento e il Globo d’oro della stampa estera nel 1992, nonché l’Antigone d’oro al festival del cinema di Montpellier41, dice di essere stato attratto anche da un altro aspetto del testo:
È un racconto [...] privo di psicologia e di sociologia. E io detesto la psicologia e la sociologia... [...] come tema di un film o di un romanzo.
In Una storia semplice è dato tutto per acquisito [...]: ci sono delle maschere che adempiono a un ruolo, e io ho cercato di accentuare questo aspetto.
Nel corso dell’indagine sul testo, per qualcuno dei personaggi è emersa, in verità, una profondità psicologica che va ben oltre la stretta funzionalità alla storia, ma è indubbio che sulla scena si muovano, agiscano, parlino numerosi burattini, più in virtù del ruolo che ricoprono che motivati da una interiorità resa nota al lettore: insieme all’assenza di una sicilianità banalmente convenzionale, ciò costituisce per Greco un grande pregio (lo ha ribadito più volte nelle varie interviste), in quanto egli si dice refrattario a vestire i panni del «deus ex machina, che imbocca i suoi personaggi con le sue riflessioni», perché «il compito del narrativo – che sia quello della letteratura o del cinema – non è di raccontare le diverse psicologie dei personaggi come prestava a diventare un film». L’incontro è avvenuto a Torino, in occasione della retrospettiva dei suoi film che si è svolta dal 3 al 7 maggio 2009: farò sempre riferimento a questa intervista quando ne riporterò stralci, nel corso di questa trattazione (salvo diversa indicazione).
40 Sciascia dice di aver appreso da Borges «la corrispondenza tra le cose, la dimensione quasi magica in cui si produce
parte della nostra vita». L.SCIASCIA, Continuare a scrivere, intervista di Blanca Berasategui, in “Nuove effemeridi”, n. 9, 1990/91, pp. 16-17. Dal canto suo Greco riafferma con orgoglio la matrice borgesiana del suo pensiero, e d’altronde anche nel suo lavoro di regista televisivo ha reso omaggio allo scrittore argentino, girando su di lui uno dei documentari dedicati a filosofi e intellettuali del ‘900.
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nell’Ottocento o di descrivere realtà sociali», poiché queste ultime sono legate a contingenze, destinate a estinguersi presto. L’ambizione di Greco è invece quella «di sfuggire alle contingenze, di non essere prigioniero della iattanza del presente», di cercare di fare cioè «un discorso un po’ più totalizzante», che non si presenti dunque come le tante «schegge dell’arte del Novecento», secolo durante il quale «le forme sono andate evolvendo in ragione dei temi che venivano trattati», come «evocate dai temi stessi». D’altronde non può che essere così per un artista della sua levatura, che si mostra lontano dal pensiero comune, così vicino invece al concetto della compenetrazione delle coscienze, che propugna un incontro di esperienze culturali ed esistenziali anche disparate su un terreno comune di lotta per la libertà di pensiero.
A Greco, come a Sciascia, preme andare oltre le apparenze, in quanto è il secondo livello, nascosto e inespresso, che egli ritiene più importante. Propone, perciò, una realtà in cui talune potenzialità evocative, metaforiche, si fondono con istanze culturali e politiche, sebbene non militanti. Il film Una storia semplice, infatti, non è una denuncia del Potere storicamente contestualizzato, come abbiamo detto per Damiani, ma una rappresentazione delle devastazioni di un ingranaggio inceppato, della caduta di tutti i punti di riferimento, con un’attenzione speciale alle reazioni umane nei confronti delle responsabilità morali.
A Greco, inoltre, il giallo è congeniale; ovviamente non quello di impianto classico, bensì allotropico, con profonde affinità con Sciascia, come egli stesso conferma: non è il soprannaturale che vuole scomodare42, tant’è che cita ancora Borges e una sua celebre prefazione a L’Invenzione di
Morel, in cui questi rintracciava nella storia un presupposto meramente scientifico; non sono le
certezze che egli vuole consolidare: è indubbio che drammaturgicamente il mistero da scoprire offra snodi narrativi utili a tener desta l’attenzione dello spettatore, ma è soprattutto la provocazione dell’orizzonte di attesa contraddetto, della negazione del finale rassicurante che lo scuote, lo induce a interrogarsi, ed è questo il discorso d’autore del regista, il voler «parlare d’altro, svolgendo dei “falsi gialli”». Era stato già così nell’Invenzione di Morel43, dove la rappresentazione di una realtà illusoria e ingannevole non prelude a un riscatto, mentre il gioco metacinematografico dei rimandi al “palcoscenico” sposta la storia narrata nella dimensione della finzione nella finzione, in un paradosso caro anche a Pirandello.
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Dal canto suo, Sciascia si era sempre opposto alla metafisica scomodata dal giallo nella sua forma originaria, rinnegando l’esistenza di un mondo al di là del fisico, di un’entità che giustificasse un ordine cui informarsi sulla terra. Cfr. L.SCIASCIA, Breve storia del poliziesco, in ID., Cruciverba, Torino, Einaudi, 1983, p. 218.
43 Il protagonista del film in questione è un naufrago che, approdato su un’isola apparentemente deserta, vede da lontano
tante persone che ritiene reali e che sono invece proiezioni immateriali create da una macchina inventata dal folle scienziato Morel, il quale le ha filmate da vive, condannandole a morte per gli effetti fatali di tale operazione. Un’ossessiva canzone e i pochi dialoghi ripetuti all’infinito saranno i segnali che faranno scoprire l’inganno al protagonista, il quale, resosi conto che non potrà mai incontrarsi con la donna-immagine di cui si è invaghito, si condannerà a morte, lasciandosi immortalare dalla macchina fatale che poi distruggerà. Per i dati biografici e i commenti all’opera si rimanda a S.GALLERANI (a cura di), Il cinema di Emidio Greco - La norma effimera, Museo nazionale del cinema, Torino 3-7 giugno 2009, Torino, Arti grafiche biellesi, 2009; A.BICHON, Greco Emidio, in G.P. BRUNETTA (a cura di), Dizionario dei registi del cinema mondiale, vol. II, Torino, Einaudi, 2005, pp. 76-77.
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Al pari di Sciascia non crede che rimangano possibilità alla Giustizia, forse perché la Giustizia è solo un’astrazione, un’illusione appunto, né che gli esseri umani sappiano o possano davvero crearla. In fondo, tutto sembra essere insensatezza, assurdità, come la danza dei personaggi inesistenti di Morel o quella “reale” del successivo Milonga, dove l’occasione per “parlare d’altro” è costituita da un omicidio gratuito, immotivato, e tutto ciò che accade appare senza senso, una sorta di parabola della follia dei nostri tempi (l’ambientazione è a Roma, ma potrebbe essere in qualunque altro luogo). In Una storia semplice il balletto, simbolicamente parlando, è quello dei vari inquirenti, con l’insensatezza di un antagonismo controproducente quanto pervicace, ma le metafore sono disseminate in tutto il testo filmico, a cominciare da quella del viaggio, che costituisce il bellissimo incipit dell’opera, e continuando con quella del dubbio, che innerva tutta la narrazione e chiude il film.
La critica accoglie con favore il film, anche chi, come Piera Detassis, non risparmia una riduttiva stoccata allo stile che definisce «forse più televisivo che cinematografico»44; e qualcuno dei recensori ne fissa subito gli aspetti più significativi, come Vittorio Spiga, che apprezza la «sobria ed efficace spettacolarità», ma soprattutto sa intendere la «parabola del male insito non solo nella terra e nel sangue dei siciliani, ma anche in chi, in confini più dilatati, cede al ricatto della paura, della connivenza. [...] Così Una storia semplice dal cuore nero della Sicilia assurge a significare la pena del vivere, lo squallore e l’indegnità di questi nostri anni, la negazione della giustizia e della verità»45. Altrettanto fa Ro. El. che rimarca come Greco «instill[i] dubbi e perplessità», avvalendosi di una «requisitoria lucida benché pacata»46.
Sulla medesima falsariga si collocano la stessa Detassis, che loda «il taglio sobrio e severo con cui affronta la denuncia civile, rifuggendo dai clamori e dall’enfasi»47, e Gregorio Napoli, che a sua volta, sottolineando «il gioco delle parti scandito con asciutta austerità»48, mette in luce «la continua provocazione rivolta allo spettatore, portato a cimentarsi, fotogramma dopo fotogramma, con gli assilli quotidiani, le poche certezze del diritto, il livore delle autorità che dovrebbero difenderlo»49. La frase conclusiva di Napoli, a mio avviso, racchiude bene il senso dell’opera di Emidio Greco: «Un film dalla parte del cittadino, dunque, anche se questa formulazione è riduttiva del suo alto timbro poetico»50. Perché effettivamente il film ha un quid in più, un marchio poetico di fabbrica, per così dire, pur trattando di umane bassezze e parlando alla ragione.
44
P.DETASSIS, Una storia semplice, in R.CHITI, E.LANCIA, R.POPPI (a cura di), Dizionario del cinema italiano, vol. II, p. 232, già in “Ciak”, n. 10, ottobre 1991
45 V.S
PIGA, Una storia semplice, in S.GESÙ (a cura di), Leonardo Sciascia, Catania, Maimone, 1992, p. 277 già in “Gazzetta del Sud”, 4 settembre 1991. Si associa al commento di Spiga Ro. El. che rimarca come Greco «instill[i] dubbi e perplessità», avvalendosi di una «requisitoria lucida benché pacata»45.
46 R
O.EL., Una storia semplice, in S.GESÙ (a cura di), Leonardo Sciascia, cit. p. 278, già in “Segnocinema”, n. 52, novembre-dicembre 1991.
47
P.DETASSIS, Una storia semplice, cit.
48 G.N
APOLI, Una storia semplice, in S.GESÙ (a cura di), Leonardo Sciascia, cit. p. 276, già in “Giornale di Sicilia”, 6 ottobre 1991.
49 Ibidem. 50 Ibidem.
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Malgrado le ottime premesse e i giudizi nel complesso lusinghieri, il film non ha vita facile: distribuito in trentasette città, in sei mesi incassa poco più di settecento milioni di lire, mentre le impietose leggi di mercato dell’industria-cinema impongono ben altri introiti affinchè un film, costato cinque miliardi, come si legge nelle note di produzione51, possa essere considerato un buon investimento52. Rimane il dato inconfutabile che, per quanti vogliano godere del privilegio di vedere il film, «la parabola di Sciascia-Greco va dritta al cuore con rabbia tranquilla e (quasi) rassegnata commozione»53, lasciando il segno.
II.2 Il cast e il sistema dei personaggi
Il cast dei personaggi ha avuto per lo più entusiastiche recensioni, sia pure con qualche eccezione54: cito per tutte quella di Nino Dolfo, il quale riserva una tirata d’orecchi alla giuria di Venezia, visto che il film passò «indenne nel bombardamento di Leoni», malgrado i meriti:
Una storia semplice piace per la sobrietà della regia e soprattutto per la mirabile efficienza dell’ensemble degli attori. Oltre a Volonté, al suo ultimo cesello da orafo dei tics e della psiche (è uno Sciascia sputato nel corpo e nell’anima), da encomio solenne sono Ennio Fantastichini, il commissario, e Massimo Dapporto, il questore. Un baffo più sotto Ricky Tognazzi, il brigadiere, un po’ troppo monocorde, e il povero Gianluca Favilla, il procuratore, purtroppo già passato tra i più55.
In effetti, uno dei pregi del film risiede, appunto, nell’affiatamento degli attori, due dei quali figli d’arte, Massimo Dapporto e Ricky Tognazzi, il primo con alle spalle già numerose interpretazioni teatrali, cinematografiche56, anche precoci57, e televisive; il secondo con esperienze sia di attore, drammatico e comico, che di regista, prima che si appassionasse ai soggetti di mafia e a questi dedicasse un’attenzione speciale58. In una particina, comunque foriera di una nuova
51
Cfr. Note di produzione citate.
52 A spiegarlo, proprio a proposito di alcuni film tratti da Sciascia, compreso Una storia semplice, è Mary P. Wood, che
per i dati si rifà ad Anon, Statistiche dell’industria cinematografica 1991, in “Cinema d’oggi”, 16 gennaio 1992, p. 25. Cfr. M.P.WOOD, Storie semplici: Sciascia e il cinema, in AA.VV., Sciascia, uno scrittore europeo, cit., p. 270.
53 L’espressione è di Giovanni Spagnoletti, citato in L
A.MORANDINI,LU.MORANDINI,M.MORANDINI, voce Una storia
semplice, in ID., Il Morandini – Dizionario dei film di Laura, Luisa e Morando Morandini 2005, Bologna, Zanichelli, 2004, p. 1332.
54 Si discosta dal coro di lodi, per esempio, Irene Bignardi che scrive: «[...] gli interpreti non sono sempre messi a fuoco,
e soprattutto sembra incerto sul da farsi il pur simpatico Ricky Tognazzi», anche se trova le ragioni di ciò nello schiacciamento dal «confronto con l’ineguagliabile intensità di Volonté». I.BIGNARDI, Sicilia scettica ed esemplare, in “La Repubblica”, 4 settembre 1991.
55 N.D
OLFO, Una storia semplice, in S. GESÙ (a cura di), Leonardo Sciascia, cit. p. 277 già in “Brescia oggi”, 24 ottobre 1991.
56 Per Mignon è partita di Francesca Archibugi, del 1989, Massimo Dapporto aveva ricevuto il premio David di
Donatello come miglior attore non protagonista.
57 Massimo aveva lavorato con il padre a soli otto anni nel film di Dino Risi, I mostri, del 1963. 58 Ricky Tognazzi ha diretto La scorta, nel 1993, I giudici, nel 1998.