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3.2 Commento alla traduzione

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Academic year: 2021

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3.2 Commento alla traduzione

Il lavoro di traduzione richiede tempo e metodo.

Da principio, naturalmente, ho dovuto selezionare i brani. Ho scelto di focalizzarmi sull’inizio del capitolo due (da pagina 12 a pagina 16) per poi dedicarmi ai capitoli finali riprendendo dal capitolo quarantaquattro (per la precisione da pagina 422) sino alla fine del capitolo cinquanta (pagina 478), saltando solamente un paragrafo irrilevante ai fini del mio lavoro fra pagina 475 e pagina 477. La decisione di concentrarmi su questi passaggi in particolare è dovuta al fatto che essi, a mio parere, sono il campione più rappresentativo delle peculiarità che si possono incontrare nel testo di Elfsorrow. Al loro interno, infatti, si trovano tutte le maggiori difficoltà traduttive che si presentano durante la fase di traduzione dell’intero libro. In particolare, mi riferisco ai tratti tipici dello stile di James Barclay come il ritmo, le descrizioni dei luoghi e degli scontri in battaglia, fondamentali se si pensa alla definizione di heroic action fantasy che lo stesso autore dà delle proprie opere. Inoltre non bisogna dimenticare la fonetica della stessa lingua inglese, che in molti casi risulta decisamente più musicale rispetto a quella italiana, in virtù, per esempio, delle onomatopee o di lemmi che appagano, meglio di quanto l’italiano non sia in grado di fare, determinate necessità foniche.

Da ultimo, mi sono occupata delle particolarità legate ai romanzi dello scrittore inglese presenti in questi brani. Trovano infatti ampio spazio neologismi, legati soprattutto alla nazione elfica e ai numerosi gruppi in cui è divisa la sua società, e numerosi sono i termini che ricorrono anche nei precedenti volumi e che sono molto importanti per la comprensione della vicenda. Proprio su questi ultimi ho focalizzato la mia attenzione perché ho dovuto tenere conto che erano già stati tradotti in italiano nei tre libri precedenti e che un loro cambiamento avrebbe potuto avere delle conseguenze sulla comprensione del testo.

L’organizzazione dell’attività traduttiva è stata influenzata dalle letture di due studi di Massimiliano Morini, cioè La valigetta del traduttore1 e Tradurre libri

1 Cfr. Massimiliano Morini, La valigetta del traduttore, in Manuale di traduzione dall’inglese, a cura

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fantasy2, in Manuale di traduzione dall’inglese a cura di Zacchi e Morini, e La traduzione. Teorie. Strumenti. Pratiche3.

Il lavoro ha avuto inizio con una prima lettura dell’originale, durante la quale mi sono concentrata sugli aspetti del testo che mi avrebbero indicato la corretta via da seguire per la traduzione. Fondamentale in questa fase è stata l’identificazione della dominante del testo.

Sono d’accordo con Peeter Torop e Bruno Osimo quando affermano che la traduzione senza «residuo»4 non esiste, per il semplice e ineludibile fatto che non esiste una perfetta coincidenza fra le lingue, in questo caso fra l’inglese e l’italiano. Capita talvolta, ed è capitato in questa traduzione, che si debba decidere se privilegiare, per esempio, l’aspetto linguistico di un termine rispetto a quello espressivo. In questo senso, l’individuazione della corretta dominante aiuta a decidere quale componente è meglio sacrificare per la resa ottimale dell’idea veicolata nel testo di partenza. I testi teorici che ho consultato in questa fase per iniziare con chiarezza il lavoro sono appunto stati Manuale del traduttore. Guida

pratica con glossario di Bruno Osimo5 e la sua traduzione de La traduzione totale.

Tipi di processo traduttivo nella cultura di Peeter Torop.

Veniamo dunque a Elfsorrow: ho trovato che la dominante è senza dubbio l’icasticità, ossia la rappresentazione della realtà sensibile tramite immagini realistiche. Essa è evidente quando ci si imbatte nelle descrizioni di luoghi o combattimenti. James Barclay non si dilunga con prolisse spiegazioni sceniche, misura con attenzione le parole e le soppesa accuratamente in modo da donare una visualizzazione scenografica dell’ambientazione. Inoltre, in questo modo, Barclay riesce a imporre la sua visione della rappresentazione dei luoghi e degli scontri senza che il lettore se ne renda conto. Le scene che scorrono davanti agli occhi di chi legge hanno tutto l’aspetto di essere frutto della singola immaginazione di ognuno perché non compaiono lunghe descrizioni che palesemente ci impongono una visione. Al contrario, esse sono categoricamente dettate tramite poche ma perfettamente studiate parole.

2 Cfr. Massimiliano Morini, Tradurre libri fantasy, in Manuale di traduzione dall’inglese, a cura di

Romana Zacchi e Massimiliano Morini, Bruno Mondadori Editori, Milano, 2002, pp. 92-96.

3

Cfr. Massimiliano Morini, La traduzione. Teorie. Strumenti. Pratiche., Sironi Editore, Milano, 2007, pp. 271.

4 Cfr. Peeter Torop, La traduzione totale. Tipi di processo traduttivo nella cultura, traduzione italiana

a cura di Bruno Osimo, Ulrico Hoepli, Milano, 2010, pp. 241.

5 Bruno Osimo, Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario., Ulrico Hoepli, Milano, 1998,

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Una volta individuata la dominante, ci sono altri elementi che vanno identificati e tenuti in considerazione. Innanzitutto, è bene distinguere il genere o sottogenere a cui appartiene il romanzo, in caso ci fossero delle caratteristiche particolari in grado di influenzare la stesura del testo di arrivo. In questo caso, consapevole che Elfsorrow è un heroic action fantasy ho dovuto tenere conto che la narrazione ha un ritmo serrato e che avrei incontrato neologismi lungo il cammino.

Inoltre non bisogna dimenticare il target a cui è destinato il testo di arrivo. Infatti, il “lettore modello” dell’originale, come lo definisce Eco in Lector in Fabula, non sempre coincide con quello del testo di arrivo, ma qui non è così. Elfsorrow si rivolge al vasto pubblico di appassionati del genere fantasy, i quali sono ben consapevoli delle strategie alle quali ricorrono gli autori e per questo abituati, per esempio, a incontrare neologismi e lingue inventate. Si deve ricordare, inoltre, che il lettore ideale, la cui età in questo caso parte dai diciassette anni circa, probabilmente ha già letto i tre precedenti volumi tradotti in italiano. Di conseguenza bisognerà prestare attenzione alla resa delle parole, quelle chiave, in particolare, e già presenti ne Le Cronache del Corvo.

Nel caso della prima, ma soprattutto della seconda lettura, mi sono dedicata a un’attività molto più pratica. Ho messo in evidenza in diversi modi i termini e le espressioni di difficile comprensione o resa e quei punti sui quali mi sarei dovuta soffermare con più attenzione in fase di traduzione. Si è aggiunta l’individuazione di specifiche strategie stilistiche di cui si è servito l’autore per stabilire il ritmo dell’azione ai fini di veicolare, in alcuni casi più che in altri, una particolare impressione.

Nella fase di lavoro istruttorio preliminare ho ritenuto molto utile la creazione di un glossario elettronico organizzato in campi semantici, per rendere più veloce la ricerca dei termini in fase di traduzione. Inizialmente le parole sono state consultate sul dizionario monolingue inglese per arrivare a una completa comprensione del termine utilizzato dall’autore. Solo in un secondo momento mi sono dedicata alla ricerca sul dizionario bilingue, per aiutarmi a trovare la traduzione più adatta. A questo scopo è stata utile anche la consultazione di opere fantasy scritte usando l’italiano come lingua di partenza e di enciclopedie6

. Le precedenti traduzioni sono

6

Cfr. Stefano Vietti, Dragonero. La maledizione di Thule, Mondadori, Milano, 2014, pp. 278;

Dragonero. Discesa nell’inframondo, serie creata da Luca Enoch e Stefano Vietti, testi di Luca

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state tenute in considerazione soprattutto durante la traduzione di alcune parti del testo; ne parlerò più diffusamente nel capitolo quarto dedicato al confronto di traduzioni.

L’allestimento della traduzione è stato affiancato, laddove lo abbia ritenuto necessario, da una consultazione del web, soprattutto per quanto riguarda la disambiguazione di parole riferite a oggetti.

Durante la scrittura, che ha visto alternarsi l’uso di carta e penna e del computer, ho deciso di lasciare da parte alcuni nodi problematici sui quali mi sono concentrata solo una volta ultimata la traduzione. Inizialmente ho quindi lasciato nella lingua di partenza i neologismi e alcune espressioni per le quali non avevo in mente una traduzione per quanto magari indegna di comparire nella stesura finale.

Un problema con cui mi sono dovuta scontrare fin dalle prime pagine, e che si è ripresentato con regolarità in tutto il testo, è quello della resa delle onomatopee. La lingua inglese è ricchissima di queste parole, soprattutto verbi, la cui formazione imita il suono della cosa o dell’azione a cui si riferisce. Purtroppo in italiano la presenza di questi vocaboli è piuttosto ridotta, quindi talvolta ho dovuto sacrificare il “suono” delle parole per mantenere una chiarezza a livello semantico. Ciò non vuol dire che non ci siano stati casi in cui è stato possibile tradurre un’onomatopea con un’altra onomatopea: per esempio quella parte della descrizione della foresta in cui si dice: «[Myriad insects] buzzed, vibrated and rasped [...]» (Elfsorrow, capitolo 2, pagina 13) è stato reso con «ronzava, fremeva e stridulava», dove forse l’ultimo verbo, “stridulare”, è meno onomatopeico ma comunque in grado di rendere l’idea corretta del tipo di suono. In generale, comunque, si può dire che la lingua inglese è molto più musicale di quella italiana. È infatti molto più semplice in inglese imbattersi in vocaboli che veicolano il proprio significato anche grazie al suono generato dalla loro pronuncia. Si tratta soprattutto di verbi, ma esistono anche molti sostantivi e aggettivi. Questa caratteristica è facilmente individuabile in particolare quando le parole vengono affiancate per creare espressioni a effetto. Un esempio perfetto si trova nel capitolo quarantasette: «A short sharp shower» (Elfsorrow, capitolo 47, pagina 448). Che si stia parlano di pioggia vera o di magiche gocce di fuoco, l’effetto non cambia. L’idea che l’autore vuole produrre nella mente del lettore è quella di un breve ma intenso acquazzone e del rumore che la pioggia in quell’occasione produce. In italiano il termine ideale con cui tradurre “shower” in questo caso sarebbe stato a mio avviso “scroscio”. È però evidente che l’autore

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ritiene molto importante la ripetizione di uno stesso suono in tutte e tre le parole, altrimenti avrebbe potuto benissimo usare degli altri termini. Per cui ho deciso di cercare tre vocaboli che fornissero lo stesso significato, una pioggia veloce e battente, ma che allo stesso tempo fossero dotati di una forma simile, in grado quindi di trasmettere le stesse sensazioni dell’originale. «Una scarica secca e serrata» mi è sembrata la soluzione migliore perché risponde a tutti i requisiti dell’espressione di partenza messi in luce finora.

Un campo semantico in cui è molto evidente la musicalità dell’inglese è sicuramente quello della battaglia. Numerosi vocaboli che descrivono movimenti e in special modo azioni di combattimento hanno una pronuncia fortemente espressiva, che da sola rende l’idea del significato effettivo della parola. “Smash”, “slice”, “hack”, “slash” sono tutti verbi che grazie al suono prodotto comunicano un’immagine chiara delle conseguenze. Si potrebbe dire che alcuni sono praticamente delle onomatopee, come “crush”, “stamp” o “whip”. Ma non è sempre stato possibile mantenere queste caratteristiche nella stesura del testo di arrivo. La scelta di quale fosse la traduzione più corretta ha richiesto molte riflessioni e tempo, soprattutto perché in alcuni casi non è stato possibile attribuire a un termine inglese sempre lo stesso traducente e viceversa avere un unico corrispondente per l’italiano nell’originale. Ho valutato di volta in volta quale fosse la traduzione più corretta, tenendo sempre ben presente la dominante e per questo motivo ho privilegiato l’aspetto denotativo a quello connotativo. Tutto ciò anche quando si è trattato di usare un traducente che non avesse direttamente lo stesso significato del termine originale ma aiutasse a veicolare la stessa idea, lo stesso tipo di colpo o movimento. Ci sono perciò casi come “hack” che compare spesso e che ho tradotto con “menare un fendente” o “lacerare” a seconda dei casi, oppure “slash” che ho tradotto con “tranciare”, cha ha un significato simile ma riporta alla mente un movimento leggermente diverso. Un caso a sé è poi quello dei tre sostantivi “blow”, “stroke” e “thrust” che subiscono un appiattimento nel testo di arrivo, venendo tradotti con il termine molto generico “colpo”; l’italiano purtroppo non fornisce sufficienti traducenti per queste parole così specifiche in inglese. In compenso, moltissimi verbi del testo di partenza hanno trovato una traduzione adeguata come per esempio “smash”, che è diventato “frantumare” o “darted around”, che ho reso con “saettare”. Altri hanno in un certo senso compensato i lievi scarti descritti precedentemente diventando in italiano più specifici a seconda del sostantivo che veniva loro

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accostato, perciò “splitting skulls” è tradotto con “fracassando crani”, ma “split the stomach” diventa “squarciò lo stomaco”.

La decisione di valutare i verbi mano a mano che li incontravo nel testo è stata sì dettata dalla consapevolezza della dominante, ma anche dall’esigenza di mantenere un ritmo che nella descrizione di queste scene fosse credibile.

James Barclay ha dichiarato di voler mantenere il ritmo della narrazione piuttosto serrato. Perciò ho dovuto prestare molta attenzione a non appesantire troppo le scene degli scontri, prediligendo l’aspetto denotativo e l’immediatezza di una parola piuttosto che la precisa traduzione del termine adottato nella lingua di partenza. Soprattutto ho cercato di non allungare troppo le frasi, cosa che purtroppo capita nella stesura del testo di arrivo quando non esistono perfetti traducenti in italiano, e di non cancellare le ripetizioni.

La nostra è una lingua che mal sopporta le ripetizioni, al contrario dell’inglese, dove esse proliferano. Qualcuno potrebbe quindi essere tentato di eliminarle tutte per rendere più scorrevole la lettura, cioè di “addomesticare” in questo senso il testo, usando il concetto di Schleiermacher. Ma a mio avviso tutto ciò non farebbe altro che privare il testo di arrivo di qualcosa. Ci sono infatti punti dell’originale in cui l’enfasi posta sulle ripetizioni è molto forte e per un preciso scopo, come quello di mettere in evidenza la tensione drammatica del momento. Perciò nei punti in cui l’ho ritenuto necessario ho tradotto le ripetizioni nel testo di arrivo, mentre in altri casi le ho eliminate. Per esempio ho sfruttato l’alternanza stessa dell’originale di “Hirad” e “the barbarian” per eliminare le numerose ripetizioni del nome proprio del personaggio. Laddove ho ritenuto che non fosse indispensabile mantenere “Hirad”, per evitare di ripeterlo troppe volte di seguito, l’ho infatti sostituito con l’espressione “il barbaro”. Naturalmente anche i numerosi “he said” hanno assunto forme diverse, “commentò” o “rispose”, in un certo senso compensando altre situazioni. Anche se si “perde” da una parte, si compensa guadagnando dall’altra.

Sempre occupandomi del ritmo ho individuato un altro tratto caratteristico dello stile di James Barclay. Proprio per mantenere alto il passo della narrazione delle scene di combattimento lo scrittore inglese avrebbe dovuto evitare frasi troppo lunghe ma anche l’inserimento di un numero eccessivo di punti fermi; in entrambi i casi la lettura non sarebbe risultata scorrevole come avrebbe voluto. Ha quindi sfruttato molto una figura sintattica che gli ha consentito di servirsi di enunciati di

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una certa lunghezza senza però correre il rischio di appesantirli: l’asindeto. James Barclay fa un uso particolare di questa figura sintattica: dopo la virgola infatti avviene spesso un cambio di soggetto rispetto alla proposizione principale seguito da un verbo coniugato alla forma in “-ing”, saltuariamente sostituito da un participio passato. Un esempio evidente di questo utilizzo si trova nel capitolo cinquanta:

The Unknown had cleared a path, beating his sword into the back of a soldier, and Hirad pushed ahead, keeping his grip on the Familiar and dashing its skull again and again into the mage’s face, the man trying to fend him off, the Familiar screeching its hate. (Elfsorrow, capitolo 50, pagina 472)

Questa frase, nonostante la lunghezza, non risulta pesante durante la lettura. Al contrario il ritmo è scandito perfettamente dall’uso della punteggiatura. Per l’autore sarebbe stato possibile dividere l’enunciato in due o addirittura in tre, ma in quel modo si sarebbe persa la rapida consecutività dell’azione, l’evidenza dello strettissimo legame fra ciò che stanno facendo i membri del Corvo e la reazione dei nemici. Invece questo non succede grazie alla coordinazione per asindeto e in modo particolare per il cambio di soggetto seguito da verbo in “-ing”, privo quindi di un ausiliare che avrebbe rallentato il passo. Una volta riconosciuto l’uso piuttosto massiccio di questi costrutti ho dovuto occuparmi della loro traduzione. La grammatica della lingua inglese è di gran lunga semplificata rispetto a quella dell’italiano, perciò non è stato facile trovare un traducente adeguato. Anche in questo caso ho dovuto riflettere sulla resa migliore nel testo di arrivo mano a mano che mi imbattevo in questa figura sintattica. Le soluzioni sono state appunto diverse. Ho il più delle volte deciso di mantenere la virgola e la traduzione della forma in “-ing” con gli stessi tempo e modo del verbo della frase precedente. Per esempio: «He tightened his grip, the Familiar’s tail whipping around [...]» (Elfsorrow, capitolo 50, pagina 471) è diventato «Serrò la presa, la coda del Famiglio sferzò l’aria». In alcuni casi è però stato necessario aggiungere qualcosa per rendere evidente la contemporaneità delle azioni, proprio come nella traduzione del primo esempio presentato a questo proposito: «L’Ignoto si era aperto un varco, ficcando la spada nella schiena di un soldato, e Hirad si fece strada a spintoni, mantenendo la presa sul Famiglio e picchiandogli la testa ripetutamente sulla faccia del mago, mentre l’uomo cercava di allontanarlo, e il Famiglio emetteva striduli d’odio». La congiunzione

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“mentre” è stata utilizzata spesso proprio per evidenziare il carattere simultaneo delle azioni compiute dai verbi inglesi con forma in “-ing”.

Un altro aspetto al quale ho dovuto prestare molta attenzione nella traduzione dall’inglese all’italiano, questa volta però non legato allo stile dell’autore, è la resa del pronome personale “you”. Nella lingua di arrivo esistono ben tre traducenti, cioè la seconda persona singolare, quella plurale e il pronome di cortesia “lei”. Il problema che si pone di solito nella traduzione in italiano è quello di distinguere quando i personaggi stanno usando il pronome “tu” oppure “lei” in segno di rispetto. A questo, in Elfsorrow si aggiunge anche il fatto che la storia non è ambientata ai giorni nostri, nel contesto della nostra realtà. L’uso del “lei” come forma di rispetto nei confronti di un interlocutore di un’età o di un rango maggiore si è diffuso in tempi relativamente recenti, in passato il pronome di cortesia era “voi”. È perciò plausibile che nel Medioevo sia quest’ultimo a essere stato utilizzato nelle medesime situazioni. Per cui, dato che il mondo di James Barclay è collocato in un’ambientazione pseudo-medievale, mi è sembrato più corretto, laddove l’ho ritenuto necessario, tradurre con “voi” il pronome di cortesia. Nei brani presi in esame mi sono trovata a dover riflettere sulla corretta traduzione di “you” solo in un paio di occasioni e in entrambe non ho avuto grossi problemi. Un esempio è il discorso fra Selik, il capitano delle Ali Nere, e il capitano Yron di Xetesk. All’apparenza, trattandosi di due personaggi dello stesso rango, ma di schieramenti opposti, la scelta più giusta sembrerebbe essere quella di un reciproco utilizzo del pronome di cortesia. A una seconda analisi, dato che Yron è suo prigioniero, il capitano delle Ali Nere potrebbe prendersi la libertà di dargli del “tu”; al contrario lo xeteskiano dovrebbe essere costretto dalla sua situazione a rivolgersi utilizzando il “voi”. In realtà leggendo attentamente questo passaggio veniamo a conoscenza di importanti informazioni riguardo al rapporto che c’è fra i personaggi. Innanzitutto Selik non è un militare, quindi il ruolo di capitano è fasullo, inoltre Yron non ha alcun rispetto per lui, né per quello che fa. Di conseguenza la mia decisione è ricaduta sul pronome di cortesia da parte di Selik, che si atteggia e vorrebbe essere un militare di pari grado, ma un uso quasi spregiativo del “tu” nei suoi confronti per il capitano xeteskiano.

Da ultimo mi sono occupata delle principali difficoltà traduttive, quelle che a mio avviso richiedevano un’attenzione particolare, perché della loro traduzione avrebbe risentito la ricezione di tutto il testo da parte dei lettori. Mi riferisco ai

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neologismi. Come suggerisce Morini nel suo saggio Tradurre libri fantasy7, ho preso la decisione di lasciare i vocaboli chiaramente appartenenti a una lingua inventata dall’autore. Sto parlando, per esempio, dei termini che identificano alcuni gruppi di elfi, per esempio “Al-Arynaar”, che sono i guardiani del tempio, o i “TaiGethen”, i guerrieri difensori della fede, o le zone del continente elfico, “Aryndeneth”. Il fatto che neppure all’interno della narrazione questi vocaboli abbiano alcun legame con la lingua degli uomini, ai quali, dato che non ci viene detto il contrario, risultano estranei quanto a noi, suggerisce da sé la decisione di lasciarli invariati anche nel testo di arrivo. Quella degli elfi è una società diversa e che vive lontano da quella di Balaia (e naturalmente della nostra), dotata di una propria lingua. Per questo motivo il fatto di lasciare queste parole, dotate di suoni differenti rispetto al linguaggio degli uomini e al nostro, contribuisce secondo me a rendere ancora più verosimile e completo l’universo di James Barclay. Le cose però cambiano quando il neologismo ha in maniera evidente le sue radici nella lingua di partenza. Se, infatti, ci si trova davanti a un nome cosiddetto “parlante”, perché attraverso di esso lo scrittore vuole già comunicarci qualcosa senza doverlo spiegare con una descrizione, sono dell’idea che questo vada tradotto nella lingua di arrivo. A questo punto però le cose possono diventare molto complicate. In Elfsorrow mi sono imbattuta in un solo neologismo di questo tipo, ovvero “ClawBound”, la coppia di guerrieri formata da un elfo e una pantera. La prima cosa che ho fatto è stata quella di identificare e trovare la corretta definizione e traduzione delle due parole che compongono il vocabolo: “claw” (artiglio) e “bound” (legato a). Dopodiché mi sono dedicata alla ricerca di sinonimi e termini sempre legati a quelli originari ma appartenenti anche ad altre categorie grammaticali, in particolare verbi, come “lacerare”. Dato però che le combinazioni di queste parole continuavano a risultare macchinose, ho deciso di cercare degli aggettivi che rispecchiassero il carattere feroce e animalesco dei personaggi a cui “ClawBound” fa riferimento.

In particolare cercavo una soluzione che potesse essere affiancata alla parola “predestinati”, che mi sembrava la scelta migliore per la traduzione di “bound”. Non riuscendo a trovare nulla di soddisfacente ho quindi pensato di allargare ancora il campo delle possibilità, facendo un elenco di tutte le informazioni che avevo potuto ottenere dal libro sulla coppia formata da elfo e pantera. Ho quindi dapprima tenuto conto del luogo in cui i soggetti vivono, la foresta pluviale, del loro agire in sincronia

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e comunicare mentalmente, dal fatto che hanno un legame affettivo, stanno insieme per sempre e addirittura patiscono anche fisicamente la morte del compagno. Ma soprattutto mi sono concentrata sul loro essere solitari e i più spietati guerrieri e cacciatori della comunità elfica. Quest’ultimo punto in particolare è quello che mi ha indirizzato verso la soluzione migliore. Dopo lunghe riflessioni ho trovato la traduzione che più adeguatamente potesse comunicare i tratti fondamentali di questa coppia: “Predatori del Destino”.

Il mio lavoro di traduzione non è stato svolto seguendo dall’inizio alla fine una strategia traduttiva ben precisa come possono essere quelle descritte da Schleiermacher: “addomesticante”, che avvicina il testo al lettore, eliminando le caratteristiche tipiche della lingua e cultura di partenza, o ”straniante”, che al contrario porta il lettore verso il testo mantenendo anche i tratti meno comprensibili dell’originale. Ogni volta che ho dovuto prendere una decisione ho riflettuto attentamente su cosa fosse importante in quel frangente per l’autore del testo di partenza e poi ho soltanto cercato di fornire la soluzione più adeguata. Sono convinta che sia lo stesso «prototesto»8, cioè l’originale, a suggerire il metodo migliore per affrontare la sua traduzione. Il traduttore in quanto mediatore, «ponte tra due mondi»9, come suggerisce Osimo, deve agire nel pieno rispetto dell’originale e del suo autore. In questo senso egli deve essere “umile”, come sostiene Carlo Izzo10, e in un certo senso invisibile perché non bisogna abbellire nella stesura del testo di arrivo. Certo esistono casi in cui si è tentati e io stesso ho dovuto correggermi durante questo lavoro. Nel capitolo cinquanta, uno dei personaggi, Aeb dice la frase «Then take me!» e a me sembrava che la resa «E allora venite a prendermi!» avesse molto più effetto di «Allora prendetemi!» (Elfsorrow, capitolo 50, pagina 471). Ma ho poi pensato che James Barclay avrebbe potuto benissimo scrivere “Come and take me!” e se non l’aveva fatto c’era un motivo e non dovevo farlo nemmeno io.

In ogni caso, come anche Morini ribadisce più volte, è «impossibile scomparire del tutto, cancellare la propria firma dalla propria traduzione»11. Questo avviene perché ciascuno di noi ha una sensibilità diversa e chi conosce davvero l’arte della traduzione sa che ci sono tanti testi di arrivo quanti sono i traduttori.

8 T OROP, 2010. 9 O SIMO, 1998, p. 29. 10

Carlo Izzo, Responsabilità del traduttore, ovvero esercizio d’umiltà, in Civiltà Brotannica, vol. II,

Impressioni e note, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 1970, pp. 377-399. 11

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Senza doversi confondere con l’uso di parole come “fedeltà”, la mia attitudine nei confronti della traduzione di un testo è molto semplice da spiegare e si identifica con quella di Carlo Izzo. In quanto mediatore io mi metto al servizio dell’autore e del suo testo e contemporaneamente anche «di quei lettori i quali non sono in grado di affrontare il testo originale, e che si fanno quindi un’opinione dell’autore straniero partendo dall’opera del traduttore»12

.

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