CAPITOLO II
Analisi di alcuni poteri presidenziali che risultano particolarmente indicativi al fine della possibile esplicazione del potere presidenziale d’indirizzo
1. Il Presidente e l’instabilità politica
1.1. L’istituto di scioglimento delle Camere
Al fine di poter rispondere all’interrogativo di fondo che muove la nostra indagine appare fondamentale l’analisi dei poteri di nomina del Presidente del Consiglio e di scioglimento anticipato del Parlamento, dal momento che essi conferiscono al Capo dello Stato un rilevante ruolo nella risoluzione delle crisi di governo, argomento di indubbia rilevanza e delicat ezza per quanto attiene agli equilibri politici dell’ordinamento.
Il potere di scioglimento anticipato del Parlamento, in particolare, è regolato dall’art. 88 della Costituzione che recita: “Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse. Non può esercitare tale facoltà negli ultimi sei mesi del suo mandato, salvo che essi coincidano in tutto o in parte con gli ultimi sei mesi della legislatura”. Inoltre in base al principio generale della necessità della controfirma governativa, l’atto di scioglimento viene controfirmato da Presidente del Consiglio.
Lo scioglimento delle Assemblee legislative è regolato in maniera volutamente ambigua, dal momento che i costituenti ritennero pericolosa, o quanto meno inutile, l’applicazione di rigidi limiti artificiali ad un istituto che richiede estrema duttilità per
adattarsi alle circostanze più mutevoli. La genericità assunta dalla norma a causa di questa scelta di fondo non è priva di implicazioni: dalla lettura della stessa non si coglie nessuna indicazione circa le “ragioni che possono consentire- o imporre- l’esercizio del potere. I dati mancanti vanno perciò ricavati alla luce delle altre norme e del sistema complessivo, tenuto conto delle peculiarità del tessuto politico e sociale nel quale l’atto è destinato ad inserirsi ed a produrre effetti. Nulla in realtà neppure sull’organo a cui è affidato il potere di decisione: alla titolarità formale- come è noto- non è detto si accompagni il potere reale, non solo nell’effettività dei rapporti ma addirittura sul piano giuridico”1. La sostanziale titolarità del potere, pur essendo un profilo di primaria importanza, non è quindi facilmente desumibile dal dato letterale che permette di ipotizzare molteplici letture. In base ad una prima posizione tale titolarità dovrebbe essere ricondotta in capo al Governo, secondo la regola generale vigente per tutti gli atti imputati al Presidente della Repubblica nei sistemi parlamentari. Al tempo stesso la previsione dell’obbligo per il Capo dello Stato di consultare i Presidenti delle Assemblee e il divieto, per il medesimo, di procedere allo scioglimento nel semestre bianco, non esclude la possibilità di configurare l’istituto in esame come l’espressione di un potere formalmente e sostanzialmente presidenziale. La forza degli argomenti addotti in questo senso rischia però di annullarsi se si considera che essi hanno la funzione di evitare che la partecipazione del Presidente assuma un valore meramente dichiarativo: così interpertati i medesimi argomenti vanno a sostegno della contrapposta tesi che afferma la natura complessa dell’atto. L’interesse circa tale questione è andato intensificandosi negli ultimi tempi sia a causa dell’accresciuto prestigio della carica presidenziale, sia per la scarsa fiducia riposta dai cittadini negli altri organi: tali fattori hanno favorito il riemergere della tendenza a classificare lo scioglimento tra i poteri esclusivi del Capo dello Stato. Tale posizione, può essere letta nell’ottica di una sottesa pretesa semipresidenzialista tanto più alla luce di un confronto con le Costituzioni che in altri ordinamenti attribuiscono al Capo dello Stato la facoltà di sciogliere l’assemblea elettiva: tale potere viene
infatti conferito solitamente come coronamento di un generale ruolo politico del Presidente. In tali sistemi egli è infatti portatore di un indirizzo proprio in grado di contrapporsi legittimamente all’espressione politica del binomio Parlamento- Governo.
Ai fini della valutazione delle implicazioni delle varie posizioni, risulta decisa una analisi preliminare e prettamente giuridica della norma dalla quale si evince una ridotta distanza tra la tesi che individua nel potere di scioglimento una prerogativa solo presidenziale e quella che definisce invece l’atto come complesso. Risulta infatti pacifico, nella prima ipotesi, e a maggior ragione nella seconda, che al Governo spetti quanto meno un controllo di legittimità sul provvedimento. “Ma cosa significa, in pratica, consentire al Governo il rifiuto della controfirma solo quando contesti la legittimità dello scioglimento deciso dal Capo dello Stato? Un simile discorso è agevolmente comprensibile laddove il controllo sia configurabile in termini di mera regolarità dell’atto e in conformità a requisiti precisi normativamente elencati come, ad esempio, per la nomina dei giudici costituzionali; meno comprensibile è invece se riferito ad atti quali lo scioglimento i cui presupposti sono del tutto indeterminati e in ogni caso insuscettibili di rilevazione obiettiva… qui i presupposti non sono normativamente indicati (anzi in Assemblea costituente si contestò la possibilità e l’opportunità di un’elencazione esaustiva) nè d’altra parte si può parlare di una dottrina concorde o di una prassi sicura. E in ogni caso rimarrebbe sempre la difficoltà di apprezzare se le circostanze concrete ricorrano o meno le situazioni
astrattamente ritenute legittimanti. Il giudizio sulla ricorrenza dei presupposti è
troppo legato a valutazioni delicate, opinabili, politicamente condizionate, perché il merito si possa ragionevolmente distinguere dalla legittimità”2. Chiarito questo fondamentale aspetto, il confine tra le due posizioni risulta decisamente meno marcato e appare condivisibile l’atteggiamento di chi trova nell’atto di scioglimento un istituto per la formazione del quale appare ineludibile l’apporto del Governo come quello del Presidente.
Quanto affermato risulta certamente valido in punto di diritto ma, per rispondere con maggiore cognizione all’interrogativo sulla titolarità del potere in esame, appare opportuno soffermarsi sulla prassi incorsa nell’applicazione dello stesso. Nella forma di governo italiana, le cui regole sono state dettate per molto tempo da moduli funzionali diversi da quelli del parlamentarismo maggioritario, lo scioglimento è stato a lungo considerato come un atto insindacabilmente complesso o duumvirale. Fisiologicamente il sistema proporzionale dà luogo a coalizioni post elettorali che generano spesso crisi di Governo: in quest’ottica il Capo dello Stato, esercitando la sua funzione di intermediazione politica, cerca di catalizzare la maggioranza su una forza in grado si esprimere un Esecutivo ma, ove la conflittualità tra i partiti o tra le due Camere risulti preponderante, tanto da divenire insormontabile, il Presidente prende atto della volontà delle forze politiche di non trovare un accordo e la ratifica procedendo allo scioglimento delle Camere. Nella fattispecie descritta il presupposto dello scioglimento è rappresentato quindi dall’impossibilità del Parlamento di funzionare correttamente in quanto incapace di formare una maggioranza di qualsiasi tipo e il ricorso alle elezioni è una via non solo legittima, ma praticamente obbligata: in ciò si configura il c.d. scioglimento funzionale. Altra condizione legittimante per il ricorso allo scioglimento anticipato delle Camere è la non corrispondenza tra Parlamento e volontà popolare. Mentre in epoca statutaria la non corrispondenza veniva invocata solo in presenza di precisi presupposti atti a giustificarla in maniera oggettiva (in particolare l’ampliamento territoriale o l’allargamento del suffragio), essa tende oggi ad essere associata a situazioni fluide e soggettivamente valutabili. Si è soliti far rientrare in questa categoria i mutamenti d’orientamento del corpo elettorale emergenti dal successo di un referendum contro una legge qualificante dell’indirizzo politico o dall’esito di elezioni amministrative; forte e attuale l’interrogativo se la riforma della legge elettorale, costituisca motivo di scioglimento autonomo.
L’impressione generale è che non abbiano mai avuto luogo casi di dissoluzione imposti dal Presidente in contrapposizione alla volontà di Governo e Parlamento. Le
ragioni che avevano portato la più autorevole dottrina ( in particolare Guarino) alla progressiva rivalutazione del ruolo del Capo dello Stato in questo senso, riguardavano infatti l’esigenza di arginare il potere invasivo del partito di maggioranza relativa ( DC) che era andato ad assumere una veste di arbitro del potere a tutti i livelli. La situazione di fatto appare oggi superata: nell’assetto odierno, caratterizzato piuttosto dalla grave crisi dei partiti, non sussiste certamente una forza politica tale da egemonizzare le istituzioni. In tal senso quindi viene meno anche la giustificazione della tendenza a investire il Capo dello Stato di un contropotere in funzione frenante rispetto agli organi politici. Contro gli scioglimenti arbitrari della maggioranza governativa risulta invece sufficiente la teoria dell’atto complesso: nell’escludere la possibilità di uno scioglimento contro la volontà del Capo dello Stato, tale teoria pone il Governo e il Presidente su un piano paritario: il contributo di entrambi è indispensabile e concorre alla valida stipulazione dell’atto. Questa risulta essere in vero l’unica lettura costituzionalmente legittima accolta e attuata anche dal Presidente della Repubblica.
Archiviata la posizione di quanti vedono nell’atto di scioglimento una prerogariva esclusivamente presidenziale appare opportuna un’ulteriore osservazione sulle teorie che definiscono preponderante l’influenza governativa tanto da rendere meramente formale il ruolo del Presidente della Repubblica. “Con l’affermarsi del bipolarismo nell’ultimo ventennio, i sostenitori del c.d. premierato, cioè di una lettura del nostro regime parlamentare vicina al modello di Westminster, hanno cercato di attribuire alla volontà del Presidente del Consiglio, o comunque del Governo, un peso determinante. Si è sostenuto che essendosi realizzata con le leggi maggioritarie una sorta di elezione, o quantomeno di indicazione diretta del capo dell’esecutivo nella persona del leader della coalizione vincente, le sue dimissioni dovessero provocare necessariamente lo scioglimento per mantenere la consonanza tra volontà del corpo elettorale e guida del governo”3. Questa possibilità, seppure plausibile, non ha trovato in realtà concreta applicazione nel nostro sistema. Decisiva risultò a tal proposito la
posizione del Presidente Scalfaro subito dopo l’entrata in vigore della legge elettorale maggioritaria, tra il dicembre del 1994 e il gennaio 1995, al momento della crisi del I governo Berlusconi. In occasione del discorso di fine anno, affermò emblematicamente: Il Presidente della Repubblica, secondo dettato costituzionale, non può fare prevalere nessuna tesi personale, ma deve registrare la volontà del Parlamento… Il Presidente della Repubblica, dopo le prime consultazioni, avendo constatato la maggioranza, al Senato e alla Camera, di pareri contrari a elezioni immediate, ha il dovere costituzionale di esaminare se esistono le condizioni per costituire un governo che possa governare”. In linea di continuità con questo orientamento si è posto l’operato del Presidente Ciampi che, nel corso della XII legislatura, a seguito della caduta del Governo Prodi, non acconsentì alla richiesta di elezioni anticipate avanzata informalmente da quest’ultimo, ma nominò due Governi che si basavano su alleanze diverse da quelle emerse dalla competizione elettorale del 1996, il governo D’Alema e il II governo Amato.
Lo stesso Presidente Napolitano ha aderito alle posizioni dei suoi predecessori: nel gestire la crisi del IV Governo Berlusconi, il suo punto di orientamento è stato quello di evitare le elezioni anticipate, valutate come dannose e traumatiche e definite “un’improvvida prassi italiana”. Ma la richiesta mossa dal mondo politico di far coincidere la fine del Governo eletto con il sistema maggioritario con le nuove elezioni può essere considerata di per sè legittima? Il comportamento tenuto dal Capo dello Stato risulta incontestabile o potrebbe sottendere un ritorno alle interpretazioni che rivendicano il monopolio presidenziale del potere di scioglimento come espressione del potere di indirizzo politico dello stesso? “Credo si debba riconoscere che la volontà popolare- quando si esprime con un risultato elettorale inequivocabile- precostituisce la maggioranza parlamentare e la guida del Governo in modo impegnativo per i soggetti politici interessati, e si pone altresì come riferimento non eludibile per il Capo dello Stato, garante neutrale (anche) del corretto, leale, trasparente rapporto fra i ‘governanti’ e i ‘governati’…
sostanzialmente divergenti dalle chiare indicazioni del voto popolare costituirebbero di fatto e sarebbero sentite da buona parte dei cittadini come violazioni delle regole della democrazia, arrecando grave danno alla credibilità delle istituzioni al massimo livello. E’ quindi logico attendersi che il Capo dello Stato eviti di nominare Governi la cui formazione contrasterebbe in modo palese con la volontà prevalente del corpo elettorale. La tesi qui affermata corrisponde appieno al principio democratico e non sembra contraddire le regole costituzionali sulla forma di governo; anzi, ne invera il contenuto, secondo un’interpretazione che tiene conto della disciplina elettorale vigente e della trasformazione del sistema politico”4.
Ma qualora in un secondo momento tale Governo venisse meno? Inutile nascondere che in una situazione di grave instabilità politica come quella odierna, porre come regola lo scioglimento anticipato significherebbe rimettere agli arbitri, spesso sterili, della politica il funzionamento dell’intero sistema: ed è proprio un tale rischio che porta ad escludere un ritorno diretto alle urne che, di per sè considerato, non violerebbe alcuna previsione costituzionale esplicita. Si ritiene quindi legittima l’interpretazione del potere fatta propria dalla prassi presidenziale: alla luce di un interesse più ampio è certamente possibile in corso di legislazione la formazione di un nuovo gabinetto che si fondi su una maggioranza politica diversa da quella risultante dalle elezioni purchè esso goda dell’imprescindibile fiducia delle Camere. Questo dato permette così di escludere ogni interpretazione pretestuosa di un potere da esercitarsi con prudenza e leale collaborazione.
1.2. Ruolo del Presidente nella formazione del Governo
“La formazione del Governo non si esaurisce a livello di Stato apparato. In virtù di un espresso riconoscimento costituzionale ( art 49, 94 e regole non scritte che ad essi si collegano), la formazione del Governo presuppone normalmente l’accordo tra i partiti
4 F. D’ADDABBO, Sovranità popolare e forma di governo: l’investitura dell’esecutivo e lo
scioglimento delle camere secondo una concezione rispondente al principio democratico, in Rivista
della coalizione dalla cui fiducia dipende la stabilità del Gabinetto. Tuttavia in un sistema politico privo di meccanismi autoregolativi ( come, ad esempio, il bipartitismo), il principio maggioritario si rileva insufficiente come congegno unificante, sicchè assumono un particolare rilievo le ‘prestazioni di unità’ offerte dal Capo dello Stato… che operano un’unificazione del pluralismo richiamandosi ai valori costituzionali. Ad esse spetta di realizzare un tipo di unità più ampio di quello espresso dalla regola della maggioranza, senza entrare nel processo di decisione politica inteso come circuito della lotta per la ripartizione delle risorse e del potere”5. Proprio in una attenta analisi della norma che regola questo istituto e della prassi volta alla sua attuazione sembrano trovare la loro più manifesta smentita quelle dottrine che volevano affidare al Capo dello Stato un ruolo meramente notarile, ma anche le contrapposte tesi volte a conferire al Presidente un potere assoluto di decisione anche e soprattutto nell’ambito di scelte tanto cariche di implicazioni politiche e istituzionali.
L'art. 92 della Costituzione disciplina la formazione del Governo e afferma: "Il
Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri". La formazione del Governo che ha come presupposto
il verificarsi di una crisi e la presentazione delle dimissioni del Governo al Capo dello Stato, ha assunto nel tempo la forma di un complesso procedimento, disciplinato da convenzioni e/o da vere e proprie da consuetudini costituzionali, che si articola in tre distinte fasi: la fase preparatoria, che si attua mediante le consultazioni del Capo dello Stato, la fase istruttoria, nella quale si realizza l’eventuale conferimento del mandato esplorativo o del preincarico, nonchè il conferimento dell’incarico, ed infine la nomina del Presidente del Consiglio e dei Ministri. A perfezionare il tutto si pone poi il giuramento che costituisce un diverso ma connesso procedimento con funzione integrativa.
Le consultazioni, che costituiscono il fulcro della fase praparatoria, si fondano su una consuetudine interpretativa che ha cristallizzato la necessità di indentificare
nell’incaricato un soggetto in grado di formare un Governo che possa ottenere la fiducia dalla maggioranza del Parlamento6; poichè tale istituto risulta disciplinato unicamente dal galateo costituzionale, la scelta delle personalità da consultare e l’ordine seguito possono mutare nel senso ritenuto di volta in volta più idoneo. Quando la maggioranza appare precostituita tale attività si limita a seguirne le indicazioni che derivano dagli equilibri politici: in tal caso l’influenza presidenziale risulta alquanto circoscritta. Nei periodi contrassegnati invece da una maggiore instabilità il Capo dello Stato potrà stimolare la collaborazione delle parti in causa assumendo il ruolo di “tutore degli equilibri politici fondamentali su cui si fonda il sistema politico costituzionale. Soprattutto in momenti di difficoltà e di accesa conflittualità politica può far valere la sua ‘forza coagulante’ per superare le fasi di blocco”7.
A seguito delle consultazioni il Presidente conferisce l'incarico direttamente alla personalità che, per indicazione dei gruppi di maggioranza, può costituire un Governo ed ottenere la fiducia dal Parlamento. Si realizza così il momento più cruciale nella formazione del Governo: la determinazione dell’ampiezza della discrezionalità presidenziale in quest’ambito risulta fondamentale ai fini della definizione del ruolo del Capo dello Stato nel suo complesso.
Secondo quanto sostenuto, in particolare dal Presidente Gronchi e in certa misura
6 In questo scrive CARAVITA: “Proprio nel collegamento tra nomina presidenziale e fiducia parlamentare si radica, nel suo carattere necessitato, l'istituto delle consultazioni, che non è dunque orpello, né superfetazione (come invece capita per alcune evenienze - faccio fatica a definirli istituti - delle procedure di nomina e di scioglimento, giustificate di volta di volta dalla necessità di raffinare le conoscenze del Capo dello Stato al fine dell'esercizio dei suoi poteri: tanto vale, per fare solo un esempio, per il mandato esplorativo). Il Presidente della Repubblica può esercitare il suo potere di nomina solo per raggiungere quel risultato: la fiducia delle due Camere. E la consapevolezza della possibilità - che deve essere concreta, e non meramente potenziale - di raggiungere tale risultato gli può essere data solo raccogliendo le vive e dirette opinioni di chi è in grado di rappresentare, raccogliere, ma anche determinare e, se del caso, orientare quel voto di fiducia: i rappresentanti delle componenti parlamentari, vale a dire i capigruppo di Camera e Senato. Ed è per questa ragione che nelle consultazioni di essi si esaurisce la norma consuetudinaria, rimanendo invece le consultazioni di altri soggetti (ad esempio, delle parti sociali) nella sfera della cortesia istituzionale, delle mere convenzioni o delle semplici prassi. CARAVITA B., Il Presidente della repubblica nell’evoluzione della forma di governo: i poteri di nomina e scioglimento delle Camere, 4, in http://www.federalismi.it 7 G.PITRUZZELLA, Artt. 92-93, Commentario alla Costituzione, 50
anche dal Presidente Cossiga, il Capo dello Stato non sarebbe vincolato nella scelta agli orientamenti espressi dai gruppi politici attraverso le consultazioni. La dottrina costituzionalistica ha evidenziato però come una tale interpretazione non tenga conto del vincolo giuridico imposto dall’articolo 94 della Costituzione, il quale impone che i poteri presidenziali siano esercitati nella prospettiva della formazione di un Governo sostenuto da una maggioranza politica per la realizzazione del quale risulta imprescindibile il ruolo dei partiti. Taluni affermano che il Presidente si limiti a registrare asetticamente le volontà partitiche; tuttavia se si considera come esse, soprattutto in una fase di trasformazione e di crisi come quella odierna, si configurano spesso come nebulose e insufficienti, risulta più consona al dettato costituzionale la posizione di chi, come Paladin, configura tale potere presidenziale come ‘discrezionale in senso tecnico’ in quanto funzionalizzato all’esigenza strutturale di un Governo sostenuto dalla fiducia delle due Camere.
Subito dopo lo scioglimento della riserva normalmente posta dall’incaricato, si perviene alla firma e alla controfirma dei decreti di nomina del Capo dell'Esecutivo e dei Ministri. In sintesi il procedimento si conclude con l'emanazione di tre tipi di decreti del Presidente della Repubblica: quello di nomina del Presidente del Consiglio, controfimato dal Presidente del Consiglio nominato, per attestare l'accettazione; quello di nomina dei singoli ministri, controfimato dal Presidente del Consiglio; quello di accettazione delle dimissioni del Governo uscente, controfirmato anch'esso dal Presidente del Consiglio nominato.
Prima di assumere le rispettive funzioni, il Presidente del Consiglio e i Ministri devono prestare giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica e, entro dieci giorni dal decreto di nomina, sono tenuti a presentarsi davanti a ciascuna Camera per ottenere il voto di fiducia, voto che deve avvenire per appello nominale ed essere motivato dai gruppi parlamentari, i quali, in tal modo, si impegnano direttamente in questa scelta di fronte al corpo elettorale.
verificatosi dopo le elezioni del 2008 quando, sanzionando il risultato elettorale, il Capo dello Stato incaricò Berlusconi di formare il Governo. Fu proprio in questa occasione che ai mandati esplorativi, agli incarichi vincolati e ai preincarichi, già invalsi nella prassi, si aggiunsero le pre- consultazioni. Esse assunsero una notevole importanza dal punto di vista costituzionale poichè produssero una procedura innovativa quale quella dell’accettazione dell’incarico senza riserva da parte del Presidente del Consiglio. “Se, quindi, le elezioni danno un risultato certo e se i partiti della maggioranza esprimono un unico candidato alla guida del Governo, con il quale il Capo dello Stato instaura fin da subito una limpida collaborazione, il rituale modo di accettare con riserva l’incarico di formare il Governo può rivelarsi non più necessario”8. Tale innovazione ha destato non poche perplessità e si configura ancora oggi come un episodio isolato; essa non appare tuttavia alterare la constatazione di fondo che la decisione ultima sulla stabilità e sulla formazione della maggioranza e del Governo risulti esclusivamente in mano ai partiti.
Larga parte della dottrina ha posto in essere un’analisi sulla fine del Governo Berlusconi e sulla rapida formazione del Governo Monti per comprendere l’influenza crescente del Presidente della Repubblica nella formazione del governo ricavando dall’episodio significativi spunti di riflessione.
Dopo tre anni e mezzo dal suo insediamento il IV Governo Berlusconi entrò in crisi soprattutto a causa della definitiva rottura, nel luglio 2010, tra il Presidente del Consiglio e il Presidente della Camera. Nonostante ciò, grazie all’appoggio di una esigua maggioranza, in un primo momento il Governo resistette alle mozioni di sfiducia che erano state promosse nei suoi confronti. Nell’ottobre del 2011, a seguito della bocciatura del Rendiconto di Bilancio, il Presidente della Repubblica dispose la parlamentarizzazione della crisi: venne posta la formale questione di fiducia, ancora una volta superata, ma con soli 15 voti di differenza. La crisi di Governo, benché non formalmente aperta, era ormai sostanzialmente evidente.
8 D.GALLIANI, I sette anni di Napolitano. Evoluzione politico- costituzionale della Presidenza della
Ma “quale fu la goccia che fece traboccare il vaso? Perché, nonostante le ripetute vittorie parlamentari, quantunque ottenute sul filo del rasoio, il Presidente del Consiglio, a un certo punto, decise per le dimissioni? Sicuramente si fece più incalzante il pressing dell’Unione Europea. La credibilità del Paese era fortemente a rischio… tanto è vero che il Governo fu costretto ad accettare il monitoraggio dei progressi in campo economico da parte di una delegazione del fondo monetario. Il governo Berlusconi, a dir poco, era sotto stretta osservazione”9. Inoltre quando alla Camera si riprese la votazione del Rendiconto Generale esso ottenne solo 308 voti a favore, una maggioranza non più sufficiente per governare. Il Presidente della Repubblica che, nella gestione della crisi del Governo Berlusconi aveva a lungo consentito la sopravvivenza di un esecutivo ormai da tempo instabile e provvisorio, concedendo tutte le possibili opportunità di ripresa, divenne da quel momento l’indiscusso arbitro della vicenda.
Successivamente alla votazione sul Rendiconto la Presidenza della Repubblica emanò un comunicato atipico nel quale si affermava che il Presidente del Consiglio, avendo manifestato al Capo dello Stato la consapevolezza delle implicazioni del voto della Camera, una volta adempiuto l’adempimento dell’approvazione della legge di stabilità, avrebbe consegnato le sue dimissioni: “era una crisi annunciata da un organo diverso da quello cui spetta la decisione definitiva circa le dimissioni che, peraltro, non apparivano del tutto certe. Il giorno successivo, 9 novembre, lo spread si innalzò pericolosamente intorno ai 500 punti. Dal Quirinale veniva diffuso un altro comunicato volto a rassicurare i mercati e a confermare la imminente apertura di una formale crisi di Governo”10 : “di fronte alla pressione dei mercati finanziari sui titoli del debito pubblico italiano, che ha oggi toccato livelli allarmanti, nella mia qualità di Capo dello Stato tengo a chiarire quanto segue, al fine di fugare ogni equivoco o incomprensione: 1) non esiste alcuna incertezza sulla scelta del Presidente del Consiglio on. Silvio Berlusconi di rassegnare le dimissioni del governo da lui presieduto. Tale decisione diverrà operativa con l'approvazione in Parlamento della
9 D.GALLIANI, op.cit. , 127
legge di stabilità per il 2012; 2) sulla base di accordi tra i Presidenti del Senato e della Camera e i gruppi parlamentari sia di maggioranza sia di opposizione, la legge sarà approvata nel giro di alcuni giorni; 3) si svolgeranno quindi immediatamente e con la massima rapidità le consultazioni da parte del Presidente della Repubblica per dare soluzione alla crisi di governo conseguente alle dimissioni dell'on. Berlusconi; 4) pertanto, entro breve tempo o si formerà un nuovo governo che possa con la fiducia del Parlamento prendere ogni ulteriore necessaria decisione o si scioglierà il Parlamento per dare subito inizio a una campagna elettorale da svolgere entro i tempi più ristretti. Sono pertanto del tutto infondati i timori che possa determinarsi in Italia un prolungato periodo di inattività governativa e parlamentare, essendo comunque possibile in ogni momento adottare, se necessario, provvedimenti di urgenza.”11 Alla risolutezza di questo comunicato si accompagnò nello stesso giorno al nomina di Mario Monti a senatore a vita: tale atto, in un momento così delicato, andava configurandosi come una chiara indicazione del successore di Berlusconi. Il Presidente della Repubblica procedette infatti in tempi brevissimi alla formazione del Governo Monti affermando che la propria decisione nasceva dall’esigenza di fronteggiare una situazione economico- finanziaria eccezionale che, come tale, richiedeva uno sforzo straordinario rendendo inammissibile il vuoto di governo che sarebbe derivato da un precipitoso ricorso a elezioni anticipate: il 16 novembre il nuovo Governo era nominato e nei due giorni successivi ottenne la fiducia delle Camere. E in risposta a chi, all’indomani di tali avvenimenti denunciava la sussistenza di un binomio ineludibile tra l’intervento di Napolitano e un abuso dei suoi poteri, si legge sull’editoriale di uno dei maggiori giornali nazionali: “È un governo del Presidente, il ministero Monti, perché il Capo dello Stato ha cercato in tutti i modi di evitare il vuoto politico di una campagna elettorale in un Paese che da oggi ad aprile - come ha ricordato ieri - dovrà ricollocare sul mercato 200 miliardi di buoni del Tesoro che andranno in scadenza: e per farlo ha voluto affidarsi a un uomo fuori dalla mischia, la cui competenza è nota a tutta l'Europa. Ma è un governo che nasce nel pieno rispetto per il Parlamento e per i partiti, cui Napolitano e Monti si
rivolgono per trovare sostegno a quello "sforzo straordinario" richiesto dall'emergenza, senza perdere altro tempo in "rivalse faziose" o "sterili recriminazioni”.12
Marco Olivetti ha posto in essere una particolare riflessione sul ruolo di guida politica realizzato dal Presidente nelle vicende della nascita del governo Monti: data l’interpretazione forte dei poteri presidenziali adottata da Napolitano egli si interroga in particolare sulla possibile legittimazione democratica dello stesso. Due, secondo lo studioso, le possibili spiegazioni del comportamento presidenziale: la prima consiste nel dare una lettura forte del ruolo presidenziale di garante dell’unità nazionale; tale spiegazione si piega però al peso di un evidente deficit di democratico. “Se il ruolo di garante Costituzionale spettante al Presidente ne fa un’autorità abilitata a bloccare in via definitiva atti del Governo ( come nel caso Englaro, ma non solo), a intervenire in ogni fase del procedimento legislativo e, addirittura, a ‘costruire’ una maggioranza parlamentare alternativa a quella delineata dai risultati elettorali, pare difficile sfuggire alla seguente conclusione: che una riforma della Costituzione si impone, per introdurre l’elezione diretta del Presidente della Repubblica”13. L’alternativa auspicata dallo studioso consiste invece nella spiegazione che si basa sulla distinzione dell’azione presidenziale a seconda che essa si svolga in periodi normali o d’emergenza. In contesti di normalità l’azione presidenziale dovrebbe essere valutata con prudenza ogni volta che si trovasse a contestare la titolarità di poteri spettanti al Governo e alla maggioranza parlamentare. Nelle situazioni d’emergenza però egli sarebbe chiamato a fungere da motore di riserva. Ciò avviene fisiologicamente in caso di crisi di Governo: il Presidente nomina un esecutivo che può godere della fiducia parlamentare o scioglie le Camere. In contesti anomali ed emergenziali si pone il problema se il capo dello Stato possa intervenire in modo ancora più incisivo. Olivetti ammette tale possibilità: la paralisi istituzionale giustificherebbe da parte del Presidente della Repubblica l’assunzione del ruolo di reggitore dello Stato al fine di
12 E. MAURO, Il Governo del Presidente, Repubblica, 14 novembre 2011 13 M.OLIVETTI, Governare con l’aiuto del Presidente, Bologna, 2012, 236
garantire la continuità. Il problema è che lo studioso non classifica la situazione venutasi a creare in Italia a partire dal 2011 come riconducibile a questa ipotesi di stallo istituzionale. “E’ questa piuttosto una situazione emergenziale ‘post- moderna’, determinata dal contesto europeo nel quale si colloca l’Italia. La peculiarità italiana nell’affrontarla ha riguardato il sistema dei partiti, che non è stato in grado di elaborare una soluzione fisiologica alla crisi come avvenuto in altri Paesi. L’azione ‘sussidiaria’ presidenziale si configura perciò come rivolta a consentire al sistema parlamentare di riprendere a funzionare normalmente. La garanzia della democraticità delle procedure risiede nel voto di fiducia che da atto di una maggioranza che esprime un governo si trasforma in consenso informato all’organo che garantisce la continuità dell’ordinamento”14.
Autori come V.Lippolis e G.M.Salerno nell’esaminare le medesime vicende muovono da presupposti differenti, se non opposti, pur giungendo alle medesime conclusioni. Essi affermano: “ai nostri fini, cioè per la valutazione del ruolo del Capo dello Stato, quel che rileva come dato di partenza è che l’intera vicenda del passaggio dal governo Berlusconi a quello Monti ha presentato i caratteri dell’eccezionalità. Fuori dall’ordinario era la situazione dei mercati finanziari e la situazione all’interno dell’area dell’euro. E l’Italia, esposta alla speculazione internazionale ne risentiva pesantemente. Si può dire che quella del IV governo Berlusconi sia stata la prima crisi di un esecutivo italiano determinata dalla globalizzazione… In questa situazione la decisiva iniziativa di Napolitano ha corrisposto alla sua funzione di Capo dello Stato e di rappresentante dell’Unità nazionale. Certo, possono apparire anomali rispetto alle ordinarie sequenze delle crisi ministeriali i suoi interventi sfociati nel preannuncio delle dimissioni del governo e nell’imporre una tempistica della crisi che impattava con l’organizzazione dei lavori parlamentari perché in sostanza se ne condizionava l’apertura e l’approvazione della legge di stabilità. Può anche apparire inusuale che in quelle convulse giornate egli abbia tenuto contatti diretti di evidente rilievo politico con il cancelliere tedesco Angela Merkel, con il Presidente
14 Cfr. M.OLIVETTI, op.cit., 240
statunitense Obama e con quello francese Hollande, rapporti con i Capi di governo stranieri che, pur non preclusi al Presidente della Repubblica, dovrebbero naturalmente spettare a chi guida l’esecutivo. Il Presidente si è eretto a rappresentante e garante dell’Italia sul piano dei rapporti internazionali. Infine anche la scelta quale Presidente del Consiglio di una personalità estranea ai partiti e alla politica attiva è stato un atto al di fuori dell’ordinario che trova un precedente solo nella nomina di Ciampi, governatore della Banca d’Italia, da parte del Presidente Scalfaro nel 1993, in un altro momento di estrema difficoltà per le istituzioni repubblicane. Tuttavia se non ci si ferma a sezionare i singoli passaggi della crisi, ma si guarda, come è corretto fare, al suo complesso e all’esito finale, non si può negare che l’operato del Presidente abbia corrisposto all’obiettivo di evitare un vuoto di potere e di rassicurare gli interlocutori esteri, istituzionali o no, circa la credibilità dell’azione di risanamento finanziario del nostro Paese al fine di scongiurare ulteriori contraccolpi negativi… Come ha riconosciuto lo stesso Napolitano, la soluzione della crisi ‘non si è collocata entro i binari di un ordinario succedersi alla guida del Paese di schieramenti che abbiano ottenuto la maggioranza nelle elezioni’, ma si deve concordare con lui che assolutamente infondata (‘una grave leggerezza’) è stata l’evocazione di una sospensione della democrazia’ perchè ‘nessuna forzatura, né tantomeno alcuno strappo si è compiuto rispetto al nostro ordinamento costituzionale. In effetti tutti i passaggi previsti dalla Costituzione e da consuetudini integrative riguardo all’avvicendamento del governi sono state rispettati… ed il ruolo svolto dal Presidente ha assunto la dimensione preponderante che si è descritta, con alcuni aspetti inusuali che non si è mancato di evidenziare, perchè altri soggetti istituzionali e politici non hanno ritenuto o avuto la forza di assumere posizioni diverse… E’ stata confermata la regola che il ruolo presidenziale è inversamente proporzionale alla capacità delle forze politiche di autoregolare il funzionamento del sistema costituzionale”. 15
1.3. Influenza nella scelta dei ministri. Ministri coinvolti in vicende giudiziarie ( i casi Brancher e Romano)
La questione della scelta dei ministri assume certamente un’importanza politica primaria. Il Presidente Napolitano, pur rimanendo fedele nel corso del suo mandato ad un prudente atteggiamento di controllo e supervisione, non ha però esitato a intervenire con forza nei controversi episodi che hanno coinvolto due ministri del IV governo Berlusconi, l’On. Aldo Brancher e On. Saverio Romano.
“Il 18 giugno 2010 la Presidenza del Consiglio dei Ministri rendeva nota l’intenzione di voler provvedere alla nomina a Ministro senza portafoglio dell’onorevole dottor Aldo Brancher, già Sottosegretario alla semplificazione normativa, nonché di conferirgli la delega per tutti gli adempimenti relativi alla pratica e concreta attuazione del Federalismo amministrativo e fiscale. Lo stesso giorno facevano quindi seguito il decreto del Presidente della Repubblica e quello di delega delle funzioni del Presidente del Consiglio dei Ministri. Con la nomina dell’on. Aldo Brancher veniva istituito il 24° Ministro del IV Governo Berlusconi”.16 Tale nomina è stata da subito oggetto di aspre critiche; Oltre alla dubbia opportunità politica ( le sue competenze apparivano già sufficientemente coperte dalle deleghe assunte da molteplici ministri in materia di federalismo) ciò che maggiormente ha inficiato la credibilità del ministro è stata l’idea, sostenuta dall’opposizione, che la sua nomina fosse unicamente finalizzata a permettergli di usufruire della norma sul legittimo impedimento. “Come è noto, il Ministro Brancher, già coinvolto in passato in altre vicende giudiziarie, era rinviato a giudizio per appropriazione indebita in un procedimento che nasceva dalla separazione dello stesso dal più ampio procedimento scaturito dall’indagine svolta in merito alla scalata ad Antonveneta… Il 24 giugno l’on. Brancher, dovendo comparire in giudizio per rispondere di appropriazione indebita, si avvaleva della norma sul legittimo impedimento. Al fine di valutare la sussistenza dei presupposti per l’accoglimento della richiesta avanzata dal neo
16 C.RIVADOSSI, La vicenda del ministro Brancher, in Rivista AIC, 2/2001, 1, http://www.associazionedeicostituzionalisti.it
Ministro, il giudice dott.ssa Gatto rinviava l’udienza prevista per il 26 giugno. La vicenda sollecitava un intervento anche del Capo dello Stato Giorgio Napolitano (25 giugno 2010) il quale, tramite gli uffici della Presidenza della Repubblica, diramava un comunicato sottolineando che “a proposito del ricorso dell'on. Aldo Brancher alla facoltà prevista per i ministri dalla legge sul legittimo impedimento, si rileva che non c'è nessun nuovo Ministero da organizzare in quanto l'on. Brancher è stato nominato semplicemente ministro senza portafoglio”. 17
Di fronte a questo intervento del Presidente della Repubblica le reazioni sono state diverse e alquanto contrastanti. Parte della dottrina ha sottolineato che “la distinzione della posizione giuridica tra ministri con e senza portafoglio non ha fondamento costituzionale, né rilievo nelle leggi e nella prassi parlamentare, così come appare evidente che spettava al giudice competente fornire l’interpretazione della legge… Parimenti, - affermano V. Lippolis e G.M. Salerno - l’intervento presidenziale è apparso particolarmente incisivo nella tempistica, perchè intervenuto prima ancora della pronuncia del giudice. Dichiarando un’interpretazione normativa diversa da quella proveniente dal governo, il Capo dello Stato si è inserito di sua iniziativa in una disputa ermeneutica che si era innescata in una vicenda in cui si volevano contrapporre la politica - criticamente considerata allorché si pone a difesa delle sue guarentigie - e la giustizia, ottimisticamente prospettata non solo come fonte di applicazione oggettiva e imparziale della legge, ma anche come arma per cancellare arbitrarie discriminazioni. Questa posizione del Presidente… ha voluto preventivamente escludere una qualche responsabilità presidenziale su caso in questione, distanziando nettamente la sua interpretazione da quella appena fornita dal governo sulla sussistenza dei presupposti applicativi del legittimo impedimento. Non può dirsi che si sia trattato di un intervento in cui si sia assunta una qualche funzione di tutela e di supervisione presidenziale dell’esecutivo; anzi, è segno manifesto di una netta presa di distanza, e dunque, di piena separatezza tra le due istituzioni”.18
17 C.RIVADOSSI, op.cit., 2
Di diverso avviso appaiono coloro che aderiscono al contrapposto orientamento di cui si fa portavoce Azzariti “ritengo - dice - che il ‘monito’ presidenziale non debba riferirsi all’interpretazione disinvolta della legge sul legittimo impedimento e all’uso fatto in sede processuale, bensì riguardi, ben più in profondità, la possibilità stessa che tale legge possa applicarsi al caso di specie... Almeno dal punto di vista strettamente giuridico è infatti evidente che il legittimo impedimento non sia opponibile da altri se non dai soggetti direttamente indicati nella legge e appare corretto sostenere che questa si riferisca esclusivamente al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai singoli Ministri titolari dei diversi dicasteri ( esclusi dunque i cosiddetti Ministri senza portafoglio). Vero è che la legge in questione inizialmente (all’articolo 1) parla genericamente di Ministri, ma è essenziale rilevare che specifica poi (all’articolo 2) che l’applicazione è permessa ‘al fine di consentire al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Ministri il sereno svolgimento delle funzioni loro attribuite dalla Costituzione e dalla legge’. Anche la Costituzione all’articolo 95, dove espressamente richiama la responsabilità individuale dei ministri per ‘gli atti dei loro dicasteri’ fa riferimento esclusivamente ai Ministri con portafoglio. Tutti gli altri soggetti che vanno a comporre la compagine governativa (oltre ai Ministri senza portafoglio anche i sottosegretari, i capi di gabinetto o delle segreterie politiche dei Ministri, etc.) non possono essere ricompresi in questa ristretta cerchia per la semplice, ma decisiva, ragione che il legittimo impedimento rappresenta una deroga ai principi generali della giurisdizione. Come ogni deroga, dunque, va interpretata in termini restrittivi… la pretesa di estendere a figure non previste dalla nostra costituzione una normativa che limita l’esercizio della giurisdizione appare il frutto di una disinvoltura politica e costituzionale inaccettabile. Bene ha fatto Napolitano a rilevarlo”19.
Altrettanto controversa si configura la vicenda dell’On. Saverio Romano, nominato ministro delle Politiche Agricole il 23 marzo 2011. Tale nomina era stata suggerita dai mutati equilibri politici al fine di rafforzare la base parlamentare dell’esecutivo.
19 G. AZZARITI, Il legittimo impedimento e i ministri senza portafoglio, in Costituzionalismo.it, 29 giugno 2010, http://www.costituzionalismo.it
Alla Camera alcuni deputati del Pdl avevano aderito al nuovo gruppo politico “Futuro e libertà per l’Italia”, promuovendo e votando con le altre opposizioni una mozione di sfiducia respinta dalle Camere il 14 dicembre 2010: si era reso così prezioso il sostegno apportato dal nuovo gruppo parlamentare della Camera “Iniziativa responsabile”, che vedeva tra i suoi più attivi promotori l’On. Romano e che veniva suggellato proprio dalla nomina di quest’ultimo a ministro. La nomina di Romano non passò però inosservata; le aspre critiche che generò erano legate al coinvolgimento del neoministro in un procedimento, ancora in fase di indagini preliminari, per i reati di cui agli artt 110 e 416 bis C.p.: concorso esterno in associazione a delinquere di stampo mafioso. “A fronte della reiterata richiesta della Procura della Repubblica di archiviazione di tale indagine per insufficienza degli elementi di prova acquisiti, il Gip presso il tribunale di Palermo si era riservato di decidere in ordine ad una decisione definitiva di archiviazione, ovvero di proroga delle indagini o, ancora, di ordinare al pubblico ministero di esercitare l’azione penale (c.d. ‘imputazione coatta’)”20. Il Presidente Napolitano, prospettata la nomina dell'on. Romano a ministro dell'Agricoltura, aveva ritenuto necessario assumere informazioni sullo stato del procedimento a suo carico. Essendo risultato che il Giudice delle indagini preliminari non aveva accolto la richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura di Palermo, esprimeva riserve sull'opportunità politico - istituzionale della nomina. Non ravvisando impedimenti giuridico- formali tali da giustificare il diniego, il Presidente aveva proceduto alla nomina del ministro, dichiarandosi però impaziente di ricevere un pieno chiarimento giudiziario, rendendo in questo modo ancora più evidente il suo dissenso nei confronti della scelta del Presidente del Consiglio. La vicenda in questione si è conclusa a favore dell’On.Romano: stante l’ordine del Gip del tribunale di Palermo di procedere all’imputazione coatta, a seguito del processo svoltosi con rito abbreviato, il 17 luglio 2012 l’On. è stato assolto “perchè il fatto non sussiste”.
Il messaggio contenuto del comunicato presidenziale va però al di là delle strette
20 F.GIUFFRE’- I.A.NICOTRA, op.cit., 78
vicende. “La nota di Napolitano intendeva operare una distinzione tra le ‘riserve’ di carattere politico- istituzionale e gli ‘impedimenti’ strettamente giuridici. Il Capo dello Stato, insomma, avrebbe la facoltà di esprimere la sua opinione e il suo consiglio, anche in termini critici, al Presidente del Consiglio circa le possibili conseguenze politiche e istituzionali derivanti dalla nomina delle persone indicate per gli incarichi ministeriali. Mentre soltanto veri e propri “impedimenti” di carattere strettamente giuridico, potrebbero giustificare un diniego presidenziale assoluto rispetto alle proposte formulate dal Presidente del Consiglio.”21 Questo alla luce di un’interpetazione dell’atto di nomina dei ministri come atto solo formalmente presidenziale; tale natura rende tendezialmente vincolante la proposta del Presidente del Consiglio: il Presidente della Repubblica può rifiutare la nomina solo nell’estrema ipotesi di impedimenti giuridico formali mancanti nella fattispecie in esame.
Rispetto a tale concezione, generalmente condivisa, assume una posizione diversa e più radicale Guastini il quale afferma: “la tesi che il Presidente della Repubblica non possa disattendere la proposta del Presidente del Consiglio circa la nomina del Ministri- ancora una concezione ‘notarile’ della funzione presidenziale- è del tutto implausibile. Chi così pensa ignora la grammatica del termine ‘proposta’ nella lingua italiana: una ‘proposta’ che non può essere respinta non si chiama proposta, si chiama decisione. E’ ben vero che il Presidente della Repubblica è ‘vincolato’ alla proposta del Presidente del Consiglio: ma solo nel senso che non può nominare un ministro in assenza di proposta, non nel senso che la proposta sia ‘vincolante’ in senso tecnico. Concretamente: non può nominare alcun ministro senza la controfirma del Presidente del Consiglio, e questo è tutto. Per saggiare la consistenza della tesi secondo cui il Presidente della Repubblica dovrebbe limitarsi a prendere atto delle proposte del Presidente del Consiglio è sufficiente, di nuovo, immaginare- ancora un’ipotesi di scuola, s’intende- che il Presidente del Consiglio proponga alla nomina un noto esponente. o (che so?) un suo famigliare”22. Vi è da domandarsi se tale posizione,
21 V.LIPPOLIS, G.M.SALERNO, op. cit., 114
22 Questa ed altre le motivazioni addotte da Guastini al fine di confutare l’idea di fondo che muove la sua analisi: secondo Guastini affermare che in una forma di governo parlamentare il Presidente della
teoricamente ammissibile, risulti realmente sostenibile in termini di tenuta del sistema e collaborazione tra le istituzioni.
Nell’apporre riserve di opportunità politico- istituzionale Napolitano aderisce una prassi di lunga tradizione. In particolare, possiamo ricordare le vicende intercorse tra il Presidente Scalfaro e l’On. Silvio Berlusconi in occasione della formazione dell’esecutivo di centro destra nel 1994. Il Capo dello Stato, non approvando alcune delle più importanti nomine ministeriali, in quanto perplesso in particolare sulle personalità chiamate a rivestire la carica di ministri degli Affari e Esteri e degli Interni, aveva cercato di sensibilizzare il Presidente del Consiglio sulle necessarie caratteristiche politiche dei ministri designandi. Il clima di tensione, fomentato dalle molteplici richieste di intervento rivolte al Presidente da parte delle opposizioni, aveva portato quest’ultimo a disporre la pubblicazione della lettera, rivolta al Presidente del Consiglio il 9 maggio, in cui esplicitava le criticità esposte. Nello stesso frangente venne resa nota anche la risposta del Presidente del Consiglio che aveva dichiarato una piena assunzione di responsabilità in merito alle nomine ministeriali che intendeva portare avanti in assoluta autonomia.
In definitiva, l’iniziativa assunta dal Presidente Napolitano, non può quindi essere letta come un’atto di rottura istituzionale andando al contrario a definirsi come un’elastica ma conforme applicazione della normativa costituzionale sui rapporti tra Capo dello Stato e Governo.
Repubblica sia non capo dell’esecutivo ma garante della Costituzione, salvo il caso caso di una esplicita previsione costituzionale in tal senso, sarebbe una tesi meramente dogmatica, costruita a priori a partire dalla teoria generale del governo parlamentare. Cfr. R.GUASTINI, Teoria e ideologia
2. Il Presidente e le leggi
2.1. Il rinvio della legge alle Camere ( il caso del collegato lavoro)
L’art. 74 della Costituzione delinea la fondamentale disciplina dell’istituto del rinvio della legge alle Camere, disponendo che “il Presidente della Repubblica, prima di promulgare la legge, può con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione”, e che “se le Camere approvano nuovamente la legge, questa deve essere promulgata”.
“Nella comunità scientifica è corrente l’opinione che l’analisi dei modi in cui il Presidente della Repubblica partecipa alla funzione di produzione normativa riveste un valore esemplare, paradigmatico, poiché consente di cogliere con immediatezza il sostrato teorico sul quale sono stati forgiati la posizione e il ruolo del Capo dello Stato. Per questo nel trattare del potere di rinvio quale fase dell’unitario procedimento di controllo che si avvia in sede di promulgazione, e nell’accorparlo al potere complanare di emanazione degli atti con valore di legge, è quasi inevitabile svolgere riflessioni e guadagnare conclusioni di ordine più generale sulla complessiva funzione costituzionale del Presidente della Repubblica nella forma parlamentare di governo italiana”23.
Basta ricordare quanto, nel momento del concepimento della nostra Costituzione, l’istituto in esame sia stato oggetto di contrasti tra chi concepiva i poteri presidenziali in maniera estensiva e chi, al contrario, tendeva a restingerli. “Il potere di promulgazione affidato al Presidente della Repubblica costituisce il punto di equilibrio rispetto alle due proposte antitetiche elaborate in Assemblea Costituente e poi abbandonate. La prima, prevedeva la totale emarginazione del Capo dello Stato
23 G. SCACCIA, La funzione presidenziale di controllo sulle leggi e sugli atti equiparati, in Rivista AIC, 1/2011, 1, http://www.associazionedeicostituzionalisti.it
dalla partecipazione al procedimento legislativo affidato in via esclusiva alle Assemblee, la seconda, mirava ad attribuire al Presidente un potere di sanzione sulla falsariga della prerogativa di sanzione che lo Statuto Albertino riservava al Monarca.”24 All’interno del dibattito costituente tre furono gli aspetti maggiormente discussi in merito all’istituto del rinvio: lo strumento per mezzo del quale il Presidente sarebbe dovuto intervenire (sanzione o veto), gli effetti da imputare all’intervento del Capo dello stato e le ragioni dello stesso. Preliminare a tale scelta del mezzo risulta la decisione se riconoscere o meno nel Capo dello Stato un soggetto partecipe della funzione legislativa in posizione paritaria o quanto meno omogenea rispetto quella delle Camere. Prevalse nei costituenti il rifiuto della sanzione a conferma della volontà di diversificare la posizione del Presidente da quella delle Camere, limitando quindi il primo nell’esercizio della funzione legislativa25. Quanto alla problematica degli effetti da imputare all’intervento del Capo dello Stato, “la possibilità di superare il rinvio, e per di più mediante una nuova approvazione a maggioranza semplice esprimeva invece con altrettanta chiarezza la scelta di configurare come mera ‘istanza di riflessione’ l’intervento esterno del Capo dello Stato sulla funzione legislativa”26. Più complessa risultò invece la questione delle ragioni del rinvio: “al riguardo, l’unico dato offerto con certezza dalle scelte dell’Assemblea Costituente pare essere proprio al dato formale, dal quale- come si è cercato di evidenziare- è desumibile la differenziazione del ruolo del Presidente rispetto a quello delle Camere, e quindi la impossibilità di utilizzare il rinvio come strumento di ordinarie scelte politiche, dovendovisi piuttosto fare ricorso per ragioni
24D.GIRITTO, Art 74 Cost, Commentario beve alla Costituzione, a cura di S.BARTOLE - R.BIN, Padova, 2008, 672
25 Sarebbe comunque erroneo ritenere che il Presidente sia stato in tal modo del tutto estromesso dalla funzione legislativa: la legge non più essere ridotta ad un atto complesso posto in essere dalle Camere. Tenendo conto del significativo mutamento intercorso nel sistema attraverso la ricordata soppressione del della sanzione, l’inserimento della promulgazione nella più ampia fattispecie dell produzione normativa acquista un nuovo significato: la possibilità del rinvio presidenziale, sia pure motivatamente e per una sola volta, fa si che sopravviva nella promulgazione un elemento di partecipazione alla funzione legislativa che viceversa, nel sistema albertino veniva soltanto riconosciuto alla sanzione. Certo non si può dire che il presidente sia titolare di funzione legislativa, tuttavia se manca la promulgazione legge per quanto perfetta rimane sterile.
26 S.PAJNO, Art 74, in Commentario alla Costituzione, (a cura di) R.Bifulco, A.Celotto, M.Olivetti, Torino, 2006, 1438
di ‘garanzia di sistema’”27.
Nel definire i confini di questo potere, anche in una successiva fase applicativa, si sono posti due interrogativi di rilievo: se il potere di rinvio rappresenti o meno una competenza sostanzialmente presidenziale e se esso sia attivabile oltre che per motivi di legittimità costituzionale, anche per motivi di merito.
Quanto alla spettanza sostanziale del potere, sebbene nei primi momenti la più illustre dottrina28 la configurasse in capo al Governo, la prassi e l’affermarsi della c.d. teoria polifunzionale della controfirma si sono poi orientate in senso differente: ad oggi l’opinione assolutamente maggioritaria è che il potere di disporre il rinvio delle leggi appartenga alla categoria dei poteri presidenziali cioè pertinenti alla sfera di discrezionalità del Capo dello Stato: la controfirma comporta un controllo di conformità al sistema e di rispondenza alla funzione presidenziale dell’atto di rinvio, ma non può spingersi fino al punto di paralizzare o sminuire l’autonomo potere presidenziale di controllo.
Quanto al secondo punto, è evidente che l’ampiezza delle motivazioni di opportunità politica in rapporto alla quale può essere disposto il rinvio delle leggi è da porre in correlazione alla più o meno marcata estraneità attribuita al Presidente della Repubblica rispetto all’indirizzo politico. “Le ‘ragioni del rinvio’- sgombrato il campo dalla tesi che ascrive al Governo la relativa decisione sostanziale- appaiono dunque strettamente legate all’interpretazione complessiva del ruolo presidenziale… In coerenza con il riconosciuto carattere monista della forma di governo, si afferma anche la tesi della estraneità del Presidente all’indirizzo politico: ciò dovrebbe condurre, conseguentemente, al rifiuto della possibilità di rinviare per ragioni di puro
27 Ibidem
28 anche S.GALEOTTI, l’autore che nel periodo immediatamente successivo all’approvazione della Costituzione più di ogni altro is spese per far riconoscere l’autonomia del Capo dello Stato rispetto al Governo, non esitò ad individuare in quest’ultimo il titolare sostanziale del potere di rinvio, leggendone la funzione nell’ambito delle dinamiche del rapporto fiduciario. Lo stesso autore motò in seguito la sua posizione affermando la tesi della spettanza presidenziale del potere di rinvio.
merito29. Dovrebbe, in quanto, come è noto, le opinioni espresse a riguardo della dottrina sono variegate e non mancano di un certo grado di ambiguità… La dottrina che ha ritenuto di non limitare ai motivi di incostituizonalità i casi di rinvio delle leggi ha peraltro sovente, ed in vario modo, provato a circoscrivere tra i motivi ‘di merito’, quelli idonei a giustificare l’utilizzazione di tale strumento”30, individuandoli chi in interessi della collettività chi nel merito costituzionale31. A circoscrivere in maniera più pregnante i casi di rinvio dovrebbe contribuire la nota impostazione di P.Barile secondo cui “la funzione di indirizzo politico costituzionale si configura non già come un’attività nella quale risultano utilizzati promisquamente, confusi tra loro, criteri di merito e di costituzionalità, o criteri che tra i due estremi stanno nel mezzo al guado, bensì- anche se, con tutta probabilità, l’autore che per primo la ha teorizzata non avrebbe sottoscritto tale conclusione- come una vera e propria atttività di garanzia costituzionale, che assume forme peculiari in conseguenza della peculiare idea di Costituzione dalla quale prende le mosse, ossia la Costituzione in senso materiale. In questo contesto, affermare che il rinvio delle leggi costituisce esplicazione della funzione di indirizzo politico- costituzionale non equivale ad altro che sostenere che si tratta di un atto volto a realizzare una garanzia costituzionale, nell’ambito di una Costituzione intesa come ordine in grado di fornire un sistema di fini dato, capace di irradiare di sè tutto l’ordinamento, imponendosi a tutti gli operatori pubblici ed addirittura anche all’attività dei privati”32.
Al di là del dibattito dottrinale, gli interrogativi sulle ragioni legittimanti del rinvio
29 in particolare L.PALADIN circoscrive i motivi di rinvio alla sola incostituzionalità della legge e traccia una netta linea di demarcazione tra i poteri presidenziali di garanzia politica della Costituzione e la funzione di garanzia giuridica posta in essere dalla Corte Costituzionale. La distinzione deriva soprattutto dal fatto che il Capo dello Stato calibra le sue richieste di rinvio in base a libere valutazioni tenendo conto però non solo dell’esigenza di far osservare la Costituzione, ma anche e soprattutto dei riflessi che il fatto di esercitare o non esercitare il potere in questione potrebbe produrre sul complessivo funzionamento delle istituzioni.
30 S.PAJNO, op. cit., 1440
31 secondo questa nota tesi il Presidente potrebbe far uso del rinvio anche nei casi in cui la legge approvata dalle Camere non presenti puntuali vizi di illegittimità costituzionale ma, e tuttavia venga ritenuta idonea a determinare conseguenze in termini di un cattivo funzionamento dei meccanismi predisposti dalla Costituzione.
presidenziale non sono stati del tutto sciolti neppure nell’applicazione dell’istituto interpretato dagli stessi titolari del potere in maniera eterogenea. Taluni, come ad esempio il Presidente Scalfaro, partendo dal presupposto che al Capo dello Stato competa un ruolo di controllo della legittimità delle leggi al pari di quello esercitato dalla Corte Costituzionale e con gli stessi limiti, ritengono che egli possa sollevare esclusivamente vizi di costituzionalità. In linea di continuità con questo atteggiamneto si colloca “l’esternazione berlinese del Presidente Ciampi, il quale in risposta alle domande di alcuni studenti in ordine all’avvenuta promulgazione del c.d. lodo Schifani, ha risposto che ‘secondo la Costituzione, la decisione, la valutazione, il giudizio sulla rispondenza alla stessa da parte delle leggi compete alla Corte costituzionale. Il Presidente della repubblica, solo in caso di manifesta non costituzionalità delle leggi, rinvia quelle leggi al parlamento, che può riapprovarle e in quel caso il capo dello Stato è neuto a promulgarle’”33.
Altri al contrario ammettono anche rinvii per motivi di merito; in tal senso può essere ricordato il messaggio con cui il Presidente Cossiga instaurò il “nuovo corso” del rinvio delle leggi negli ultimi due anni del suo settennato. In quella occasione il Presidente parlò del rinvio come di “potere- dovere”, espressivo della funzione ad esso attribuita di garanzia politico - istituzionale della Costituzione e quindi anche dell’ordinato funzionamento delle istituzioni dello Stato e della coerenza dell’ordinamento giuridico, rilevando come lo stesso dovesse essere esercitato con prudenza, ma non limitatamente ai soli casi di pura illegittimità costituzionale (di cui si occupa principalmente il controllo di costituzionalità svolto dalla Corte Costituzionale), ma anche per la tutela di altri valori e interessi costituzionali ed istituzionali “quali quelli che rientrano nelle valutazioni di coerenza e correttezza costituzionale, di congruità istituzionale e di coerenza dell’ordinamento giuridico, con particolare riguardo all’attuazione della Costituzione e cioè, almeno in parte in quella
33 R.ROMBOLI, Il rinvio delle leggi, in Rivista AIC, 1/2001, 4, http://www.associazionedeicostituzionalisti.it; Il Presidente Ciampi si espresse in tal senso nel corso di una conferenza presso la Humboldt Universitat di Berlino in risposta alla domanda di una studentessa. Il concetto fu poi ribadito più di una volta in sede istituzionale e diede luogo alla c.d. dottrina Ciampi.
sfera, che fu autorevolmente definita di ‘merito costituzionale’”34.
Nonostante le molteplici interpretazioni, e le diverse prassi, il rifiuto di connotare in Costituzione l’istituto sul modello della sanzione, configura chiaramente la volontà di sganciare il ruolo presidenziale dalle dinamiche dell’indirizzo politico (di maggioranza ), e di realizzarlo in termini in qualche modo terzi rispetto ad esso. “Perchè ciò possa accadere, tuttavia, è necessario che le ‘prestazioni di unità nazionale’ fornite dal Capo dello Stato abbiano a disposizione un’istanza valoriale a cui fare riferimento. Se si condivide il percorso compiuto fino a questo punto, appare possibile ritenere che le ambigiutà che avvolgono il potere presidenziale di rinvio, sia nelle elaborazioni dottrinali che nella prassi, siano dovute essenzialmente alla lenta emersione ed alla progressiva strutturazione, nel sistema costituzionale italiano, di ciò che dovrebbe costituire il punto di riferimento delle prestazioni di unità nazionale, in opposizione alla semplice unità di maggioranza, ossia della piena normatività della costituzione formale”35. In quest’ottica l’individuazione delle ragioni che possono giustificare l’applicazione dell’art.74 deriva dall’idea di Costituzione da cui si prendono le mosse: viene oggi gradualmente delineandosi un’ipotesi di Costituzione precettiva in ogni sua parte: principi, valori e programmi da essa espressi devono essere realizzati in toto dalle assemblee legislative e tutelati dall’organo speciale di garanzia36. “Tutto ciò, se sul versante della teoria costituzionale comporta l’accettazione di un’idea di Costituzione che, pur precettiva in ogni sua parte, è caratterizzata da una giuridicità non perfettamente compiuta, disomogenea quindi rispetto a quella dei rami bassi dell’ordinamento giuridico, e conseguentemente affidata ad un giudice ad hoc ( la Corte Costituzionale ‘vestale’ della Costituzione, a fronte della magistratura ‘vestale’ della legge) sul versante della teoria dell’interpretazione determina la conseguenza- che a lungo ha caratterizzato il dibattito dottrinale italiano, e che ancora lo connota in parte, dell’affermarsi dell’idea
34 R.ROMBOLI, Il rinvio delle leggi, op.cit., 4 35 S.PAJNO, op. cit., 1442
36 MODUGNO, Corte Costituzionale e potere legislativo, in Barile, Cheli, Grassi, Corte Costituzionale e sviluppo della forma di governo in Italia, Bologna, 1982, 22
secondo la quale l’interpretazione costituzionale non sarebbe grandezza riconducibile all’interpretazione giuridica strictu senso intesa”37. L’interpretazione costituzionale sarebbe quindi caratterizzata da un’ineludibile grado di politicità dovuto all’intrinseca politicità dell’oggetto della regolamentazione costituzionale: in questo senso sarebbe quindi impossibile tracciare una netta linea di confine tra politica e diritto costituzionale. Ciò risulta particolarmente evidente nell’analisi dell’intervento presidenziale che non vanta le pretese di giuridicità, quali in particolare il metodo giurisdizionale e la maggiore distanza dalla politica, che caratterizzano invece l’intervento della Corte Costituzionale.
Il ricorso all’istituto del rinvio della legge, pur assumento una diversa incisività a seconda della personalità del Presidente in carica e degli equilibri instaurati con gli altri poteri, è stato per questo esercitato da sempre con prudenza, risultando di gran lunga prevalente il riferimento a motivi di illegitimità costituzionale, ed in particolar modo alla violazione dell’obbligo di copertura finanziaria delle leggi, previsto all’art. 81 della Costituzione, piuttosto che a motivi di merito; ciò anche in casi in cui il Presidente avrebbe potuto porre a fondamento dei propri messaggi di rinvio anche la presunta violazione di parametri costituzionali. Ma con la nuova affermazione della precettività delle norme- principio risulta possibile una nuova qualificazione dell’attività svolta dal Capo dello Stato in sede di rinvio: essa si distingue da quella della Corte Costituzionale non per il tipo di giudizio ma solo per il metodo, il procedimento utilizzato: contraddittorio e giurisdizionale l’uno, non contraddittorio e non giurisdizionale l’altro.
Nell’utilizzo del potere di rinvio il Presidente Ciampi ha apportato alcune rilevanti innovazioni. La prima è relativa al tipo di leggi oggetto del rinvio: al di là della eterogeneità delle materie trattate, tali leggi si configurano tutte come provvedimenti di sistema. La disciplina, volta a regolare istituti molto dibattuti e di immediato impatto sociale, coinvolge una platea più ampia dei meri addetti ai lavori e i richiami del Capo dello Stato comportano la rilevante conseguenza di sottoporre il
37 S.PAJNO, op. cit., 1442