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CAPITOLO 1. IL SISTEMA SANITARIO NAZIONALE E LA SUA EVOLUZIONE LEGISLATIVA ED ORGANIZZATIVA.
1.1 Le principali riforme e le relative implicazioni di carattere organizzativo nel Sistema Sanitario Italiano
“Studiare l’ospedale come azienda non significa affatto accoglierne od accettarne come preminente una finalità economica di perseguimento di un reddito (…) Studiare l’ospedale come azienda significa affermare che il suo funzionamento è fortemente condizionato dalle modalità di organizzazione delle risorse “economiche”, cioè di quelle risorse che hanno un valore economico in quanto scarse” (E. Borgonovi e A. Zangrandi, 1988).2
Il Sistema Sanitario Italiano ha subito diversi riordini nel corso del tempo. Come per la maggior parte dei processi di rinnovamento, i presupposti per le varie riforme in materia di Sanità, sono stati rappresentati dalle profonde crisi, di natura sociale, politica o economica, che il Sistema Sanitario ha dovuto affrontare.
L’impostazione spiccatamente solidaristica dei servizi sanitari pubblici, la crescita continua ed incontrollata della spesa pubblica, la burocratizzazione delle amministrazioni pubbliche, l’arretratezza tecnologica delle strutture, le inefficienze dei servizi e gli sprechi nella gestione delle risorse, sono alcuni tra i tanti fattori critici che hanno contribuito alla spinta verso il processo di modernizzazione e di aziendalizzazione del Sistema Sanitario Italiano.
Gli “intervalli storici” di maggiore importanza sono stati:
La legge 833 del 1978
La legge 502 del 1992
2 Gli autori aggiungono: “Studiare l’ospedale come azienda significa domandarsi non solo se il
funzionamento è tale da produrre corrette diagnosi, corrette cure, corretta riabilitazione ma anche con quante e quali risorse “economiche” si ottiene ciò; con quali modificazioni sarebbe possibile misurare il rapporto risultati/risorse. Il carattere di azienda all’ospedale è sancito anche dal legislatore come un “sistema composto da lavoro umano, beni materiali, immateriali e conoscenze, la cui attività è costituita dalla produzione di beni sanitari ed il cui fine è il soddisfacimento dei bisogni di salute dei cittadini”. D. Maggi, 2003.
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La riforma Bindi D.lgs. 299/99 e la modifica del Titolo V della Costituzione
La legge istitutiva 833/78 lega ad un concetto di salute un’idea di identità nazionale, di universalismo come garanzia di una tutela che diviene diritto. L’inadeguatezza della riforma sopraccitato comporta la necessità di procedere ad una seconda riforma con il Decreto 502/92. Con quest’ultima si assiste a:
Trasformazione delle USL in ASL
Regionalizzazione del Sistema attraverso cui si assiste ad un
ridimensionamento del ruolo dello Stato in favore di una crescente autonomia decisionale riconosciuta ad organi decentrati
Aziendalizzazione
Infine la Riforma Bindi introduce ulteriori modifiche all’assetto precedente.
1.1.1 La legge 833 del 1978: la nascita del Sistema Sanitario Nazionale
Nel 1978, con l’approvazione della riforma sanitaria, viene istituito il Servizio Sanitario Nazionale (SSN): “complesso delle funzioni, delle strutture e dei servizi e delle attività destinate alla promozione, al mantenimento e al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione, senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo le modalità che assicurino l’eguaglianza dei
cittadini nei confronti del servizio”.3
Il SSN fonda la sua concezione di sanità non solo in un diritto individuale ma in un bisogno pubblico da soddisfare. La riforma cerca di dare effettivamente attuazione al disposto costituzionale di eguaglianza di trattamento dei cittadini, di
universalità del servizio sanitario e di solidarietà tra cittadini.4
Con la legge 833/1978 si enfatizza il ruolo centrale dello Stato, che è l’unico gestore della Sanità pubblica. Lo Stato ha funzioni d’indirizzo generale e di
3 L. 833/78 ART.1, C.3
4 Costituzione Italiana Art. 32, c.1, “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e
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coordinamento in ambito sanitario; è responsabile della programmazione nazionale e della fissazione dei livelli di prestazione da garantire a tutti i cittadini. Ha il coordinamento delle attività amministrative regionali e la quantificazione, a cadenza annuale con l’approvazione della legge di bilancio, del Fondo Sanitario Nazionale, destinato a finanziare il sistema.
Le Regioni, invece, hanno competenze legislative all’interno della “legge quadro” dettata dallo Stato; è inoltre previsto che le Regioni dovessero adottare i Piani Sanitari, finalizzati all’eliminazione degli squilibri esistenti nei servizi e nelle prestazioni nel territorio regionale.
I comuni, infine, hanno competenze attuative nel campo dell’assistenza sanitaria e ospedaliera, ossia spetta ad essi l’effettiva erogazione del servizio.
Il risultato è la creazione di tre livelli decisionali gerarchicamente subordinati e di un unico centro di gestione, le USL (Unità Sanitarie Locali), cui fanno capo tutte le strutture presenti in un determinato territorio. L’USL è un organismo che deve provvedere a tutti gli interventi necessari alla prevenzione, cura e riabilitazione. Esse sono deputate ad assolvere i compiti del SSN ed a provvedere alla gestione unitaria della tutela della salute. È una struttura operativa dei comuni, singoli o associati, nelle comunità montane; amministrata dall’assemblea generale, costituita dal consiglio comunale.
Il fallimento del modello, che ha portato a riforme negli anni successivi, è dovuto all’ambiguità dell’unità sanitaria locale, tra ente ed azienda.
Pertanto tale fallimento è da imputare al sistema di finanziamento del servizio, che non ha previsto un rigoroso controllo della spesa pubblica.
Il sistema a cascata dell’art. 51 della legge 833/1978 prevede che il SSN fosse finanziato con un fondo sanitario nazionale, alimentato dallo Stato; il fondo doveva essere suddiviso poi tra le Regioni. Queste poi avrebbero assegnato tramite una legge regionale, una quota a ciascuna USL.
Questa impostazione top-down corrisponde ad un modello tributario fortemente accentrato e ad un’idea nazionale del sistema sanitario. Mancano controlli incisivi
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sulla gestione dei fondi stanziati dallo Stato e, responsabilità in caso di eccesso di spesa.
Il connubio tra l’affermazione della globalità e della gratuità di qualunque prestazione sanitaria e un sistema di finanziamento a cascata dei finanziamenti che finisce per deresponsabilizzare tutti e per appesantire la finanza pubblica. Tra gli anni settanta e ottanta la spesa pubblica in ambito sanitario crebbe esponenzialmente, diventando una criticità che porta, nel corso degli anni novanta, a riforme rigoriste.
1.1.2 Il Decreto 502 del 1992
La risposta all’insostenibilità del sistema di finanziamento e ai problemi del SSN è la riforma 502/1992.
Essa insegue sostanzialmente tre principi:
L’aziendalizzazione
L’orientamento al “mercato”
La distribuzione di responsabilità alle Regioni
L’aziendalizzazione con la 502/1992
Le USL vengono dotate di personalità giuridica in quanto aziende, i cui organi di rappresentanza sono il direttore generale e il collegio dei revisori (ed ulteriori figure). Il direttore generale ha potere gestionale e di rappresentanza legale. È coadiuvato da un direttore sanitario e da un direttore amministrativo. Il Direttore Generale è nominato dal presidente della Giunta regionale, e i suoi doveri sono il buon andamento economico-amministrativo e tecnico-funzionale per i cinque anni in cui è in carica.
Il collegio dei revisori, nominato invece dal direttore generale da una lista di membri designati da altri enti (ministero competente, sindaco, regione), si occupa
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di verificare la tenuta della contabilità, la risultante delle scritture contabili ed esamina il bilancio di previsione.
Il mercato libero
Viene prevista l’intramoenia per la libera professione dei medici, e circa il 10% delle camere presentano servizi aggiuntivi dietro un corrispettivo pagamento a carico del paziente.
Regionalizzazione
Le USL, ridotte di numero e non riferendosi più ai comuni, vengono delegate direttamente dalla regione che li sostiene economicamente. La regione non può più avvalersi sullo Stato per i propri disavanzi, per cui le responsabilità ricadono sulla governance della singola azienda “figlia della regione”.
Nuovo modello di finanziamento
Lo Stato, attraverso il Piano Sanitario Nazionale, (stabiliti i livelli essenziali di assistenza) definisce, in base ai bisogni dei cittadini e alle risorse disponibili (ricavate dalla fiscalità generale), una programmazione economica per distribuire alle regioni una quota capitaria.
La regione, in seguito ad un proprio piano sanitario regionale, distribuisce queste risorse alle aziende.
In caso di richieste di ripianamenti di disavanzi da parte delle aziende, le regioni possono avvalersi di strumenti di finanziamento quali l’uso di proprie risorse economiche e dei contributi sanitari IRAP, oltre alle entrate dirette delle strutture (ticket).
Un ulteriore cambiamento: vengono istituiti i dipartimenti
Un dipartimento è una federazione di reparti affini e complementari secondo settore specialistico o specifico bisogno del paziente. Lo scopo è quello di
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organizzare e ottimizzare al meglio le risorse strutturali e umane, migliorando il servizio al cittadino e riducendo i costi.
1.1.3 La riforma Bindi D.lgs. 299/99 e la modifica del Titolo V della Costituzione
La Riforma Bindi introduce ulteriori modifiche all’impianto precedente. Sul piano istituzionale, viene completato il processo di regionalizzazione avviato in modo confuso nel 1992; in armonia con l’evoluzione federalista dello Stato, il SSN è definito come il sistema delle funzioni e dei servizi sanitari regionali. L’elemento unificante, grazie al quale il Servizio sanitario mantiene il suo
carattere nazionale è rappresentato dai Livelli essenziali di assistenza5.
Si assiste ad un coinvolgimento delle autonomie locali nella programmazione sanitaria e nella verifica del raggiungimento degli obiettivi dalla salute, infatti i poteri delle Regioni sono bilanciati da nuove responsabilità degli enti locali chiamati a partecipare a tutti i livelli della programmazione.
Si evidenzia inoltre l’istituzione presso il Ministero della Salute della Commissione per la formazione permanente e l’affermazione dell’esclusività del rapporto di lavoro dei professionisti sanitari.
Sul piano organizzativo, la riforma conferma il principio dell’aziendalizzazione, ma precisa il ruolo delle ASL rafforzandone le finalità pubbliche. Definisce i rapporti tra pubblico e privato sostituendo alla logica della concorrenza quella del fabbisogno e dell’integrazione attraverso un sistema di accreditamento che pone le strutture pubbliche e private sullo stesso piano in modo da competere non per produrre maggiori prestazioni ma per garantire una maggiore qualità delle prestazioni. Infine valorizza l’assistenza primaria e territoriale con la creazione dei distretti chiamati a garantire la continuità assistenziale e l’integrazione tra i servizi sociali e sanitari. Tuttavia la maggior parte dei decreti attuativi della
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riforma Bindi, che avrebbero dovuto darle concretezza non vennero mai approvati, facendo sì che l’impianto complessivo della riforma rimase in gran parte disatteso.
In tale contesto è intervenuta la Legge Costituzionale del 18 ottobre 2001, in modifica del Titolo V della parte seconda della Costituzione, che riconosce alle Regioni la potestà di determinare in modo autonomo le modalità di reperimento delle risorse finanziarie di cui necessitano per perseguire le finalità loro affidate. In questo modo si enfatizza l’autonomia d’entrata degli enti locali, attribuendo loro la possibilità di applicare propri tributi.
Tuttavia se i principi generali non vengono chiaramente determinati, le competenze rimangono sovrapposte, gli ambiti di responsabilità sfumati e le autonomie poco definite, è ragionevole supporre che tale riforma tenderà ad aumentare le differenze tra Regioni in relazione ai servizi erogati, con il rischio quindi che il federalismo fallisca.
A seguito della riforma costituzionale, infatti, le disuguaglianze sociali nella salute si presentano intense e in crescita ed investono anche il profilo istituzionale del sistema sanitario, dal momento che le Regioni stanno sperimentando una pluralità di soluzioni organizzative che si fondono su scelte significativamente diverse.
L’obiettivo quindi di garantire l’equità nella distribuzione della salute, nelle risorse, nell’organizzazione e nella qualità dell’assistenza, può essere raggiunto attraverso una forte coordinazione tra tutti gli attori coinvolti ad al contempo assicurare un livello uniforme nelle prestazioni sanitarie a prescindere dalle differenze sociali ed economiche che caratterizzano il nostro Paese.
1.1.4 L’innovazione organizzativa nelle aziende sanitarie: il potenziamento delle funzioni di staff e l’introduzione dei modelli dipartimentali
Le aziende sanitarie hanno posto maggiormente attenzione sulle finalità del servizio, tralasciando l’aspetto organizzativo.
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Le recenti riforme del servizio sanitario nazionale forniscono alle regioni e alle aziende molti strumenti di intervento per l’avvio di profondi processi di riorganizzazione, con un approccio che mette sempre più in luce la centralità degli aspetti organizzativi nel cambiamento del sistema e nel successo della riforma stessa.
La logica universalizzante della L. 833/78 aveva configurato un sistema in cui il primo principio da rispettare era la garanzia di un servizio unico ed omogeneo su tutto il territorio nazionale. Le USL erano mere articolazioni territoriali del sistema e, in un’ottica di definizione ex ante del modello, si presentavano con assetti organizzativi identici (almeno formalmente) all’interno della stessa regione e molto simili anche tra regioni diverse.
Questa standardizzazione dei modelli organizzativi era la diretta conseguenza di una volontà di costruzione di un SSN forte, cioè di un unico “contenitore” istituzionale all’interno del quale risolvere la frammentazione e la eterogeneità dell’offerta sanitaria ereditata dai precedenti enti mutualistici.
Se da un lato questa volontà universalista ha avuto il grande merito di far nascere un sistema sanitario pubblico più forte ed omogeneo, dall’altro essa ha creato un divario, sempre più crescente, tra l’assetto formale e quello reale del sistema stesso. Dietro l’apparente omogeneità dei modelli organizzativi formali, infatti, le singole realtà locali hanno realizzato e progressivamente sviluppato sul territorio modelli di offerta dei servizi e di gestione della spesa sanitaria molto diversi tra loro.
Con le novità introdotte dai decreti 512/92 e 517/93 e ribadite dal decreto 229/99, si è riconosciuto ai singoli elementi del sistema (regioni, aziende sanitarie pubbliche e private, università e istituti di ricerca) il diritto-dovere di definire il proprio ruolo, le proprie strategie di sviluppo, il proprio assetto organizzativo. Assegnando maggiore responsabilità alle regioni e istituendo aziende sanitarie dotate di autonomia strategica, organizzativa e patrimoniale, si è riconosciuta la necessità di colmare il divario preesistente tra assetto formale e assetto reale; i
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modelli organizzativi non sono predeterminati e tutti uguali ma possono essere configurati in funzione delle esigenze locali.
All’interno dei vincoli istituzionali del SSN (normativi, di bilancio, di salvaguardia dei principi di servizio pubblico), le aziende sanitarie godono di
ampia autonomia nella definizione del proprio assetto organizzativo6.
L’autonomia implica quindi la capacità da parte delle aziende di formulare delle
scelte organizzative in funzione di esigenze locali e contingenti7.
Lo strumento generale utilizzato dalle aziende sanitarie per avviare processi di riorganizzazione è il Piano di Organizzazione, il quale deve accrescere le risorse e le condizioni organizzative per il raggiungimento degli obiettivi aziendali e al tempo stesso ridurre i vincoli e le criticità organizzative.
Rispetto al Piano Strategico, che chiarisce in modo globale finalità, obiettivi e risorse aziendali, il Piano di Organizzazione approfondisce gli aspetti connessi alla dimensione organizzativa, in modo da assicurare la coerenza tra gli orientamenti e gli obiettivi strategici da un lato e la struttura dall’altro.
Non sempre le Regioni hanno previsto il Piano di Organizzazione come principale strumento di organizzazione. È il caso, ad esempio, della Regione Toscana (L. R. n. 72/98) per la quale tutte le scelte relative allo sviluppo dei servizi e delle attività delle aziende sanitarie devono essere contenute nel Piano Attuativo Locale (così viene definito il documento di programmazione strategica triennale dell’azienda), e poi si avvale del Regolamento Generale.
Ovviamente, per portare a compimento il processo non è sufficiente il Piano; per dare attuazione ai diversi interventi di riorganizzazione sarà necessario di volta in volta elaborare specifici documenti o strumenti operativi aventi una forte valenza organizzativa.
Due forme di innovazione di particolare rilievo in ambito sanitario sono:
6 Ruffini, 1996
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1. Il potenziamento delle funzioni di staff 2. L’introduzione di modelli dipartimentali
1. L’introduzione di nuove funzioni e uffici di staff nelle aziende sanitarie è un’innovazione che riguarda principalmente la parte alta dell’organigramma aziendale, vale a dire la Direzione Generale, intesa in senso ampio come insieme delle tre figure di Direttore Generale, Direttore Amministrativo e Direttore Sanitario, dalla cui attività individuale e collegiale dipende per buona parte il governo e lo sviluppo dell’azienda.
In genere lo staff è alle dipendenze della Direzione Generale per tutte quelle funzioni che riguardano l’intera azienda e non sono strettamente collocabili in area amministrativa o sanitaria (es. pianificazione strategica, marketing, sviluppo organizzativo, qualità), mentre può essere alle dipendenze del Direttore Amministrativo o del Direttore Sanitario per funzioni specifiche. In alcuni casi (Regione Toscana, ad esempio) tutta l’attività di Direzione Generale e di staff di supporto alle tre direzioni confluisce in un’unica area definita Centro Direzionale dell’Azienda, cui fanno capo anche i servizi amministrativi e tecnici centralizzati.
2. L’organizzazione Dipartimentale8 ha fatto il suo ingresso nuovamente in
Sanità in questi ultimi anni, benchè il concetto di dipartimento fosse già
presente nella L.128/699.
L’idea che un’aggregazione di reparti ospedalieri in un’unica struttura sia funzionale al miglioramento dell’assistenza non presenta quindi un carattere particolarmente innovativo.
Tuttavia, è soltanto con l’aziendalizzazione delle USL e i conseguenti processi di riorganizzazione che il modello dipartimentale si configura concretamente
8 Per dipartimento s’intende: “un insieme di Unità Operative affini, omogenee e complementari che
funzionano sulla base di obiettivi, regole e/o risorse comuni”; linee guida redatte dell’Agenzia per i Servizi Sanitari Regionali; ASSR,1996.
9 Il D.P.R. 128/69 sancisce l'obbligo, da parte del Direttore Sanitario, della gestione dell'archivio sanitario e
della vigilanza sul suddetto archivio. Il D.P.R. 128/69 definisce anche che la cartella clinica, unitamente ai relativi referti, deve essere conservata illimitatamente in quanto rappresenta un atto ufficiale
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come soluzione più idonea all’organizzazione delle aziende sanitarie, e non soltanto in ambito ospedaliero.
Vi sono diverse razionalità sottostanti l’aggregazione di Unità Operative:
Una razionalità economica, giacchè è ampiamente dimostrato che a parità
di risorse l’aumento dei volumi di produzione riduce il costo medio; è il principio delle economie di scala che in sanità può essere particolarmente rilevante in quei casi in cui si ha una duplicazione di risorse (attrezzature, posti letto, materiali di consumo, personale) tra Unità Operative che svolgono la stessa attività; mettere in comune tutte o parte di tali risorse comporta una maggiore efficienza data dalla flessibilità nell’uso e dalla riduzione di costi fissi;
Una razionalità assistenziale, connessa al fatto che l’aggregazione di unità
operative può risolvere meglio il problema dell’interdipendenza dei processi produttivi. Questo è evidente per quelle Unità Operative complementari che gestiscono fasi diverse di uno stesso percorso diagnostico-terapeutico e possono in tal modo integrare meglio l’offerta in funzione della domanda. Ma il dipartimento può altresì aumentare la qualità dell’offerta, laddove integrando Unità Operative simili, innesca un processo di selezione e/o di differenziazione, che può favorire la specializzazione o l’ampliamento delle attività (si pensi a un dipartimento di chirurgi generale in cui le singole Unità che in precedenza svolgevano la stessa attività si specializzano nel trattamento di patologie diverse o al caso in cui una di esse si trasforma in Unità di Day Surgery);
Una razionalità scientifica, nel senso che il dipartimento rende possibile il
confronto tra professionisti, l’ampliamento complessivo della casistica, la possibilità di mettere i comune risorse per svolgere attività di ricerca, sperimentazione, aggiornamento e formazione altrimenti difficilmente gestibile all’interno di una singola Unità Operativa. Allo stesso modo, il Dipartimento può essere il livello di riferimento per la definizione di
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guida aziendali e percorsi diagnostico-terapeutici aziendali definiti sulla base dell’evidenza;
Una razionalità organizzativo-operativa, spesso trascurata, ma che può
rivelarsi essere la più importante nel processo di cambiamento attualmente in atto, e che attiene ai vantaggi derivanti da una più precisa attribuzione di responsabilità e a una maggiore integrazione nella soluzione di problemi comuni a più Unità Operative. L’esempio può essere quello dello sviluppo delle attività di Day Hospital/Day Surgery, che traggono vantaggio dalla messa in comune di spazi e risorse comuni, della gestione di spazi per la libera professione o per attività ambulatoriali, dalla definizione di procedure comuni di integrazione ospedale-territorio.
Una razionalità relazionale, infine, è il requisito indispensabile affinchè
tutte le relazioni precedentemente dette possano trovare applicazione. Per quanto riguarda la forma dipartimentale dobbiamo distinguere tra:
modelli dipartimentali “forti” e modelli dipartimentali “deboli”10.
I primi sono quelli in cui tutte le Unità Operative aziendali, siano esse reparti ospedalieri, servizi tecnico-amministrativi, servizi diagnostici o territoriali, unità di staff, confluiscono in un dipartimento.
Nella macrostruttura aziendale il dipartimento diventa la struttura organizzativa cardine, il primo livello di direzione all’interno del quale ricadono tutti i livelli inferiori. In un modello dipartimentale “forte” di tipo puro ogni unità organizzativa appartiene ad uno e ad un solo dipartimento.
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Figura 1 - Il modello dipartimentale “forte”
Nel modello dipartimentale “debole” l’aggregazione di Unità Operative in Dipartimenti non è estesa a tutta l’azienda; si assiste quindi alla copresenza dei dipartimenti e di altre strutture organizzative di primo livello; in alcuni casi si tratta di una fase intermedia di sviluppo organizzativo, durante la quale la
dipartimentalizzazione è stata avviata sperimentalmente in alcune aree aziendali e si prevede di estenderla progressivamente, in caso di successo, all’intera
organizzazione.
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Un ulteriore distinzione si ha tra i modelli dipartimentali “verticali” e i modelli dipartimentali “orizzontali”. Quest’ultima è legata alla localizzazione fisica delle Unità Operative aggregate nella stessa struttura o in strutture diverse; la questione concerne principalmente i dipartimenti ospedalieri nel caso in cui l’azienda disponga di più presidi, come è generalmente il caso nelle aziende USL.
Ad esempio, nel caso di un’azienda con quattro presidi ospedalieri, possiamo avere dei dipartimenti verticali di presidio, che aggregano cioè unicamente U.O. appartenenti a quell’ospedale (un dipartimento di Medicina che aggrega tutte le U.O. mediche, un dipartimento di Chirurgia che aggrega tutte le U.O. chirurgiche), e dipartimenti orizzontali che aggregano U.O. di presidi diversi (un dipartimento di Diagnostica per immagini che aggrega le radiologie di tutti e quattro i presidi, un dipartimento Cardio-Vascolare che aggrega servizi diagnostici, U.O. mediche e riabilitative di presidi diversi).
La scelta tra l’uno e l’altro modello dipende da elementi contingenti e da priorità strategiche della singola azienda: il dipartimento verticale rafforza l’integrazione all’interno dei presidi (ad esempio l’uso comune di posti letto, personale, attrezzature) ma può aumentare l’isolamento delle strutture, a scapito dell’omogeneità di trattamento dei pazienti e dell’uso efficiente di risorse; il dipartimento orizzontale spinge l’organizzazione verso logiche di rete, che favoriscono la specializzazione o la cooperazione intra/interaziendale delle strutture ospedaliere.
Ovviamente è sempre possibile per un’azienda avere entrambe le forme e, a seconda delle esigenze, istituire sia dipartimenti del primo tipo che del secondo.
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Figure 3 – Dipartimenti verticali e orizzontali
Un’altra distinzione importante è tra dipartimento “strutturale” e “funzionale”.
Quanto più le Unità Operative mettono in comune le risorse (personale, attrezzature, posti letto), quanto più il responsabile di dipartimento assume un ruolo di direttore e gestore di tale risorse, tanto più il dipartimento assume una valenza di “struttura”, in cui si richiede un livello di integrazione interna e di responsabilità direttive molto elevato.
Il dipartimento “funzionale” è, invece, più finalizzato alla definizione di obiettivi congiunti e alla realizzazione di forme di coordinamento che non necessariamente richiedono un’alta comunanza di risorse o una figura di direttore.
Pertanto mentre un’Unità Operativa può teoricamente appartenere a più dipartimenti funzionali, in quanto pur definendo programmi e obiettivi comuni con le altre U.O. mantiene comunque la titolarità delle risorse e l’autonomia di gestione dei fattori produttivi, non è possibile che appartenga a più dipartimenti strutturali.
1.1.5) Evoluzione e tassonomia dei modelli organizzativi ospedalieri
Per capire come siamo giunti ad oggi, mi è sembrato interessante fare una breve riesamina di quelle che sono state le principali forme organizzative a partire dalle prime fonti del 1300.
Nel 1348, in occasione della peste, nascono a Venezia e Firenze i primi “Uffici di Sanità”.
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Le prime “Magistrature permanenti di sanità” vengono istituite a Milano, Venezia e Firenze intorno alla metà del 400.
Nel 700 nascono le prime forme di mutualismo sanitario.
Nel 1890 entra in vigore la Legge Crispi, la quale prevede l’abolizione delle
Opere Pie11 e l’istituzione di ospedali come Enti autonomi, finanziati e regolati
dallo Stato che assume la competenza della Sanità Pubblica.
Nel 1943: legge 138, rende obbligatoria l’assicurazione sociale di malattia dei lavoratori dipendenti, fino a quel tempo su base volontaria. Restano esclusi i non lavoratori.
Le istituzioni mutualistiche garantiscono sia l’assistenza sanitaria generica e specialistica, sia quella ospedaliera.
Nel 1958 viene istituito il Ministero della Sanità. In ogni Provincia un Ufficio del Medico provinciale e del Veterinario Provinciale alle dirette dipendenze del Ministero. L’Ufficiale sanitario del Comune, che pure continua a dipendere dal sindaco, diviene organo periferico del Ministero.
Negli anni a seguire, l’assistenza sanitaria viene erogata a quasi tutta la popolazione italiana attraverso enti assicurativi di malattia che, oltre che con propri funzionari, vi provvedono tramite convenzione con medici condotti e liberi professionisti. Si tratta di enti dotati di personalità giuridica e con gestione autonoma. Con tale organizzazione si vengono a creare una pluralità di enti mutualistici e previdenziali, erogatori diretti ed indiretti di prestazioni sanitarie determinando un diversificato accesso alle prestazioni. La risposta a tale problematica è la liquidazione di tutti gli Enti mutualistici e la creazione di un Servizio Sanitario Nazionale.
11 Le Opere Pie sono definite come istituzione di assistenza e/o beneficenza tipica dell’Italia, che si incarica
di “prestare assistenza ai poveri, tanto in stato di sanità quanto di malattia, di procurarne l’educazione, l’istruzione, l’avviamento a qualche professione, arte o mestiere, od in qualsiasi altro modo il miglioramento morale ed economico
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Gli ospedali costituiscono il più alto livello di attività diagnostico-terapeutico. Nella grande maggioranza dei casi fanno capo ad Enti di Assistenza e beneficenza, con propri statuti ed amministratori. Sono privi di una visione unitaria e di un’organizzazione per livelli di complessità.
Con la Legge 132 del 1968, Ministro Mariotti, viene riformato il sistema ospedaliero che prevede la costituzione di Enti ospedalieri, governati da un Consiglio di Amministrazione e definiti nella loro struttura in relazione a livelli di competenza:
Regionale/altissima specialità
Interprovinciale/alta complessità
Provinciali/media complessità
Di comunità/di base
Tale riforma prevede l’affidamento alle Regioni della direzione effettiva di tutta l’attività ospedaliera grazie al decentramento dei compiti in materia di assistenza ospedaliera.
Con la Legge 23.12.1978, n. 833, lo Stato incamera 1207 Enti Ospedalieri; assorbe gli enti mutualistici e le loro attività; crea 657 USL e offre a tutti un Servizio Sanitario Nazionale:
-assistenza medica di base; -assistenza ospedaliera; -assistenza specialistica; -assistenza farmaceutica
La riforma “833” ha portato una serie di innovazioni, sotto il profilo tecnico, politico, economico ed istituzionale.
Per quanto riguarda le innovazioni tecniche, si assiste all’unificazione degli enti che assicuravano prevenzione, assistenza e riabilitazione, ponendo come
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obiettivo la prevenzione e al potenziamento dei servizi assistenziali di primo livello nel Distretto Sanitario.
Sotto il profilo politico adempie al principio di uguaglianza e si ha un decentramento dei poteri a livello regionale e locale.
Sotto il profilo economico, si adotta una programmazione nazionale; si ci focalizza sul recupero dell’efficienza istituendo una rete di controlli economico-finanziari.
Le innovazioni istituzionali riguardano la classificazione degli organi; vi è lo Stato; la Regione e i Comuni con le relative USL, espressione di quest’ultime e si occupano della gestione dell’offerta sanitaria.
Con la riforma 502/92 le aziende vengono dotate di autonomia e personalità pubblica, le USL si trasformano in ASL; il finanziamento è correlato alla quota capitaria e a tariffa; viene introdotto il concetto di aziendalizzazione. Il manager alla guida del sistema operando nel rispetto dei principi di efficacia, efficienza ed
economicità; organizzato per raggiungere obiettivi di salute12.
1.2 Meccanismi di finanziamento del Sistema Sanitario Italiano
In Italia, il sistema di finanziamento delle aziende sanitarie pubbliche fino ai primi anni ’90, prevedeva assegnazioni a preventivo che si basavano tipicamente sulla spesa storica ed erano accompagnate da periodici e garantiti ripiani dei disavanzi a livello nazionale e regionale.
Con la prima riforma del SSN (D.lgs. 502/1992 e 517/1993) sono stati introdotti i primi meccanismi di quasi-mercato e si è quindi assistito ad un sostanziale, anche se graduale, cambiamento: da una logica di finanziamento dei fattori della produzione e dei livelli di offerta, e quindi della spesa storica, ad un modello di
12 Art. 32 della Costituzione Italiana: la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo
e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti.
Nessuno può essere sottoposto ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana
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assegnazione delle risorse basato, oltre che sul bisogno di assistenza (quota capitaria), sui livelli di produzione (sistema tariffario).
Questa modifica rappresenta un’innovazione molto rilevante che ha
caratterizzato i processi di riforma della sanità nei principali Paesi Europei13.
Alle Regioni è stata lasciata la facoltà di modulare la combinazione tra i due criteri di finanziamento ed eventualmente di integrarli con logiche di finanziamento per funzione (per riconoscere l’esigenza di remunerare delle attività specifiche, indipendentemente dalle prestazioni erogate) e di riequilibrio
(per attenuare gli effetti redistributivi del nuovo sistema di finanziamento)14.
Ma, solo con il D.lgs. n. 56/2000 si è tenuto una più organica revisione del modello di finanziamento della salute, soprattutto al fine di responsabilizzare maggiormente regioni ed enti locali nelle politiche di spesa, tenuto conto anche delle accresciute competenze attribuite loro sul piano organizzativo.
L’approvazione della L. delega n. 42/2009 sembrerebbe finalmente aver dato avvio a nuove prospettive, che hanno trovato una prima attuazione negli otto decreti legislativi entrati in vigore, e soprattutto nel D.lgs. n. 68/2011.
La legge statale determina annualmente il fabbisogno sanitario, ossia il livello complessivo delle risorse del Servizio Sanitario Nazionale al cui finanziamento concorre.
Come in altri mercati, nel Sistema Sanitario si scambiano beni e prestazioni di servizi contro moneta; ma ciò che rende peculiare la sanità è che a pagare, al momento dell’uso, non è sempre il diretto beneficiario, ma molto spesso un “terzo pagatore”.
Spesso, infatti, è una compagnia assicurativa che regola i conti con la clinica e, ancora più spesso, è lo Stato che paga la clinica accreditata. Ma, a loro volta, sia l’assicurazione che lo Stato avevano riscosso dei fondi dall’attuale beneficiario.
13 E. Cantù, C. Carbone, I sistemi di finanziamento: strumenti per governare i comportamenti degli erogatori
di prestazioni sanitarie? Rapporto di ricerca del CERGAS Bocconi per il Gruppo Merceologico Sanità di Assolombarda, 2007
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Quindi, in sanità, bisogna distinguere tra fonti originarie e fonti derivate di finanziamento, ovvero chi sopporta l’onere e chi paga, in concreto, gli erogatori di prestazioni.
Essendo il SSN organizzato su più livelli, il termine “finanziamento” può essere ambiguo perché può riferirsi a quattro momenti diversi:
Il prelievo fiscale
L’allocazione delle risorse alle Regioni
L’allocazione delle risorse alle ASL
Le fonti originarie di finanziamento sono le famiglie e le imprese, ovvero le due categorie che producono reddito. Le famiglie pagano le imposte, tasse e prezzi per la sanità, ma sono anche le beneficiarie dirette delle prestazioni sanitarie. Le imprese, invece, finanziano la sanità tramite l’Irap, pur ricavandone solo un vantaggio limitato.
Lo Stato, che effettua il prelievo fiscale, è considerato la fonte primaria di finanziamento; mentre le Regioni, che raccolgono (direttamente o dallo Stato), e
trasferiscono i fondi alle ASL, sono definite le fonti derivate15.
Nell’analisi dello scenario competitivo del settore sanitario risultano fondamentali le modifiche apportate ai sistemi di finanziamento di ASL e Aziende Ospedaliere che, oltre all’obbligo di raggiungere il pareggio di bilancio (parità tra costi e ricavi), sono tesi ad incentivare comportamenti orientati
tendenzialmente a migliorare le performances delle unità economiche sanitarie16.
Per ogni esercizio finanziario, in relazione al livello del finanziamento del SSN stabilito per l’anno di riferimento, al livello delle entrate proprie, ai gettiti fiscali, è determinato, a saldo, il finanziamento a carico del bilancio statale nelle due componenti della compartecipazione IVA e del Fondo Sanitario Nazionale.
15 V. Mapelli, Il Sistema Sanitario Italiano, Il Mulino, Bologna 2012
16 L. Marinò, Dinamiche competitive ed equilibrio economico nelle aziende sanitarie, Giuffrè editore, Milano
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La composizione del finanziamento del SSN è evidenziata nei cosiddetti “riparti” (assegnazione del fabbisogno alle singole Regioni ed individuazione delle fonti di finanziamento) proposti dal Ministero della Salute sui quali si raggiunge un’intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni e che sono poi recepiti con propria delibera dal Comitato interministeriale per la programmazione economica
(CIPE)17.
A seguito della riforma sanitaria e dei successivi interventi legislativi verso il federalismo fiscale, l’ente regionale assume il ruolo di capogruppo del sistema sanitario locale, ossia, di soggetto diretto ad orientare e coordinare, attraverso la definizione di specifici meccanismi e strumenti di governo di tipo aziendale, le scelte, il comportamento ed i risultati delle aziende operanti nel proprio territorio. Più in particolare, alla luce dell’attuale normativa in materia, l’ente regionale è chiamato a definire la struttura del gruppo sanitario, sia a livello macro che micro. A livello macro, attraverso l’individuazione del numero e della dimensione delle ASL e delle AO che lo compongono, nonché, attraverso la determinazione dei criteri di finanziamento di queste e delle modalità di erogazione del servizio. A livello micro, invece, mediante la definizione dell’organizzazione e delle
modalità di funzionamento delle aziende sanitarie18. Spetta, quindi, alle Regioni
il compito di allocare le risorse finanziarie destinate all’assistenza sanitaria (FSN) fra le aziende operanti nel gruppo.
Le Aziende Sanitarie Locali, in base a quanto previsto dal D.lgs. n. 229/1999, devono essere finanziate dall’ente Regione attraverso il meccanismo della quota
capitaria19, in relazione alle caratteristiche della popolazione residente, sulla base
di parametri coerenti con quelli fissati dalla legge 662/1996, riguardante il trasferimento delle risorse dal Fondo Sanitario Nazionale alle Regioni.
17 Ministero della Salute, <http://www.salute.gov.it/portale/salute>
18 A. Zangrandi, Quale ruolo per le Regioni? MECOSAN, n. 7, 1993; E. Borgonovi, Le aziende del SSN e il
processo manageriale incompiuto, MECOSAN, Numero Speciale n. 85, Luglio 2013
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Alla base delle scelte del legislatore è posto il principio di equità, quale presupposto indispensabile per garantire l’efficienza e il funzionamento del SSN, in quanto nell’ambito di un territorio nazionale, così come tra le diverse ASL di una regione, l’allocazione delle risorse economiche deve tendere a garantire a tutti i cittadini l’uguale possibilità di accedere ai servizi e di beneficiare delle risorse che il settore pubblico dedica alla sanità. Difatti, tale concetto è stato ribadito anche dagli aziendalisti tradizionali che hanno considerato l’efficienza l’equità i criteri a cui fare riferimento per la ripartizione delle risorse in sanità e, tra i diversi modelli di finanziamento, hanno indicato il meccanismo della quota capitaria ponderata come l’unico in grado di consentire il raggiungimento di
entrambi gli obiettivi20.
Oltre alla quota parte del Fondo Sanitario Regionale, le ASL possono contare su ulteriori entrate, quali: lasciti; donazioni o rendite; i ticket sulle prestazioni diagnostiche e specialistiche; i proventi di eventuali prestazioni a pagamento o derivanti dall’attività libero-professionale degli operatori sanitari dell’azienda; gli introiti conseguenza degli atti di disposizione dei beni patrimoniali. Infine, per esigenze economiche, le aziende sanitarie possono ricorrere anche al credito, in particolare mediante l’accensione di mutui (da ammortizzare entro un periodo massimo di dieci anni), mentre alle esigenze di liquidità possono far fronte mediante l’anticipazione di cassa da parte della tesoreria.
Passando alle AO e ai presidi ospedalieri non costituiti in aziende, le prestazioni fornite dagli stessi sono finanziate dalla Regione secondo un peculiare sistema di remunerazione a tariffa , il cosiddetto Drg (Diagnosis-Related Group) o Rod (raggruppamento omogeneo di diagnosi), secondo criteri uniformi su tutto il territorio nazionale; tali strumenti non si basano esclusivamente sui giorni di degenza ma tengono conto di un insieme di prestazioni fornite all’individuo per l’assistenza ospedaliera.
20 N. Falcitelli, M. Trabucchi, F. Vanara, Il governo dei sistemi sanitari tra programmazione, devolution e
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Le tariffe sono state determinate per la prima volta con d.m. 14 dicembre 1994, superato dalla legge n. 133/2008, che fissa nuovi criteri, più restrittivi, alla remunerazione delle tariffe, da individuarsi con un nuovo decreto ministeriale. Ulteriori restrizioni e indicazioni sono contenute nel Patto per la Salute 2010. Oltre alla remunerazione a tariffa, le strutture ospedaliere possono contare anche su una quota parte del Fondo Sanitario Regionale attribuisca per le spese gestionali e su entrate proprie, quali quelle afferenti a eventuali servizi a
pagamento, nonché all’attività intramoenia dei propri operatori21.
1.2.1 Modalità di finanziamento
Con la regionalizzazione del SSN, nell’ambito di un sistema sanitario regionale, le modalità di finanziamento delle strutture sanitarie (ASL e AO) sono basate prevalentemente su due modelli:
Modello della quota capitaria (soprattutto per quanto concerne le ASL)
Modello tariffario per prestazione (per le Aziende Ospedaliere).
1.2.2 Modello della quota capitaria e modello tariffario per prestazione Modello della quota capitaria
Secondo tale modello, le Regioni attribuiscono a ciascuna ASL un finanziamento determinato su base capitaria e secondo i parametri ritenuti più opportuni (ad es. in base alla popolazione residente). L’ASL ha una capacità di spesa che è funzione del numero di assistiti residenti nell’area di riferimento dell’ASL stessa. Il meccanismo di finanziamento capitario assume connotazioni differenti da Regione a Regione; ciò che varia è la scelta dei parametri di ponderazione della quota capitaria.
La quota capitaria può essere:
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Semplice: risponde all’intento di garantire uguali risorse a ciascun
individuo, indipendentemente dal suo bisogno di assistenza. La ripartizione del fondo per l’assistenza sanitaria viene effettuata tenendo conto della numerosità delle popolazioni considerate.
Ponderata: ponderando la popolazione in relazione ad indicatori del
relativo livello di bisogno sanitario e, quindi, della potenziale domanda di assistenza, in relazione alle caratteristiche epidemiologiche, demografiche e sociali.
I parametri di ponderazione, un po’ come avviene per la quota capitaria in base alla quale si procede al riparto del FSN fra le Regioni, di norma sono rappresentati:
Dalla composizione per età e sesso della popolazione (consumi sanitari in
base alle caratteristiche demografiche)
Dalla mobilità infraregionale
Da alcune risultanze epidemiologiche ove indagate (ad es. carico di
patologie presenti in una popolazione)
Dalla tipologia dei servizi sanitari offribili
Dai bisogni sanitari della popolazione residente nel territorio
In ogni caso, la quota capitaria tende a garantire l’equità nell’eccesso ai servizi sanitari a parità di bisogno e a tenere sotto controllo la dinamica della spesa sanitaria.
L’insieme delle risorse che la Regione attribuisce alla singola ASL mediante la quota capitaria, dovrebbe permetterle di erogare un pacchetto di servizi almeno corrispondente ai Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) definiti dal Piano Sanitario Nazionale (PSN). A tal fine, perciò, i fondi assegnati saranno utilizzati da ogni azienda ASL sia per produrre le prestazioni, avvalendosi di proprie strutture ospedaliere ed ambulatoriali, sia per provvedere al pagamento delle tariffe alle strutture esterne all’ASL (Aziende Ospedaliere e privati accreditati) che hanno erogato prestazioni ai suoi residenti. Ed è in
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questo caso che le ASL acquistano servizi da altre strutture sanitarie pagando le prestazioni sulla base di tariffe determinate dalla Regione. Infatti, il modello adottato dalla quasi totalità delle Regioni Italiane è quello in cui le ASL sono allo stesso tempo acquirenti e produttori di servizi sanitari.
Difatti, ogni ASL riceve un finanziamento per assicurare i livelli di assistenza essenziali tramite:
Le proprie strutture ospedaliere (uno o più presidi ospedalieri
dell’ASL)
Le proprie strutture distrettuali
Le proprie strutture di prevenzione
Le altre aziende sanitarie pubbliche e private del Servizio Sanitario
Regionale con le quali stipula accordi contrattuali e convenzionali È in quest’ultimo caso che le ASL sono acquirenti di servizi sanitari pagando attraverso il meccanismo tariffario, cioè l’acquisto delle prestazioni avviene dietro pagamento delle stesse in base a tariffari regionali.
Modello tariffario per prestazione
A partire dalla seconda metà degli anni Novanta è stato introdotto un sistema di finanziamento tramite tariffe per prestazione. Si tratta di un sistema di remunerazione basato su tariffe determinate a priori, applicabile:
Per le prestazioni di specialistica ambulatoriale
Per le prestazioni fornite in regime di ricovero (degenza ordinaria