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Internazionalizzazione e digitalizzazione delle PMI italiane.

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Academic year: 2021

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INDICE

Introduzione p.4

1. Il tessuto economico italiano p.9

1.1 Breve storia dello sviluppo industriale italiano

1.2 Le imprese italiane: la rilevanza della piccola dimensione

1.3 Crisi del modello industriale fordista 1.4 I modelli alternativi: distretto industriale e media impresa. 1.4.1 Il distretto industriale 1.4.2 Il quarto capitalismo 1.5 La governance aziendale delle PMI

1.6 Modello evolutivo del ciclo di vita delle PMI

2. Lo scenario dell’internazionalizzazione p.39

2.1 Minacce ed opportunità nell’economia odierna 2.1.2 I cambiamenti degli ultimi vent’anni

2.2 Il processo d’internazionalizzazione: ambito e forme 2.2.1 Perché internazionalizzare?

2.3 Il commercio internazionale

2.3.1 La letteratura classica: i primi modelli di commercio internazionale 2.3.2 Sviluppi più recenti della teoria del commercio internazionale 2.4 Le altre forme di internazionalizzazione

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2 2.4.1 Gli investimenti diretti esteri

2.4.2 Gli effetti degli IDE 2.4.3 I riferimenti teorici

2.5 La frammentazione internazionale della produzione: le reti globali 2.6 Le modalità di internazionalizzazione delle PMI

2.6.1 Il quadro nazionale

2.6.2 Dati sull’ internazionalizzazione commerciale e produttiva

2.7 Lo slancio internazionale del quarto capitalismo e del distretto industriale

3. La digitalizzazione a supporto dell’internazionalizzazione p.96

3.1 Information and communication technologies 3.2 Cenni storici

3.3 Il contesto di riferimento

3.4 Cosa fanno le imprese digitali: alcuni dati 3.5 L’e-commerce

3.6 Considerazioni sul ruolo di internet nei processi di internazionalizzazione

Conclusioni p.125

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3 INTRODUZIONE

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4 Questo elaborato è volto all’analisi del livello di internazionalizzazione e digitalizzazione delle imprese protagoniste dei sistemi economici dei paesi europei, e in modo particolare di quello italiano: le PMI. Le piccole e medie imprese rappresentano, infatti, la peculiarità del tessuto imprenditoriale nazionale: superano il 99% delle imprese attive sul territorio e occupano circa l’80% della forza lavoro nazionale. Come ogni attore economico, anche le PMI sono esposte ai mutamenti dell’ambiente esterno che ha visto incrementare, negli ultimi vent’anni, la competizione a livello mondiale a causa di nuove relazioni internazionali e spinte economiche che hanno fatto emergere nuovi protagonisti e modificato i tradizionali rapporti tra Nord e Sud del mondo. Accanto ai nuovi assetti internazionali, inoltre, si è assistito ad un cambiamento radicale nelle tecnologie adottate con un forte sviluppo di quello digitale.

La tesi si articola in tre capitoli. Il primo capitolo descrive il tessuto economico italiano: le definizioni e l’ambito di applicazione delle piccole e medie imprese, le modalità di organizzazione e sviluppo, la governance aziendale che le caratterizza. La storia economica del nostro Paese descrive uno sviluppo economico più lento rispetto agli altri paesi avanzati. Questo storicamente trova origine da cause politiche, visto il ritardo nell’unificazione nazionale e da un divario economico- sociale tra le varie regioni italiane, che ancor oggi rappresenta un freno allo sviluppo nazionale. La nascita, tra fine Ottocento e inizi Novecento, dei grandi poli industriali, prevalentemente localizzati nelle aree del nord- ovest, ha visto emergere grandi famiglie imprenditoriali, protagoniste di un epoca incentrata sulla necessità di costruire uno Stato nuovo, attraverso infrastrutture, servizi e collegamenti sul territorio; tutte attività caratterizzate dalla presenza decisiva delle commissioni statali. Accanto allo sviluppo dell’industria pesante, grazie ai progressi tecnologici, iniziarono a svilupparsi fabbriche che producevano nuovi macchinari per il lavoro industriale, nuove macchine per il lavoro agricolo, per l’ufficio e per i trasporti cittadini. Un impulso al sistema industriale avvenne in concomitanza delle due guerre mondiali: la necessità di materiale bellico, favorì i principali gruppi industriali, ma allo stesso tempo le conseguenze del conflitto si ripercossero sull’economia mondiale. La crisi del ’29 costrinse gli stati ad adottare strategie decisionali per salvare le proprie economie. L’Italia scelse di finanziare le attività

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5 produttive attraverso la costituzione prima dell’IMI (Istituto Mobiliare Italiano) e poi dell’IRI (istituto di Ricostruzione Industriale). Questo intervento si trasformò in un controllo dello stato sull’economia attraverso la creazione di gruppi omogenei di attività produttive entro i quali operavano le imprese di settore (Fincantieri, Finmeccanica, Finsider, Finmare). Il periodo del secondo dopoguerra fu caratterizzato da una crescita dell’economia mondiale e, per l’Italia in particolare, gli anni Cinquanta furono gli anni del boom economico. Alti tassi di crescita produttiva, aumento del consumo interno, nascita e sviluppo di imprese legate alla produzione di beni di consumo per la casa, per il tempo libero: prese via, insomma, il consumismo di massa anche tra la popolazione italiana, e cambiarono esigenze e gusti dei consumatori. Si assistette, inoltre, alla significativa crescita del numero di piccole e medie imprese. Esse, da un lato, rappresentavano il decentramento da parte delle grandi imprese, di piccole unità produttive, che consentivano di scorporare la produzione rendendola più efficiente; dall’altro, portavano avanti la specializzazione in prodotti legati alle competenze artigianali preesistenti. Ruolo decisivo nello sviluppo dell’economia nazionale lo hanno avuto i “distretti industriali” e le imprese appartenenti al cosiddetto “quarto capitalismo”. Si tratta di due fenomeni tra loro collegati, protagonisti di uno sviluppo industriale, dagli anni Settanta in poi, caratterizzato da forti contatti con il territorio d’appartenenza, dal “made in Italy” con prodotti di qualità, dalla governance familiare, e da un rapporto di cooperazione tra le imprese della catena di fornitura. I settori in cui operano le PMI son principalmente legati all’industria leggera, cioè prodotti per la persona e la casa, la meccanica leggera, l’agroalimentare e la moda- abbigliamento.

Il secondo capitolo tratta il tema dell’internazionalizzazione, prima guardando ai modelli teorici del commercio internazionale e gli investimenti stranieri e successivamente descrive il posizionamento delle PMI italiane.

L’internazionalizzazione è un processo che si esplica attraverso diverse modalità di partecipazione aziendale più o meno intense nei confronti dell’esterno, che richiedono risorse e impegno aziendale differente. La forma più semplice è l’esportazione e cioè la vendita dei propri prodotti/servizi nei mercati esteri. Essa può essere svolta direttamente dall’impresa nazionale attraverso una filiale commerciale all’estero, oppure in via indiretta mediante buyer esteri, impegnati nella vendita sul

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6 territorio. Altra strategia internazionale è quella basata su accordi di collaborazione tra imprese nazionali ed estere, attraverso forme di franchising, consorzi, joint venture. Queste modalità di cooperazione richiedono un coinvolgimento aziendale più intenso attraverso la condivisione di licenze o brevetti, o il trasferimento di risorse tecnologiche, scientifiche, produttive. Infine, abbiamo gli investimenti diretti esteri (IDE). Si tratta, in generale, della forma di internazionalizzazione più coinvolgente e costosa per l’azienda e può essere di due tipi. Gli IDE orizzontali, sono attuati tramite stabilimenti localizzati direttamente nel mercato estero e producono i medesimi prodotti della casa madre sostituendo di fatto l’esportazione su quel mercato; gli IDE verticali, invece, sono attivati attraverso stabilimenti all’estero che producono semilavorati, forniture dei fattori produttivi, o fasi del processo produttivo e permettono all’impresa di sfruttare i vantaggi di costo presenti nel paese ospite. Le singole scelte dipendono da varie valutazioni strategiche dell’impresa, dalle proprie dotazioni finanziarie, organizzative e produttive, ma anche da elementi esterni quali incentivi, vantaggi di costo o di vicinanza al mercato. La letteratura economica ha trattato di internazionalizzazione, e in particolare di commercio con l’estero, da Adam Smith in poi. Egli per primo ha cercato di spiegare cosa spinge uno stato a tenere relazioni commerciali con partner stranieri. Dopo di lui troviamo il concetto di ‘vantaggio comparato’ di Ricardo e gli autori Heckscher e Ohlin, concentrati sulle dotazioni fattoriali dei singoli paesi. Le teorie classiche, in generale, si occupavano del tema a livello di Stato e delle relative dotazioni fattoriali. È con le teorie del XX secolo che gli autori si orientano più su ciò che avviene a livello di singola impresa. Infatti, tra il XIX e il XX secolo, si registrarono nuove configurazioni internazionali: le imprese iniziarono a realizzare attività produttive all’estero spostando grandi flussi di capitale oltre i confini nazionali. Inoltre, restava da spiegare perché la maggior parte del commercio internazionale avvenisse tra paesi con dotazioni fattoriali simili, che scambiavano le stesse categorie di beni e servizi. Nelle teorie più recenti, infatti, vengono messi in luce gli elementi inerenti le strategie aziendali, e sono analizzati anche gli investimenti esteri e i loro effetti a livello di paese. Non è possibile definire a priori perché alcune imprese adottano scelte internazionali ed altre no. In generale, si è riscontrata una correlazione positiva tra dimensione aziendale e maturità internazionale. Questo risultato è legato

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7 formalmente alla maggior disponibilità per le imprese più grandi, di risorse finanziarie, organizzative e umane. In generale, le scelte aziendali dipendono da diversi fattori. I fattori esterni che influenzano le decisioni aziendali sono riassumibili in tutti quegli elementi ambientali che riguardano sia le variabili di settore in cui opera l’azienda, sia più in generale quelli inerenti il contesto strutturale- istituzionale. I fattori interni, invece fanno riferimento alle caratteristiche dell’impresa e dell’imprenditore. Queste caratteristiche sono relative alla capacità di acquisire informazioni e di stabilire contatti con i soggetti esteri, alla percezione del rischio e delle opportunità derivanti dall’espansione su mercati esteri, all’attitudine di percepire i segnali favorevoli provenienti dal settore competitivo. Da qui, ogni singola impresa risponderà alle variabili interne/esterne in modo diverso, adottando perciò forme differenti di internazionalizzazione. Ad oggi, la dinamica internazionale delle PMI italiane, vede una forte presenza di imprese impegnate nelle esportazioni, a dimostrazione del fatto che questa modalità d’azione richiede meno impegno in termini di risorse è quindi è maggiormente applicabile alla dimensione del tessuto economico nazionale. Tuttavia, negli ultimi vent’anni, è emersa una spinta notevole a praticare altre forme di internazionalizzazione come investimenti diretti esteri e collaborazioni con partner stranieri.

Il terzo capitolo affronta il tema della digitalizzazione delle imprese, che rappresenta un argomento di importanza crescente negli ultimi anni anche in ambito della gestione d’impresa. Infatti, la digitalizzazione può rappresentare un fattore di implementazione per le strategie competitive aziendali, favorire la riduzione di alcuni costi aziendali e aiutare le imprese nel processo di internazionalizzazione. I dati relativi alla dotazione di Icts nelle imprese italiane rivelano un ritardo del nostro Paese rispetto agli altri paesi industrializzati europei, dovuto principalmente alla bassa cultura digitale della popolazione e delle imprese italiane. Un fattore particolarmente importante in termini di digitalizzazione e attività d’impresa è l’utilizzo di Internet. Tale canale, infatti, può essere utilizzato per svolgere attività commerciali, per gestire l’approvvigionamento di beni e servizi, per mantenere le relazioni con clienti e partner commerciali, per compiere servizi di altro tipo (fatturazione elettronica, servizi con le PA o servizi bancari) e per intraprendere attività di web marketing. Per queste attività on-line, le Icts consentono, almeno in

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8 parte, di eliminare le barriere spazio- temporali. Inoltre, le imprese possono sfruttare i potenziali effetti di rete che si creano in ambito digitale, aumentando il raggio d’azione sul mercato. È necessario, tuttavia fare delle precisazioni in merito alle potenzialità e agli effetti di Internet per le imprese in ambito interno ed internazionale. Accanto ai costi all’entrata relativamente bassi e la possibilità di eliminare le barriere fisiche superando svantaggi dimensionali e posizioni geografiche, bisogna considerare le risorse necessarie all’azienda per supportare la strategia digitale. La presenza on-line, infatti, richiede investimenti nell’organizzazione e nella gestione del canale virtuale, sotto il profilo informatico, sotto il profilo delle competenze umane, della comunicazione e della gamma dei prodotti offerti e dei relativi prezzi.

Il canale digitale può essere utilizzato anche come strumento di

internazionalizzazione, sia come supporto alle vendite, sia come canale per mantenere relazioni con stakeholders stranieri. Dall’analisi dei dati a disposizione emerge una correlazione positiva tra digitalizzazione e internazionalizzazione, anche se non è possibile determinare se esiste e quale sia il rapporto tra i due fenomeni. Si lasciano, perciò, aperte alcune considerazioni: è possibile rilevare in termini di causalità uno dei due fenomeni precede l’altro? Oppure sono entrambi effetti dell’evoluzione storica?

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9 1.1 Breve storia dello sviluppo industriale italiano Lo sviluppo economico italiano ha seguito un percorso più lento rispetto al resto del continente europeo. La rivoluzione industriale arrivò in ritardo e interessò inizialmente le regioni del nord-ovest, l’area maggiormente incline ad avere relazioni con i vicini Paesi europei e che ha potuto perciò sviluppare un maggior dinamismo industriale. Una foto dell’epoca mostra un’economia arretrata e depressa, con una percentuale molto alta di ricchezza prodotta dal settore primario e la rimanente quota di produzione sviluppata nei settori legati al commercio, artigianato e piccola industria tessile. Una situazione tale da non garantire, comunque, l’autosufficienza del Paese. Una spinta importante avvenne dall’anno di unificazione del Paese. Nel 1861, infatti, iniziò un processo di crescita che vedeva come fondamentale il ruolo dello Stato. Le commissioni pubbliche attivate per costruire il Paese consentirono uno sviluppo radicale di tutti quei settori legati a questo fine. Innanzitutto il settore delle costruzioni, coi materiali necessari per creare città e collegamenti (strade, ponti); quello dell’elettricità, per creare una rete distributiva di energia e il campo dell’idroelettricità, un’industria in cui l’Italia era già all’epoca alla frontiera della tecnica. Nel settore della meccanica pesante prese avvio l’industria siderurgica-metallurgica degli altiforni e delle fonderie, mentre parallelamente si assistette all’espansione della produzione dei mezzi di trasporto, ma anche dei grandi macchinari indirizzati alle industrie. Uno sviluppo importante si ebbe anche nel reparto della chimica, sia applicata al campo farmaceutico, sia a quello industriale. Tutte le grandi imprese legate a questi settori produttivi, quindi, si svilupparono in maniera crescente dalla fine dell’Ottocento e, per tutto il Novecento, le aeree dei grandi poli industriali attirarono la manodopera proveniente dalle campagne e dal resto della penisola (come ad es. il triangolo industriale Torino-Milano-Genova che vide crescere esponenzialmente la produzione industriale e le relative immigrazioni di lavoratori). Ruolo decisivo, già all’epoca, veniva svolto dalle banche miste, che attraverso finanziamenti bancari e investimenti di capitale nei settori sopra citati, rappresentavano il motore creditizio dell’economia.

La situazione nazionale rimaneva frammentata: è imputabile già a questo periodo lo squilibrio tipico della nostra società, rappresentato dalla diversa velocità di sviluppo

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10 delle aree regionali del Regno. All’affermazione della grande industria nel nord-ovest, con la conseguente attrazione di capitali e risorse umane e immateriali, rispondevano la staticità delle regioni del Centro, caratterizzate soprattutto dalla figura della mezzadria, e l’arretratezza del Sud, ancora dominato dall’agricoltura estensiva. Parallelamente allo sviluppo delle nuove aree industriali, continuavano a mantenere un ruolo centrale tutti quei sottosistemi locali, caratterizzati dalle lavorazioni tradizionali. Si trattava di piccole unità produttive specializzate nella produzione artigianale di legno, ferro, cotone, seta, lana, cuoio, ceramica e prodotti alimentari. L’artigianato cittadino manteneva così intatto il suo mercato e si rivolgeva prevalentemente ad una domanda di manufatti che le nuove produzioni in serie non erano in grado di soddisfare.

Non si può parlare di industrializzazione senza fare riferimento alle applicazioni delle nuove tecniche scientifiche fondate sulla meccanizzazione e sulla velocità di produzione. Macchinari nuovi in fabbrica, nel settore agricolo, macchine da scrivere per gli uffici, macchine nuove da cucire per la manifattura e per il settore dei trasporti nuovi mezzi per spostare cose e persone. Un’ingegneria che poggiava

sull’elemento dell’efficienza, obiettivo che venne ricercato anche

nell’organizzazione del lavoro in fabbrica. Si aprì l’epoca del taylorismo, dello scientific management, della produzione di massa, della standardizzazione dei prodotti, della “one best way” per produrli. Rifacendosi alla famosa descrizione della produzione degli spilli di A. Smith, il taylorismo/fordismo si era preoccupato di trovare un metodo standardizzato di lavoro, scientificamente studiato per ridurre i tempi e i costi di produzione. Nucleo centrale della fabbrica era la catena di montaggio, una modalità di lavoro caratterizzata da una parcellizzazione estrema del lavoro, all’interno della quale ogni operaio doveva eseguire la sua parte di lavoro secondo uno standard prestabilito.

Nel settore agricolo, lo sviluppo della tecnica e la modifica degli assetti proprietari della terra, soprattutto al sud, consentirono maggior spazio alla diversificazione dei prodotti, all’aumento degli allevamenti e della produzione di alimenti di origine animale. Quindi, in generale, il Novecento si aprì con una crescita economica e sociale del Paese, che aveva visto aumentare il Pil sia, appunto, nella quota ascrivibile all’industria, sia a quella ascrivibile ai settori a bassa intensità di capitale e

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11 tecnologia, in primo luogo l’alimentare e il tessile. Il divario dell’Italia rispetto ai paesi più avanzati cominciò a ridursi per la prima volta dal diciassettesimo secolo. Nel 1911, i dati dell’annuario storico statistico1

mostrano che la produzione manifatturiera dei settori leggeri quali abbigliamento, cuoio e pelli, legno, rappresentava il 24% della produzione complessiva; l’industria alimentare il 22%, e quella tessile l’11%. Per quanto riguarda l’industria pesante, invece, il settore meccanico copriva poco più del 22% della produzione nazionale, quello metallurgico il 2% e quello chimico il 4%. Questi ultimi settori troveranno un ulteriore forte impulso grazie allo scoppio della prima guerra mondiale. La crescita del reddito nazionale si traduceva in un aumento degli investimenti, pubblici e privati. In campo statale crescevano le quote indirizzate alle strutture pubbliche per sanità, istruzione e servizi; in campo privato dai dati emerge un piccolo aumento dei consumi delle famiglie che descriveva un primo incremento della domanda interna, in una società caratterizzata da condizioni di vita a livelli di sussistenza per ampi strati della popolazione. Anche i rapporti con l’estero si fecero più saldi, con lo sviluppo delle reti di trasporto, di terra e di mare. Grazie a questo si poté assistere all’apertura di nuovi mercati su cui piazzare i prodotti nazionali che, se inizialmente riguardavano solo l’alimentare e il tessile, ora contavano anche prodotti a più alto valore tecnologico, automobili, gomma e prodotti chimici, macchine, caldaie. Tutti questi beni andavano ad aumentare le richieste commerciali dei Paesi più industrializzati. Per altro, il ruolo esercitato da questi Paesi non si fermò alla sola importazione, ma si concretizzò anche attraverso investimenti diretti in Italia, tramite l’apertura di filiali o unità produttive nei settori ad elevata innovazione, come l’elettromeccanica, la siderurgia e la chimica, contribuendo allo sviluppo interno.

Lo scoppio della prima guerra mondiale rappresentò un’occasione di sviluppo per molte imprese: vista la necessità di produrre i rifornimenti adeguati per l’iniziativa bellica, con la “mobilitazione industriale” il lavoro non mancò neppure per le imprese più piccole, destinatarie anch’esse di richieste di materiale militare. L’apparato industriale rispose in modo efficace alla domanda bellica e riuscì ad ottenere ingenti capitali che furono utilizzati soprattutto negli anni a seguire. Si era

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12 però dato avvio ad un sistema di “indebiti privilegi” (Crepax, 2002): un connubio tra politica e grandi gruppi industriali che ha portato a sprechi, vantaggi sulla fiscalità, esoneri da dazi, concessione di finanziamenti, forniture, concessioni di successive commesse. Questa situazione permise alle imprese maggiori di incrementare ulteriormente il loro ambito di applicazione, con un vero e proprio boom di investimenti e diversificazione di prodotto e processo (Edison, Montecatini, Fiat, Ansaldo, Acciaierie Terni), che continuò per tutta l’epoca fascista e nonostante la crisi del ’29. In questi anni si avviarono i nuovi accordi oligopolistici che videro i primi cambiamenti negli assetti azionari delle grandi imprese, con nuovi accorpamenti, acquisti di quote di capitali, consorzi e holding.

All’interno delle società più grandi, un ruolo decisivo venne assunto dalle banche miste, già operative dalla fine dell’Ottocento, che incrementarono la loro attività in età giolittiana, anche a seguito di investimenti di paesi stranieri molto presenti negli anni successivi alla Grande Guerra. Gli istituti di credito, infatti, si erano trovati a possedere ingenti quote azionarie di società industriali e questo sistema arrivò al collasso a causa della crisi del ’29. Gli effetti furono molto forti e il regime fascista rispose con una delle più importanti innovazioni istituzionali in campo economico, impedendo che la crisi bancaria avesse gli esiti austriaci o tedeschi: la creazione, nel 1931 dell’Istituto Mobiliare Italiano, Imi, e, nel 1933, dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale, Iri. Il ruolo dell’Imi era quello di concedere mutui e assumere partecipazioni nelle imprese, sostituendosi di fatto alle banche miste, attraverso l’emissione di obbligazioni con garanzia statale, con l’intento di far convogliare il risparmio dei privati nei finanziamenti industriali. Questa prima strategia non riuscì a sostenere l’ingente fabbisogno finanziario del sistema produttivo; così due anni dopo venne creato l’Iri, che aveva acquistato le proprietà delle tre maggiori banche miste coinvolte nel disastro (Banca commerciale, Credito italiano, Banco di Roma) diventando proprietario di tutto il capitale azionario detenuto e, quindi, della parte di capitale delle società industriali. Si definì così il nuovo meccanismo di finanziamento e controllo delle grandi imprese italiane, la proprietà pubblica, che ha caratterizzato la nostra storia economica2. Infatti con legge

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All’epoca la percentuale delle partecipazioni statali in economia era: il 100% nell’impresa siderurgica bellica (Terni, Ansaldo, Cogne), il 40% nella siderurgica comune; il 90% nella cantieristica; oltre l’80% nelle società di navigazione; l’80% nelle costruzioni di locomotive e il 30%

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13 del 1937 l’Iri diventò organo permanente e fu avviata la ristrutturazione tecnica ed economica delle aziende, raggruppandole in settori omogenei e affidandone il controllo, la programmazione e il relativo finanziamento a holding settoriali, quali Finsider per la siderurgia, Finmare per la cantieristica, Stet per le telecomunicazioni. Il periodo che seguì gli anni del secondo conflitto mondiale mostra un paese in serie difficoltà economiche, caratterizzato dalle distruzioni che avevano interessato soprattutto le città e i suoi collegamenti. I successivi anni hanno visto come protagonisti gli aiuti statunitensi per il riassesto del tessuto produttivo: attraverso l’attivazione del piano Marshall, che prevedeva la fornitura di macchinari e materie prime, oltre a prestiti a tasso agevolato per il riassestamento impiantistico, l’industria italiana riprese a crescere. Vennero incrementati importanti processi innovativi sul piano tecnologico, alcuni dei quali già avviati negli anni precedenti al conflitto, e, si poté assistere alla nascita di nuove realtà industriali. Gli anni Cinquanta rappresentano il periodo del cosiddetto “miracolo economico” che vede un incremento della domanda interna e la relativa affermazione di settori produttivi di beni di consumo, tra cui spicca il settore automobilistico e quello dell’elettrodomestico.

Parallelamente venne intrapreso un percorso europeo verso una maggiore apertura dei mercati interni. La liberalizzazione degli scambi aumentò il flusso di contatti economici e di merci, con un incremento notevole del valore delle esportazioni che vedeva l’Italia in una buona posizione competitiva grazie al tasso di cambio favorevole e ad una elevata disponibilità di lavoro, che assicurava una crescita salariale contenuta e quindi un costo del lavoro più basso rispetto ad altri Paesi. L’idea di un’Europa integrata nacque all’indomani del secondo conflitto mondiale, che già vedeva il continente diviso in due blocchi. Vista la necessità di ricostruire l'economia del continente europeo e per far sì che non si verificassero mai più simili massacri e distruzioni, si diede vita ai primi trattati. Nel 1951, a Parigi, Francia, Germania, Italia, e Belgio, Pesi Bassi e Lussemburgo firmarono un trattato che prevedeva la costituzione della Comunità economica del carbone e dell’acciaio, la CECA. Come stabilito dall'articolo 2 del trattato, l'obiettivo della CECA era quello di

per quelle di vagoni; il 30% per la produzione di elettricità; il 20% nell’industria del rayon; il 13% in quella del cotone; più altre quote nella meccanica leggera, ad esempio nell’Alfa Romeo e nei servizi telefonici dell’Italia settentrionale e centrale. (Crepax, 2002).

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14 promuovere, attraverso il mercato comune del carbone e dell'acciaio, l'espansione economica, l'incremento dell'occupazione e il relativo miglioramento del tenore di vita delle popolazioni. Il tutto doveva essere accompagnato dallo sviluppo degli scambi internazionali con un controllo alle fonti di produzione e ai prezzi, evitando la concorrenza sleale, e da un ammodernamento della produzione, in grado di garantire migliori condizioni per la manodopera. In linea con l’idea di istituire un mercato comune, il trattato introduceva la libera circolazione dei prodotti, senza diritti doganali né tasse. Esso vietava le pratiche o i provvedimenti discriminatori, le sovvenzioni, gli aiuti o gli oneri speciali imposti dagli Stati nonché le pratiche restrittive. Visto il successo della CECA, i sei paesi decisero di estendere la cooperazione ad altri settori economici. Così nel 1957, venne firmato il trattato di Roma, che istituì la Comunità economica europea (CEE), avente per obiettivo la libera circolazione di persone, beni, servizi e capitali al di là dei confini nazionali, ossia la creazione del mercato comune. Il trattato CEE prevedeva, inoltre, la creazione di un’unione doganale, attraverso l’abolizione dei dazi doganali tra gli Stati e i contingenti per le merci scambiate, l’elaborazione di politiche comuni, la nascita delle istituzioni a livello europeo e i relativi meccanismi decisionali.

L’ascesa economica italiana si protrae almeno fino agli anni Settanta soprattutto nel settore della siderurgia, degli idrocarburi e delle costruzioni. Questi settori erano incentivati dalle nuove commissioni pubbliche, decretate per venire incontro alle nuove esigenze abitative della popolazione, sorte con i trasferimenti di massa verso le città, e relative ai piani di sviluppo indirizzati al Meridione, per cercare di rimediare al gap con il resto del Paese. L’economia era quindi caratterizzata dalla presenza di uno stato- imprenditore che operava attraverso le varie società capogruppo (nate sempre dalle suddivisioni dell’Iri): Fincantieri, Finmeccanica, Finelettrica, Efim, oltre che nel settore dei trasporti. In linea con la politica americana di quegli anni, anche il sistema produttivo italiano si era indirizzato verso una maggiore integrazione nell’economia mondiale. Durante gli anni del miracolo economico, quindi, l’Italia aveva visto uno sviluppo in tutti i settori produttivi, con un cambiamento epocale nelle caratteristiche sociali, i nuovi poli industriali, le città, le periferie, la famiglia nucleare e non più allargata, come tipicamente avveniva nei grandi casolari contadini. Un cambiamento nei consumi, nello stile di vita, nelle

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15 relative produzioni legate al consumo di massa, nel tasso di scolarità, nelle esigenze sociali, con l’aumento di consapevolezza della necessità di estendere diritti che saranno oggetto delle rivendicazioni del decennio successivo.

Sono questi gli anni in cui, parallelamente allo sviluppo dei colossi industriali, si è iniziato ad assistere alla significativa crescita del numero di piccole e medie imprese, derivante da un doppio processo: da una parte il decentramento, da parte delle grandi imprese, di piccole unità produttive, in modo da scorporare la produzione e renderla più efficiente; dall’altra la specializzazione in prodotti che attingono alle competenze artigianali preesistenti. Ad aggi, il sistema industriale italiano mantiene questa forma di dualismo dimensionale con poche grandi imprese e moltissime piccole imprese.

1.2 Le imprese italiane: la rilevanza della piccola dimensione

Si considera impresa ogni entità che, a prescindere dalla forma giuridica rivestita, eserciti un'attività economica. Questa terminologia, utilizzata in sede europea, è molto vaga e ha bisogno di ulteriori specificazioni per descrivere le varie tipologie di imprese presenti nel territorio europeo. In particolare emerge, nel vecchio continente, una fortissima presenza di piccole, medie e piccolissime imprese. Il campo definitorio non è omogeneo tra i vari paesi industrializzati, che prevedono numeri di addetti diversi nella definizione delle singole dimensioni. Da qui, la necessità di avere un quadro generale comune a tutti gli stati appartenenti all’Unione europea. E’ stata, perciò, elaborata una normativa ad hoc, volta ad identificare e catalogare le varie imprese, soprattutto al fine di delineare il campo di applicazione e le finalità delle varie regolamentazioni inerenti la fiscalità, i bandi pubblici di finanziamento, gli aiuti creditizi. In particolare, la norma per definire le imprese utilizza tre 3 criteri3:

 numero di lavoratori dipendenti;

 fatturato annuo (l’ammontare complessivo derivante dalle cessioni di beni e prestazioni di servizi effettuate nell’anno di riferimento);

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Raccomandazione 6 maggio 2003, n. 2003/361/CE recepita dal nostro ordinamento con Decreto del Ministero delle Attività Produttive del 18 aprile 2005.

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 bilancio annuo (corrispondente al totale dell'attivo patrimoniale)

Per appartenere all’una o all’altra categoria un’impresa deve avere almeno due dei tre requisiti indicati. In particolare secondo legge abbiamo la seguente suddivisione: - la media impresa è definita come un'impresa il cui organico sia inferiore a 250 persone e il cui fatturato non superi 50 milioni di euro o il cui totale di bilancio annuale non sia superiore a 43 milioni di euro;

- la piccola impresa ha meno di 50 occupati e un fatturato annuo, oppure, un totale di bilancio annuo non superiore a 10 milioni di euro;

- la microimpresa infine, è intesa quella al cui interno operano fino a 10 persone e il cui fatturato o il totale di bilancio annuale non superi i 2 milioni di euro.

Nella definizione, si considerano dipendenti tutte le persone occupate nell'unità giuridico- economica di riferimento sia a tempo determinato che indeterminato. In particolare sono compresi nel calcolo: il/i titolare/i dell'impresa partecipante/i direttamente alla gestione, i soci di cooperative che come corrispettivo della loro prestazione percepiscono un compenso proporzionato all'opera resa e una quota degli utili dell'impresa, i coadiuvanti familiari, i dirigenti, i quadri, gli impiegati, gli operai e gli apprendisti. I dipendenti che prestano attività all'estero sono inclusi soltanto se sono retribuiti direttamente dall’azienda. Per fatturato, corrispondente alla voce A.1 del conto economico redatto secondo le norme vigenti del codice civile, s’intende l’importo netto del volume d’affari che comprende gli importi provenienti dalla vendita di prodotti e servizi, diminuiti degli sconti concessi sulle vendite, nonché dell’imposta sul valore aggiunto e delle altre imposte direttamente connesse con il volume d’affari. Per totale di bilancio si intende il totale dell’attivo patrimoniale. Entrambi questi due elementi sono riferiti all’ultimo esercizio contabile approvato. Per quanto riguarda le altre imprese, la definizione è deducibile in negativo, ossia tutte le imprese che non rientrano nelle categorie descritte, quindi dai 250 addetti in su, sono considerate grandi imprese. Ora questo è vero solo in parte, nel senso che la letteratura e gli studi di settore utilizzano i parametri ministeriali e dell’Istat: in particolare l’istituto di statistica intende grande impresa quella che occupa 500

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17 addetti ed oltre, mentre il riferimento a tutte le imprese che hanno tra i 250 e i 499 addetti, rientra nella letteratura che rimanda al cosiddetto “quarto capitalismo”4

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Tabella 1.1 - Imprese e addetti per classe di addetti nei principali paesi Ue - Anno 2011- (valori percentuali)

Fonte: Eurostat, Structural business statistics

(a) Il dato relativo agli addetti è riferito al 2010.

Come si può notare dalla Tabella 1.1, nel nostro Paese il contributo delle imprese piccole e medie sul totale, è tra i più alti, in percentuale, rispetto agli altri Paesi industrializzati. La peculiarità italiana risulta ancora più evidente se si analizza la forza lavoro impiegata: in Italia l’81% della forza lavoro è presente in una PMI e più della metà, il 46%, in una microimpresa. Come si evidenzia dai dati, infatti, la differenza in percentuale rispetto agli altri Paesi è notevole: per le imprese con 0-9 addetti, ad esempio, lo stato che più si avvicina al valore italiano è la Spagna con il 38,5%, mentre con il Regno Unito si ha una differenza di quasi 30 punti percentuali. Parallela è la valutazione per le imprese con 250 addetti ed oltre, categoria per la quale l’Italia risulta coprire il 20,2% degli occupati, valore più basso tra i 5 paesi analizzati in tabella. In pratica, il ruolo della PMI è generalmente importante per

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18 l’Europa, ma in Italia esso diventa ancor più decisivo, come si può vedere anche dal prospetto della Tabella 1.2 in cui vengono posti in evidenza i numeri relativi alle presenze di imprese e addetti nelle varie attività economiche.

Tabella 1.2– Imprese e addetti per classi di addetti e settore di attività economica – (Anno 2012)

Fonte: Istat, Registro Statistico delle Imprese Attive (Asia)

(a) Poiché il numero degli addetti di un’impresa è calcolato come media annua, la classe dimensionale ‘1’ comprende le unità con in media fino a 1,49 addetti; la classe ‘2-9’ comprende quelle con addetti da 1,50 a 9,49, e così via.

(b) in ATECO 2007 e relativo campo di osservazione. Secondo tale classificazione Industria in senso

stretto comprende le sezioni di attività economica 'B' (Estrazione di minerali da cave e miniere), 'C'

(Attività manifatturiere), 'D' (Fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria condizionata) ed 'E' (Fornitura di acqua; reti fognarie, attività di gestione dei rifiuti e risanamento); Costruzioni comprende la sezione di attività economica 'F' (Costruzioni); Commercio, trasporti e alberghi comprende le sezioni di attività economica 'G' (Commercio all'ingrosso e al dettaglio; riparazione di autoveicoli e motocicli), 'H' (Trasporto e magazzinaggio) ed 'I' (Attività dei servizi di alloggio e di ristorazione); Altri servizi comprende le sezioni di attività economica 'J' (Servizi di informazione e comunicazione), 'K' (Attività finanziarie e assicurative), 'L' (Attività immobiliari), 'M' (Attività professionali, scientifiche e tecniche), 'N' (Noleggio, agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imprese), 'P' (Istruzione), 'Q' (Sanità e assistenza sociale'), 'R' (Attività artistiche, sportive, di intrattenimento e divertimento) e 'S' (Altre attività di servizi).

La Tabella 1.2 descrive più nel dettaglio, la presenza numerica di imprese e addetti nei vari settori economici, rimarcando il numero estremamente ampio di microimprese (fino a 10 lavoratori), che da sole rappresentano quasi il 95% delle imprese italiane. Queste ultime sono fortemente presenti nel settore del Commercio, trasporti e alberghi. Le piccole imprese, fino a 50 addetti, e le medie, con massimo

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19 250 lavoratori, le troviamo, come da aspettativa, nel settore dell’Industria in senso stretto, che include le attività manifatturiere.

La storia dello sviluppo economico descrive contesti regionali molto dinamici caratterizzati dalla presenza di centri manifatturieri e commerciali che avevano mantenuto le antiche consuetudini sociali e produttive. Come rilevato in letteratura (Feltrin, Tattara; 2010, Onida; 2004), il contesto storico che ha visto svilupparsi le piccole e medie imprese è quello delle realtà contadine. In particolare nell’ambito dei rapporti di mezzadria, il comportamento adottato dal capo della famiglia mezzadrile nell'organizzazione del lavoro di familiari e salariati e nella gestione della contabilità dell'azienda agricola avrebbe consentito l'accumulazione di un patrimonio di cultura manageriale in grado di creare il futuro imprenditore, così come lo conosciamo oggi. A questo si aggiunga l’esperienza della manifattura rurale, dove un mercante imprenditore impegnava manodopera contadina, soprattutto nei periodi di stasi dei lavori agricoli, in lavorazioni tessili e manifatturiere che poi commerciava altrove. La maestranza locale, i borghi e i relativi circuiti economici, sviluppatisi in ambito comunale, hanno creato quel sistema di approvvigionamento diretto tra città e campagna, ma soprattutto hanno incentivato un legame rimasto indissolubile col territorio locale.

Come affermato sopra, le piccole e medie imprese rappresentano la peculiarità del tessuto economico italiano. La loro presenza sul territorio è significativa: coprono oltre il 99% del totale delle imprese e occupano circa l’80% degli addetti, contro la quasi inesistente presenza di grandi imprese che, tuttavia, coinvolge il 20% della forza lavoro attiva in Italia.5 La forte presenza numerica delle PMI è stata analizzata da più parti e nella letteratura sono emersi principalmente due filoni: da una parte ci sono i sostenitori della piccola dimensione come vincolo allo sviluppo economico del Paese; dall’altro c’è invece chi descrive questa presenza come un meccanismo di forza della nostra economia, e confida nella necessità di valorizzare e sollecitare tutti gli strumenti necessari per i suoi ulteriori sviluppi. Fare paragoni e analisi con le situazioni economiche degli altri Paesi industrializzati, serve a mettere in luce le singole peculiarità, in modo da favorire l’originalità del nostro modello di sviluppo,

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20 anche se indubbiamente i problemi non mancano, molti autori finiscono per descrivere il nostro “nanismo” economico solo come un gap, senza considerare che certi modelli economici non possono essere riprodotti in ogni ambito. I sostenitori della piccola dimensione come punto debole della nostra economia, si rifanno ad effettive problematicità insite al sistema italiano, come il ritardo accumulato dall’Italia rispetto ad altri paesi avanzati, nella tendenza ad impiegare risorse in ricerca e sviluppo. Dalle analisi emerge, almeno in termini assoluti, un rapporto direttamente proporzionale tra dimensione e propensione all’investimento, per cui maggiore è l’azienda, più rilevante sarà l’investimento fatto, giustificabile principalmente da una più intensa capacità finanziaria. Si rilevano, però, anche problemi connessi in generale allo scarso orientamento all’innovazione tipico del sistema italiano, legato alle difficoltà di trasferire tecnologie dalle sedi scientifiche alle imprese; manca più generalmente un dialogo tra il mondo privato e quello universitario, e di ricerca, che non può essere addebitato alla sola dimensione aziendale. Indubbiamente connessa alla piccola realtà vi è la questione del tradizionalismo e della specializzazione, ma anche del mantenimento di quella tradizione artigiana, di per sé poco incline all’innovazione. Inoltre altro elemento discriminante risulta essere la governance familiare dell’impresa, caratterizzata da un particolare conservatorismo sia nella linea direttiva aziendale, caratterizzata da un forte controllo familiare, sia nel possibile orientamento ostile al cambiamento e all’utilizzo di leve finanziare diverse dalla capitalizzazione autoprodotta.

Non bisogna poi dimenticare i vincoli posti dal contesto istituzionale, dall’inefficienza della pubblica amministrazione, alla troppa fiscalità e burocratizzazione, alla lentezza del sistema giudiziario. Quando si guarda alle condizioni dell’attività di impresa, tutti gli indicatori relativi alle caratteristiche oggettive della regolamentazione nei vari Paesi e della sua concreta applicazione, elaborati dalla Banca Mondiale e dall’Ocse, pongono l’Italia in posizioni arretrate nel confronto internazionale. Tra gli elementi diretti che ostacolano la vita aziendale troviamo innanzitutto i tempi necessari all’avvio di un’impresa, che vede faticare l’Italia per avvicinarsi ai paesi con regolamentazione più efficiente per numero di giorni necessari ad avviare un’impresa e per iter burocratico, che rimane decisamente più costoso rispetto a quello dei paesi concorrenti. In secondo luogo troviamo i tempi

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21 e i costi della giustizia civile, che ostacolano seriamente l’attività imprenditoriale: sia per la risoluzione di dispute commerciali o di rispetto delle clausole contrattuali, i procedimenti richiedono un numero di giorni tre volte superiore rispetto alla media dei paesi Ocse e dell’Unione europea, così come molto alti risultano essere i costi per l’accesso alla giustizia. Infine, gli (in)adempimenti amministrativi e burocratici, la mancanza di risorse finanziarie stanziate per l’innovazione, gli sprechi e l’incapacità di saper sfruttare i fondi europei in modo adeguato, rappresentano un freno per le imprese. Accanto a questi elementi troviamo poi i fattori indiretti, più difficilmente quantificabili, dovuti all’incertezza generata dall’instabilità della normativa, soprattutto fiscale, e alle distorsioni nell’allocazione delle risorse per la diffusione della corruzione e l’azione della criminalità organizzata. Questi ostacoli istituzionali e ambientali si ripercuotono negativamente sulla competitività delle imprese, minando all’innovazione e in generale agli investimenti.

L’altro filone del dibattito sulle PMI è formato da quegli studiosi che invece vedono il mondo del piccolo come un valore e una risorsa. Ne mettono in luce i punti di forza, attraverso, non tanto analisi di tipo quantitativo, quanto piuttosto attraverso approfondimenti qualitativi. Tra le caratteristiche positive troviamo innanzitutto la vocazione imprenditoriale, riconosciuta come dote innata dei nostri imprenditori, contraddistinta da creatività e tradizione. In secondo luogo, opinione condivisa da questi autori è la grande capacità di adattamento dei piccoli imprenditori: i tempi di reazione ed azione di una piccola dimensione sono più rapidi rispetto ad un grande agglomerato industriale. Più in generale, la dimensione minore quella che ha rappresentato, e rappresenta tutt’ora, l’eccellenza del made in Italy, nei classici settori manifatturieri quali moda-tessile, agro-alimentare, casa, meccanica-automazione6.

6 Qualche esempio: Biscottificio Mattei (Prato); Amedei srl Cioccolato (Pontedera); Dolciaria Loison

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22 1.3 Crisi del modello industriale fordista

Il modello fordista tipico della grande industria era caratterizzato da un’organizzazione scientifica del lavoro con un modello di impresa gerarchica e verticalizzata, rivolta ad una produzione di massa e difficilmente riconvertibile, con l’inglobamento di tutte le fasi lavorative all’interno dello stesso stabilimento per sfruttare i benefici economici delle economie di gamma.

A partire dagli anni Sessanta questo modello comincia ad entrare in crisi: da una parte la rapida crescita della domanda di beni non standardizzati, dall’altra le prime rivendicazioni sindacali che condussero ad un aumento del costo del lavoro nelle tradizionali agglomerazioni industriali e, infine, l’introduzione e la diffusione di nuove tecnologie elettroniche per la produzione. Da qui l’inizio di un processo di “snellimento” aziendale attraverso scelte di decentramento produttivo a favore delle piccole imprese, che diventano fornitrici di componenti o servizi che non costituiscono il core- business aziendale. Quindi buona parte della crescita della piccola impresa è legata proprio a questo processo di flessibilità produttiva delle grandi compagnie. Dalle analisi territoriali emerge, inoltre, tutta una serie di imprese minori direttamente orientate ai mercati finali, specializzate per lo più in settori di beni di consumo tradizionali e nell’alimentare, che caratterizzano due modelli economici specifici: i distretti industriali e la componente del cosiddetto “quarto capitalismo”.

1.4 I modelli alternativi: distretto industriale e media impresa

I primi anni Settanta registrano nel nostro Paese alti tassi di crescita delle piccole e medie imprese rispetto ai grandi complessi industriali e lo spostamento delle produzioni verso aree diverse da quelle dell’industria tradizionale.

Ci sono settori in cui la minore dimensione, una ricerca accurata verso la qualità e un giusto rapporto tra tradizione, creatività e innovazione, permettono una presenza importante delle aziende sul mercato, come nel settore dell’alimentare, della moda e del design, che offrono prodotti invidiati da tutto il mondo.

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23 La classica scelta aziendale tra il concentrarsi su un determinato segmento di mercato o estendere la propria attività verso aree nuove viene meno dal momento che, stando ai dati reali, la decisione di specializzarsi premia le aziende di minori dimensioni (Preti; 2011). In questo ambito, la specializzazione consente di competere senza grossi rischi; di rispondere alle richieste del mercato ed esplorarne di nuovi, con la consapevolezza di essere leader nel prodotto che si va ad offrire. Questa consapevolezza deriva dall’enorme patrimonio di conoscenza accumulato nei decenni trascorsi, e conservato da un lavoro artigianale caratterizzato da manodopera esperta in grado di offrire un prodotto capace di non attirare concorrenti di grandi dimensioni perché inserito in un mercato di nicchia a domanda strutturalmente limitata.

1.4.1 Il distretto industriale

I primi riferimenti di questa specifica forma di organizzazione della produzione in letteratura si trovano nel pensiero economico e sociale dell’economista inglese Alfred Marshall (1842- 1924) che nella sua opera Principles of economics (1890) ne delinea gli aspetti principali. La nozione di distretto industriale si è formata in Italia per opera dell’economista fiorentino Giacomo Becattini. Il distretto codificato da Becattini e dalla scuola italiana è una comunità di imprese di piccole dimensioni ubicate in un determinato ambito territoriale e caratterizzate da un rapporto di interdipendenza e cooperazione. Da un punto di vista strettamente economico, il distretto ha rappresentato uno dei punti di forza dell’economia italiana, contribuendo in misura notevole alla crescita del reddito e dell’occupazione. La chiave del successo è data dal vantaggio legato alla formazione di economie di scala creato proprio da questa collaborazione tra imprese e che, di regola, si trovano soltanto all’interno delle grandi imprese.

“I distretti industriali sono entità socio-territoriali in cui una comunità di persone e una popolazione di imprese industriali si integrano reciprocamente. Le imprese del distretto appartengono prevalentemente a uno stesso settore industriale, che ne costituisce quindi l'industria principale. Ciascuna impresa è specializzata in prodotti,

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24 parti di prodotto o fasi del processo di produzione tipico del distretto. Le imprese del distretto si caratterizzano per essere numerose e di modesta dimensione.7”

Quindi tutta la filiera produttiva si trova all’interno di un territorio ben preciso, e questo è il tratto fondamentale che favorisce il successo dei distretti: è il territorio che fornisce quei valori condivisi che divengono parte integrante del know-how aziendale, garantendo una manodopera qualificata e competente perché inserita e “coltivata” all’interno di una tradizione artigianale difficilmente replicabile. Questa compresenza territoriale garantisce anche la presenza di legami sociali che stimolano la cooperazione e la competizione leale tra le aziende; si instaura un clima di fiducia che caratterizza l’atmosfera distrettuale, e che risulta indispensabile per lo sviluppo e la sostenibilità del distretto stesso. Grazie a queste relazioni i comportamenti opportunistici sono scoraggiati, l’incertezza viene fronteggiata con la flessibilità e il processo di lavoro viene distribuito responsabilizzando i vari imprenditori.

Il distretto si caratterizza, infatti, per la presenza di diverse imprese specializzate collegate tra loro da un circuito economico funzionale: innanzitutto abbiamo l’emergere di una azienda leader, quella centrale, che si occupa della rifinitura finale del prodotto per l’immissione nel mercato, e che coltiva e potenzia un marchio di riconoscimento utile ad affermarne la reputazione sul mercato.Esempi di questo tipo sono numerosi, si pensi alle venete Marzotto e Benetton nell’abbigliamento, a Marazzi per le piastrelle di Sassuolo, Tecnica per gli accessori sportivi di Montebelluna. Queste imprese capofila, nate all’interno di ambiti distrettuali, hanno avuto un’importante evoluzione organizzativa che li ha visti protagonisti di progetti più ambiziosi incrementando nuove forme di investimenti e ampliamenti anche all’estero. Attorno all’azienda finale troviamo i fornitori locali divisi tra aziende che forniscono materie prime e semilavorati. Queste aziende si dedicano alla produzione di particolari componenti oppure di materiali necessari per il prodotto finale. Si pensi al distretto calzaturiero marchigiano, ripartito tra subfornitori che lavorano il pellame e il cuoio grezzo che serve per la modellazione della scarpa, e altri che si dedicano alla lavorazione di ulteriori pezzi come tacchi o suole. Accanto ad essi troviamo poi le aziende che si occupano di lavorazioni intermedie, eseguendo una specifica parte del lavoro totale, come il taglio del modello di calzatura, piuttosto che la cucitura di

7

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25 alcune parti. Questa modalità di divisione del lavoro garantisce la qualità del prodotto finale, perché la specializzazione delle singole aziende, che hanno radici storiche nelle vecchie botteghe dei maestri artigiani, consentono attenzioni ai dettagli non replicabili all’interno di imprese produttrici in serie, che sicuramente potranno vendere ad un prezzo inferiore, ma a discapito della qualità.

La fortuna del modello organizzativo distrettuale, però, sta indubbiamente nei fattori economici positivi, che ne hanno garantito e permesso lo sviluppo. Primo elemento è l’abbassamento dei costi di transazione, dovuto alla semplicità dei flussi comunicativi e all’assetto territoriale nato e sviluppatosi per le esigenze economiche della zona distrettuale. Più in generale i costi di approvvigionamento si riducono grazie ad un più diretto rapporto con i fornitori e alla possibilità di ottenere economie di scala attraverso una scomposizione del ciclo produttivo. Secondariamente i costi del lavoro si riducono per effetto sia di un decentramento dei costi di formazione sia per la possibilità dell’utilizzo in maniera più flessibile della forza lavoro. Tra le caratteristiche riconosciute a questo modello troviamo inoltre il clima sociale caratterizzato da una condivisione di idee e risorse: si creano, infatti, effetti positivi dovuti alla presenza di legami sociali che stimolano la cooperazione all’interno del distretto attraverso l’utilizzo congiunto dei fattori e si sviluppa la condivisione di informazione tecnologica, commerciale, fiscale, concorrenziale. Dal punto di vista numerico, le aziende che si ritiene appartengano ai distretti industriali ammontano complessivamente a 277.809 unità.

I distretti del tessile e dell’abbigliamento, del cuoio e delle pelli, rappresentano quelli più rilevanti in termini di densità imprenditoriale, seguiti da quelli specializzati nella fabbricazione di mobili e arredamenti, di macchine e apparecchi meccanici, di prodotti agroalimentari, di gomma e di materiale plastico.

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26 Figura 1.3 _ Graduatoria regionale secondo la numerosità assoluta delle imprese delle

Filiere distrettuali registrate presso il Registro delle Imprese delle Camere di commercio_ (Anno 2012 valori assoluti e composizione percentuale sul totale nazionale

delle imprese nei distretti)

Fonte: elaborazioni su dati Unioncamere-Infocamere, Rapporto_2014 Osservatorio Nazionale Distretti

* Le attività economiche distrettuali della Puglia sono al netto dei settori della siderurgia e della produzione di metalli per tutte le province pugliesi, e al netto di tutti i settori che costituiscono il Distretto filiera moda Puglia localizzati nelle province di Foggia e Brindisi. Per questo motivo la somma delle incidenze percentuali non restituisce il valore 100

I dati che emergono dalla Figura 1.3 mostrano la fotografia del tessuto distrettuale italiano diviso per regioni. L’elaborazione fatta dall’Osservatorio Nazionale Distretti, sulla base delle imprese iscritte nei registri camerali, descrivono una situazione in cui tre quarti delle imprese che operano nei distretti produttivi, sono localizzate in sole cinque regioni del Paese: Veneto in primis con 76.561 imprese distrettuali, ossia il 27,6% del totale nazionale, Puglia con 63.042, cioè il 22,7% (al netto dei settori della siderurgia, della produzione dei metalli, e della filiera del tessile nelle province di Foggia e Brindisi), Toscana con 29.573, coincidente con il 10,6% sul totale, Lombardia con 22.025 aziende, il 7,9% e, infine il Piemonte con 16.699 imprese,

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27 rappresentanti il 6% sul totale. Tale concentrazione dipende, oltre che dalle diverse caratteristiche strutturali delle economie locali, dal fatto che in alcune regioni l’importanza dei distretti risulta essere del tutto trascurabile, tanto che in cinque di esse non ne risulta la presenza(Valle d’Aosta, Liguria, Umbria, Molise e Calabria)8. Un’altra interessante analisi, condotta da Unioncamere, riguarda il livello di performance dei distretti industriali, analizzato e costruito attraverso l’utilizzo di un indicatore sintetico fondato sulla dinamica delle principali grandezze economiche, rappresentate da imprese, addetti, export e valore aggiunto.

Tabella 1.4 _Graduatoria dei primi venti distretti industriali per migliori performance

economiche*_

Fonte: Unioncamere

8

Leggermente contrastante è l’analisi dell’Istat che conferma la mancanza di distretti in Calabria, Liguria e Valle d’Aosta, ma per quanto riguarda Umbria e Molise trova dei casi positivi.

In particolare l’Umbria viene legata alla storica zona manifatturiera che vede unite Toscana- Marche- Umbria; mentre il Molise vede la presenza di due zone distrettuali.

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* La graduatoria è stata stilata tramite un indicatore sintetico costruito sulla base dell’andamento delle seguenti variabili: numero di imprese registrate, numero di addetti, valore delle esportazioni, valore aggiunto e fatturato (quest’ultimi tre valutati in termini nominali). Per ciascuno di questi cinque aggregati i distretti sono stati ordinati secondo la migliore performance, costruendo quindi cinque graduatorie. Dopodiché, sempre per ciascun distretto, la sintesi è consistita nel sommare i valori delle posizioni che occupava in ciascuna delle cinque graduatorie per poi riordinare infine i distretti secondo i valori risultati da tale sommatoria in modo crescente.

La Tabella 1.4 mostra come nel Centro e nel Nord i distretti si distinguono, non solo, per il ruolo di prim’ordine che svolgono sul territorio, ma anche per le migliori performance economiche. Infatti, nella graduatoria stilata sui primi venti distretti dalle migliori performance ben 18 sono localizzati nel centro- nord e solo due nel Mezzogiorno. Spiccano due dei settori considerati tradizionali appunto del sistema distrettuale italiano, ossia quello agroalimentare, con 6 distretti, e quello della moda, con 7 distretti (considerando sia quelli del tessile- abbigliamento sia quelli delle calzature e pelli), a conferma del valore delle tante eccellenze del nostro Paese, frutto di tradizioni e saperi artigiani, della creatività e della qualità delle produzioni dei territori. Tra le regioni, prevale la Toscana, con ben 6 distretti in graduatoria di cui 5 in campo moda: il Distretto industriale pelli cuoio e calzature del Valdarno Superiore, il Distretto industriale tessile- abbigliamento di Empoli e il Distretto industriale di S. Croce sull’Arno, collocati tra il 2° e il 4° posto, a cui si affiancano il Distretto del tessile- abbigliamento di Prato e il Distretto industriale tessile- abbigliamento Casentino-Val Tiberina (rispettivamente, 11° e 13° posto). Fuori dal sistema moda troviamo solo il Distretto lapideo apuo- versiliese collocato al 17° posto.

Il modello dei distretti industriali rappresenta un indubbio successo per la nostra storia economica. Il vantaggio competitivo formatosi grazie alle economie esterne legate all’ambiente in cui le imprese si trovano ad operare, grazie alla prossimità geografica, all’omogeneità culturale e alle comuni tradizioni produttive ha, infatti, consentito la rapida diffusione di nuove idee ed esperienze, ridotto i costi legati all’informazione e favorito l’accesso al know how tecnologico. Tutto questo ha permesso alle imprese di imporsi sui mercati internazionali con una crescita di immagine per tutto il comparto del “made in Italy”, nonostante oggi sia anch’esso colpito dalla crescente competizione internazionale che presenta nuove sfide ed

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29 opportunità. Emergono pertanto fenomeni di selezione interna, riorganizzazione e riconversione produttiva, volti a preservare il potenziale competitivo dei distretti in Italia e all’estero.

1.4.2 Il quarto capitalismo

Altro indubbio protagonista sulla scena economica italiana e internazionale degli ultimi trent’anni è l’insieme delle medie imprese, definite dalla letteratura “quarto capitalismo”. Il termine “quarto capitalismo” fu coniato da Giuseppe Turani a metà anni ’90. Nel suo saggio “I sogni del grande Nord (1996), egli individuò i protagonisti del nuovo capitalismo nelle imprese di dimensione intermedia chiamandole “multinazionali tascabili”. In questo caso siamo di fronte ad un modello che si differenzia sia da quello costituito dai grandi gruppi privati prima e pubblici in seguito, protagonisti dell’industrializzazione italiana, sia da dal capitalismo dei distretti industriali e delle imprese di piccole dimensioni. Le medie imprese appaiono come entità produttive diverse e indipendenti rispetto ai grandi poli industriali. Esse hanno saputo orientarsi all’interno del mercato, attraverso scelte basate sulla differenziazione di prodotto che privilegiasse la qualità e una cura ai dettagli, studiando il design su misura per un prodotto più personalizzato e porgendo più attenzione al cliente attraverso assistenza e dialogo. La strategia aziendale è simile a quella dei distretti, da cui buona parte di queste aziende derivano, almeno per quanto riguarda l’indotto dei fornitori di cui ci si assicura determinati standard qualitativi, localizzati nel territorio della media impresa. I loro prodotti vengono collocati in nicchie di mercati appositamente create allo scopo di difendere le posizioni sia dai produttori di paesi a basso costo del lavoro sia dalle grandi multinazionali, indirizzati verso un consumo di massa. In generale i tratti fondamentali di queste imprese sono la gestione familiare, l’estrema flessibilità nel sistema di produzione, e la lavorazione di simboli del “ made in Italy” di elevata qualità. Come rilevato da Colli (2002), che identifica tre categorie di imprese intermedie, pionieri, baby boomers e latecomers, in base alle tre fasi storiche in cui si sviluppano9, il momento più propizio è quello

9 Le tre fasi chiavi secondo l’autore sono: il periodo fra le due guerre, quello del boom economico e

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30 degli anni Cinquanta e Sessanta. Le prime aziende, i pionieri, sono tutte quelle imprese che hanno origine molto antica, infatti compaiono già a cavallo tra il XIX e il XX secolo, e che trovano una forte spinta durante gli anni tra le due guerre. Appartengono a questa categoria nomi come Marzotto, Loro Piana, Miroglio d’Alba, Cerruti, Mantero, tutte del settore tessile. Accanto a queste, nel settore alimentare, troviamo Peroni, Cirio, Barilla, Lavazza, San Pellegrino, caratterizzate da un origine artigiana, destinata a svilupparsi, appunto, negli anni successivi. Aziende che nascono negli anni tra le due guerre, come Riello, Merloni, Officine Meccaniche Eden Fumagalli (oggi Candy), Marazzi, Iris, durante il boom economico subiscono un forte slancio grazie all’espansione dei settori di base. Un fortunato sviluppo si trova anche nel settore dell’alimentare come nel caso di Star, Aia, Parmalat, che hanno saputo sfruttare l’evoluzione quantitativa e qualitativa della domanda di beni alimentari e costruire un’efficiente rete di distribuzione, puntando molto sulla promozione dei propri prodotti, attraverso campagne pubblicitarie. Lo stesso vale la chimica, che ha visto una vastissima crescita di prodotti e servizi applicabili a varie industrie, dal farmaceutico, all’edilizia, dalla cosmesi all’arredo e anche il settore della siderurgia si specializza sempre di più, come accaduto per i gruppi Brembo, Steno Marcegaglia, Sol, Rodacciai. Infine, abbiamo i latecomers, che incontrano il loro sviluppo decisivo a partire dagli anni Settanta- Ottanta. Si tratta soprattutto di imprese del settore dell’abbigliamento, che si sono allargate grazie alla formula del franchising e alla capacità di creare nuova domanda sviluppando un’ampia varietà di modelli e puntando molto sul marketing. Tra queste imprese troviamo marchi come Stefanel, Diesel, La perla e San Pellegrino.

Per quanto riguarda gli elementi che ne descrivono la struttura, inizialmente abbiamo una fase dominata da spirito produttivista dell’imprenditore fondatore, con l’ingresso nel mercato, e col bisogno di dare un indirizzo alle strategie aziendali; un secondo momento è quello del consolidamento, in cui all’enfasi sugli aspetti legati alla produzione si sostituisce quello verso prodotti e servizi offerti al cliente; l’ultima fase vede l’allargamento e il processo di internazionalizzazione con l’apertura verso i nuovi mercati, sia attraverso l’esportazione di prodotti finiti, sia attraverso scelte di delocalizzazione di alcune fasi della produzione, o attività di investimenti diretti all’estero con iniziative di collaborazione con imprese estere (joint ventures, rapporti

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31 di sub- fornitura). Per quanto riguarda i numeri, l’ultimo censimento10, riferito al 2012, individua 3463 medie imprese concentrate maggiormente nelle aree del Nord Est e del Centro (49,2% del totale) e in Lombardia (31,3%). Di queste, in particolare, un terzo del totale ha sede in distretti.

In conclusione, nonostante le trasformazioni intervenute nei decenni passati e soprattutto negli ultimi anni a causa della crisi, i distretti e le medie imprese si configurano ancora come rappresentanti di valori ben precisi, che soddisfano il “made in Italy” nel mondo. Il vantaggio competitivo di queste imprese, che le distingue dalle altre organizzazioni, è indubbiamente la qualità. La scelta di una qualità superiore, sia di prodotto che di processo, è una carta vincente a livello mondiale: il prodotto italiano che più facilmente può conquistare i mercati è quello dell’originalità, grazie ad una elevata vocazione manifatturiera e un’identità territoriale marcata.

1.5 La governance aziendale delle PMI

Un aspetto importante da trattare relativamente alle imprese è quello della loro configurazione governativa. Si tratta di analizzare di quali e quanti parti è composta un’azienda, di chi detiene il potere decisionale e di come lo applica, delle risorse presenti, del loro lavoro e di come interagiscono.

Un importante contributo ci viene dato negli anni Ottanta dallo studioso canadese Mintzberg, il quale elaborò un modello per spiegare in che modo si configurano le organizzazioni, ossia di quanti parti si compongono e come le une si adattano alle altre. Dal suo modello emergono cinque componenti: il nucleo operativo, composto dagli addetti alla produzione degli output; la tecno- struttura, cioè gli specialisti che aiutano l’azienda ad adattarsi all’ambiente, e che sono legati all’innovazione produttiva (ingegneri, informatici, ricercatori); lo staff di supporto, responsabile delle risorse umane e materiali (ad es. l’ufficio risorse umane); il management, responsabile del coordinamento e della direzione dell’organizzazione; infine la linea intermedia, responsabile della mediazione tra il vertice e la base.

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