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I. Nel magma di Mario Luzi (1963 e 1966)

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I. Nel magma di Mario Luzi (1963 e 1966)

Con l’ammirazione costante e spesso ostinata (non di rado inesplicabile a molti dei miei vicini) per la sua poesia, [c’era in me] anche la riluttanza, più che alle sue formule e cadenze polemiche, a comprenderne gli orizzonti ideologici e politici, le scelte di campo e, soprattutto le inevitabili solidarietà; riluttanza, devo dire, ben ricambiata.

(F. Fortini)

Fino alla fine degli anni Quaranta, per la maggior parte dei lettori italiani Luzi è stato soprattutto l’autore di Avvento notturno, un libro ritenuto il capolavoro dell’ermetismo fiorentino. Rappresentante in Italia del grande simbolismo europeo, in questa fase Luzi considera un modello imprescindibile Mallarmé, il poeta a cui si deve, come si legge in un capitolo di un noto saggio di Friedrich, l’«allontanamento più radicale dalla lirica imperniata sull’esperienza vissuta»1. E d’altronde, è un dato ormai acquisito dalla critica che nelle raccolte ascrivibili all’ermetismo l’alto tasso di figuralità, le scelte formali, la ricerca di metafore insolite agiscono in direzione di una cancellazione dell’io lirico, o di una sua espulsione dal testo2. Forte del suo cattolicesimo, la corrente italiana ha espresso una necessità, sconosciuta all’orfismo francese, di conciliare letteratura e vita; tuttavia, a conti fatti, la formula con cui Bo sintetizzava la poetica dei propri sodali, «letteratura come vita», appare fuorviante. Acutamente Sanguineti ha invitato a capovolgere i termini e a parlare di «una vita come letteratura»: l’esperienza empirica del poeta ermetico perde consistenza e si schiaccia su un’idea di letteratura intesa come attività assoluta, alta, che fugge da ogni tipo di compromissione con il reale e il mondo prosastico3.

Con il passare dei decenni, però, la poesia di Luzi è mutata visibilmente e a questa fase iniziale ne sono seguite delle altre. A partire dai testi degli anni Cinquanta

1 H. Friedrich, La struttura della lirica moderna, Garzanti, Milano 1983, p. 114.

2 A. Berardinelli, Poesia verso la prosa, cit., p. 215, ma anche P. Giovannetti, Modi della poesia italiana

contemporanea, cit., p. 19.

3 E. Sanguineti, Introduzione a Poesia italiana del Novecento, Einaudi, Torino 1969, p. LIX. Com’è

noto, l’artefice della formula «Letteratura come vita» è stato Bo; il suo saggio apparso nel 1938 su «Frontespizio» si legge ora in C. Bo, Letteratura come vita, Rizzoli, Milano 1994.

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l’evanescenza ha lasciato il posto alla determinatezza e all’individualizzazione dell’io lirico. In questo primo capitolo analizziamo Nel magma, una raccolta che colpisce proprio perché al centro dei componimenti è collocata non una semplice «voce» ma addirittura una «persona»4 con una fisicità ben definita, colta in dialoghi e scambi di gesti con altri personaggi. Il testo-campione da cui partiamo risale al 1963 ed è intitolato Nel caffè.

Mentre la valle s’infittisce e pettina con tutti i suoi cipressi il filo d’aria tra pioggia e avvisi d’altra pioggia, qui nel caffè fuori mano di vetri e fronde, 5 nido ai convegni di straforo, accorre

e si stipa una moltitudine sorda che esala fumo. «Perché non parlare un po’ tra noi»

mi dice uno forato nella gola premendosi una garza sull’incavo 10 o poco sopra, e si siede al mio tavolo

nel posto dirimpetto rimasto vuoto. Lo guardo e vedo che i suoi occhi grigi vogliono dire assai più che non dica quella bocca vizza e mi fissano ridendo. 15 «Sarà un modo di stare ancora l’uno

vicino all’altro, come un tempo, nello stesso banco»

aggiunge, e più con gli occhi che con quella voce rauca raspando. A un tratto, prima di ravvisarlo, so chi è

da quella tenerezza d’uomo stretto al ricordo

20 che fu anche del ragazzo, il ragazzo un po’ femmina che turba un niente. «Mai non avrei pensato a te, mio caro;

scusami» e allunghiamo le mani sopra il tavolo a stringerci le nuche lanose e opache.

E così ci facciamo un po’ di festa 25 guardandoci negli occhi ancora vivi

e cercando di indovinare il resto.

Di nuovo si comprime la garza sull’incavo e riprende con quella voce afona,

dura: «Forse dovrei darti un ragguaglio 30 di tanti anni fino a questa croce.

Non ne vale la pena. Preferisco che tu immagini. Certo, so bene quello che mi aspetta».

Lo guardo che abbassa le palpebre e mi appare calmo. Io non so dire altro, penso a questo incontro

35 se si può cavarne un senso che non sia di rimorso e basta e sto senza parole qui davanti

a lui ch’è troppo mio compagno

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perché possa consolarlo

o mentire. Né lui chiede conforto 40 ma un attimo di comunione piena

per sé quanto per me, ed offre questa pace in cambio.

«Ho seguito i tuoi successi» riprende quella voce quasi gorgogliando. «Oh, non sono senza contrasti, ma ciò non ha importanza»

mi schermisco io ed avvampo sotto la sua occhiata bianca. 45 «Abbiamo avuto in sorte tempi duri

ma non fummo da meno anche se ne siamo usciti un tantino empi». «C’è stato poco tempo per pregare…»

«Poco tempo infatti. Ma ho fiducia che l’azione sia preghiera anch’essa pel futuro

50 ed espiazione del passato» dice e arrossisce a sua volta e in quel pudore lo rivedo meglio quale fu nell’infanzia. A mano mano che il colloquio avanza

e i silenzi si fanno più frequenti e lunghi vediamo, lui

55 l’amenità d’oasi del luogo di là dai vetri sparire dietro una coltre di pioggia, ed io

la sala invasa da una nube di fumo diventare ingombra. Dicono a una radio di Eichmann.

Dove avrebbe qualcuno or non è molto 60 o versato o represso qualche lacrima,

danzano al fruscio basso di un disco

non però così basso da non soverchiare il transistor. «So quel che pensi, eppure hai torto» dice

con un sorriso divenuto blando

65 mentre guarda fuori, mentre l’ora si fa tarda,

«non posso non sentire in questo scalpiccio un che di santo». E frattanto penso con un brivido

a noi quando saremo sull’uscita sul punto di dirci addio sotto la pioggia 70 e sotto il pigolio degli uccelli tramato fitto.

Come capita abitualmente di fronte alla lirica moderna, leggendo Nel caffè si ha subito l’impressione che l’autore incentri la propria poesia su un episodio o un frammento autobiografico, a cui è possibile attribuire una certa rilevanza. Mentre è al tavolo di una caffetteria «fuori mano», lontana dal centro cittadino, il poeta è inaspettatamente raggiunto da un amico d’infanzia; tra reciproci gesti d’affetto e lunghi silenzi, i due chiacchierano seduti uno di fronte all’altro, prima di separarsi nuovamente.

In un’intervista Luzi ha dichiarato che in «Nel magma sono descritti molti incontri, proprio come avviene in Dante. In Petrarca invece sono pochi gli incontri veri, reali»5.

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È un rilievo molto utile ai fini dell’analisi del nostro testo-campione e non soltanto perché aiuta a decifrare il carattere dell’incontro, un tema che, come ha ricordato Luperini, è da sempre largamente frequentato dalla letteratura europea6. Di fronte a Nel caffè si rimane colpiti non soltanto dalla capacità, tutt’altro che scontata per un poeta di formazione ermetica, di raccontare la vita empirica di un io ben individuato, ma anche dalle soluzioni tecniche utilizzate per presentare e raccontare uno dei frammenti di questa vita. In questa prospettiva, il riconoscimento del modello dantesco è un aiuto che l’autore offre per inquadrare un modulo retorico piuttosto insolito nella nostra tradizione lirica.

Già da un approccio superficiale alla poesia, risaltano l’estensione, la presenza al suo interno di personaggi con diritto di parola e la conseguente alternanza di parti diegetiche e parti mimetiche, quest’ultime evidenziate tipograficamente dalle virgolette: tutti elementi che, come ha esaustivamente dimostrato de Rooy in un suo studio, possono essere considerati indici della narratività dei componimenti poetici7. Recuperando il dizionario e le categorie della narratologia, possiamo dire, allora, che in Nel caffè l’io lirico assolve tout court alla funzione di narratore omodiegetico. L’enunciatore, infatti, si presenta come chi dialoga con l’amico e vive l’esperienza e chi la ripercorre, offrendo al lettore il proprio punto di vista, commenti, interpretazioni sui fatti. Ciò che Luzi impara da Dante è proprio la possibilità di attribuire all’io più ruoli insieme, quello dell’agens e quello del narratore che con chiarezza e coerenza si sforza di comunicare i fatti accaduti o di riportare fedelmente, attraverso il discorso riferito, la parola altrui8.

A veder bene, però, nel nostro testo-campione il modulo retorico dantesco è ulteriormente sofisticato. Nella Commedia c’è un solco profondo tra il tempo in cui Dante, compiendo il suo viaggio ultraterreno, incontra, da personaggio, le anime dei trapassati e il tempo in cui, in qualità di narratore, verbalizza l’esperienza ormai conclusa. Anzi, il viaggio può essere raccontato proprio perché è stato portato a termine9. In Nel caffè, invece, l’uso del presente nel suo aspetto fondamentale («mi

6 R. Luperini, L’incontro e il caso, Laterza, Roma-Bari 2007.

7 R. de Rooy, Il narrativo nella poesia moderna, Cesati, Firenze 1994, pp. 60-79.

8 S. Verdino, Introduzione a M. Luzi, L’opera poetica, Mondadori, Milano 1998, p. XXXI. 9 Ch. S. Singleton, La poesia della Divina Commedia, il Mulino, Bologna 1978, pp. 463-94.

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dice», «lo guardo e vedo», «vogliono dire», «aggiunge», ecc.) lascia pensare a un racconto in presa diretta, in cui il piano temporale dell’io che vive e il piano dell’io che narra coincidono, sono simultanei. È un’anomalia molto interessante, poiché contraddice una caratteristica quasi ovvia della narrazione e cioè che, come direbbe Genette, essa «possa essere soltanto posteriore a quanto racconta»10. Se, come ha messo in luce Picone, nella Commedia Dante ricerca «l’effetto di presenzialità, il passato che rivive nel presente» attraverso diversi mezzi stilistici e retorici, ma mantiene comunque la diegesi al passato e all’imperfetto11, in Nel caffè Luzi va oltre, proseguendo la strada intrapresa dal proprio modello fino a forzare la categoria del tempo, con il conseguente dazio di un’esibizione di artificiosità.

Inevitabilmente la poesia assume la fisionomia di un enunciato «in situazione», con uno schiacciamento del modulo retorico su soluzioni tipicamente teatrali e il parziale avvicinamento del lettore al ruolo funzionale di spettatore12. Il titolo Nel caffè, pertanto, andrà letto come un’indicazione dello spazio scenico in cui avvengono i fatti e, insieme, del luogo da cui parla il personaggio lirico che li racconta.

È un aspetto confermato già nella strofa iniziale dall’uso della deissi: l’avverbio «qui» (al v. 3 «qui | nel caffè», ma si veda anche più avanti, al v. 36) rivela che l’io narrante descrive, proprio mentre ne prende atto, i cambiamenti che riguardano l’interno in cui è collocato e l’ambiente al suo esterno. Oltre i vetri delle finestre, coperti dalle fronde degli alberi, l’atmosfera della valle su cui affaccia il caffè varia leggermente: il colore del cielo si fa più cupo («s’infittisce», v. 1), una brezza («il filo d’aria», v. 2) smuove i cipressi e la pioggia minaccia nuove ricadute («tra pioggia e avvisi d’altra pioggia», v. 3). Dentro invece, il bar si sta riempiendo («si stipa», v. 6) di nuovi avventori che chiacchierano e fumano («una moltitudine sorda che esala fumo», v. 6). Da questa «moltitudine» si stacca «uno forato nella gola» (v. 8), un uomo con una visibile ferita sul collo che, dichiarando di voler scambiare due chiacchiere, si siede al tavolo dell’io (vv. 7-11). Proprio perché il racconto è condotto in presa diretta, il

10 G. Genette, Figure III, Einaudi, Torino 1986, p. 263.

11 Tra i mezzi retorici e stilistici utilizzati da Dante, Picone cita le descrizioni al tempo presente e «le

comparazioni (che rendono familiari contenuti lontani e strani)» in M. Picone, Introduzione a Lectura Dantis Turicensis, Cesati, Firenze 1999.

12 Cfr. E. Testa, Lingua e poesia negli anni Sessanta, in AAVV, Gli anni ’60 e ’70 in Italia, cit., p. 35 e

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narratore, non riconoscendo subito l’altro personaggio, lo presenta genericamente, come uno fra i tanti avventori, distinto solamente dai segni della tracheotomia.

Con la battuta dell’amico prende avvio il dialogo tra i due personaggi; il successivo spezzone di discorso diretto, in cui il «forato nella gola» allude scherzosamente all’intensa frequentazione dei due negli anni della scuola (vv. 15-16), è intervallato da una parte diegetica in cui il narratore, attraverso l’uso della zoomata, focalizza la propria attenzione su alcuni dettagli fisici dell’interlocutore, come la «bocca vizza» e gli «occhi grigi» (vv. 12-14). L’insistenza è soprattutto sull’espressività dello sguardo che sembra supplire alla debolezza della bocca («i suoi occhi grigi | vogliono dire assai più che non dica | quella bocca vizza», vv. 12-14), comunicando più di quanto non riesca a fare la voce rauca («più con gli occhi che con quella voce rauca raspando», v. 17). All’altezza della quarta strofa, improvvisamente l’io lirico riconosce nel «forato nella gola» il vecchio amico d’infanzia, non per la fisionomia, bensì per la gentilezza dei suoi modi: per quella «tenerezza» che il ragazzo del passato, effeminato e sensibile, aveva e che resiste nell’uomo di oggi, attaccato ai ricordi (vv. 18-20). In Nel magma si ritrovano anche altre poesie che sono costruite su incontri-dialoghi tra il poeta e vecchi amici che non sono riconosciuti immediatamente. È questo uno dei diversi espedienti di cui Luzi si serve per restituire l’immagine di una realtà magmatica, confusa, che il soggetto riesce a decifrare solo con difficoltà.

Ecco, dunque, che ai vv. 21-22 l’io lirico risponde alle parole del compagno, scusandosi e dichiarando il proprio stupore («Mai non avrei pensato a te, mio caro; scusami»); anche questa battuta è riportata con il discorso riferito. L’artificiosità della tecnica adottata da Luzi in Nel caffè appare adesso con un’evidenza ancora maggiore. Il narratore, com’è già emerso, prende parte ad un dialogo con un interlocutore e in contemporanea racconta questo scambio dialogico. Sebbene i due siano collocati fisicamente uno accanto all’altro, «il forato nella gola» può ascoltare solo le parole che il poeta gli rivolge direttamente e non il suo resoconto in presa diretta: così, nella sua interezza la poesia finisce per somigliare ad un lungo a parte teatrale dell’io lirico13, il cui accesso è precluso all’altro personaggio sulla scena ed è riservato unicamente al lettore-spettatore.

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Il racconto del narratore prosegue con la descrizione dei gesti d’affetto, scambiati con l’amico; i due si fanno «un po’ di festa» accarezzandosi le nuche coperte di capelli ormai bianchi («lanose e opache», v. 23) e tentano con lo sguardo, che, nonostante la loro non più giovane età, è ancora vivace («negli occhi ancora vivi», v. 25), di carpire qualcosa della vita dell’altro («cercando di indovinare il resto», v. 26). Riparte quindi il dialogo, con l’interlocutore che sembra prendere la parola per dare una risposta allo sguardo del poeta; come aveva già fatto in precedenza, anche adesso, prima di parlare, il «forato nella gola» preme una garza contro la ferita sul collo (vv. 9 e 27). Al di là delle aspettative però, il personaggio si mostra reticente nel raccontare la propria storia personale. Lascia intendere soltanto di avere avuto un’esistenza segnata dal dolore, facilmente ricostruibile e dura persino da ascoltare («Non ne vale la pena», v. 31): è una vicenda racchiudibile emblematicamente nella metafora cristiana della «croce» (v. 30). L’inesorabilità del proprio destino è accettata («e mi appare calmo», v. 33) e con essa la prospettiva di un futuro molto cupo, forse addirittura segnato da un’imminente morte («so bene quello che mi aspetta», v. 32).

Sentendo le parole del compagno il poeta non riesce a dire niente e resta in silenzio. Nelle poesie raccolte in Nel magma capita spesso che il narratore si ritagli degli spazi specifici in cui presenta e descrive i propri pensieri. Così acquista maggiore visibilità un ulteriore livello della narrazione: l’enunciato della poesia non incornicia soltanto le parti mimetiche del dialogo, ma anche i momenti in cui l’io è interiormente impegnato nella riflessione. Nella sesta strofa di Nel caffè il personaggio lirico si domanda quale sia il significato del suo incontro, se sia possibile desumerne un insegnamento, senza cedere solamente al rimorso per una lunga disattenzione («se si può cavarne un senso che non sia di rimorso e basta», v. 35). La riflessione e il silenzio diventano una reazione quasi necessaria di fronte al dolore dell’amico, poiché, essendo il rapporto tra i due forte e sincero («a lui ch’è troppo mio compagno», v. 37), qualsiasi cosa detta all’altro per consolarlo potrebbe suonare falsa («perché possa consolarlo | o mentire», vv. 38-39). E in fondo, anche il compagno con la sua serenità («ed offre questa pace in cambio», v. 41) non sembra cercare consolazione, ma un momento di «comunione piena» con il poeta.

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Lo scambio dialogico riprende ancora una volta con una battuta del «forato nella gola», che lascia intendere di aver seguito la carriera letteraria del poeta («Ho seguito i tuoi successi», v. 42), il quale, per fuggire l’imbarazzo, aggiunge subito che i propri «successi» non sono stati pacifici ma segnati da conflitti («Oh, non sono senza contrasti, ma ciò non ha importanza», v. 43). Il dialogo procede serratamene, la parte diegetica si riduce al minimo e la mimesi occupa quasi totalmente la strofa. L’argomento della discussione diventa adesso il rapporto con la propria epoca. Il passaggio grammaticale dall’io al noi, rivela una prospettiva comune: l’amico può parlare anche a nome del poeta, dichiarando la durezza, la brutalità, dei tempi avuti in sorte. Pur restando un po’ segnati dal male, i due sono riusciti a non cedere, ad opporsi all’opacità che li ha circondati («ma non fummo da meno anche se ne siamo usciti un tantino empi», v. 46). All’io che ricorda che è mancato il tempo per pregare («C’è stato poco tempo per pregare…», v. 47), l’altro, arrossendo e mostrando lo stesso pudore di quand’era bambino («e in quel pudore lo rivedo meglio quale fu nell’infanzia», v. 51), risponde di credere che i loro gesti («l’azione», v. 48) possano influire sul futuro e che facilitino l’espiazione dei mali che hanno afflitto il mondo («sia preghiera anch’essa pel futuro | ed espiazione del passato», vv. 49-50). Si intravede qui l’idea, mutuata dal teologo Teilhard de Chardin e riscontrabile anche altrove nella raccolta, che ogni cristiano possa contribuire, con l’azione che gli è propria, ad un progressivo ridimensionamento del male e alla graduale evoluzione del mondo14.

Nei vari momenti di silenzio che, crescenti e con maggiore frequenza, intervallano l’avanzare del dialogo, i due amici guardano in direzioni opposte: l’amico fuori dalle vetrine dove le nuvole («una coltre di pioggia», v. 56) tolgono al luogo quell’aspetto di «oasi», e il poeta l’interno del locale, dominato da una cappa di fumo («la sala invasa da una nube di fumo diventare ingombra», v. 57).

Mentre sono seduti ancora al tavolo, l’io e l’amico ascoltano da una radio accesa le notizie relative a Eichmann, l’ufficiale nazista che proprio all’inizio degli anni Sessanta veniva processato per le sue responsabilità nell’eccidio di migliaia di ebrei («Dicono ad una radio di Eichmann», v. 58). La voce proveniente dalla radio, però, non attira l’attenzione degli altri avventori della caffetteria, che anzi continuano a ballare sulla

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musica diffusa, nello stesso momento e con un volume leggermente più alto, da un altro apparecchio («danzano al fruscio basso di un disco | non però così basso da non soverchiare il transistor», vv. 61-62). Agli uomini che, solo pochi anni prima, avevano provato dolore di fronte all’orrore del nazismo («avrebbe qualcuno or non è molto o versato o represso qualche lacrima», vv. 59-60), si è ora sostituita una «moltitudine sorda» in preda all’indifferenza.

L’interlocutore percepisce subito il disappunto dell’io, e così, guardando fuori e cambiando leggermente l’espressione del viso («con un sorriso divenuto blando, | mentre guarda fuori», vv. 64-65), dichiara di capire i suoi sentimenti, eppure di non essere concorde con la sua reazione, convinto che, nonostante tutto, nello «scalpiccio» (v. 66), dietro il gesto di indifferenza, ci sia comunque «un che di santo», la traccia di un progetto divino. La poesia si conclude con un’ulteriore finestra sulla dimensione interiore del personaggio lirico: il narratore formalizza il proprio stato di paura per quando di lì a breve, all’uscita del locale, sotto la pioggia continua e il cinguettio degli uccelli sugli alberi, sarà costretto a separarsi dall’amico («sul punto di dirci addio sotto la pioggia | e sotto il pigolio degli uccelli tramato fitto», vv. 69-70). E di fatto, con questa ammissione finale di disagio, avalla l’ipotesi che lui stesso aveva prospettato all’altezza della sesta strofa: l’incontro inaspettato è stato molto più che la semplice molla del «rimorso» per un’amicizia trascurata, traducendosi invece in un vero «attimo di comunione piena», un momento di umanità carico di senso. Il distacco dall’amico impaurisce perché coincide con il ritorno alla solitudine e ad una quotidianità che offusca l’autenticità della vita calandola in un magma contraddittorio.

Nel caffè racconta di un frammento particolarmente significativo dell’esistenza dell’io lirico, un momento autobiografico che supera l’opacità di un’epoca prosaica, dei «tempi duri» che danneggiano e che rendono un «tantino empi» anche il poeta e l’amico. Proprio perché è un luogo di passaggio, il caffè coincide con l’avamposto da cui l’io può osservare negli altri la disumanizzazione della vita. Gli avventori costituiscono una «moltitudine sorda che esala fumo», occupata a ballare, disinteressata persino alla brutalità di Eichmann e pertanto, metonimicamente, a uno dei momenti in assoluto più dolorosi della storia dell’uomo. La polisemia dell’aggettivo «sorda» è chiaramente sollecitata: gli uomini stipati nel bar parlano con voce sorda, ma sono

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anche affetti da una sordità che è incapacità di percepire l’orrore. Così lo sguardo rivolto alle strutture narrative della Commedia si schiaccia sullo sguardo rivolto al capofila della linea dantesca nel Novecento italiano. Si avverte l’eco di Montale e della «ghiacciata moltitudine di morti» che abita la città di Arsenio (Arsenio, v. 54): cambia il campo semantico, ma resiste, nella rappresentazione degli uomini comuni, una metaforicità che fa leva sull’assenza di sensibilità. E d’altronde, in una certa misura, lo «scalpiccio» degli avventori ha agli occhi dell’io qualcosa di respingente, finendo per ricordare «lo scalpicciare del fandango»15 e le altre orride danze disseminate con precisione nomenclatoria nelle Occasioni o nella Bufera (la carioca, la sardana, il trescone)16.

Nel caffè, dunque, Luzi ripropone una visione non troppo dissimile da quella che si incontra in alcune raccolte di Montale, e che fa perno sulla contrapposizione tra attimi colmi di senso e il resto del tempo minacciato dall’insignificanza17. Il brivido che attraversa l’io nel finale nasce proprio dalla coscienza che l’accesso alla pienezza non può protrarsi, ma attualmente è limitato nel tempo. Tuttavia, se nelle Occasioni questi istanti privilegiati rimandano ad un’integrità laica, alla religione delle lettere e della cultura18, in Nel magma invece rimandano a fondamenti propriamente cristiani. È, si capisce, una differenza non da poco. Nella sesta strofa del nostro testo-campione il narratore parla di «comunione piena» e utilizza l’espressione dal sapore evangelico «offrire questa pace in cambio» (non senza un’eco di Par. XV, 148). Anche qui, come sempre, le scelte stilistiche di Luzi parlano chiaro: il ricongiungimento con il compagno deve essere raccontato con un vocabolario religioso perché è nel segno della religione che avviene19. All’altezza della quinta strofa di Bureau, uno dei componimenti più noti di Nel magma, il personaggio lirico riflette sull’inaspettato incontro di un vecchio conoscente; è vagliata, così, l’ipotesi che il «viso a viso» non sia «dovuto al caso soltanto», ma che, invece, sia capitato «perché un oscuro fine s’adempia» (Bureau, vv. 27-29). La forte fede cattolica spinge Luzi a rivestire gli

15 È il v. 18 della Bufera, la poesia che dà il titolo alla terza raccolta montaliana, ora in E. Montale, Tutte

le poesie, Mondadori, Milano 1984, p. 197.

16 Cfr. P. V. Mengaldo, La tradizione del Novecento. Quarta serie, Bollati Boringhieri, Torino 2000. 17 Cfr. G. Mazzoni, Forma e solitudine, Marcos y Marcos, Milano 2002, pp. 53-57.

18 R. Luperini, Il dialogo e il conflitto, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 169-170.

19 Cfr. A. Jacomuzzi, La poesia di Luzi su fondamenti invisibili, in AAVV, Studi in onore di Alberto

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incontri di Nel magma di un alone di necessità e a tenere in gioco la possibilità che essi siano interni ad un disegno superiore e voluto da Dio. In quest’ottica è sintomatico che nel passo dell’intervista, citato all’inizio di questo paragrafo, l’autore abbia indicato come modello degli incontri della raccolta la Commedia e non abbia pensato, invece, ad autori propriamente moderni e alle loro declinazioni di questo tema20.

A veder bene, però, in Nel caffè trova ampio spazio anche un altro punto di vista sulla realtà. Nonostante tutto, per il compagno di banco la danza dei sordi avventori ha «un che di santo», porta i segni di un assoluto che le dà valore. Di fronte alla banalità e all’opacità della moltitudine indifferente non ci si può limitare ad una reazione di disprezzo. Come abbiamo visto analizzando la settima strofa, l’amico pensa ad un futuro come miglioramento e superamento progressivo delle imperfezioni del passato. In Nel magma Luzi recupera parzialmente le teorie del gesuita Teilhard de Chardin, i cui scritti cominciavano a diffondersi con forza in Italia proprio nei primi anni Sessanta21. Per il teologo francese il mondo è in evoluzione, e quindi necessariamente difettoso e incompleto, accompagnato dal male. Se la perfezione, la parusia, è il punto d’approdo, per contro il cammino non potrà non essere segnato dal negativo: il «guasto» va contrastato («abbiamo avuto in sorte tempi duri | ma non fummo da meno», vv. 45-46), ma non si può ignorare che è un fenomeno strutturale, «coestensivo a tutta l’evoluzione»22.

La critica ha giustamente notato che il compagno di banco è un alter ego del poeta23; con questa figura Luzi costruisce un proprio portavoce24 che sostiene idee che in altri componimenti di Nel magma sono sostenute dal personaggio lirico. Come capita spesso nella raccolta, anche il dialogo tra l’io e l’amico può essere letto come l’oggettivazione di un dibattito tutto interno al soggetto o, come si legge in D’intesa, interno alla sua

20 R. Luperini, L’incontro e il caso, cit., pp. 9-22.

21 Cfr. G. Vigorelli, Il gesuita proibito: vita e opere di P. Teilhard de Chardin, Il saggiatore, Milano

1963. Forse può essere utile riportare quanto dice Luzi nell’intervista rilasciata a Specchio: «La figura di Giovanni XXIII non è che sia un rispecchiamento di Teilhard, però le due cose agiscono o interagiscono, almeno nella mia attenzione; e credo che in fondo il Vaticano II sia nato anche dietro la pressione di un pensiero teologico e innovativo in cui Teilhard c’entra sicuramente qualcosa, anche se non è ufficialmente presente», in M. Luzi, Colloquio. Un dialogo con Mario Specchio, cit., pp. 121-122.

22 N. Wildiers, Introduzione a Teilhard de Chardin, cit., p. 117. 23 R. Luperini, Il Novecento, Loesher, Torino 1981, p. 629. 24 M. Bachtin, Dostoevskij, Einaudi, Torino 2002, p. 70.

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«mente» divisa «tra l’una e l’altra sua parte»25. Recuperando gli studi di Bachtin, possiamo dire che in Nel caffè la parola del «forato nella gola» non dispiega la «sua interna logica e autonomia come parola altrui», e dunque non riesce a varcare in maniera decisa l’«orizzonte monologico dell’autore»26. In effetti, se è indubbio che nei componimenti di Nel magma si ha un superamento del modulo retorico tipico della nostra tradizione poetica e incentrato su un «tu meramente funzionale»27, ad un livello più profondo è anche vero che il ricorso alla narratività, al dialogo, a personaggi con diritto di parola ha come fine non di rimuovere la prospettiva lirica, ma di allargarla.

Se nel nostro testo-campione Luzi affianca all’io lirico un’altra figura e costruisce uno scambio dialogico, è perché ciò gli permette di formulare due ipotesi interpretative del presente, distinte ma entrambe accreditate28. Vedremo meglio più avanti che nella raccolta spesso l’autore oscilla tra il denunciare con Montale il peso di un «vuoto che ci invade» e al contrario il riconoscimento di un legame organico, costante, tra contingenza e assoluto. L’attimo di comunione piena è il momento che conferma, staccandosene, i limiti e le brutture dei «tempi duri», ma è anche il momento in cui l’io lirico è invitato, fideisticamente, a riconoscere ad ogni particolare una dignità e una sacralità. La luce dell’intermittenza, paradossalmente, rivela che tutto è sempre illuminato di una luce invisibile; il meccanismo dell’occasione è utilizzato per veicolare una visione del mondo inconciliabile con una poetica di natura epifanica e assimilabile di fatto a certi approdi del simbolismo europeo. Siamo di fronte al «paradosso del frammento», ovvero, come spiega l’autore stesso, all’attitudine a non vedere più «il particolare come un particolare, ma come un assoluto, significante, significativo, un assoluto che ha significato»29. Passano da qui le eventuali tangenze con Pascoli, descritto da Luzi nei saggi degli anni Sessanta come il poeta del

25 Cfr. A. Panicali, Saggio su Mario Luzi, Garzanti, Milano 1987, p. 172. 26 M. Bachtin, Dostoevskij, cit., p. 89.

27 L. Baldacci, Novecento passato remoto, Rizzoli, Milano 1999, p. 460.

28 In un’intervista Luzi parla esplicitamente di «unità della voce che si scinde in più voci», in M. Luzi,

Un viaggio nella memoria, citato in L. Rizzoli, G. C. Morelli, Mario Luzi. La poesia, il teatro, la prosa, la saggistica, le traduzioni, Mursia, Milano 1992, pp. 87-88.

29 M. Luzi, Colloquio. Un dialogo con Mario Specchio, cit., p. 183. Nelle raccolte degli anni Settanta

Luzi fa del «paradosso del frammento» uno dei perni della propria poetica, come appare chiaramente già dal titolo di una celebre raccolta: «quando dico Battesimo dei nostri frammenti voglio dire che in ciascuno di questi particolari c’è il tutto, è leggibile il tutto» (Ibidem).

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«sottinteso (…) santificatorio»30; e non a caso Pascoli è insieme ad Onofri l’unico poeta italiano che Luzi citi nell’introduzione all’antologia L’idea simbolista31.

In precedenza abbiamo già notato che all’altezza della settima strofa si registra nelle parole del compagno il passaggio ad un noi collettivo. Lo slittamento grammaticale è la spia della sottile equiparazione ma anche della complementarietà delle due esistenze, quella segnata dalla malattia e quella del poeta. Considerando il male come un tassello indelebile nell’ordine cristiano del mondo, il «forato nella gola» può pensare il proprio dolore fisico non in un’ottica punitiva, ma al contrario come il personale contributo al processo evolutivo che regola il tutto32. L’esistenza di chi soffre è orientata verso Cristo, anzi è, agonicamente, imitazione, identificazione nel modello del Christus patiens33. L’uso della metafora della «croce», per indicare il proprio male inguaribile, nasce proprio da un pieno riconoscimento nel sommo esempio di passione, che garantisce alla vita un senso anche quando questo sembra mancare. Di fronte all’imminenza della morte, così, non c’è il cedimento del disperato ma la certezza di chi sta espiando pure per gli altri e ne riceverà una ricompensa. L’«azione» per Luzi non ha nulla di collettivo e immediatamente politico, non è intervento tangibile sulla società, ma rientra con la preghiera nella partecipazione anche silenziosa ad un progetto divino. E la poesia, conoscenza dell’«essenza spirituale dell’universo»34, è essa stessa una forma alta di «azione». Vedremo più avanti che in altri luoghi di Nel magma la figura dell’alter ego viene meno ed è l’io stesso ad incarnare esplicitamente oltre alla

30 M. Luzi,I «Canti di Castelvecchio», in Id., L’inferno e il limbo, SE, Milano 1997, pp. 173-181; ma si

veda anche il profilo M. Luzi, Pascoli, in Storia della Letteratura Italiana, Garzanti, Milano 1969, che prende le mosse proprio da un confronto con Mallarmé. In generale Luzi guarda con molto interesse ai Canti di Castelvecchio; più mosso il suo giudizio sul resto della produzione di Pascoli, autore talvolta tacciato di edificare, demiurgicamente, un mondo personale e autonomo (cfr. G. Pianigiani, Crisi ed evoluzione del genere lirico nella poesia di Mario Luzi tra anni Cinquanta e Sessanta, cit., p. 146).

31 M. Luzi, L’idea simbolista, Garzanti, Milano 1959, p. 7. Nell’Idea simbolista sono antologizzati pure

testi di D’Annunzio e Campana, modelli degli anni ermetici, ma è significativo che questi due autori non vengano menzionati nell’introduzione; è Pascoli invece il poeta a cui, negli anni Cinquanta e Sessanta, Luzi riconosce ancora una certa attualità, anche alla luce dell’influenza esercitata sul «solo umile maestro» Betocchi (Abiura io? Chi può dirlo).

32 Cfr. M. Luzi, La porta del cielo. Conversazioni sul cristianesimo, a cura di S. Verdino, Piemme,

Casale Monferrato 1997, p. 49 e p. 103.

33 Ivi, p. 52.

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figura di chi conosce con l’attività poetica anche quella di chi espia, secondo una religiosità che ha qualcosa di purgatoriale35.

2. Alcuni aspetti formali. In Nel magma l’influenza del modello dantesco incide oltre che sulle tecniche narrative anche sul piano linguistico, con veri e propri calchi dalla Commedia. In Nel caffè il caso più evidente riguarda il sintagma «forato nella gola» (v. 8), citazione da Purg. V, 98 («arriva’io forato ne la gola», qui si tratta di Buonconte da Montefeltro) e Inf. XXVIII, 64 («un altro, che forata avea la gola», è Pier da Medicina). Le «nuche lanose» (v. 23) richiamano alla memoria le «lanose gote» di Caronte (Inf. III, 97), mentre l’uso del verbo ravvisare (v. 18) rimanda a Purg. XXIII, 48, tanto più perché è tutta la dinamica del riconoscimento del compagno a ricordare molto da vicino l’episodio di Forese.

Il dialogo con Dante e Montale, e più in generale con la tradizione, rivela come in Nel magma l’apertura ad un linguaggio prosastico e quotidiano non nasca affatto da intenti antiletterari né dalla volontà di togliere alla poesia una sua specificità. Quando scrive Avvento notturno Luzi è strenuamente convinto che sia necessario tenere ad una distanza siderale il linguaggio poetico dal grado zero della lingua, perché è attraverso l’assolutezza formale che si può raggiungere il «divino statuto di purezza»36. Negli anni Sessanta questa visione è ormai superata, e grazie all’adozione di uno «strumento linguistico più duttile, il più possibile comune»37, è ribadito uno scarto profondo con i testi della fase ermetica. Con Nel magma l’autore si cimenta nella ricerca di una nuova comunicatività, ma allo stesso tempo evita che la colloquialità e la discorsività portino ad un appiattimento della poesia e ad una piena resa al prosastico. È in questa prospettiva che va letto il verso di Orazio citato nell’epigrafe («…nisi quod pede certo | differt sermoni, sermo merus»), adottata per avvertire il lettore, fin dalle soglie della raccolta, di un avvicinamento ma anche del mantenimento di una distanza. Ha

35 Cfr. C. Scarpati, Mario Luzi, Mursia, Milano 1970, p. 162.

36 V. Coletti, Momenti del linguaggio poetico novecentesco, Il Melangolo, Genova 1978, p. 13.

37 G. Pianigiani Crisi ed evoluzione del genere lirico nella poesia di Mario Luzi tra anni Cinquanta e

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dichiarato Luzi: «Non c’è una progressiva prosasticizzazione, in me, ma se mai l’assunzione anche dell’indiscriminato (almeno come tentativo) al piano della poesia»38. D’altronde, quando l’autore ricorre a forme insolite nell’italiano d’uso, queste di solito, più che a regionalismi o a soluzioni vernacolari, fanno pensare ad elementi di un repertorio letterario consolidato; in Nel caffè, ad esempio, è il caso di cavare (v. 35), di un tantino (v. 46) o di pel (v. 49), preposizione che nel Novecento gode di una certa vitalità presso autori non toscani39.

Rispetto al periodo ermetico colpisce la notevole precisione con cui Luzi nomina gli oggetti; nel nostro testo-campione, infatti, non si incontrano più preziosismi e i realia come la garza, la radio o il disco vengono inclusi liberamente nel testo, anche in assenza di un’aggettivazione nobilitante. Tipicamente quotidiane appaiono forme e locuzioni come di straforo, farsi festa, e basta, versare le lacrime. Alcuni versi rivelano una componente espressionistica, ma si tratta di un espressionismo tutto sommato contenuto, depotenziato nella sua carica violenta: è il caso della voce rauca che raspa o che gorgoglia, o della bocca vizza. A questo breve elenco, forse, può essere affiancato il deverbale scalpiccio (v. 66), in cui il suffisso frequentativo-intensivo restituisce un’idea di ripetitività e monotonia, lasciando emergere l’implicita presa di distanza del personaggio lirico dalla moltitudine intenta a ballare. In un suo studio Testa cita Nel caffè a proposito dell’incidenza di certi fenomeni tipici del parlato, indicando tra casi di «improvvise semplificazioni sintattiche» i vv. 31-32 («Non ne vale la pena. Preferisco che tu immagini. | Certo, so bene quello che mi aspetta») e come esempio di «anteposizione del focus tematico del discorso rispetto ad una sua più lineare impaginazione grammaticale»40 i vv. 34-35 («penso a questo incontro | se si può cavarne un senso che non sia di rimorso e basta»).

A livello retorico, le analogie e le metafore appaiono, rispetto alla prima fase della produzione luziana, ridotte di numero e deprivate della loro funzione portante (spicca soprattutto l’incipit con la personificazione della «valle» che «con i suoi cipressi» pettina «il filo d’aria», vv. 1-2). Hanno acquistato rilevanza, invece, le figure della ripetizione, conformemente con l’accantonamento, tipicamente novecentesco, della

38 M. Luzi in F. Camon, Il mestiere di poeta, Garzanti, Milano 1982, p. 120. 39 L. Serianni, Grammatica italiana, Utet, Torino 2002, p. 187.

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«vecchia tendenza della poesia italiana alla variatio»41. Tra queste si individuano, ad esempio, l’anadiplosi al v. 20, con la messa a tema di «ragazzo» («che fu anche del ragazzo, il ragazzo un po’ femmina che turba un niente»), e al v. 62 («danzano al fruscio basso di un disco, | non però così basso da non soverchiare il transistor», con una sintassi antilirica), l’anafora «Lo guardo» ai vv. 12 e 33, l’epifora «tavolo» ai vv. 10 e 22, il parallelismo al v. 65 («mentre guarda fuori, mentre l’ora si fa tarda»). Tipico stilema di Luzi è l’addizione dell’identico42, che come in «tra pioggia e avvisi d’altra pioggia» (v. 3) restituisce l’idea di una realtà mutevole e difficile da decifrare. Talvolta in Nel caffè possono essere ripetuti anche veri e propri gruppi di parole, con variazioni minime come al v. 9 e al v. 27 («premendosi la garza sull’incavo» e «si comprime la garza sull’incavo»). Leggermente variata risulta anche la ripresa di «quella voce rauca raspando» (v. 17) al v. 42 («riprende quella voce quasi gorgogliando»): insieme alla posizione a fine verso e all’uso del gerundio, è mantenuta la ricerca di effetti onomatopeici (ma un richiamo parziale prima della settima strofa si ha nel sintagma «quella voce afona» al v. 28). Nel componimento sono assenti le rime, ma si incontrano alcune quasi-rime come banco/raspando (v. 16 e v. 17), importanza/bianca (v. 43 e v. 44), blando/santo (v. 64 e 66).

L’iterazione di suoni e parole, anche a notevole distanza (ad esempio le parole della prima strofa pioggia, vetri, fumo, fuori, si rincontrano distribuite tra l’ottava e la decima strofa), garantisce l’architettura complessiva del testo, in assenza degli istituti metrici tradizionali (rime, isosillabismo, isostrofismo). In Nel magma l’apertura alla dimensione narrativa porta Luzi ad adottare una forma metrica molto distesa, come il poemetto, e ad insistere su versi che spesso superano la misura dell’endecasillabo. In effetti, anche nella produzione precedente dell’autore si ritrovano componimenti decisamente lunghi, come Un brindisi o Invocazione, ma sono casi tutto sommato isolati ed eccezionali all’interno di raccolte ancora all’insegna della brevità e dell’istantaneità lirica. Nel caffè invece, rimanda a quella «vocazione poematica»43 che prende corpo nella poesia luziana a partire dagli anni Sessanta e che, nonostante l’affievolimento della narratività, è destinata a durare fino Al viaggio terrestre e celeste

41 P. V. Mengaldo, Storia della lingua, Il Novecento, cit. p. 196. 42 F. Fortini, Saggi italiani, I, Garzanti, Milano 1987, p. 122.

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di Simone Martini. In una prospettiva sincronica, inoltre, il recupero del poemetto accomuna alcune delle principali raccolte poetiche degli anni dello sperimentalismo. Luzi non è il solo a sfruttare le potenzialità offerte da questa forma metrica per allargare la dizione lirica, sebbene nello stesso periodo non manchino poeti che se ne servono per negarla.

Nel caffè si articola in dieci strofe, di lunghezza variabile; nonostante l’assenza di uno schema strofico rigido, però, una discreta percentuale di esse si attesta sui sei versi. Raboni ha scritto che Nel magma «sorprende radicalmente, sorprende ad apertura di pagina, a vista, già per il dilatarsi del verso»44. Eppure, nel nostro testo-campione è ancora l’endecasillabo la misura dominante; d’altronde, in un intervento, Luzi ha avuto modo di dichiarare che negli anni Sessanta la sua poesia rimane legata ad un «ritmo sovrano [che] viene poi a riconoscersi – a consistere addirittura – in metri soprattutto endecasillabici»45. Ed infatti sono numerosi gli endecasillabi a maiore, come il v. 8 («mi dice uno forato nella gola»), il v. 15 («Sarà un modo di stare ancora l’uno»), il v. 29 («dura: “Forse dovrei darti un ragguaglio”»), il v. 36 («e sto senza parole qui davanti») o ancora i vv. 33, 39, 45, 47. All’interno delle strofe, endecasillabi a maiore sono combinati, come mostrano i vv. 3 e 5, anche con endecasillabi a minore («tra pioggia e avvisi d’altra pioggia, qui», «nido ai convegni di straforo, accorre»).

Alcuni versi, eccedenti la misura dell’endecasillabo, possono essere considerati sintattici, come ad esempio il v. 6 («e si stipa una moltitudine sorda che esala fumo»), o il v. 35 («se si può cavarne un senso che non sia di rimorso e basta») o il v. 46 («ma non fummo da meno anche se ne siamo usciti un tantino empi»). Talvolta però all’interno di questi versi è possibile riconoscere misure tradizionali, messe in evidenza dalla sintassi stessa, come nel caso del v. 33 in cui si ritrova un novenario, forse seguito da un senario: «Lo guardo che abbassa le palpebre e mi appare calmo»; oppure come nel caso v. 42 dove la battuta di discorso diretto coincide con un settenario. In generale si può dire che si ritrovano più volte versi che possono essere scomposti, come ad esempio il v. 14 (un senario più un ottonario: «quella bocca vizza e mi fissano ridendo»), il v. 31 (un settenario più un ottonario: «Non ne vale la pena. Preferisco che tu immagini») o il v. 48 (un senario più un ottonario: «Poco tempo infatti. Ma ho

44 G. Raboni, La poesia che si fa, Garzanti, Milano 2005, p. 112.

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fiducia che l’azione»). E un doppio settenario figura al v. 19: «da quella tenerezza | d’uomo stretto al ricordo». L’analisi formale del nostro testo-campione, in fondo, conferma il rapporto dialettico che lega Luzi alla tradizione, una chiave indispensabile anche per definire la fisionomia del soggetto lirico di Nel magma.

3. Mario. Leggendo Nel caffè siamo spinti, quasi meccanicamente, ad associare la voce narrante a quella del poeta. Né d’altronde l’autore agisce per dissimulare questa corrispondenza o per camuffare la natura autobiografica del testo. Quando l’amico dice «ho seguito i tuoi successi» (v. 42), pensiamo subito che il riferimento sia ai successi letterari, agli apprezzamenti pubblici di cui Luzi ha effettivamente goduto fin dai suoi esordi negli anni Trenta. Successi che d’altronde sono stati realmente, secondo litote, non senza contrasti, segnati, cioè, da dispute, contrapposizioni di campo, polemiche con altri autori. A proposito di Nel magma la critica ha parlato di «Luzeide» e di «poema in più stazioni»46; queste formule sottolineano, più o meno implicitamente, l’iterarsi di un unico soggetto lungo tutta la raccolta. Siamo di fronte ad un’isotopia di persona, uno degli elementi che, come ha ricordato Testa, garantiscono coerenza interna al «libro di poesia»47. Agli occhi del lettore il profilo di questo personaggio lirico si definisce di componimento in componimento, secondo un insieme di dettagli omogeneo e non contraddittorio. Già nel testo d’apertura, infatti, uno dei compagni incontrati in Presso il Bisenzio si rivolge all’io chiamandolo per nome, «Mario» («E come io non dico altro, lui di nuovo: “O Mario, | com’è triste essere ostili”», vv. 66-67, e poi più avanti al v. 77), e alludendo esplicitamente, come vedremo meglio più avanti, alla sua attività poetica. Analogamente, anche l’interlocutrice del componimento L’India pronuncia il nome proprio dell’autore, quasi per dare più forza al rimprovero che gli sta muovendo («“Mario” mi previene lei che indovina il resto», v. 34). Altrove poi, un conoscente colmo di rancore accuserà l’io di essere accecato «da una presunzione di arte» (Bureau, v. 42) e un giovane amico assisterà allo schermirsi del

46 Rispettivamente G. Zagarrio, Luzi, La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 126 e P. V. Mengaldo, Poeti

italiani del Novecento, cit., p. 652.

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personaggio lirico che, con falsa modestia, gli dirà di avere soltanto «quel poco d’anni (…) in più e di arte» (Terrazza, v. 17). Sulla scia di Primizie del deserto e Onore del vero, lo spazio geografico in cui si muove il soggetto sembra coincidere ancora con l’Italia centrale. Tuttavia, al paesaggio contadino, socialmente ed economicamente arcaico, «statico»48, che si incontra nelle precedenti raccolte, in Nel magma si sono sostituiti gli spazi «dell’esperienza comune»49: interni borghesi, bar, cliniche, cinema. Sono i luoghi in cui presumibilmente l’autore si muoveva negli anni Sessanta, la città o l’entroterra toscano con colline e valli (oltre a Nel caffè, anche Terrazza o Prima di sera), località talvolta nominate esplicitamente come in Presso il Bisenzio o Tra notte e giorno («“È un luogo verso Pisa” rispondo | mentre guardo nella profondità grigia il viola | cinerino dei monti affondare nel colore dell’ireos», vv. 4-6).

Gli incontri tra l’io e i vecchi amici, non visti per molti anni, restituiscono l’immagine di una figura autobiografica con un passato stratificato, con un arco vitale ipotizzabile, quantomeno in alcuni suoi episodi. Si può dire, pertanto, che, Luzi mette al centro di Nel magma un personaggio ben individuato con una storia personale riconoscibile50, un poeta affermato e conosciuto pubblicamente, un intellettuale cattolico che ostenta la sua fede religiosa e che discute con gli altri sul cristianesimo (Tra quattro mura); è una presenza a cui molti conoscenti non vorrebbero rinunciare («Lei almeno rimanga ancora un po’», Dopo la festa), da cui si attendono risposte a domande filosofiche (come in Ménage) o parole di conforto (Terrazza).

Questa scelta di Luzi, di muoversi all’interno dei territori dell’Erlebnislyrik, puntando dunque su un soggetto autobiografico e ancora umano, non era così scontata negli anni dello sperimentalismo. Anzi è proprio riguardo a questo punto che la distanza tra Nel magma e Laborintus, il libro che inaugura il periodo da noi preso in considerazione, ci appare abissale. Nella sua raccolta d’esordio Sanguineti è mosso da intenti antilirici, rifiuta il soggetto tradizionale e colloca al centro dei testi un «personaggio-nome»51 che non ha più nulla in comune con l’io empirico dell’autore. Preso atto che la palus putredinis, il capitalismo, «manipola» l’uomo, lo riduce a merce

48 M. Marchi, Invito alla lettura di Luzi, Mursia, Milano 1998, p. 48.

49 S. Verdino, Poesia dovunque. Analisi di Nel magma di Luzi, «Nuova corrente», XXXVIII, 105, p. 17. 50 G. Simonetti, Dopo Montale, cit., p. 211.

51 E. Sanguineti in J. Butcher, Da Laborintus a Postkarten. Intervista a Edoardo Sanguineti, «Allegoria»,

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e lo aliena, la letteratura diventa mimesi dell’«informe orizzonte»52, del caos che domina la società contemporanea53. L’individuo disintegrato lascia il posto ad un soggetto fittizio chiamato Laszo Varga, nuovo detentore dell’enunciazione poetica e antropomorfizzazione di elementi psichici, antropologici e materici. In fondo Laborintus ci dice, con una radicalità mai più conosciuta dalla poesia italiana del Novecento, che gli aneddoti privati o i frammenti d’esistenza di qualsiasi individuo, del poeta come di ogni altro uomo, sono ormai irreversibilmente depauperati di ogni forma di senso54.

In Nel magma il fenomeno dell’indebolimento del soggetto, così tipico della poesia moderna, non approda neanche lontanamente agli esiti sanguinetiani. L’io lirico può dichiarare, come si legge in Ma dove, che «l’accidentale e il necessario | imbrogliano l’occhio della mente» (vv. 14-15), oppure può tradire la propria difficoltà nel decifrare la realtà magmatica che lo circonda, o addirittura può non riconoscere i propri amici: eppure per quanto appaia insicuro oppure cada in errore (ad esempio perdendo il controllo di sé in un «alterco»), mai la tenuta della sua autenticità è davvero messa in discussione. Anzi, il libro comunica l’idea che, come una sorta di argine, l’esperienza del poeta può contrapporsi al vuoto diffuso e che i frammenti della sua esistenza sono ancora carichi di un senso che merita di essere tradotto in versi, socializzato con chi legge. In Luzi, analogamente agli autori che la critica riconduce sotto la formula di classicismo lirico moderno55, non vengono mai meno né la convinzione che le proprie vicende personali possano essere elette a lente per rappresentare e capire la realtà contemporanea, né il riconoscimento del loro «valore universale, o se si preferisce, cosmico-storico»56.

52 E. Sanguineti, Poesia informale?, in AAVV, I novissimi. Poesie per gli anni ’60, a cura di A. Giuliani,

Rusconi e Paolazzi, Milano 1961, p. 172.

53 E. Risso, Laborintus di Edoardo Sanguineti, Manni, Lecce 2006, p. 43. 54 Ivi, p. 43.

55 G. Mazzoni, Sulla poesia moderna, cit., pp. 187-189, ma soprattutto Id. Forma e solitudine, cit..

Alcune tesi di Mazzoni sono riprese in G. Simonetti, Dopo Montale. Le «Occasioni» e la poesia italiana del Novecento, cit.. Gli studi critici più approfonditi sul classicismo moderno di Montale rimangono a tutt’oggi A. Casadei, Prospettive montaliane. Dagli «Ossi» alle ultime raccolte, Giardini, Pisa 1992, R. Luperini, Il dialogo e il conflitto, cit., pp. 169-173 e T. de Rogatis, Montale e il classicismo moderno, Iepi, Pisa-Roma 2002.

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4. Un cattolico tra i classicisti moderni. Le vicinanze macroscopiche, però, non obliterano quelle differenze sostanziali che separano Luzi dagli altri classicisti moderni, e che emergono se si analizza una questione molto sentita nella modernità come la crisi del mandato sociale. Quando leggiamo Poesia e errore o Gli strumenti umani ci imbattiamo in versi metapoetici sulla legittimità e sull’utilità di scrivere poesia: sono dei cantucci strutturali all’interno delle raccolte, degli spazi che Fortini o Sereni avvertono come necessari, quasi per giustificarsi e per dire quanto sia diventata paradossale la loro attività. Anche Nel magma contiene un testo, Presso il Bisenzio, che, nonostante il suo taglio onirico, spicca sugli altri per il forte valore metapoetico. Nella prima e nella seconda parte di questo poemetto si parla esplicitamente, oltre che della poetica di Luzi, del ruolo del poeta nella società, ma il messaggio lanciato al lettore è decisamente distante rispetto a quello dell’ultima strofa di Traducendo Brecht o del componimento I versi.

In prossimità delle fabbriche tessili e delle concerie che sorgono intorno al fiume toscano, l’io lirico incontra quattro «compagni», dai visi apparentemente familiari («non so se visti o non mai visti prima», v. 3). Sono uomini che hanno fatto la Resistenza e che adesso rimproverano il poeta di aver scelto, nei momenti più delicati della lotta al fascismo, la via del disimpegno e dell’astensione, di non essersi «bruciato (…) al fuoco della lotta | quando divampava e ardevano nel rogo bene e male». È un rimprovero che nel dopoguerra fu mosso spesso ai poeti ermetici, alle loro biografie e insieme alla loro idea di letteratura57.

Di fronte all’atteggiamento provocatorio dei compagni, il personaggio lirico prima rimane in silenzio e poi dichiara, elusivamente:

E io: «È difficile spiegarti. Ma sappi che il cammino per me era più lungo che per voi

e passava da altre parti».

L’astensione dalla lotta partigiana può essere giustificata, ribattendo che il «cammino» del poeta, e dunque i suoi compiti, i suoi obblighi e il suo ruolo nella società sono ben distinti da quelli degli altri uomini, rimanendo tali persino nei momenti storici in cui l’agire collettivo sembra la soluzione più ovvia contro il «male». Questo discorso è sviluppato in un secondo scambio dialogico, in cui il personaggio lirico risponde alle

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parole del più fragile dei compagni, quello più «giovane» e «malcerto» (fisicamente e ideologicamente):

«guardati, guardati d’attorno. Mentre pensi e accordi le sfere d’orologio della mente sul moto dei pianeti per un presente eterno che non è il nostro, che non è qui né ora, 50 volgiti e guarda il mondo come è divenuto,

poni mente a che cosa questo tempo ti richiede, non la profondità, né l’ardimento,

ma la ripetizione di parole, la mimesi senza perché né come

55 dei gesti in cui si sfrena la nostra moltitudine morsa dalla tarantola della vita, e basta. Tu dici di puntare alto, di là dalle apparenze, e non senti che è troppo. Troppo, intendo, per noi che siamo dopo tutto i tuoi compagni,

60 giovani ma logorati dalla lotta e più che dalla lotta, dalla sua mancanza umiliante».

L’altro invita il poeta ad aprirsi al mondo e a dedicarsi ad una poesia che abbia come obiettivo la descrizione fedele della realtà. È una poesia conforme ai tempi («cosa questo tempo ti richiede», v. 51), che non si perde in spiegazioni o nella ricerca di cause, semplice e senza «profondità», che priva di pretese eccessive («e basta», v. 56) si cimenta nella mimesi dei gesti e degli sfoghi («dei gesti in cui si sfrena», v. 55) della maggior parte degli uomini. La ripresa da Montale è qui cambiata di segno: il «morso della tarantola» non è più come nel Ritorno l’occasione che spezza la monotonia, ma al contrario è diventato un tassello organico alla vita insensata della «moltitudine».

L’interlocutore, in fondo, agogna una letteratura in cui poter riconoscersi, e dunque chiede al poeta di parlare anche a nome suo e dei suoi compagni. Ma il punto di vista altrui, qui sembra screditarsi da sé. Nel discorso del giovane malcerto non è difficile riconoscere un’oggettivazione, in una certa misura bozzettistica, delle ambizioni della poetica neorealista58. Ed è una proposta rifiutata dal personaggio lirico, che invece rilancia l’idea di una poesia che si muove su tempi assai più lunghi rispetto alla mera cronaca (il «presente eterno», v. 48). La poesia per Luzi deve puntare «alto» e andare «di là dalle apparenze», anche correndo il rischio di apparire elitaria, e di non essere capita da ampie fasce di lettori. D’altronde nell’evoluzione del dialogo, al compagno dispiaciuto della distanza tra sé e il poeta («è terribile che tu non sia dei nostri», v. 77),

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l’io può orgogliosamente ribadire la convinzione di agire anche per conto di chi rifiuta la sua poesia («né mangiamo del cibo che ci porgi, dirti che ci offende», v. 68) e non riconosce il suo ruolo («Lavoro anche per voi, per amor vostro», v. 63):

«È triste, ma è il nostro destino: convivere in uno stesso tempo e luogo e farci la guerra per amore. Intendo la tua angoscia,

ma sono io che pago tutto il debito. E ho accettato questa sorte». 75 E lui ora smarrito ed indignato: «Tu? tu solamente?»

Ma poi desiste dallo sfogo, mi stringe la mano con le sue convulse

e agita il capo: «O Mario, ma è terribile, è terribile che tu non sia dei nostri».

C’è una predestinazione («il nostro destino», «questa sorte»), un progetto più alto che l’autore accetta, facendosi carico, da solo, del peso della vita di tutti gli uomini («sono io che pago tutto il debito», v. 74). Luzi patisce molto meno degli altri classicisti moderni la crisi del mandato sociale, proprio perché vincola sempre l’attività letteraria alla «salvezza» (la parola torna espressamente al v. 67 di Presso il Bisenzio), restando all’interno della «grande tradizione della poesia come pratica salvifica»59. Come notava Fortini, per lui, cattolico, la poesia è «un dovere morale»60: la trascendenza conferisce una delega al poeta che, così, non solo è legittimato, ma è anche obbligato a parlare. Si legge in un noto saggio di Luzi:

Il poeta, secondo me, è alla pari come individuo con tutto l’altro che vive, pensa o soffre, per quanto abbia in più la possibilità di cavare un senso dalla vicenda del mondo. È insomma un personaggio, tra i tanti, della commedia, anche se lui ha l’uso e il privilegio, forse della parola; privilegio fra virgolette, perché la parola è anche cruciatus, è anche un tormento61.

Ogniqualvolta vorrebbe equiparare il poeta agli altri uomini, Luzi finisce sempre con l’accompagnare le sue definizioni con correttivi o precisazioni. Il poeta è «un personaggio tra i tanti» ma rispetto agli uomini comuni ha la possibilità di accedere al «senso», ai significati della «vicenda del mondo», della metastoria. La facoltà della parola si rovescia in missione ineludibile, in «sorte» da accettare, ma rimane comunque un privilegio particolare ed esclusivo. Su questo punto le pagine critiche di Fortini persuadono maggiormente dei rilievi di Luigi Baldacci, che in una recensione a Discorso naturale, ora inclusa in Novecento passato remoto, spiega come Luzi non

59 F. Fortini, I poeti del Novecento, cit., p. 151. 60 Ibidem

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consideri il poeta una figura ‘separata’, né gli attribuisca la funzione umanistica d’interprete62.

C’è un passaggio di un componimento di Nel magma che avvalora ulteriormente la lettura fortiniana, sciogliendo il conflitto delle interpretazioni; in Dopo la festa si racconta dei momenti successivi ai «commiati» che concludono un «party», tenuto in un appartamento privato. Mentre gli ultimi «ospiti (…) le si stringono attorno per gli addii | e fanno ressa verso il vestibolo e la porta», la padrona di casa si avvicina al poeta e lo invita a trattenersi («“Lei almeno rimanga ancora un po’” | mi fredda sul passaggio il suo sorriso», vv. 12-13). Liquidata la fase dei rituali e delle formalità («gli estremi convenevoli | fatti con la dovuta grazia sulla soglia», vv. 15-16), il tempo dopo la festa può coincidere con il tempo dei bilanci: l’io e la donna riflettono sull’opacità e l’inutilità delle ore passate nel contesto mondano. Qui, calarsi nel magma, porsi di fronte all’indifferenziato, comporta un’operazione di discernimento tra ciò che ha valore e il «vano», tra il «buono» per cui si è votati e il «guasto», vissuto con una certa insofferenza. Passata al setaccio, l’intera serata si riduce a minimi frammenti di valore, a «magri frutti»:

Poco dopo si è soli nella stanza lei ed io

quasi tornati in noi a raccogliere insieme i magri frutti, meditando sul vano della festa,

20 eletti a cose più alte e solo un po’ indulgenti con le frivole, com’è giusto.

Il personaggio autobiografico si percepisce sempre all’interno di una schiera di «eletti a cose più alte», pertanto spesso la sua prima reazione rispetto alla banalità è di contrasto o di condanna («solo un po’ indulgenti con le frivole, com’è giusto», v. 20). Chi ha un mandato divino, una condizione privilegiata deve tenere sott’occhio il lato frivolo della vita, trattarlo con poca indulgenza, perché familiarizzare con le distrazioni potrebbe tradursi in un’inadempienza nei confronti della propria missione. La distanza rispetto alle poetiche crepuscolari del secondo Novecento è lampante. Di fronte a momenti di ordinaria mondanità il personaggio lirico della Vita in versi di Giudici o del Purgatorio de l’Inferno di Sanguineti non si dichiarerebbe mai eletto a cose più alte, né, conclusa una festa, si sentirebbe quasi tornato in sé. Anzi in queste raccolte l’io appare a proprio agio nei «night», talvolta come in Se sia opportuno trasferirsi in campagna sembra non

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poterne fare a meno. Oppure, come avviene in Purgatorio de l’Inferno 8, l’io racconta di intellettuali che dopo aver chiacchierato tra loro vanno a ballare, senza sensi di colpa, esibendo il vitalismo dell’uomo normale, comune63. E proprio i faccia a faccia tra il personaggio lirico e gli uomini comuni, i non eletti, offrono altri spunti per interpretare Nel magma.

5. Una «vena di sprezzo». Nel nostro testo-campione il personaggio lirico ha di fronte allo «scalpiccio» degli avventori una reazione di disappunto. Nonostante lo danneggino, lo rendano un po’ insicuro e, talvolta, persino riottoso («l’amore storto | e riottoso che parla in me», vv. 35-36) i tempi duri avuti in sorte non riescono ad intaccare la sua avversione al male o il suo contributo attivo al progetto divino. La società contemporanea, in effetti, costituisce una minaccia concreta e profonda non tanto per l’io lirico, protetto dal suo quasi ininterrotto vigilare e dalla ricerca del bene, quanto per l’integrità di alcuni dei personaggi che questi incontra e con cui instaura dei dialoghi. Luzi, in fondo, documenta gli effetti causati da «tutta una stagione dell’opaco, dell’informe e del degradato» sulla «coscienza umana»64, soprattutto costruendo una galleria di figure-antagoniste spente, disumanizzate, chiuse irreversibilmente nella loro presunzione o nei rancori65. Nella raccolta il rifiuto dei limiti, delle facili ideologie e delle superficialità di un’epoca trova una forma espressiva nella continua presa di distanza verbale (e non solo) da chi di volta in volta, incarna la brutalità del presente o si fa portatore del suo spirito. Questi personaggi possono essere associati agli uomini che nel dramma luziano Ipazia si aggirano per Alessandria e che Una voce chiama con un’elencazione sinonimica «i ciechi, gli ignoranti, i barbari»66.

Nella hall è ambientata, come suggerisce lo stesso titolo, nel disimpegno di un albergo («in questo vestibolo d’albergo», v. 12). La poesia è costruita sulla

63 Per Giudici cfr cap. sulla Vita in versi; E. Sanguineti, Segnalibro (poesie 1951-1981), Feltrinelli,

Milano 1982, p. 81.

64 S. Verdino, Introduzione a M. Luzi, L’opera poetica, cit., p. XXXII.

65 Sui personaggi antagonisti cfr S. Verdino, Poesia dovunque. Analisi di Nel magma di Luzi, cit., pp. 4-7

e E. Testa, Per interposta persona, Bulzoni, Roma 1999, cit, pp. 11-32.

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contrapposizione tra l’io lirico e un vecchio amico (v. 10), una figura supponente che non lascia spazio al poeta, considerandolo «un’incognita appena appena umana, | un volto forse, ma contaminato da un morbo» (vv. 13-14). Parlando, l’altro si riempie di sé e si compiace nel sentire la propria voce («ricomincia ascoltando la sua voce | che infatti prende quota nella penombra, | grave, con volo per un attimo di condor», vv. 15-17; «quell’uomo che mi parla | quasi fossimo a due diverse altezze | lui dove soffia lo spirito e io nel fango», vv. 24-26). Come capita spesso in Nel magma, l’antagonista assume l’aria tronfia di una guida esistenziale o addirittura di un «guru», dispensando consigli su come vivere (cfr. Ménage):

«Questo vuole il tuo tempo, perché non gli vai incontro?» rimugina senza ironia apparente costui

non molto lontano dal pensare

a un’anima nuova di zecca pronta per il cambio.

Qui il consiglio dell’interlocutore è all’insegna della superficialità, delineandosi come invito ad andare incontro al presente a cuor leggero, e dunque a conformarsi ai tempi. Il personaggio lirico mette subito a fuoco i limiti di questa prospettiva: così intesa, l’apertura al mondo prosaico comporterebbe la rimozione dell’identità, l’accantonamento della propria «anima» per un’altra «nuova di zecca» (v. 4). Il contraddittorio sembra riproporre «ad un livello più decantato la problematica che si era sviluppata in Presso il Bisenzio»67: da un lato un antagonista che si aggrappa a facili mode, miti o ideologie, dall’altro lato l’io che ne smaschera il carattere illusorio («“Devoti sempre, devoti a qualcosa; e quando | non si crede più a niente devoti al nostro tempo” | gli risponde qualcuno, forse io», vv. 5-7).

A dispetto delle notevoli differenze culturali, molti dei poeti che scrivono tra la seconda metà degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta sembrano condurre una battaglia comune contro l’accettazione acritica del presente, mettendo in guardia il lettore e ricordandogli che le diverse forme di devozione al nostro tempo coincidono con un mimetismo vuoto e con l’inautenticità.

Pur essendo una figura definita socialmente e fisicamente, l’antagonista di Nella hall appare subordinato a quella che Testa ha chiamato «una sorta di funzione

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