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Academic year: 2021

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CAPITOLO 4

Gli ungulati selvatici: l’allevamento, la carne, il

consumo.

A partire dagli anni Sessanta il miglioramento delle condizioni economiche del Paese ha portato a conseguenti modificazioni anche a livello sociale. Fra quelle più significative la comparsa di una “nuova coscienza salutistica” che ha determinato notevoli cambiamenti anche in campo alimentare. Infatti, scomparsi i problemi legati alla sottonutrizione, il “nuovo” consumatore ha cominciato a selezionare gli alimenti riducendo, ad esempio, i consumi di carni bovine a favore di carni alternative, tra le quali anche quelle degli ungulati selvatici. All'inizio del decennio scorso, nasce l'allevamento di ungulati selvatici, soprattutto nelle aree in cui la domanda turistica si aggiunge a quella dei residenti e dove il paesaggio medioevale rende più naturale l'impatto con queste carni (Salghetti, 1991).

4.1 Gli ungulati selvatici

I selvatici rappresentano la specie d’elezione quando ci sia la volontà di valorizzare aree considerate marginali, quindi geograficamente svantaggiate e non adatte a colture intensive. La selvaggina, infatti, non necessita di aree molto produttive e, in generale, predilige ambienti variegati dal punto di vista vegetazionale (dove magari le colture si

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alternano ad incolti, boschi e cespugliati), lontani dal disturbo antropico (http://www.Agraria.org). La diffusione allo stato libero è naturalmente elevata grazie alla elevata prolificità, spesso causa di danni all'agricoltura delle aree interessate. Infatti, il cinghiale è diffuso in tutto il continente da tempi molto lontani e non ha mai avuto problemi di sopravvivenza, ma piuttosto di contenimento (Polidori e coll., 1996).

L'ambiente naturale degli ungulati selvatici e del cinghiale in particolar modo è rappresentato dalle aree collinari e montane, caratterizzate da aspetti pedo-climatici e biologici favorevoli, dove è diffuso l'abbandono e la sottoutilizzazione delle terre. I selvatici, infatti, sono i migliori utilizzatori delle scarse risorse nutritive ivi presenti e i migliori trasformatori di alimenti ricchi di cellulosa, capaci inoltre di trasformare proteine del bosco non utilizzabili dall’uomo in proteine pregiate quali la carne (Simonetta e Dessì-Fulgheri, 1998).

Sono queste le condizioni che si riscontrano con maggior frequenza nel nostro Paese costituito per il 77% da aree collinari e montane e dove oltre 2 milioni di ettari risultano abbandonati. Per questo motivo l'utilizzazione con allevamenti di ungulati selvatici appare una delle alternative possibili, e lo stretto rapporto tra ungulati ed ambiente apre una serie di prospettive che possono essere colte dall’allevatore sostenute dagli Enti pubblici, per sfruttare le sinergie e i molteplici interessi legati alla loro presenza, per rendere economica l'attività di allevamento che avrebbe difficoltà ad esserlo in forma autonoma.

4.1.1 Il cinghiale

Il cinghiale appartiene al superordine degli Ungulati nel quale troviamo anche i cervidi ed i bovidi. Caratteristica del superordine è quella di avere le ultime falangi degli arti ricoperte da unghie a forma di zoccolo. La

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specie cinghiale presente in Italia è stata suddivisa in tre sottospecie: il cinghiale Maremmano (Sus scrofa majori); il cinghiale centroeuropeo (Sus scrofa scrofa); il cinghiale sardo (Sus scrofa meridionalis). Alla luce di alcuni studi sul polimorfismo enzimatico tale suddivisione risulta alquanto discutibile. Il solo cinghiale sardo sembrerebbe una sottospecie distinta dalle altre due e tanto simile al suino domestico, da far supporre che derivi da progenitori inselvatichiti. Da alcuni recenti studi sulla morfologia dei cinghiali, è stato tuttavia possibile identificare popolazioni morfologicamente diverse tra loro che potrebbero essere il risultato di un adattamento ad ambienti diversi. Tali differenze hanno delineato una realtà nazionale composta da “ecotipi” di cinghiale adattati a diversi ecosistemi.

Negli ultimi trent’anni l’area di distribuzione del cinghiale in Italia si è quintuplicato. Tale fenomeno è legato all’espansione delle aree boschive , allo spopolamento delle aree rurali, ma soprattutto alla ridotta utilizzazione del territorio. Si osserva, infatti, una sempre maggiore utilizzazione delle aree pianeggianti, mentre nelle aree collinari si verifica una progressiva sostituzione dei terreni coltivati con prati naturali, arbusteti e boschi. I frutti del bosco di latifoglie, che da sempre erano utilizzati dalle famiglie contadine come risorsa alimentare per il proprio sostentamento (castagne) o per quello degli animali domestici (ghiande, faggiole), sono ora lasciati a disposizione della fauna selvatica. Questa fonte alimentare, in alcune situazioni molto rilevante, ha permesso lo sviluppo delle specie che erano in grado di utilizzarle: il cinghiale, il capriolo (Capreolus capreolus L.), alcuni roditori. La diffusione del cinghiale è stata favorita anche dall’immissione, a scopo di ripopolamento per uso venatorio, di grossi contingenti di animali provenienti dall’estero (Ungheria, Ex Cecoslovacchia, Polonia) (http://www.provincia.vt.it).

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Il cinghiale ha prevalenti abitudini notturne, di giorno si muove solo per necessità o se disturbato, per questo motivo il grufolamento è spesso il più evidente segno della presenza del suide. Esso consiste in una azione di scavo che il cinghiale esercita con il grugno alla ricerca di tuberi, radici e piccoli invertebrati. Tale manifestazione talvolta può interessare vaste superfici coltivate e boscate. Anche le deiezioni dei bovini una volta essiccate possono essere oggetto di ricerca di cibo ed, in particolare, di larve di coleotteri coprofagi di cui i cinghiali sono ghiotti (http://www.provincia.vt.it).

La necessità di fare il bagno di fango, operazione legata soprattutto alla presenza di ectoparassiti (zecche, pulci) e ad esigenze di termoregolazione, fa si che gli insogli vengano frequentati regolarmente dai cinghiali. Il fango, una volta essiccato, ingloba gli ectoparassiti che vengono allontanati dalla cute strofinandosi su alberi o pietre, i cosiddetti grattatoi. Dove il cinghiale è presente, è possibile rilevare setole e peli sia su cespugli ed arbusti sia sul filo spinato utilizzato per il contenimento del bestiame brado. Tutti questi segni di presenza possono essere utilizzati al fine di conoscerne distribuzione e consistenza numerica; infatti, se il rilevamento di tali segni viene effettuato in condizioni ottimali è possibile stimare il numero di cinghiali presente in una determinata area.

4.1.2 La carne di selvaggina pesante e le prospettive di mercato

L’interesse che la selvaggina ed, in particolar modo, gli ungulati suscitano in ambito zootecnico è legato a numerosi vantaggi ad esso associati, fra cui, di particolare interesse, le caratteristiche chimiche ed organolettiche della carne. In generale si può dire che tale alimento ha un

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contenuto in grassi inferiore rispetto all’apporto proteico, se confrontato con le specie domestiche. A questo va aggiunta la gradevolezza al palato, che la rende un prodotto di nicchia. Infine, non è da sottovalutare che essa viene considerata alternativa alla carni degli animali domestici, che negli ultimi anni sono state al centro di scandali legati alla presenza di diossina e mancata vigilanza su problematiche sanitarie quali la BSE (http://www. Agraria.org). Le possibilità di espansione degli allevamenti vengono quindi stimolate dalle prospettive di aumento dei consumi interni di carni alternative nei prossimi anni e soprattutto dall'opportunità di ridurre la nostra dipendenza dalle importazioni. Attualmente, infatti, la richiesta di carni di ungulati selvatici è assicurata in larga prevalenza dai Paesi dell'Est europeo e da altri Paesi, primi fra tutti l’Australia, dalla quale proviene la maggior parte della carne di cinghiale. Anche le limitazioni produttive (quote) a livello comunitario hanno indotto gli allevatori a spostarsi su soluzioni alternative, senza vincoli, come è quella delle carni di selvatici. Il prodotto d'importazione lascia a desiderare per la qualità, spesso a causa della provenienza da animali vecchi, da scarti di trofei di caccia, da animali abbattuti per problemi di salute o fisici; inoltre, il lungo percorso tra luogo di abbattimento e luoghi di lavorazione e surgelazione, in condizioni d’igiene non sempre ideali, non depone a favore della qualità. E' illusorio ritenere che queste carni trovino ampia diffusione nel consumo familiare a causa della non facile preparazione. Il consumo pare decisamente orientato sulla ristorazione o nella preparazione di salumi (bresaole, prosciutti, salami ecc.) che sono pronti ed adatti anche al consumo domestico.

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4.2 L’allevamento degli ungulati selvatici

Gli allevamenti di ungulati selvatici a scopo alimentare sono stati resi possibili in Italia dalla legge nazionale 968/77 sulla protezione della fauna. I primi allevamenti sono sorti agli inizi degli anni ’80 con l’emanazione di leggi regionali in base alle quali è necessario ottenere le autorizzazioni per l’esercizio di questa attività. Infatti, gli animali in libertà appartengono allo Stato e la detenzione senza autorizzazione comporta ipotesi di appropriazione di beni statali con sanzioni di tipo amministrativo e penale (Rambotti, 1991). L’allevamento a scopo alimentare si è configurato quindi come attività zootecnica (art. 19 L. 968/77) e si è differenziato, perciò, in maniera sostanziale dalle tipologie di allevamenti previste dalla legge, come strumenti della gestione faunistica e venatoria del territorio (centri di produzione di selvaggina, recinti di caccia in aziende faunistico-venatorie). Per questo motivo essi sono sottoposti a vincoli di estensione spaziale minima, di quantità massima di territorio impiegabile, di autorizzazione e conduzione che ne rendono meno generalizzabile la realizzazione (Dalla Ragione e Rambotti, 1986). Ogni allevamento viene attuato in un ambiente confinato e, necessariamente, più o meno artificiale, nel quale gli animali sono sottratti all’azione selettiva dell’ambiente e in parte anche alle normali interazioni sociali.

4.2.1 Consistenza e distribuzione degli allevamenti in Italia

Nell’ultimo censimento dei primi anni ’90, in Italia è stata accertata la presenza di circa 970 allevamenti di ungulati selvatici, per complessivi 28.600 capi, con una media di circa 30 unità per allevamento. Le specie

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più allevate sono: cinghiali (14.100), daini (9.900), mufloni (2.100), cervi (1.600) e caprioli (850) in numerosi allevamenti privati (~910), con un numero medio ridotto di capi (~20), e pubblici (~60), con in media circa 180 capi. Al primo posto per numero di capi allevati si trova la Toscana (~8.900), seguita da Umbria ~3.900), Piemonte (~3.300) e Lazio (~2.600); consistenze minori sono state rilevate nelle altre regioni (in media 650 capi) (Salghetti, 1996).

I problemi con cui debbono confrontarsi gli allevatori sono prevalentemente di tre tipi: legale, finanziario e commerciale (Rambotti, 1991). Per quanto riguarda il primo aspetto, l’ottenimento dell’autorizzazione all’allevamento risulta abbastanza facile, anche se alcune regioni tendono a limitare il numero di concessioni per evitare di sottrarre un eccessivo territorio alla caccia e come misura di prevenzione nei confronti della peste suina classica (Salghetti, 1996).

4.2.2 Legislazione, macellazione e commercializzazione

Dal punto di vista legislativo le carni di selvaggina, nelle quali rientrano anche le carni degli ungulati selvatici, sono prese in considerazione dal D.P.R. 17.10.1996, n. 607, “Regolamento recante norme per l’attuazione della direttiva 92/45/CEE relativa ai problemi sanitari e di polizia sanitaria in materia di uccisione di selvaggina e di commercializzazione delle relative carni” (G.U. n. 280 del 29.11.1996). La legislazione sanitaria è quella che crea i maggiori problemi, in quanto la commercializzazione della carne dei selvatici allevati non può essere ancora effettuata nelle macellerie accanto a quella degli animali domestici (a meno che si ricorra a confezioni sotto vuoto o in atmosfera controllata). Inoltre, viene favorita la macellazione nei mattatoi pubblici, con riduzione delle autorizzazioni a livello aziendale.

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Il D.P.R. 30.12.1992, n. 559 “Regolamento di attuazione della direttiva 91/495/CEE concernente la produzione e commercializzazione di carni di coniglio e di selvaggina di allevamento” fissa i requisiti igienico-sanitari per la produzione e la commercializzazione delle carni di coniglio e di selvaggina e stabilisce cosa si intende per “selvaggina in allevamento”. Il già citato DPR 607/96 stabilisce i requisiti sanitari e di polizia sanitaria in materia di uccisione, preparazione e commercializzazione di selvaggina cacciata, definendo la “selvaggina cacciata”, sostanzialmente differente dalla selvaggina allevata per autonomia di ricovero e di approvvigionamento, anche se confinata in un territorio chiuso. Così i mammiferi biungulati (daini, cervi, mufloni) possono essere macellati in impianti autorizzati per grossi animali (bovini, equini, suini, ovini e caprini) ai sensi del D.L.vo 286/94, in quanto i requisiti di questi mattatoi ben si prestano a far fronte alle esigenze igienico-sanitarie derivanti dalla macellazione di specie, che con i grossi animali hanno molto in comune. L’aspetto più critico, con rischio di compromissione della redditività delle aziende, è quello commerciale, legato soprattutto ai costi molto elevati della carne prodotta da un numero limitato di animali in allevamenti privati, sui quali incidono fortemente le spese di macellazione, lavorazione, trasporto, visite sanitarie e ammortamento delle strutture. A questo si deve aggiungere la concorrenza della carne di provenienza venatoria da altri Paesi (sia fresca che congelata) e la commercializzazione sotto costo da parte degli enti pubblici di animali vivi (Duranti e Casoli, 2003).

Il problema non si pone negli allevamenti dove il cibo viene somministrato in toto o ad integrazione di quello spontaneo nei periodi di carenza alimentare. Mentre è ipotizzabile una progressiva scomparsa dell'allevamento del cinghiale a conduzione familiare in analogia con quanto già avvenuto per il suino domestico, in relazione alla necessità di

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spazi idonei ed alle emissioni di odori incompatibili con le condizioni di vita domestica, le possibilità di crescita sono invece possibili per l’allevamento industriale, solitamente a carattere privato. La specie si adatta, infatti, molto bene all'allevamento intensivo e tali allevamenti assicurano un rifornimento costante di carne fresca ai ristoranti e alle industrie salumiere.

Il peso di macellazione del cinghiale si aggira sui 50-70 chilogrammi, corrispondenti a 30-40 chilogrammi di carne. Orientativamente la resa può arrivare al 65-70%, mentre è di circa il 50% per gli altri ungulati selvatici. I pesi degli animali macellati sono generalmente variabili per la presenza di scarti, che abbassano la media, senza contare poi la variabilità dei ceppi: alcuni leggeri, come il cinghiale maremmano, altri più pesanti, come il cinghiale ungherese. La presenza di animali giovani tra quelli macellati contribuisce a ridurre il peso medio (Richetti e coll., 1986).

4.2.3 Mercato del vivo e della carne di cinghiale

Il mercato degli ungulati selvatici è caratterizzato da scarsa trasparenza, soprattutto per quanto riguarda gli “animali da vita”. La dispersione sul territorio degli allevamenti e le scarse informazioni disponibili per coloro che accedono ai nuovi allevamenti lasciano ampi spazi di manovra alla speculazione commerciale. Quindi, non è sufficiente solo produrre, ma è ugualmente importante immettere le carni nei canali più idonei alla loro valorizzazione. Infatti, l'entità della produzione interna, pur rimanendo ancora molto lontana dal coprire il fabbisogno, è ormai cospicua anche in conseguenza dell’elevata prolificità dei cinghiali, che raggiungono quasi la metà degli ungulati selvatici allevati ed il 90% della carne prodotta.

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I principali paesi di destinazione sono la Francia, con circa il 40%, la Germania e il Benelux detengono entrambi il 20%, il rimanente 10% è destinato ad altri paesi dell’Europa occidentale.

Le grosse industrie di trasformazione sono più propense all’acquisto di carne d’importazione che non di prodotto nazionale. Alla carne di cinghiale di produzione nazionale di animali allevati e cacciati sono più interessate le imprese artigianali che riforniscono i mercati locali, che coincidono con quelli di produzione.

Infatti, vi è una sostanziale sovrapposizione tra aree di produzione e aree di consumo. Ed è proprio in queste aree che trova maggiore collocazione anche la carne di importazione.

In questa direzione sta muovendosi anche la Germania, che è grande importatrice e consumatrice di carni di selvatici. Qualcosa di analogo sta maturando nell'Appennino Centrale, dove la ristorazione si sta qualificando per le preparazioni di selvaggina, sostenuta dai flussi turistici che apprezzano il gusto e la presenza di animali. Per l’arredo al paesaggio si dovrà fare riferimento ad altre specie di ungulati selvatici e meno al cinghiale.

Gli allevatori della zona sono avvantaggiati da queste nicchie di mercato, del richiamo turistico, che consente la vendita ai ristoranti. Le stesse macellerie entrano nella domanda, quando il circuito commerciale si fa più vivace, in vista di rifornire i ristoranti di un'area più allargata. Nel primo caso la macellazione viene fatta sul posto, come per i maiali, nel secondo, provvede il macellaio.

Nell'Appennino Centrale vengono così diffusi e valorizzati questi animali, come avviene anche per “la riscoperta” di case rurali, che vengono ristrutturate grazie al ritorno in loco di popolazione, soprattutto stranieri. Quivi gli stessi Enti pubblici, raccolto il segnale, si stanno impegnando ad indirizzare correttamente la fase prettamente produttiva

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con quella più complessa della rivitalizzazione di aree in via di abbandono o abbandonate da tempo.

Le prospettive di sviluppo degli allevamenti di cinghiale devono tenere presente che, accanto alla produzione di carne, si stanno aprendo altri spazi per la valorizzazione di questi animali.

L'interesse amatoriale suggerisce ai non agricoltori di investire capitali in aree disagiate, che rivitalizzano la domanda riportandovi presenza umana.

Lo sbocco mercantile, legato alla caccia, è quello che riveste maggiore interesse perchè remunera meglio gli animali abbattuti. Sta ritornando la domanda di caccia che si era orientata verso i Paesi dell'Est europeo. Sapendo che in Italia i cacciatori sono oltre un milione, anche se negli ultimi anni si è registrato un notevole calo, le prospettive non mancano, anche se le norme legislative pongono dei limiti: Ridurre le esigenze di “gite all'estero” significa contenere l'esportazione di valuta.

L'interesse turistico ed agro-turistico sposta la domanda dalle città ai luoghi di produzione delle carni di selvatici. E' la ferma convinzione anche di alcuni studiosi. Infatti Rambotti (1991), ben noto studioso di queste tematiche, sostiene che: "Il sistema migliore mi è sembrato portare il consumatore verso il prodotto e non viceversa come avviene normalmente".

E’ nell’interesse dell’imprenditore di stimolare la domanda con nuove proposte che vengano incontro alle aspettative dei consumatori, oggi più attenti alle problematiche ambientali e salutistiche.

L’allevamento specializzato di cinghiali per la produzione di carne fresca si è dimostrato poco competitivo con il prodotto d'importazione, che spunta dei prezzi inferiori del 40-50%. Di qui la necessità di valorizzare gli animali e le carni fresche per usi alternativi e d'integrare l'allevamento

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con altre attività quali: l'agriturismo e l'attività venatoria (Salghetti, 1991).

La salvaguardia dell'ambiente, gli aspetti naturalistici, di studio e di didattica hanno ancora molte cose da dire. In definitiva è la domanda di natura, espressa dalle aree urbane che potrà dare prospettive di sviluppo a queste nuove attività, collocate in ambienti suscettibili di richiamo per le bellezze naturali, per la salubrità dell'aria e per la riscoperta della vita in campagna in contrapposizione con gli affannosi ritmi della vita moderna.

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